Settembre 26th, 2013 Riccardo Fucile
EMESSA UNA NOTA DURISSIMA: “BASTA PRESSIONI PER SCIOGLIERE E CAMERE”: FINE DELLA CORTESIA ISTITUZIONALE
E’ “assurdo evocare il colpo di Stato contro il Pdl”.
Chi vuole può esprimere solidarietà a Silvio Berlusconi, “ma senza nuocere al Parlamento”.
E basta alle “pressioni su di me per sciogliere la Camere”. Poi, come un epitaffio: “Le sentenze sui rispettano”.
Il presidente Giorgio Napolitano sembra voler dire una parola finale sul caso Berlusconi, con una nettezza senza precedenti.
Già stamattina, nell’annunciare la defezione a un convegno, aveva parlato di “un fatto politico improvviso e istituzionalmente inquietante cui oggi devo dedicare la mia attenzione”.
Il “fatto inquietante” è l’assemblea dei parlamentari Pdl di ieri dove è stata annunciata la possibilità di dimissioni di massa dalle Camere nel momento in cui il Senato votasse la decadenza del leader, che si è di nuovo presentato come un perseguitato dalla giustizia che non dorme “da 55 giorni”, cioè dalla condanna definitiva per frode fiscale.
LA NOTA DI NAPOLITANO
“L’orientamento assunto ieri sera dall’Assemblea dei gruppi parlamentari del Pdl non è stato formalizzato in un documento conclusivo reso pubblico e portato a conoscenza dei Presidenti delle Camere e del Presidente della Repubblica”, scrive Napolitano in una nota dirmata intorno alle 13.
“Ma non posso egualmente che definire inquietante l’annuncio di dimissioni in massa dal Parlamento — ovvero di dimissioni individuali, le sole presentabili — di tutti gli eletti nel PdL. Ciò configurerebbe infatti l’intento, o produrrebbe l’effetto, di colpire alla radice la funzionalità delle Camere”.
Non meno inquietante, aggiunge, sarebbe il proposito di compiere tale gesto al fine di esercitare un’estrema pressione sul Capo dello Stato per il più ravvicinato scioglimento delle Camere”.
Il presidente della Repubblica punta chiaramente a spezzare ogni nesso tra le sorti personali di Silvio Berlusconi e quelle della legislatura faticosamente avviata con le larghe intese. “C’è ancora tempo, e mi auguro se ne faccia buon uso per trovare il modo di esprimere — se è questa la volontà dei parlamentari del PdL — la loro vicinanza politica e umana al Presidente del PdL, senza mettere in causa il pieno svolgimento delle funzioni dei due rami del Parlamento”.
E se pochi giorni fa aveva invitato alla pacificazione tra politica e giustizia non risparmiando pesanti critiche alle toghe, ora riequilibra il tiro: “Non occorre poi neppure rilevare la gravità e assurdità dell’evocare un ‘colpo di Stato’ o una ‘operazione eversiva’ in atto contro il leader del PdL’”.
Affari personali, insomma.
La conclusione è ovvia ma dirompente per le speranze che forse Berlusconi ancora riponeva in una qualche “soluzione politica” ai suoi guai giudiziari.
“L’applicazione di una sentenza di condanna definitiva, inflitta secondo le norme del nostro ordinamento giuridico per fatti specifici di violazione della legge, è dato costitutivo di qualsiasi Stato di diritto in Europa, così come lo è la non interferenza del Capo dello Stato o del Primo Ministro in decisioni indipendenti dell’autorità giudiziaria”.
Ieri sera il capo dello Stato non aveva ancora commentato le minacce pidielline, limitandosi a una gelida nota diffusa in serata: ”Il presidente della Repubblica si riserva di verificare con maggiore esattezza quali siano state le conclusioni dell’assemblea dei parlamentari del Pdl”.
Poi, di prima mattina, l’irritazione del Quirinale ha preso corpo nella lettera inviata agli organizzatori del convegno al convegno promosso dalla Fondazione De Gasperi sul rilancio dell’unità politica dell’Europa.
Al cui tavolo sedeva tra gli altri il ministro dell’Interno e segretario del Pdl Angelino Alfano, nella veste di presidente della Fondazione Alcide De Gasperi.
LA MINACCIA ALLA STABILITA’
Oltre ai toni usati da Berlusconi contro le toghe, definite “eversive” pochi giorni dopo l’esortazione dello stesso Napolitano a disinnescare il conflitto politica-magistratura, al Quirinale non va giù che la minaccia di Aventino sia arrivata proprio mentre il presidente del Consiglio Enrico Letta si trovava a New York per decantare alla comunità finanziaria le opportunità di investimento in Italia, garantite anche dalla “stabilità ” del Paese.
Che un pregiudicato possa semisvuotare il parlamento pur di scampare alla sua condanna non deve apparire affatto rassicurante.
Certo, come tutti Napolitano mette in conto che possa trattarsi di un bluff, di un colpo di coda prima dell’inevitabile uscita di scena (almeno come parlamentare) di Berlusconi, e prima che il duo Letta-Napolitano blindi gli alleati riottosi in un documento vincolante salva-larghe intese .
Ma l’impatto negativo sull’immagine del paese resta devastante.
Ogni margine di trattativa sembra essere scomparso.
