Settembre 27th, 2013 Riccardo Fucile
LETTA: “O SI RILANCIA O SI CHIUDE”, LUNEDI O MARTEDI CHIEDERA’ LA FIDUCIA IN PARLAMENTO… SALTA IL RINVIO DELL’IVA, LITE IN CONSIGLIO DEI MINISTRI
Una giornata politica drammatica e convulsa. Fatta di incontri continui. E terminata con un consiglio dei ministri che si trasforma in una resa dei conti.
Con Letta che dice: “Io non vivacchio, o si rilancia o si chiude”.
Mentre salta il decreto per congelare l’aumento dell’Iva e per il rifinanziamento della cassa integrazione.
Con il ministro Delrio che annuncia: “Il premier chiederà la fiducia alle Camere su un discorso programmatico”. E Zanonato ammette: “E’ quasi crisi”.
La giornata era partita con Letta che, sbarcato dagli Usa, vedeva subito Dario Franceschini in vista dell’incontro con Giorgio Napolitano, e durato un’ora e mezza – è cominciata con un faccia a faccia con Dario Franceschini.
Ed è proprio il ministro per i rapporti con il Parlamento, più tardi protagonista di uno scontro col vicepremier Angelino Alfano sul tema giustizia, che alle 18.30 ha incontrato i ministri Pd.
“L’esperienza di governo non prosegue senza chiarimento”, il messaggio uscito dal vertice dem. In linea con quello inviato a tutti i leader dal presidente del Consiglio: serve una verifica rapida. “Senza se e senza ma: prendere o lasciare perchè i problemi del Paese sono tanti e urgenti. Basta minacce, come la gravissima iniziativa Pdl”.
Su questa strada – chiarimento definitivo con vioto alle Camere lunedì o martedì – il premier può contare sull’appoggio del Quirinale .
Cdm di chiarimento, salta manovrina.
Rientrato dal Colle, il premier ha dato il via, intorno alle 20, a un Consiglio dei ministri inizialmente programmato per approvare il decreto per lo slittamento dell’Iva. Ma alla fine centrato solo sul primo faccia a faccia con i ministri Pdl.
Tanto che il via libera alla “manovrina” è slittato: se ne parlerà una volta superato il passaggio parlamentare d’inizio settimana.
“Da questa riunione – ha detto Letta – mi aspetto un chiarimento definitivo, non è possibile esaminare ora alcun provvedimento economico, nè tantomeno il rinvio dell’aumento dell’Iva”.
Ma è muro contro muro.
“Non vogliamo chiarimenti che servono per tirare a campare – ha risposto il ministro dell’Interno Alfano – il governo va avanti se centra gli obiettivi. Occorre mettere la giustizia dentro il chiarimento. E non possiamo restare se aumentano le tasse”.
Renato Schifani, capogruppo Pdl al Senato, lo aveva anticipato in serata: “Il Pd ha ancora alcuni giorni di tempo per evitare che il 4 ottobre si trasformi in una giornata di esecuzione politico-giudiziaria. Le dimissioni dei ministri non sono all’ordine del giorno”. Sullo stesso punto era tornato Fabrizio Cicchitto, dicendo che l’ipotesi “non esiste”.
Sempre durante il consiglio dei ministri Dario Franceschini ha duramente replicato al vicepremier: “Per il Pdl – ha detto – “parlare di giustizia è sinonimo dei problemi giudiziari del Cav”.
Quindi non è possibile barattare la durata del governo con cedimenti su regole e che nel programma, a suo avviso, deve essere scritto rispetto dello Stato di diritto.
Sarà poi il ministro Del Rio a rilanciare: “I problemi del Paese sono altri, come il lavoro e i giovani e non la giustizia, come ha chiesto Alfano. Una verifica sulla giustizia è irricevibile”.
Clima a tratti elettrico, dunque, non senza battibecchi.
A un certo punto è intervenuto anche il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, che in un duro intervento si è sfogato: “Sono mesi che vengo attaccato, ma il mio dovere è quello di difendere i conti pubblici e cerco di svolgerlo il meglio che posso” avrebbe detto.
