Agosto 20th, 2013 Riccardo Fucile
AL SENATO INIZIA LA CONTA IN VISTA DEL LETTA BIS… PER DAR VITA A UNA NUOVA MAGGIORANZA BASTEREBBERO 20 TRANSFUGHI PDL
«Un conto è Silvio Berlusconi, che detta la linea politica e rispetto a cui noi saremo leali sempre. Altra
cosa sono le posizioni di Daniela Santanchè, dalla quale non prendiamo ordini». La spaccatura c’è.
E comincerà a vedersi molto presto visto che ieri mattina, davanti all’ennesimo capitolo della controffensiva della «Pitonessa», i ministri del Pdl hanno concordato una posizione comune.
«Una cosa sei tu, un’altra cosa è Daniela», è la sintesi del messaggio recapitato telefonicamente ad Arcore.
Il cui sottotesto, riassunto da uno dei ministri, è che «d’ora in poi le colombe» non accetteranno «al buio» che la nuova Forza Italia venga «consegnata chiavi in mano» alla Santanchè.
Un tema sul quale la pattuglia di ministri del Pdl, adesso, chiede a Berlusconi che si faccia «chiarezza».
La stessa chiarezza ostentata ieri, in un’intervista rilasciata al Quotidiano Nazionale, da Altero Matteoli, uno che da anni non s’è mai allontanato di un millimetro dal berlusconismo ortodosso.
«Noi possiamo anche togliere il sostegno al governo. Ma non possiamo fingere di non sapere che il primo atto di una eventuale crisi non sarebbero le consultazioni ma le dimissioni di Napolitano», è il pensiero dell’ex ministro.
Che tra l’altro ha pure aggiunto che, in caso di crisi di governo, «rischiamo di ritrovarci con Romano Prodi al Quirinale».
L’esatto contrario della provocazione con cui la Santanchè, domenica alla Versiliana, aveva messo a verbale la sua «preferenza» per il Professore rispetto all’attuale inquilino del Quirinale.
Che uno smottamento dentro il Pdl sia possibile, sempre nel caso in cui Berlusconi opti per la linea dura, ormai l’hanno capito anche dentro il Pd.
Dove ci sono lavori in corso per creare una «rete di protezione» su Palazzo Chigi che potrebbe anche portare – nell’ordine – a una nuova maggioranza e a un nuovo governo guidato da Enrico Letta.
«Adesso ci sono cose che non si vedono perchè stiamo a riposo. Ma questa situazione è come l’elettrocardiogramma. La verità si scopre sempre sotto sforzo», sussurra Giorgio Tonini, uno dei parlamentari del Pd meglio sintonizzati con le antenne del Quirinale.
Il senatore non fa esplicitamente riferimento a colleghi del Pdl che possano smarcarsi da Berlusconi. Ma una cosa la dice: «Napolitano non contempla la crisi di governo. È il segno che chiunque si assume la responsabilità di farlo cadere, imboccando quella strada sa come entra ma non sa come esce».
In fondo, è la stessa tesi su cui medita Marco Meloni, uno dei deputati più vicini al presidente del Consiglio. «La forza di Berlusconi sono sempre stati i suoi voti. Ma questi voti, adesso, ce li ha anche perchè sostiene un esecutivo che prova a portare il Paese fuori dai guai. Se prova a staccare la spina, un pezzo di elettorato si staccherà da lui».
I lettiani la buttano sulla «slavina» nell’elettorato berlusconiano. Ma è evidente, anche se nessuno ne parla, che la prima rottura potrebbe materializzarsi tra i parlamentari del Pdl.
Basta una ventina di senatori che escano dal gruppo e una maggioranza de-berlusconizzata sarebbe servita.
Pronta a garantire quella stabilità , dice Tonini, «che l’Italia adesso non può permettersi di perdere. Soprattutto di fronte a un’opinione pubblica europea che, tra poco, assisterà alle elezioni tedesche».
È l’«effetto Merkel», insomma. Nessuno ha dimenticato come l’anno scorso la Cancelliera tedesca, convocando Monti a una riunione del Ppe, provò a spaccare il Pdl arrivando vicina all’obiettivo.
E che cosa succederebbe – si chiede l’ala governista del Pd – se il Ppe, con la Merkel rafforzata da una probabile nuova vittoria elettorale, tornasse a forzare la mano contro un Berlusconi indebolito dalle sentenze?