Dal 15 ottobre Silvio Berlusconi dovrà iniziare a scontare la sua pena, e i tempi per la decadenza — o in base la legge Severino o per l’interdizioni dai pubblici uffici — non possono essere dilatati in eterno.
E’ veramente difficile che in questo lasso di tempo il presidente della Repubblica possa intervenire con un provvedimento di grazia o di commutazione della pena, o che possa pressare il Pd per una “soluzione politica” che passi da un voto anti-decadenza in Senato. Insomma, al momento non si capisce dove le minacce del Pdl possando davvero portare.
DIMISSIONI SI, DIMISSIONI NO. IL PDL FRENA
Ma davvero i 97 deputati e 91 senatori del Pdl sono pronti a mollare la poltrona come un sol uomo per seguire la sorte del leader decaduto?
”Le dimissioni si danno e non si annunciano”, afferma significativamente il ministro per le riforme Gaetano Quagliariello. “Ieri comunque non abbiamo votato alcuna dimissione”.
I capigruppo Brunetta e Schifani, che sarebbero i depositari delle decisioni dei parlamentari, hanno scelto il silenzio e fino al questo momento hanno evitato di rispondere alle domande sul tema.
E l’ex presidente dei senatori pidiellini Maurizio Gasparri chiarisce: “Ieri sera non c’è stato un voto sulle dimissioni dei parlamentari, ma si è verificato un fatto politico, una condivisione”.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Settembre 26th, 2013 Riccardo Fucile
A NAPOLI LA SITUAZIONE GIUDIZIARIA STA DIVENTANDO CRITICA PER IL CAVALIERE, INDAGATO PER LA CORRUZIONE DEI PARLAMENTARI
È nel corso di un pranzo tesissimo che Berlusconi rispolvera la pistola da mettere sul tavolo: “Non è accettabile che mentre discutiamo la legge di stabilità mi sbattano fuori dal Parlamento. Se è così, presentiamo le dimissioni dei nostri e tiriamo giù tutto”.
A Brunetta e Schifani il compito di organizzare la grande sceneggiata alla riunione serale dei gruppi.
Il copione prevede che le truppe consegneranno nelle mani dei capigruppo “dimissioni in bianco”.
Che i due Renati così possono consegnare al Colle appena scatta sul Cavaliere la tagliola della decadenza.
È l’escalation. Che prevede l’Aventino dei parlamentari per paralizzare i lavori delle Camere.
E la consegna delle dimissioni il 4 ottobre, giorno della voto in Giunta sulla decadenza, al grido “se non c’è lui non ci siamo nemmeno noi”.
È un percorso che porta dritto alla crisi di governo, quello messo a punto in un pranzo in cui nessuno si è detto contrario.
Tanto che Brunetta e Verdini, dopo tanto tempo, si sono riabbracciati.
La svolta dura matura in una giornata in cui le voci che arrivano dalle procure mandano Berlusconi su di giri.
È “arresto” la parola più pronunciata dall’ex premier nel corso del pranzo con i big del suo partito.
Le antenne dei suoi avvocati dicono che a Napoli la situazione si è fatta critica. E che, a giorni, potrebbe scattare la misura cautelare.
Pure la partecipazione di De Gregorio a Servizio pubblico di Michele Santoro che inizia giovedì viene vissuta come un segnale inquietante.
È come se il cerchio si stesse stringendo. Napoli, Bari, ogni procura pare un covo di avvoltoi pronto a scagliarsi sull’ex premier nell’ora più difficile.
Ecco, l’ansia da assedio finale: “fuori” dal Palazzo le manette; “dentro” la sinistra pronta ad votare la decadenza.
È così che viene ricacciata l’idea delle dimissioni di massa, da presentare un minuto prima che scatti l’ora X su Berlusconi.
Con l’obiettivo di paralizzare il Parlamento e “costringere” Giorgio Napolitano a sciogliere le Camere.
È solo una delle pistole che il Cavaliere ha scelto di usare nella battaglia finale. A pranzo con i big del Pdl i falchi lo hanno assecondato sull’idea di una grande manifestazione di piazza, che sarebbe l’ultima da uomo libero, da fare prima del 15 ottobre.
Si è discusso sul farla sabato, ma il tempo è nemico dell’organizzazione.
E non è un caso che il via libera alla linea del conflitto istituzionale sia arrivato il giorno dopo il colloquio tra Angelino Alfano e Giorgio Napolitano.
Quello in cui il capo dello Stato ha chiesto un patto di legislatura di un anno.
E si è sentito rispondere da Alfano: “Non sono nelle condizioni di dare garanzie”.
La sfida di Letta di una verifica di governo per arrivare a una “fase due” viene considerata dal Cavaliere “irricevibile”. Una provocazione.
Soprattutto perchè non ci sono garanzie in cambio: “Questo governo e questo capo dello Stato — ha quasi urlato coi suoi — ci sono grazie a me. E quale è la risposta? Che mi trattano come un delinquente comune”.
Già , il capo dello Stato.
E’ Napolitano il vero bersaglio della minaccia eclatante, quella delle dimissioni. Angelino Alfano, nel corso del colloquio di martedì, ha di nuovo provato a parlare della questione “grazia”.
E si è sentito rispondere che la posizione del Quirinale non muta rispetto alla famosa nota di agosto.
Una posizione che, a quindici giorni dalla decadenza in Senato, produce angoscia a palazzo Grazioli. Ecco la minaccia. L’ennesima.