Letta si presenterà quindi alle Camere per ottenere la fiducia: se non lo avrà gli Italiani pagheranno Iva e Imu e dovranno ringraziare chi non ha il coraggio di assumersi le proprie responsabilità penali sancite in tre gradi di giudizio e da una corte composta da magistrati di destra, facendo così pagare alle famiglie italiane il prezzo della sua arrogante richiesta di impunità .
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Settembre 27th, 2013 Riccardo Fucile
CRESCE IL DISAGIO NEL GRUPPO VERSO LA FEDELISSIMA DI GRILLO
Sono pronti. Otto, forse dieci senatori grillini moderati.
In rotta con i falchi pentastellati e tollerati a stento dalla cabina di regia del Movimento, progettano un governo con il Partito democratico.
Non un Letta bis, sia chiaro. Piuttosto, un esecutivo guidato da una figura terza, “alla Rodotà ”.
Se si dovesse aprire uno spiraglio, i dissidenti sarebbero pronti a mettere in gioco anche il seggio parlamentare, rimettendolo al giudizio della Rete insieme a una semplice domanda: è ancora possibile sostenere un governo del cambiamento
Per ora restano nell’ombra, in attesa che la ruota si fermi. E continueranno a non esporsi, soprattutto se il Pdl dovesse annunciare un nuovo voto di fiducia a Enrico Letta.
Ma in caso di stallo usciranno allo scoperto.
Fra gli altri, su posizioni critiche si attestano Fabrizio Bocchino e Alessandra Bencini, Luis Orellana e Francesco Campanella, Lorenzo Battista e Francesco Molinari, Maurizio Romani e Maria Mussini
Un primo messaggio è stato recapitato ieri. Nel segreto dell’urna. In 14 (più 3 assenti) hanno preferito votare scheda bianca o nulla pur di non sostenere una delle due senatrici “talebane” in ballottaggio per la guida del gruppo del Senato.
Alla fine – con 20 voti su 50 l’ha spuntata Paola Taverna, romana del Quarticciolo.
Ha sconfitto Barbara Lezzi, che si è fermata a 13
Nessuno più di Taverna interpreta l’anima ortodossa e radicale del Movimento.
Lo chiarisce lei stessa, nel pomeriggio dell’incoronazione: «Altri governi? Non esiste, la linea è sempre la stessa». Ma non basta.
Da sempre predica il pugno di ferro contro il dissenso. E non si smentisce: «Nuovi scenari? Io sono per la libertà , chi vede questa possibilità se ne va…», risponde in rima.
Eppure, i moderati continuano a proporre un patto con il Pd.
Chiedono che sia la Rete a esprimersi – anche sulla loro permanenza in Parlamento – e sono pronti a dar battaglia in assemblea.
Lo si capisce ascoltando Campanella. Arriva da trent’anni di militanza sindacale, pretende rispetto: «Un Letta bis non esiste, ho una storia e una dignità ».
Ma ragionare di un esecutivo con una personalità super partes, questo è possibile: «Io non ci credo, ma se il Pd facesse uno scatto di reni e lanciasse una proposta convincente anche per chi ci ha votato, chi saremmo noi per dire no, Terminator?».
Beppe Grillo, intanto, si appresta a reclamare nuove elezioni, sparando contro un Letta bis.
D’altra parte, assicura l’ormai ex capogruppo Nicola Morra, «se andiamo al voto vinciamo».
Nel frattempo, però, il leader lancia l’idea di un referendum tra gli iscritti per valutare la migliore riforma elettorale.
Con buona pace dei progetti su cui i parlamentari M5S lavorano da mesi.
Tommaso Ciriaco
(da “La Repubblica”)
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Settembre 27th, 2013 Riccardo Fucile
LE MISURE PER DISSUADERE I SUBENTRANTI A CAMERA E SENATO
Alle 13.20, ora in cui i deputati si attovagliano al ristorante della Camera, Renato Brunetta torna da palazzo Grazioli, varca il portone di Montecitorio e strappa Fabrizio Cicchitto ai tiggì.