«Succede che il Cavaliere è già finito», mormora Beppe Fioroni.
E proprio per questo, aggiunge l’ex ministro della Pubblica Istruzione, «ci penserà bene prima di provocare quella crisi di governo che non conviene neanche e lui». Piuttosto, conclude, «stiamo attenti ai falchi che ci sono nel Pdl e a qualcuno che sta anche nelle nostre file».
Fioroni non lo dice ma è evidente che, in cima alle sue preoccupazioni, ci sono i renziani. «Noi speriamo che il governo non cada. Ma se malauguratamente cadesse, non ci rimarrebbe che cambiare la legge elettorale e tornare al voto», scandisce Paolo Gentiloni, confermando che il voto anticipato potrebbe essere una delle possibili fiches che i renziani proveranno a lanciare sul tavolo verde.
Renzi, per adesso, sta in America e rimane in silenzio.
Ma il suo nome, negli ultimi giorni, sarebbe risuonato più volte nelle chiacchierate tra i parlamentari di Sel e il loro leader Nichi Vendola.
Se Berlusconi abbandonasse Letta, confessa il capogruppo alla Camera Gennaro Migliore, «noi proveremmo a convincere il Pd a formare un governo di scopo, che faccia la legge elettorale, rifinanzi la cassa integrazione e risolva il problema degli esodati».
Per quell’ipotetico governo, anche se nessuno in casa Sel ne parla a microfoni aperti, il nome per Palazzo Chigi in cima ai desiderata di Vendola e dei suoi sarebbe proprio quello del sindaco di Firenze.
E questo è uno spettro, l’ennesimo, che anche il Pdl sta cominciando a intravedere.
E che fa paura pure a Berlusconi.
(da “il Corriere della Sera“)
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Agosto 20th, 2013 Riccardo Fucile
ZITTI E MOSCA, TUTTI DISQUISISCONO SULLA SUA LEGGE, L’UNICA CHE TACE E’ LEI
È come vedere Dallas senza Sue Ellen.
Nella grande soap dell’estate 2013, quella a base di agibilità politica, grazia, incandidabilità e parole in libera uscita, manca — ve ne sarete accorti — un personaggio.
Un errore di sceneggiatura. Grave, oltretutto, perchè il nome del personaggio scomparso riecheggia ogni minuto nella trama.
Proprio così: su 60 milioni di italiani, costituzionalisti, droghieri, casellanti, controllori di volo, puerpere e direttori de Il Giornale, che hanno detto la loro sulla legge Severino, manca solo il parere della signora Paola Severino, ministro della Giustizia del governo Monti, che a quella legge ha dato il nome
Le interpretazioni sono molteplici.
C’è chi dice — dopo averla votata — che la legge Severino è incostituzionale.
Chi dice che non può essere retroattiva, nè fritta nell’olio.
Chi dice che è meglio con lo zucchero a velo e chi sostiene che vale solo a 1300 metri sul livello del mare
Non mancano coloro che la preferiscono al dente, ovvio, nè quelli che la apprezzano purchè non sia applicata a chi ha offerto tante cene eleganti
A questo punto manca solo una voce: quella della signora Severino.
La quale sta, probabilmente, vivendo un dramma tutto suo: in un mondo dove tutti sono interconnessi, lei non risponde al telefono, al citofono, ai segnali di fumo, non guarda Facebook, non riceve le mail, non sente i tam-tam che la chiamano.
Si dirà che esiste un precedente: quella legge Cirielli che il deputato Edmondo Cirielli pretese non venisse più chiamata col suo nome.
Risultato: tutti pensano che Cirielli di nome si chiami Ex.
Ora non vorremmo un simile qui pro quo per la signora Severino, che la gente potrebbe chiamare un giorno Fu Severino, o Già Severino, o addirittura Nonvale Severino.
Certo, lei potrebbe fare chiarezza e spiegare per bene la legge che porta il suo nome. Magari anche come nacque, quando tutti chiedevano a gran voce di avere meno condannati in Parlamento e persino il Pdl disse: perbacco, va bene, votiamola senza indugi.
Ora non si sa se la legge è retroattiva, ma gli indugi sì.
E la signora Severino, forse, non vuole passare per quella che ha messo il suo nome alla norma che butta Berlusconi fuori dal Senato.
Va bene, capiamo il dramma umano e l’imbarazzo.
Però, almeno per la tranquillità dei parenti, un cenno di vita potrebbe darlo. Una telefonata, un sms: sono qui, sono la Severino.