Che ribalta il mantra delle ultime settimane, quella per cui si “rompe sull’economia, non sulla giustizia”. Contrordine.
Ai big del suo partito il Cavaliere ha consegnato un’unica regola di ingaggio: “Siamo in guerra e io combatterò fino alla fine”. Insomma, muoia Sansone con tutti i filistei.
(da “Huffington Post“)
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Settembre 26th, 2013 Riccardo Fucile
IN GIOCO LA SICUREZZA DEI NOSTRO DATI SENSIBILI
Quale partita si gioca nella cessione del controllo di Telecom a operatori stranieri?
La perdita della proprietà della Rete fissa, di cui l’azienda è monopolista naturale, significa cedere un primo pezzo della nostra sovranità .
Affidare al gioco del mercato la “sicurezza” dei nostri dati sensibili e rinunciare al controllo e alla difesa dei Big data.
Quei macrodati che hanno accesso un allarme globale dopo le rivelazioni di Snowden. La Rete Telecom è un asset valutato tra i 12 e i 15 miliardi di euro, ma – come osservano fonti di governo – non è, in quanto «strategico», un «bene negoziabile». Perchè se oggi tocca alle telecomunicazioni, domani potrebbe toccare a gas ed elettricit�
Battezzata con improvvisa resipiscenza e senso di “urgenza”, «questione di sicurezza nazionale», la cessione di Telecom si sistema in cima all’agenda della Politica, delle nostre due agenzie di intelligence (Aise ed Aisi) e impegna Giampiero Massolo, direttore del Dipartimento per le Informazioni e la Sicurezza, a consegnare entro le prossime ventiquattro ore al Copasir, il comitato parlamentare di controllo sui Servizi, un primo “rapporto” sui rischi e le implicazioni del trasferimento a un operatore straniero della proprietà della nostra rete telefonica fissa.
Una infrastruttura strategica (la prima nella storia del nostro Paese ad essere ceduta in mani straniere) di cui Telecom (che l’ha ereditata dalla pubblica Sip) è monopo-lista “naturale” perchè – a differenza del sistema di ponti radio delle comunicazioni mobili – dalle dimensioni e costi tali da renderla non “doppiabile”.
E su cui dunque si appoggiano, da quando il mercato è stato liberalizzato, non solo tutti gli altri operatori privati (italiani e non) che assicurano i servizi di telefonia fissa. Ma che innerva – ecco il punto – l’intero sistema di comunicazione delle forze di polizia, quello della nostra intelligence, i network di comunicazione riservata della pubblica amministrazione e delle nostre istituzioni, una parte non irrilevante del flusso di informazioni della nostra difesa.
Nella questione – per come in queste ore la declinano fonti qualificate di governo e dell’intelligence, esperti ed analisti di security – non gioca soltanto l’emotività di un Paese che ciclicamente si scopre o si sente abusivamente spiato.
Non morde soltanto il ricordo, ancora vivissimo e sub iudice della giustizia penale, di quel 2006 quando fu proprio in Telecom che si consumò per mano aziendale e con la complicità di un pezzo dell’allora servizio militare (Sismi) la più macroscopica e abusiva operazione di sorveglianza e intrusione in danno di centinaia di cittadini (il caso Tavaroli/Sismi) diventati “bersagli” inconsapevoli.
Nella questione – per dirla con le parole di una qualificata fonte della nostra intelligence – «balla, come ha insegnato il caso Snowden, il futuro di un pezzo significativo della nostra piena sovranità e dunque della nostra libertà ».
Perchè la rete fissa non significa soltanto “comunicazioni voce” attraverso i cavi in rame ma, oggi e soprattutto in prospettiva, significa i cavi in fibra ottica che trasportano i macro-dati. I Big data, appunto.
Quelli di cui ha fame ogni governo e intelligence del mondo. Che siano quelli dei propri cittadini. O, ancora meglio, quelli di altri Paesi.
In un paradossale cortocircuito, dopo aver discusso nei giorni del caso Snowden fin dove fosse legittimo aver autorizzato per decreto i nostri Servizi segreti all’accesso alle banche dati delle società di gestione delle infrastrutture strategiche (trasporti, comunicazioni, sanità ) «per la prevenzione del cyber terrorismo» (la questione venne sollevata proprio da un’inchiesta di “Repubblica”), si “scopre” infatti che, con la cessione agli spagnoli di Telefonica, si consegna serenamente al mercato la proprietà di quell’infrastruttura che espropria il Paese dello strumento necessario per proteggere i propri dati sensibili.
«Perchè – osserva un analista del nostro Servizio estero – se è vero che oggi la Rete sarebbe controllata dagli spagnoli, le regole del mercato sono tali che nessuno può sapere se tra un anno, due, cinque, quella Rete non sarà nuovamente venduta per finire ad operatori di altri Paesi. Magari non amici».
Non a caso, in altri Paesi come l’Inghilterra ad esempio, la proprietà e la gestione della Rete fissa sono scorporate. L’una (la gestione) è affidata alla libera competizione del mercato. La seconda (la proprietà ), a un azionariato diffuso che ne conserva il pieno controllo nazionale.
C’è di più. Ed è appunto nell’insistenza dell’aggettivo con cui gli addetti segnalano che la Rete è infrastruttura «strategica».