Gli parla nell’orecchio con tono grave e una parola si distingue sulle altre: «Napolitano».
Brunetta è una furia, coi suoi passi velocissimi corre verso l’Aula: «Sono scioccato dalla Procura di Palermo»
I magistrati e il capo dello Stato, ecco il corto circuito che ha innescato la miccia.
Ma ad accendere il fuoco, insinuano, è stato uno di loro, Gaetano Quagliariello.
Lo sussurrano i deputati più vicini a Verdini e Santanchè, spiegano che è stata la dichiarazione del ministro delle Riforme sulle dimissioni che «si danno e non si annunciano» a convincere anche i più riottosi che l’ora di «tirar fuori gli attributi» è ormai scoccata e che altro non resta da fare che dimettersi in massa.
Tutti, subito. Un’azione senza precedenti che, a sentire i più estremisti, porterà dritto al voto di sfiducia, tirando giù a valanga anche le giunte locali…
Ma no, è solo un’ipotesi bellicosa che a sera il capogruppo del Lazio, Luca Gramazio, si affretterà a smentire.
Dall’Aula di Montecitorio esce per primo il capo ufficio stampa, Luca D’Alessandro. «Stanno firmando tutti».
Gli dicono che al Quirinale c’è grande agitazione e lui, insultante: «L’imperatore d’Italia lascia? Bene! Così è il primo e la smette di comandare nel partito nostro». Questi gli umori che ribollono tra i falchi del Pdl mentre i deputati, colombe comprese, lasciano l’Aula con facce di pietra e, sul corridoio dei passi perduti, i prestampati per le dimissioni passano di mano in mano.
C’è chi firma e chi temporeggia. Lei si è dimesso, onorevole Piso? «Ancora no. Brunetta lo ha chiesto, ma vediamo, valutiamo».
A sera avranno capitolato tutti, anche quel Giuseppe Castiglione finito nel mirino per le aperture a una nuova maggioranza.
I siciliani, vigilati speciali, si affrettano a siglare il patto di fedeltà al capo, alla Camera e al Senato. «Il gruppo è compatto», allontana i sospetti Giuseppe Ruvolo.
Un oscuro peone non si capacita di dover dire addio allo scranno e un amico democratico lo prende in giro: «Ti sei dimesso? Ma che, sei scemo?».
Dorina Bianchi sorride, con un che di rassegnato sul viso: «Le ho date, sì. Perchè? Lo abbiamo fatto tutti…».
Mariastella Gelmini scivola via in un silenzio indecifrabile, che scioglierà in una nota di agenzia: «Chiediamo solo che il Pd si ravveda».
Pina Castiello lo dice in napoletano stretto: «Da cittadina mi dispiace se Letta cade, però mandare a casa Berlusconi non si può».
Preoccupazione, sgomento, paura del salto nel buio.
Finchè, a ondate, i deputati del Pdl si risvegliano dallo choc e cominciano a ragionare sulle conseguenze del loro collettivo «atto di affetto» verso Berlusconi.
Che succede, adesso? E se i primi dei non eletti decidessero di subentrare allegramente ai dimissionari?
Gira voce di una lettera di dimissioni in bianco che il capogruppo avrebbe in mente di far firmare ai «subentranti».
Categoria che improvvisamente (e fisicamente) si materializza.
Ecco apparire Osvaldo Napoli, primo dei non eletti a Torino dopo Alfano, Capezzone e Annagrazia Calabria. «La crisi c’è già – sentenzia – come fa Letta a non presentarsi dimissionario da Napolitano?».
E lei, subentra? «Ma no, non posso farmi dare del venduto»
Dimissionari, subentranti, pretendenti. E gufanti.
Giorgio Stracquadanio, berlusconiano pentito e strafelice di poter lanciare in piena crisi la sua nuova «Cosa blu», predice agli ex colleghi un fosco futuro: «Letta metterà la fiducia e vi sgonfierete come un soufflè».
Isabella Bertolini, la fu pasionaria del Cavaliere, concorda: «È l’ennesima sceneggiata. Come farete a non votare la fiducia?».