Certo le chiederebbero della sua legge, di come applicarla e di Berlusconi, inevitabile. A quel punto, potrebbe cavarsela come faceva nel dopopartita il grande Trapattoni: “Non parlo dei singoli”.
Ma almeno sapremmo che c’è, sia la Severino che la sua legge, e che non ce la siamo sognata.
Alessandro Robecchi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 20th, 2013 Riccardo Fucile
COSTO ANNUO 2,5 MILIONI SOLO PER LA SCORTA… SENZA CONTARE IL DISPIEGAMENTO DI CARABINIERI A PRESIDIO DELLE SUE ABITAZIONI… IL TUTTO GRAZIE A UNA SERIE DI MISURE VARATE DAI SUOI GOVERNI
Una quarantina di uomini divisi in due squadre di 20 ciascuna e due auto blindate per una spesa
superiore ai 200mila euro al mese.
Vale a dire due milioni e mezzo l’anno.
Tanto costano gli uomini dei servizi di sicurezza che ancora oggi stanno appresso all’ex premier Silvio Berlusconi.
Senza contare i carabinieri dispiegati dal Ministero degli Interni per servizi ordinari presso le ville di famiglia.
Un’eredità che lo stesso Berlusconi si è costruito da solo, a più riprese, con provvedimenti ad hoc e che è riuscito a mantenere anche oggi che è un deputato come altri, solo molto molto costoso.
Tanto che gli 80mila euro per la scorta balneare di Fini, per settimane oggetto di furiose polemiche, diventano briciole.
Gli uomini al seguito del Cavaliere, spiegano fonti molto qualificate, hanno trattamenti economici doppi rispetto ai colleghi che svolgono servizi di sicurezza ordinari.
Hanno stipendi e prerogative equiparati a quelli dei colleghi dello spionaggio e controspionaggio senza esserlo.
Siamo, per essere chiari, intorno ai cinquemila euro al mese. E sono appunto quaranta. I conti sono presto fatti.
Nei suoi mandati, a più riprese, il Cavaliere è riuscito a cambiare le regole sulla sicurezza e imporre uomini di fiducia provenienti dalla sua azienda.
Lo si scoprirà anni più tardi, quando i magistrati baresi cercheranno risposte all’andirivieni incontrollato di persone dalle ville del Cavaliere: possibile che nessuno della sicurezza controllasse chi entra e chi esce?
Si, perchè il premier, proprio per tutelare la sua “privacy”, già dal primo mandato era riuscito a sostituire gli uomini dello Stato con quelli della security di Fininvest e Standa (da quel giorno in poi a libro paga degli italiani).
Un’impresa non semplice.
Prima di allora, infatti, nessuno poteva entrare in polizia, carabinieri o finanza senza un regolare concorso pubblico.
Per garantirsi la “sua” scorta — che obbedisca a personalissimi criteri di fedeltà privata e discrezione pubblica — Berlusconi ricorre allora a un escamotage senza precedenti: grazie alle sue prerogative di Presidente del Consiglio, s’inventa una nuova competenza ad hoc presso i Servizi, gli unici cui la legge consente di assumere personale a chiamata diretta.
Nasce così un nucleo per la scorta del presidente che fa capo al Cesis (oggi Aisi, Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna) anzichè al Viminale, anche se con l’attività di intelligence vera e propria nulla ha a che fare.
Gli uomini d’azienda vestiranno la divisa sotto la guida dell’uomo che, alla fine degli anni Ottanta, faceva la security alla Standa.
E che di punto in bianco si trova capo-scorta del presidente del Consiglio con la qualifica di capo-divisione dei servizi.
E si porta dietro almeno altre cinque ex body-guard Fininvest.
Col tempo la struttura è cresciuta a ventiquattro unità , poi 31 e infine 40 che stavolta vengono in parte attinte dalle Forze dell’Ordine, ma sempre su indicazione di quel primo nucleo.
Che tornerà regolarmente ad ogni successivo mandato. Anzi, non smetterà più di prestare servizio.
Quegli stessi uomini, infatti, sono lì ancora oggi che il Cavaliere è tornato ad essere un deputato. Perchè? Perchè ha deciso così.
E’ il 27 aprile del 2006. Berlusconi ha perso le elezioni e si appresta a fare le valigie e cedere la poltrona e la “campanella” del Consiglio dei Ministri a Romano Prodi.