In quanto tale, «funzione della politica di un Paese», per dirla con le parole di una fonte di governo. Dunque, non misurabile in termini di valore economico, per altro oggi valutato tra i 12 e i 15 miliardi di euro (di un terzo superiore alla capitalizzazione di Telecom). Perchè «non negoziabile».
Un discorso che vale oggi per le telecomunicazioni e – a maggior ragione – per altre infrastrutture cruciali come gasdotti ed elettrodotti
«Avere non solo la gestione, ma anche la proprietà dello strumento che garantisce il flusso delle comunicazioni del Paese – prosegue la fonte di governo – implica la possibilità di incidere sulle nostre scelte contingenti e soprattutto future. Acquisire, anche solo potenzialmente, un potere di pressione e ricatto. Ma anche decidere, in termini strategici appunto, che tipo di Rete l’Italia di qui ai prossimi anni debba avere. E con quali potenzialità ».
Di più: «Equivale ad avere un domani la mano sul rubinetto dell’energia, gas o elettricità , che tiene accesa l’economia del nostro Paese».
E’ successo in altri contesti, si pensi al caso Russo-Ucraino. Può succedere anche in Italia se il caso Telefonica dovesse diventare un precedente. Per questo, la partita che si è aperta si scrive «sicurezza nazionale», ma si legge sovranità .
Carlo Bonini
(da “La Repubblica“)
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Settembre 26th, 2013 Riccardo Fucile
“FU SEQUESTRO DI PERSONA”: ESPOSTO DELLA FIGLIA… NEL MIRINO ANCHE I KAZAKI
Con una mossa che solleva il caso Ablyazov dal torpore in cui giaceva da settimane, i legali della figlia del dissidente kazako detenuto in Francia hanno depositato in procura a Roma una denuncia per sequestro aggravato di persona e ricettazione contro tre diplomatici del Kazakhstan e contro non precisati funzionari del Viminale.
L’esposto, corredato da due foto (una del documento della figlia di Alma Shalabayeva, l’altra scattata sulla pista di Ciampino il giorno del rimpatrio), arriva oggi sulla scrivania del procuratore capo Giuseppe Pignatone.
«Nel provvedimento – spiega l’avvocato di Madina, Astolfo Di Amato – accusiamo l’ambasciatore kazako a Roma, Adrian Yelemessov, il suo consigliere per gli affari politici Nurlan Khassen e l’addetto agli affari consolari, Yerzhan Yessirkepov».
E chiedono però ai magistrati di individuare i funzionari del Viminale «che abbiano tenuto comportamenti contro la legge nella vicenda dell’espulsione della Shalabayeva e della figlioletta di sei anni Alua, perchè siamo convinti che siano stati commessi abusi e omissioni gravi». Convincimento nato da quel cablo in cui l’Interpol di Astana chiedeva di “deportare” Alma, che pure non era mai stata oggetto di un mandato di cattura.
E rafforzato dalla contabilità del tempo impiegato per espellere la moglie di Mukthar Ablyazov, dopo il blitz della polizia nella villa di Casalpalocco della notte del 28 maggio scorso: appena 66 ore. E 24 ore dal momento in cui è stato firmato il provvedimento della prefettura
Khassen e Yessirkepov si vedono nella fotografia allegata alla denuncia, scattata dal pilota della compagnia privata austriaca Avcon Jet nel pomeriggio del 31 maggio, sulla pista di Ciampino. L’aereo riportò ad Astana Alma e la figlia, e nell’immagine parlano con tre uomini, forse poliziotti o funzionari del Viminale.
«Hanno organizzato l’espulsione illegale di mia madre – dice Madina Ablyazova, la maggiore delle quattro figlie del dissidente – Come può l’Italia permettere loro di continuare a godere della immunità diplomatica dopo che gli stessi hanno abusato pesantemente dei loro privilegi?». Ci sarebbe già un precedente, spiegano i suoi legali: quello di Abu Omar, in cui la Cassazione ha stabilito che l’immunità non può essere opposta in presenza di violazione dei diritti umanitari.
L’accusa di ricettazione è legata all’altra foto, molto recente, di Alua.
L’immagine sul documento kazako utilizzato per l’espatrio, sembra uguale a quella del passaporto della Repubblica Centrafricana (la cui autenticità non è stata ancora provata). «Questo significa due cose – spiega Amato – o che sia la copia digitale della foto del passaporto centrafricano oppure che sia frutto dell’attività degli investigatori privati che hanno controllato casa della signora Alma. In entrambi i casi c’è un illecito: ricettazione o violazione della privacy ».
Stamattina Pignatone esaminerà la denuncia e valuterà se inserirla nel fascicolo già aperto a carico di ignoti dal pm Eugenio Albamonte, o se aprirne un altro ex novo.
Fabio Tonacci
(da “La Repubblica“)
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Settembre 26th, 2013 Riccardo Fucile
IL PREMIER: “SE SCOPPIA IL CAOS, PRONTO A DIMETTERMI ANCHE DA QUI”
Non è uno strumento di pressione nè tantomeno un’arma di ricatto, perchè a Berlusconi era chiaro che il Pd non avrebbe mosso un dito per salvarlo dalla decadenza, tanto più ora che prepara l’Aventino.
Più banalmente la decisione presa ieri è il riflesso istintivo di chi si sente perso e finisce per perdere anche quel che aveva conquistato nelle durissime sfide del Quirinale e del governo: il centro del ring politico.