Ma i falchi hanno l’aria di chi ha tagliato i ponti. Per Mara Carfagna, tailleur pantalone color panna, l’addio a orologeria è tutt’altro che simbolico e pazienza se le conseguenze saranno irreparabili: «Che amarezza! La decadenza di Berlusconi è l’emblema di un sistema malato. L’emergenza è lo Stato di diritto, non il governo». Uno smarrito Maurizio Bianconi si aggira in scarpe da ginnastica: «Questo governo fa schifo, ma può restare dov’è».
Voterà la sfiducia? «La regola del Pdl è obbedire».
Monica Guerzoni
(da “il Corriere della Sera”)
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Settembre 27th, 2013 Riccardo Fucile
IL GOVERNO PREPARA I POTERI SPECIALI DELLA GOLDEN SHARE MA È TARDI… LE ALTERNATIVE: CAMBIARE LE REGOLE SULLE SCALATE O TROVARE SOLDI FRESCHI
Nella storia di Telecom i passaggi di controllo non sono mai stati pacifici.
E anche questa volta il percorso che dovrebbe portare alla sottomissione (e poi alla fusione) con la spagnola Telefà³nica sarà pieno di battaglie e di incognite.
La politica si è svegliata e da due giorni ha un solo argomento: se gli spagnoli salgono dal 46 al 70 e poi al 100 per cento di Telco, la holding che controlla Telecom con il 22,4 per cento del capitale, metteranno le mani sulla rete telefonica nazionale, cavi e software da cui passano quasi tutte le comunicazioni.
Secondo i servizi segreti guidati da Giampiero Massolo, sarebbe addirittura a rischio la sovranità nazionale, stando alle indiscrezioni filtrate sulla relazione inviata ieri al Parlamento.
Bisogna drammatizzare per due ragioni.
Primo: la legge sulla golden share, cioè i poteri che il governo si attribuisce sulle aziende strategiche, permette di intervenire in un caso come questo solo se c’è “un grave pregiudizio per gli interessi pubblici relativi alla sicurezza”.
Seconda ragione: l’allarme aiuta a mascherare i ritardi, il decreto attuativo che spiega come funziona la golden share nel settore delle telecomunicazioni dovrebbe arrivare in Consiglio dei ministri. Ma ci vorranno mesi perchè sia operativo.
E quindi è abbastanza inutile per bloccare gli spagnoli.
La Borsa pare considerare più efficace la seconda barricata: il titolo Telecom Italia ieri è voltato del 4 per cento nell’ipotesiche cambino le regole sulle scalate.
L’idea parte dal senatore Pd Massimo Mucchetti: bisogna cambiare le regole sull’obbligo di Opa, offerta pubblica d’acquisto.
Nell’operazione Telco la spagnola Telefà³nica paga di fatto le azioni Telecom al doppio del valore di mercato, ma tanta generosità va a beneficio solo dei soci della holding Telco, cioè Generali, Mediobanca e Intesa.
Gli altri azionisti, quasi l’80 per cento, vedranno cambiare il controllo del gruppo e quindi le sue prospettive senza ricevere un centesimo.
Non solo: finora ha retto una finzione giuridica, cioè che Telco non controllasse Telecom. Così gli azionisti della holding non dovevano consolidare i debiti: in pratica Telefà³nica ha già 50 miliardi di debiti, se venisse sancito che comanda su Telecom dovrebbe accollarsi anche i 40 miliardi di debiti italiani. Mucchetti, d’accordo con Altero Matteoli (Pdl) propone due cose: stabilire che basta il controllo di fatto e non c’è bisogno di avere il 30 per cento del capitale per far scattare l’obbligo di Opa (chi vuole il controllo si impegna a comprare le azioni dei soci a un prezzo più alto di quello di mercato), e poi sancire che Telco controlla Telecom.
Così gli spagnoli dovrebbero scegliere: o rinunciano alla campagna d’Italia o si rassegnano a spendere qualche miliardo invece che gli 850 milioni teorici previsti dall’accordo attuale.