Ma non ha alcuna intenzione di cedere anche quella struttura che i magistrati baresi tre anni dopo definiranno quantomeno “anomala” e che in fin dei conti è una sua creatura.
Così, giusto 17 giorni dopo il voto, poco prima di lasciare il Palazzo, Berlusconi vara un altro provvedimento ad hoc che oggi giorno potrebbe chiamarsi a buon diritto “salva-scorta”, nella migliore tradizione delle leggi ad personam.
Se ne accorgono, in ottobre, Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo sul Corriere, che raccontano come, non fidandosi del professore, la scorta per il futuro Berlusconi abbia provveduto a farsela da solo stabilendo che i capi di governo “cessati dalle funzioni” abbiano diritto a conservare la scorta su tutto il territorio nazionale nel massimo dispiegamento.
Così facendo riesce a portarsela via come fosse un’eredità personale, anche se era (e continua a essere) un servizio di sicurezza privato pagato con soldi pubblici.
Al costo, ancora oggi, di due milioni e mezzo l’anno.
Thomas Mackinson
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 20th, 2013 Riccardo Fucile
BASTA UN MONITO DI SILVIO E LA LEGGE DIVENTA COSI’ TENERA CHE SI TAGLIA CON UN GRISSINO… COME CERTI COSTITUZIONALISTI CAMBIANO IDEA FACILMENTE
Al ventesimo giorno dalla sentenza della Cassazione sullo scandalo dei diritti Mediaset, il dibattito politico-giornalistico sul destino di B. è già riuscito nel gioco di prestigio di far scomparire dalla scena il fatto da cui tutto nasce.
E cioè che B. è un delinquente matricolato, avendo costruito negli anni 80 un colossale sistema finalizzato all’esportazione di capitali all’estero, extrabilancio ed extrafisco, per corrompere giudici, politici, finanzieri, derubare gli azionisti di una società quotata e compiere altre operazioni fuorilegge in Italia e all’estero almeno fino al 2003, quand’era in Parlamento da 9 anni e aveva ricoperto due volte la carica di presidente del Consiglio.
Dunque, in base al Codice penale, è un detenuto in attesa di esecuzione della pena, che potrà scontare in carcere o ai domiciliari o, se ne farà richiesta, in affidamento ai servizi sociali.
Inoltre, in base a una legge liberamente votata otto mesi fa da tutto il Parlamento italiano e anche da lui — la Severino del 31-12-2012 —, è ufficialmente decaduto dalla carica di parlamentare e non può ricandidarsi per i prossimi 6 anni, come tutti i condannati a più di 2 anni.
Punto.
Ma il dibattito scaturito dalla sentenza ha preso a svolazzare nell’iperuranio, attorno al presunto diritto del condannato all’“agibilità politica” (appena 8 mesi dopo che egli stesso ha votato una legge per negare l’agibilità politica ai condannati), la “guerra civile” fra politici e magistrati o fra berlusconiani e antiberlusconiani, la grazia, la commutazione della pena e altre cazzate.
L’ultima è la supposta incostituzionalità della legge Severino, di cui nessuno si era peraltro accorto 8 mesi fa quando tutti allegramente la votarono per fregare gli elettori con la bufala delle “liste pulite”.
L’avvocatessa ed ex ministra Paola Severino è ufficialmente dispersa e non dice una parola in difesa della legge che porta il suo nome: pare anzi che abbia avviato le pratiche all’anagrafe per cambiare cognome.
Ma il meglio lo danno certi costituzionalisti, che difendono un giorno il diritto e l’indomani il rovescio.
Specie quelli più vicini al Quirinale, costretti a contorsionismi imbarazzanti per seguire le bizze di Napolitano, che cambia idea a seconda di come si sveglia la mattina.
Ieri, sul Corriere , è partita in avanscoperta per tastare il terreno la premiata ditta Ainis&Capotosti.
Michele Ainis per sostenere che se B. è stato condannato per frode fiscale non è perchè frodava il fisco, ma per via dell’eterno “conflitto tra politica e giustizia”, insomma una “baruffa tra poteri dello Stato”.
Ma ora bisogna “separare i due pugili sul ring” (il frodatore fiscale e i giudici che l’hanno condannato).
Come? Magari suggerendo ai politici di non delinquere e ai partiti di non candidare delinquenti? No, ripristinando l’autorizzazione a procedere abolita nel ’93 per “far decidere al Parlamento” se un senatore sia o meno un frodatore fiscale.