Ora dal ring il Cavaliere ha deciso di scendere, scorgendo proprio in Napolitano il suo più acerrimo nemico – così lo definisce – «perchè è lui che mi vuol fare condannare».
Ormai senza più freni inibitori, si trascina appresso un partito dilaniato dagli appetiti di potere, e dove – pur di non perdere posizioni – sono state le colombe a trasformarsi in falchi nell’ultimo vertice di palazzo Grazioli, precipitando una decisione che sarebbe dovuta maturare dopo il voto del 4 ottobre con cui il Senato accompagnerà il leader del centrodestra alla porta del Parlamento
Eppure era stato Berlusconi, ancora fino alla scorsa settimana, a frenare l’impeto di chi voleva far saltare subito il banco, spiegando che «se facessi cadere il governo mi metterei contro il Quirinale, i poteri forti con i loro giornali, il Wall Street Journal , il Financial Times . E pure quelli del Ppe direbbero che avevano ragione a non fidarsi di me».
Ma i fantasmi che non lo fanno dormire di notte hanno preso infine il sopravvento, e le ombre di nuovi provvedimenti giudiziari avversi si sono fatte carne quando gli hanno riferito che la procura di Milano avrebbe pronte numerose richieste di misure cautelari contro le «Olgettine», che si sarebbero macchiate di falsa testimonianza al processo Ruby pur di salvarlo dalla condanna.
È stato a quel punto che non ci ha visto più. E ha tratto il dado
Il modo in cui l’ha fatto è stato se possibile più dirompente della stessa decisione, perchè – scardinando le regole istituzionali – non ha preannunciato la scelta nemmeno al Quirinale. D’altronde, con il capo dello Stato – considerato il regista della congiura – i rapporti si erano ormai interrotti, e il tentativo di Napolitano di riavviare il dialogo, chiamando Alfano al Colle, non ha avuto effetto.
Un indizio si era potuto cogliere già ieri mattina, alla festa organizzata in Rai per i novanta anni di Zavoli, e dove è stato notato come il presidente della Repubblica – premuroso con tutti gli ospiti – si è scambiato solo un gelido saluto con Gianni Letta
Il botto ha preso alla sprovvista anche la delegazione dei ministri del Pdl, se è vero che Alfano ha saputo dell’accelerazione a cose fatte, di ritorno dalla sua visita in Piemonte al cantiere dell’Alta velocità .
E il colloquio con Enrico Letta – dall’altra parte dell’Atlantico – è stato quasi una sorta di commiato. Perchè il premier sa di non avere margini di manovra, sa che i falchi che militano nel Pd si accingono a chiedergli un gesto «per salvare l’onore tuo e del tuo partito».
È un gioco scoperto, l’ha spiegato al suo vice prima di prendere la parola all’Onu, confidando che la riunione dei gruppi parlamentari del Pdl non ufficializzasse la decisione: «Angelino, se scoppia il casino io mi dimetto anche ad qui».
Un’estrema forma di pressione, questa sì, che non poteva produrre effetti. E così è stato.
Di qui la scelta del presidente del Consiglio di far finta di nulla, in attesa degli eventi.
Perchè ora bisognerà capire quanto potrà andare avanti la messinscena, chè di questo sotto il profilo tecnico si tratta, se è vero che le dimissioni dei parlamentari non provocano la crisi di governo nè producono vuoti nelle Camere, siccome è previsto il subentro dei primi non eletti. Perciò Napolitano – che è il destinatario dell’offensiva politica – vuole smascherare i berlusconiani, caricati ieri sera da un capo che ha evocato il voto e la vittoria, sebbene tutti in quella sala – tra applausi e dimostrazioni di fedeltà – sapessero che tra un paio di settimane il Cavaliere sarà fuori dal Palazzo e che non avrà le urne.
In realtà , il primo a saperlo è proprio il Cavaliere, e non solo perchè l’assenza di una riforma elettorale è garanzia di sopravvivenza della legislatura, ma soprattutto perchè glielo ripetono settimanalmente i suoi amatissimi sondaggi, a mo’ di filastrocca: il Paese non vuole la crisi, il Pdl pagherebbe duramente il conto della crisi, la crisi non risolverebbe comunque i suoi problemi giudiziari mentre acuirebbe i problemi sociali.
Ma non c’è verso, almeno così sembra, per placare l’ansia di chi si sente ormai braccato e vittima di una «operazione eversiva», e che – vellicato da quanti nel Pdl temono per il proprio futuro – sembra aver deciso di indossare l’armatura e teorizza una «insorgenza civile», chiama a raccolta i parlamentari e dice loro: «Servono dimostrazioni di massa, dovete pacificamente portare la gente per le strade, nelle stazioni, negli aeroporti, per denunciare la perdita della democrazia»
Toccherebbe al titolare dell’Interno la gestione dell’ordine pubblico, se non fosse che Alfano – prima di questo problema – ne ha un altro, tutto politico, a lui evidente senza che Schifani ieri sera lo enunciasse rispondendo a una domanda dei cronisti: «Le dimissioni dei ministri dal governo? Chiedetelo a loro».
È scontato che il voto del Senato sulla decadenza di Berlusconi porrà i ministri dinnanzi a una scelta che appare scontata, e che stravolge lo schema fin qui previsto, quello del partito di lotta e di governo, che tiene un piede nell’esecutivo, attacca il Pd sull’economia e lo stressa per verificarne la tenuta in vista del loro congresso.
Così invece il Pdl si assumerebbe la paternità della crisi.
Ma tant’è. «Siamo un partito – dice Alfano – che non farà l’errore dei partiti della Prima Repubblica. Noi non ci divideremo, resteremo stretti attorno al nostro leader».
Berlusconi esorta i suoi parlamentari all’«estremo sacrificio»: «Abbiamo contro tutti. Siamo solo noi e dieci milioni di elettori».
Delle larghe intese restano macerie, è il Cavaliere a citare il de profundis: «Quelli del Pd dicono che l’alleanza con noi è contro natura e se ne vergognano. Ci dovremmo vergognare noi di loro».
Fine.
Francesco Verderami
(da “il Corriere della Sera”)
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Settembre 26th, 2013 Riccardo Fucile
A SETTE MESI DALLE ELEZIONI NON SI E’ ANCORA INSEDIATA, SCONTRI PER OTTENERE LA PRESIDENZA
In pochi se ne sono accorti.
Distratti dal governo delle larghe intese, dall’Imu e dall’Iva, dal nodo della decadenza di Silvio Berlusconi, i parlamentari italiani sembrano essersi completamente dimenticati della commissione parlamentare antimafia.
A sette mesi dall’apertura della nuova legislatura, la diciassettesima, tra i banchi di Palazzo Madama e Montecitorio non si è ancora insediata la “commissione bicamerale d’inchiesta sul fenomeno delle mafie” che in quanto commissione speciale deve essere varata con apposita legge all’inizio di ogni legislatura.
La prima commissione antimafia fu varata nel 1962 dopo l’input lanciato ben quattro anni prima da Ferruccio Parri.
Da allora, ad ogni inizio di legislatura, il parlamento ha impiegato un massimo di due mesi per nominare i 25 deputati e i 25 senatori chiamati a far parte della commissione che ha sede a Palazzo San Macuto, e quindi eleggerne il presidente.
Unica eccezione la settima legislatura, quando tra il 1976 e il 1979 il Parlamento non riconfermò la commissione speciale.
“In quel periodo ci fu un calo di attenzione nei confronti di Cosa Nostra — racconta Francesco Forgione, presidente della commissione tra il 2006 e il 2008 — nonostante la relazione di minoranza del Pci del 1976, firmata da Pio La Torre e Cesare Terranova, facesse già cenno all’istituzione del 416 bis”.
Erano gli anni dei governi di Giulio Andreotti, dell’allarme terrorismo e dell’omicidio di Aldo Moro: il 6 gennaio del 1980,però, l’assassinio di Piersanti Mattarella ricordò al Parlamento che Cosa Nostra non si era ancora estinta.
E poco dopo fu nuovamente varata la commissione d’indagine sulla piovra.
Adesso a ricordare ai parlamentari la presenza capillare delle mafie nel Paese non ci sono più — per fortuna — gli omicidi eccellenti firmati dai kalashnikov.
Rimangono, però, nero su bianco i numeri della potenza economica della criminalità organizzata in Italia: 3.500 immobili, 1.500 imprese, denaro liquido per 5 miliardi. Solo una piccola percentuale rispetto ai 170 miliardi di euro di fatturato della criminalità organizzata: il 10 per cento del Pil.
“Per tutte queste ragioni non c’è più tempo da perdere. I partiti evitino la retorica antimafiosa e smettano di nascondersi dietro simboli e simulacri. Le vittime innocenti della mafie e tutti i cittadini e le cittadine di questo Paese meritano di più. Attivino piuttosto subito la Commissione parlamentare antimafia indicando presto un’agenda di lavori urgenti da compiere, di inchieste da svolgere” scrive l’associazione romana DaSud nella petizione pubblicata in queste ore online per chiedere immediatamente l’insediamento della commissione antimafia.
Una petizione condivisa anche da alcune forze politiche, come Sinistra Ecologia e Libertà che con il deputato Erasmo Palazzotto fa uno screening dell’attuale situazione giudiziaria che con un rapido tratto di penna lega la politica a Cosa Nostra.
“Le motivazioni della sentenza di condanna per Marcello Dell’Utri, il processo in corso a carico del senatore del Pdl Antonio D’Alì, quello che vede la richiesta di condanna a 10 anni per l’ex governatore siciliano Raffaele Lombardo: sono solo alcuni esempi di come le interazioni tra politica e mafia richiedano il massimo grado di attenzione e sorveglianza, un compito per cui diventa essenziale il lavoro della Commissione Parlamentare Antimafia”.
Alla Camera il disegno di legge numero 825, che disciplinava “l’Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e delle altre associazioni criminali, anche straniere” era già stato approvato ai primi di giugno. Stessa cosa anche al Senato.
E i vari partiti avrebbero già designato i parlamentari chiamati a far parte della commissione. Solo che adesso tocca ai presidenti di Camera e Senato convocare la seduta comune per eleggere il presidente della nuova commissione antimafia.
Una convocazione che tarda ad arrivare: Pd, Pdl e Scelta Civica non riescono infatti a mettersi d’accordo sul nome da elevare sulla poltrona più alta di Palazzo San Macuto. Ed è per questo che la presidente della Camera Laura Boldrini ha strigliato i capigruppo, intimandogli di risolvere le beghe interne ed eleggere un presidente.