È vero, ammette bontà sua Ainis, che l’autorizzazione a procedere si prestava ad “abusi”, coprendo anche parlamentari inquisiti senz’ombra di “fumus persecutionis”: ma subito dopo caldeggia nuovi abusi, sostenendo che la frode Mediaset, dove non c’è fumus ma molto arrosto, andava sottoposta “al visto obbligatorio delle Camere”.
Non è meraviglioso? Poi c’è Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Consulta e commentatore multiuso.
Il 5 agosto, intervistato dal Corriere, non sentiva ragioni: “Ho molti dubbi sulla tesi di Guzzetta che pone un problema di retroattività , perchè la legge non parla del reato, ma della sentenza. L’art. 3 dell’Anticorruzione si riferisce a chi è stato condannato con sentenza definitiva a una pena superiore a 2 anni… L’elemento determinante è la sentenza definitiva. Che poi si riferisca a fatti accertati anche 20 anni fa importa poco. È la sentenza che determina l’incandidabilità … Quella del Parlamento dovrebbe essere una presa d’atto”.
Cioè: B. deve andarsene dal Senato e non farvi più ritorno per i prossimi 6 anni.
L’11 agosto il tetragono Capotosti veniva intervistato da Repubblica .
Domanda: che succede se si vota in autunno? Risposta secca: “Scatterebbe l’incandidabilità prevista dall’art. 1 della Severino. L’importante è che si tratti di una sentenza definitiva”.
Pane al pane e vino al vino.
Poi però Napolitano ha monitato, B. ha minacciato e la rocciosa intransigenza di Capotosti ha assunto la consistenza di un budino.
Rieccolo ieri intervistato dal Corriere : “Che la legge Severino non possa essere retroattiva o debba scattare l’indulto, non è un’eresia… La norma è nuova, priva di giurisprudenza consolidata, vale la pena ragionarci… Ci sono problemi interpretativi, perchè non ci sono precedenti”.
In verità uno c’è, in Molise, ma “un caso non fa giurisprudenza”.
Dunque “sembrerebbe logico che il Senato prenda atto della sentenza, ma il Parlamento è sovrano” e può anche votare contro una legge fatta 8 mesi prima perchè “a giudicare i parlamentari in carica può essere solo il Parlamento” e “l’incandidabilità incide sul diritto costituzionalmente tutelato ad accedere alle cariche elettive e quindi la sua applicazione dovrebbe essere disposta da un giudice” e ora “per legge non lo è”.
Quindi sta’ a vedere che la Severino è incostituzionale e i partiti che l’hanno appena approvata possono impugnarla dinanzi alla Consulta per chiederle di bocciarla, intanto passano un paio d’anni e il delinquente resta senatore, magari dagli arresti domiciliari.
Sarebbe l’ennesimo miracolo del Re Taumaturgo: basta un monito, e la legge diventa così tenera che si taglia con un grissino.
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Agosto 20th, 2013 Riccardo Fucile
I BERLUSCONIANI PREPARANO “RITRATTI ” CONTRO MAGISTRATURA DEMOCRATICA E SENATORI…NEL MIRINO ANCHE LA PEZZOPANE
L’ossessione, nascosta, della vendetta. 
Quella che Silvio Berlusconi, rinchiuso ad Arcore ormai da giorni consuma di notte.
È una lettura, dicono i suoi, che gli serve per meditare e ricaricare le pile, nel segno di quel “non mollo!” che ostenta, al telefono, con tutti quelli che lo chiamano.
L’amena lettura che concilia la veglia di un (ex) Cavaliere profondamente scosso e assetato di rivalsa, sono le biografie dei magistrati iscritti a Magistratura democratica, le “regine” tra le toghe rosse, gli uomini che — secondo lui — rappresentano il vero partito che tenta di disarcionarlo da vent’anni.
“Ma anche stavolta — ha ripetuto ieri alla Santanchè, l’ufficiale di collegamento tra lui e la direzione del Giornale — non ci riusciranno”.
Tra le righe di quelle storie di ordinaria giustizia, Berlusconi cerca di trovare collegamenti, episodi, cadute, errori professionali o addirittura scandali utili alla costruzione del “dossier giustizia” che ha intenzione di issare, come una bandiera, durante la prossima campagna elettorale. Che conta di consumare a breve.
Nel frattempo, però, sono pronti i dossier.