E siccome ogni partito rivendica quel posto per un suo parlamentare, il rischio è che le larghe intese si lacerino ancora una volta.
Il risultato è che fino ad oggi si è preferito evitare l’argomento, aspettando un’intesa che sblocchi la questione, salvaguardando l’alleanza che consente ad Enrico Letta di governare.
Nel frattempo fuori dal Parlamento la lotta a Cosa Nostra di magistrati e investigatori continua: sempre oggi (26 settembre), per esempio, a Palermo tornano in aula inquirenti e imputati del processo sulla trattativa tra Cosa Nostra e pezzi dello Stato. Lo stesso Stato incapace d’insediare una commissione antimafia dopo 7 mesi di legislatura.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Settembre 26th, 2013 Riccardo Fucile
DOSSIER DELLA FINANZA: IL CAVALIERE PAGAVA LE DONNE CHE PARTECIPAVANO ALLE SUE FESTE… E AVREBBE FATTO DA INTERMEDIARIO CON I VERTICI DI FINMECCANICA E PROTEZIONE CIVILE PER FAR OTTENERE APPALTI PUBBLICI A TARANTINI
Ha pagato le donne. Sapeva che quelle che frequentavano le sue feste erano prostitute e non amiche di Gianpaolo Tarantini.
Inoltre si sarebbe prestato come intermediario con i vertici di Finmeccanica e Protezione Civile affinchè l’imprenditore barese ottenesse appalti pubblici.
In 32 pagine di informativa la Guardia di Finanza capovolge l’impostazione iniziale dell’inchiesta della Procura di Bari per sostenere che Berlusconi non fosse soltanto l'”utilizzatore finale”, per dirla con l’avvocato Ghedini, delle cene eleganti che Tarantini organizzava a Palazzo Grazioli, Villa Certosa e ad Arcore.
Piuttosto, invece – si legge negli atti allegati alla chiusura indagini sul Cavaliere e Lavitola, che ha chiesto di essere sentito dai magistrati – un utilizzatore consapevole che “foraggiava”, sceglieva, invitava.
“UN COMPENSO”
È il 16 ottobre del 2008 quando Tarantini porta a Palazzo Grazioli “Patrizia D’Addario, Clarissa Campironi, un’amica di questa tale Lionella, Iosana Visan e Barbara Guerra”.
“L’indomani – annotano gli uomini del nucleo di polizia tributaria di Bari – Tarantini e Berlusconi intrattenevano una conversazione telefonica avente ad oggetto un compenso riconosciuto alle donne che avrebbero trascorso la notte a Palazzo Grazioli”
Berlusconi: “Guarda che hanno tutto per pagarsi, tutto da sole queste qua, eh…” (ndr, “alludendo evidentemente al fatto che era stato dato loro il necessario, motivo per cui Tarantini non doveva sentirsi obbligato a corrispondere loro alcunchè” scrive la Finanza).
Tarantini: “Si ma stia tranquillo presidente, non c’è problema…”.
B.: “E vabbè, ma non, non coso, perchè sono foraggiatissime”.
LE RUMENE
Qualche giorno prima, il 28 settembre, Tarantini aveva portato alcune ragazze rumene. “Berlusconi esprimeva preoccupazione che due delle ospiti potessero fare qualche commento sulla serata trascorso a Palazzo Grazioli. Tarantini faceva una immediata verifica sulla effettiva riservatezza delle donne”.
B.: “Tu avevi preso quelle due rumene, no? No, non ti immagini, hanno, hanno fatto qualche commento?”.
T.: “No, assolutamente no. Le ho sentite oggi, mi hanno detto che sono state bene e che speravano di rimanere lì, no ma basta, basta, ma le conosco bene perchè è gente che conosco io da un sacco di tempo, non sono ragazze che fanno commenti”,
Tarantini non doveva essere però così sicuro, visto che poco dopo contattava la ragazza che gliele aveva procurate per chiederle informazioni sulla loro riservatezza che lo rassicurava: “Sono tranquille”.
LA “RICOMPENSA” DELLA ARCURI
Secondo la Guardia di Finanza, dopo un primo rifiuto, era la Arcuri “in più occasioni a battersi per ottenere il compenso prima della prestazione sessuale a favore di Silvio Berlusconi”.
Il 28 gennaio racconta a Tarantini di aver chiamato il Cavaliere. L’obiettivo era far entrare il fratello in un cast: “Gliel’ho accennato, mi ha detto “Guarda ne parliamo quando ci vediamo a cena”. Gli ho detto che era urgente e mi ha risposto “Allora, guarda Manue, ti chiamo oggi pomeriggio e ne riparliamo”. Poi se me lo fa il favore, se me lo fa il favore, poi, sarà ben ricompensato….”.
PROTEZIONE CIVILE
In un interrogatorio del 6 gennaio del 2009 Tarantini aveva sostenuto che Repubblica avesse scritto una bugia: “Non fu come hanno scritto che Berlusconi, per ricambiarmi delle donne, mi mandò da Bertolaso, fu una mia iniziativa. Io non ho mai fatto pressioni del presidente”.
Tre anni dopo, invece, la Finanza certifica che Repubblica aveva ragione.
“È stato accertato che Berlusconi – si legge – su iniziativa di Tarantini promosse un incontro tra l’imprenditore e l’allora capo della Protezione Civile, Bertolaso. Incontro (che non darà però frutti) al quale lo stesso Berlusconi si “era offerto di partecipare per dare maggiore solennità allo stesso”.
La Finanza cita una conversazione: “Allora vi vedete oggi alle tre – dice Berlusconi – però sii prudente, sempre no? Ecco lui ha in mano i tuoi depliant che… i tuoi mi hai dato, no?”. L’incontro avviene e c’è il resoconto: “Com’è andata?”. “Benissimo, è stato gentilissimo, cordialissimo…”.
GUARGUAGLINI
Berlusconi nega a verbale di aver mai creato un contatto tra Tarantini e l’allora presidente di Finmeccanica, Piefrancesco Guarguaglini. La Finanza dice però il contrario: fa riferimento a un business al quale “era interessato anche Paolo Berlusconi” con Finmeccanica e Protezione Civile (“loro non hanno una società che non sia riconducibile, ma vogliono partecipare al 10 per cento del business” spiega al socio, Enrico Intini”) e soprattutto a un’intercettazione del 5 dicembre del 2008 nella quale è il Cavaliere in persona a dire a Tarantini: “Ho fissato un appuntamento per martedì con Guarguaglini, per quella cosa…”.
Gabriella De Matteis e Giuliano Foschini
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Settembre 26th, 2013 Riccardo Fucile
GELIDO COMUNICATO DEL QUIRINALE: “VERIFICHEREMO CON MAGGIORE ESATTEZZA”… IRRITAZIONE PER IL DANNO ALL’IMMAGINE DEL PAESE, AZZERATI I MARGINI DI SALVATAGGIO DEL CAVALIERE
E’ sempre più vicina la rottura tra Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi.
Il capo dello Stato non ha ancora commentato l’assemblea dei parlamentari Pdl di ieri dove è stata annunciata la possibilità di dimissioni di massa dalle Camere nel momento in cui il Senato votasse la decadenza del leader, che anche ieri si è presentato come un perseguitato dalla giustizia che non dorme “da 55 giorni”, cioè dalla condanna definitiva per frode fiscale.
“Il presidente della Repubblica si riserva di verificare con maggiore esattezza quali siano state le conclusioni dell’assemblea dei parlamentari del Pdl”, è la gelida nota diffusa dal Colle ieri sera.
Oltre ai toni usati da Berlusconi contro le toghe, definite “eversive” pochi giorni dopo l’esortazione dello stesso Napolitano a disinnescare il conflitto politica-magistratura, al Quirinale non va giù che la minaccia di Aventino sia arrivata proprio mentre il presidente del Consiglio Enrico Letta si trovava a New York per decantare alla comunità finanziaria le opportunità di investimento in Italia, garantite anche dalla “stabilità ” del Paese.
Che un pregiudicato possa semisvuotare il parlamento pur di scampare alla sua condanna non deve apparire affatto rassicurante.
Certo, come tutti Napolitano mette in conto che possa trattarsi di un bluff, di un colpo di coda prima dell’inevitabile uscita di scena (almeno come parlamentare) di Berlusconi, e prima che il duo Letta-Napolitano blindi gli alleati riottosi in un documento vincolante salva-larghe intese .
Ma l’impatto negativo sull’immagine del paese resta devastante.
Il punto è che non sembrano esserci margini di trattativa.
Dal 15 ottobre Silvio Berlusconi dovrà iniziare a scontare la sua pena, e i tempi per la decadenza — o in base la legge Severino o per l’interdizioni dai pubblici uffici — non possono essere dilatati in eterno.
E’ veramente difficile che in questo lasso di tempo il presidente della Repubblica possa intervenire con un provvedimento di grazia o di commutazione della pena, o che possa pressare il Pd per una “soluzione politica” che passi da un voto anti-decadenza in Senato.
Insomma, al momento non si capisce dove le minacce del Pdl possando davvero portare.
L’unico effetto immediato è quello di mandare in fibrillazione il governo Letta. All’annuncio filtrato dall’assemblea pidiellina è seguito un vortice di contatti tra New York, dove si trova il presidente del Consiglio Letta, e Roma. Dario Franceschini ha fatto da tramite contattando il vicepremier e segretario del Pdl Angelino Alfano (sentito in serata anche dal capo del governo) al quale ha contestato “l’assurdita” della posizione espressa dal Pdl proprio mentre il premier stava parlando di fronte all’assemblea delle Nazioni Unite.
Si racconta di un Letta profondamente amareggiato che, pur decidendo di non commentare l’accaduto, avrebbe ripetutamente chiesto spiegazioni da oltreoceano dopo che aveva ricevuto garanzie dal suo vicepremier su toni e contenuti ‘pacati’ dell’assemblea.
Ora Napolitano farà le sue “verifiche”, dato che l’assemblea Pdl si è svolta a porte chiuse e tutto quello che se ne sa è frutto di indiscrezioni giornalistiche.
Una strada potrebbe essere quella di convocare al Quirinale i capigruppo del Pdl Schifani e Brunetta.
Intanto, la forte pressione di Palazzo Chigi e del Pd (Epifani ha parlato di “irresponsabilità ”) sul Pdl sembra aver sortito come primo effetto una prima “frenata” da parte del Popolo della libertà : tanto che dalla proposta di dimissioni accettata per “acclamazione” dai parlamentari si sarebbe passati a semplici ipotesi, con Brunetta pronto a gettare acqua sul fuoco e a smentire anche quest’ultimo scenario.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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