Alcuni dei “falchi” Pdl stanno per rendere pubblici (si presume sui giornali “di famiglia”) alcuni ritratti “mirati” su componenti ritenuti particolarmente ostili nella Giunta per le autorizzazioni del Senato.
Insomma, quei “colleghi senatori” capaci di influenzare, con la loro intransigenza, anche gli altri componenti dell’organismo più dubbiosi sull’iter dei lavori rispetto alla fretta che ostenta il presidente Dario Stefà no.
Uno degli obiettivi della strategia di resistenza berlusconiana, d’altra parte, è proprio quello di prendere tempo e rinviare il più possibile il voto finale; la campagna di delegittimazione, insomma, potrebbe essere un modo per “sortire alla bisogna”.
Ecco, allora, che nel mirino è entrato subito Felice Casson, “il pasdaran della sinistra” anche se mai stato iscritto a qualche componente della magistratura “nè tantomeno — racconta lui stesso — all’Associazione nazionale magistrati”.
Però, Casson gode di un seguito e di un’autorevolezza che nel Pdl è considerata “pericolosa”. Su di lui potrebbero far riemergere questioni legate alla sua inchiesta su Gladio, quella che travolse Cossiga che fu accusato di essere un “cospiratore dello Stato”, portandolo a un passo dall’impeachment, ma che poi finì nel dimenticatoio.
Un’inchiesta, racconteranno, fondata sul nulla, tutta politica, esempio lampante — secondo i falchi berlusconiani — di come già allora lavorava la magistratura.
E oggi nulla è cambiato. “Si vede che sono alla frutta — ha commentato Casson — non riuscì a mettermi in imbarazzo Cossiga, figuriamoci loro…”.
Ma non ci sarà solo lui nel mirino. Anche Stefania Pezzopane, ex presidente della provincia de L’Aquila, sarà oggetto di attenzioni mediatiche.
Su di lei la campagna di delegittimazione partirà dal quel blocco dell’A24, del giugno 2010, quando le autorità abruzzesi manifestarono contro il governo Berlusconi per ottenere i fondi promessi per la ricostruzione de L’Aquila, mai arrivati.
Per quell’episodio, Pezzopane fu indagata per interruzione di pubblico servizio e su questo si baserà la campagna delegittimatoria: come può essere credibile chi, da amministratore pubblico, è finito sotto inchiesta addirittura per interruzione di pubblico servizio?
Insomma, ogni carta sarà buona pur di minare la credibilità (esterna) e la convinzione (personale) di chi sarà chiamato a esprimere un voto esiziale per il Cavaliere.
Anche se i falchi, in questo caso, puntano al piatto forte della partita, quel voto in aula (a scrutinio segreto) che potrebbe rappresentare il vero e unico modo per consentire a Berlusconi di proseguire la sua attività politica di leader del centrodestra.
Per questo, sono già in atto da tempo le trattative.
Qualcuno potrebbe mancare all’appello del voto (facendo abbassare il numero legale), altri potrebbero votare contro la decadenza nel segreto dell’urna.
Denis Verdini, dicono, è già da tempo all’opera perchè nessuno manchi all’appello.
“Pro domo Silvio”, ovviamente.
Sara Nicoli
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 20th, 2013 Riccardo Fucile
IL CAVALIERE PUNTA AL VOTO IN AUTUNNO, MA ALFANO E LUPI LO FRENANO
Diciasette giorni recluso ad Arcore. Dalla manifestazione sotto palazzo Grazioli. Con qualche passeggiata nel grande parco come unica distrazione alle interminabili riunioni con gli avvocati.
«È come se si sentisse già ai domiciliari», sospira un’amica che gli ha fatto visita di recente, «si sente offeso e ce l’ha con tutti. Soprattutto con Napolitano»
Ammessi a villa San Martino, del resto, sono pochissimi: i figli Marina e Pier Silvio, Luigi, Barbara ed Eleonora, ovviamente la fidanzata Francesca Pascale.
Poi Maria Rosaria Rossi, Denis Verdini e Daniela Santanchè.
Il Cavaliere, anche se sta molto al telefono, non ha voglia di vedere nessuno. Nè di scherzare.
Un altro amico lontano dalla politica, che in questi giorni veleggia nell’Egeo, lo ha chiamato per rincuorarlo ma dall’altra parte del filo ha trovato un uomo quasi irriconoscibile: «Di solito mi avrebbe sparato a raffica due o tre barzellette, adesso sembrava di parlare con un avvocato. Solo codici e decreti Severino citati a memoria». Unica eccezione, l’imitazione fatta al telefono del giudice Esposito, con marcato accento partenopeo
Poi, negli ultimi giorni, un cambiamento. Un ulteriore salto d’umore. «Prima era solo depresso. Adesso è incazzato nero, ogni giorno di più».
Di questa mutazione ne hanno approfittato i falchi del Pdl, che lo sobillano verso una crisi di governo dall’esito imprevedibile. E sempre di più sono loro a fare da cinghia di trasmissione con il mondo esterno.
Lo incoraggiano quando Berlusconi medita di pronunciare un discorso violento a palazzo Madama un momento dopo essere stato dichiarato decaduto da senatore.
Lo accarezzano quando vagheggia una rentrèe televisiva all’attacco, come quando andò da Santoro e diede una sterzata alla campagna elettorale: «Anche allora mi sconsigliavano tutti e invece i nostri elettori ammirarono il mio coraggio ad entrare nella fossa dei leoni».
Lo coccolano quando progetta una campagna elettorale lampo, con un’improbabile candidatura saltando il voto della giunta, con una crisi di governo e le urne aperte a novembre: «Dobbiamo sfruttare l’ultima finestra elettorale in autunno. E anche se non mi candidassi direttamente sarei sempre il capo della coalizione»
Preoccupati per la china che sta prendendo il personaggio e per l’avvitamento anche esistenziale che prelude a una decisione senza ritorno, le colombe hanno in queste ultime ore giocato il tutto per tutto.
Il tentativo è stato affidato a Maurizio Lupi ed Angelino Alfano. Entrambi hanno infatti parlato con Enrico Letta (Lupi a margine del Meeting di Rimini), riferendo ieri al Cavaliere lo stato delle trattative con il Pd sul problema centrale della decadenza da senatore.
«C’è una possibilità , sottile ma c’è», gli hanno spiegato. «La partita nella giunta delle immunità del Senato non è chiusa, la possiamo riaprire. Ma tu devi far tacere chi grida troppo: in questo modo provochiamo solo la chiusura a riccio del Pd».
Berlusconi, raccontano, è stato ad ascoltare ma per nulla convinto. «Rinviare? Ascoltare i costituzionalisti? Ma per fare cosa se hanno già deciso? Se mi vogliono eliminare tanto vale farla finita con questa ipocrisia»
Le colombe hanno provato a farlo ragionare sostenendo che il gruppo del Pd a palazzo Madama sarebbe meno granitico di quel che appare all’esterno.
Che una studiata campagna sulla costituzionalità del decreto Severino potrebbe convincere l’ala più garantista dei democratici.
«Dobbiamo proseguire con l’approfondimento in giunta. E poi chiederemo in aula il voto segreto. Saranno in tanti nel Pd a votare con noi, tutti quelli che vogliono la prosecuzione del governo e della legislatura».
Per rafforzare il loro pressing le colombe (oltre Lupi e Alfano nei giorni scorsi sono intervenuti con argomenti simili anche Gasparri, Schifani e Cicchitto) hanno anche fatto balenare davanti agli occhi del Cavaliere lo spettro più temuto, quello di un gesto pericoloso ma soprattutto irrilevante: far cadere il governo Letta per trovarsi di fronte un altro governo.
Stavolta con il Pdl fuori dai giochi, all’opposizione, e Berlusconi ai domiciliari.
Se l’assemblea dei parlamentari Pdl, con le lacrime di Alfano e compagnia, ha indubbiamente dato l’immagine di una compattezza dei gruppi dietro il leader, è anche vero che l’animo umano è imperscrutabile.
«Se Napolitano dovesse rimandare Letta di fronte alle Camere per un nuovo voto di fiducia correremmo un rischio molto alto»
Basterebbero infatti una ventina di senatori a fare maggioranza. Una quota tutt’altro che irraggiungibile tra Pdl moderati, Gal, autonomisti, grillini pentiti e chi più ne ha più ne metta.
È l’ultima speranza delle colombe: convincere il Capo e sottrarlo alle sirene sempre più forti dei falchi.
«Messo alle strette – sospira speranzoso un filogovernativo – Berlusconi ha dato sempre retta a Gianni Letta e Confalonieri. Speriamo che anche stavolta sia così».
Francesco Bei
(da “La Repubblica”)
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