Un cambiamento di regole complesso, che ieri però ha avuto un primo appoggio da Giuseppe Vegas, il presidente della Consob, che in audizione al Senato ha detto che la normativa sull’Opa “si può cambiare”.
E il sottosegretario al-l’Economia Alberto Giorgetti ha chiesto al Parlamento di formulare una proposta. Anche qui i tempi non sono brevissimi.
I soldi sono più rapidi delle leggi.
Il presidente Telecom ha (forse) un’arma decisiva per fermare Cesar Alierta: proporrà un aumento di capitale, cioè chiederà ai soci (a Telco e a i piccoli azionisti) di mettere soldi freschi direttamente in Telecom, non nella holding di controllo. Mediobanca, Intesa e Generali non hanno alcuna intenzione di spendere ancora. Telefà³nica è contrarissima.
I consiglieri di amministrazione dovranno votare: dopo Luigi Zingales, che ha denunciato i conflitti di interessi di Telefà³nica, ieri si è pronunciato anche un altro amministratore indipendente, il rettore della Luiss Massimo Egidi: “Se Bernabè proponesse l’aumento noi lo appoggeremmo”.
Gli equilibri tra i 14 consiglieri sono incerti. Ma l’incognita più grossa è se Bernabè ha davvero trovato il “cavaliere bianco” coi soldi pronti.
L’ultimo indiziato è il gruppo americano AT&T. La suspense durerà poco, il consiglio di amministrazione è convocato per il 3 ottobre. Se l’aumento di capitale venisse bocciato, Bernabè potrebbe dimettersi subito.
Forse alla fine Telecom e la sua rete finiranno davvero agli spagnoli per pochi spiccioli, ma la battaglia, per quanto tardiva, è appena cominciata.
Stefano Feltri
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Settembre 27th, 2013 Riccardo Fucile
QUANDO DISCUTERE SU UN TEMA CONCRETO DIVENTA IMPOSSIBILE
Ho accettato la richiesta di un vecchio amico. Vieni a parlare a una festa dei grillini? Su cosa? Lavoro, salute, economia. Hhmm. Dai, ti prego. È una bravissima persona. Ok.
Alla fine me ne sono pentito assai. Non tanto perchè mi hanno mangiato vivo con perfetto stile berlusconiano; quanto perchè non c’è stato verso di spiegare niente: erano impermeabili al ragionamento.
Diritto al lavoro, certo. Art. 4 Cost: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
Ma che succede se il lavoro uccide? Art. 32 Cost: “La Repubblica tutela la salute come diritto dell’individuo e interesse della collettività ”.
Vi ricordate le miniere di zolfo siciliane dell’800? Ci lavoravano i carusi, ragazzini di 6/7 anni che morivano come mosche. Certo, la loro paga manteneva famiglie poverissime. Ma vi sentireste di dire che dovevano continuare a lavorare?
Non sono arrivati a dirmi di si; però mi hanno spiegato, con molta enfasi, che la “politica” doveva garantire un lavoro sicuro a tutti. E qui sono cominciati i guai seri.
Vero, lo Stato, deve promuovere le condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro.
Ma se non ci riesce? Se non si può? Se, nella migliore delle ipotesi, ci vuole tempo?
Si può, si può, basta che la smettano di rubare. Vero; ma prima che si riesca a metterli tutti in prigione ci va del tempo; e intanto?
Prendete Ilva. Lo sappiamo tutti che ammazza, lavoratori e cittadini di Taranto. Forse, con 10,15, 20 miliardi, nessuno lo sa con precisione, ed entro 10,15 anni, anche questo nessuno lo sa, si arriverà a metterla in sicurezza. Ma nel frattempo?
Quanti morti si possono accettare per garantire il diritto al lavoro dei 5000 dipendenti?
Ci dovevano pensare prima, non la dovevano privatizzare, chissà i soldi che si sono fatti dare. Tutto vero; però è andata così. Adesso che si fa?
Tumulto, si sono divisi in due parti, una piccolina che raccontava come a Taranto sia impossibile vivere; e un’altra maggioritaria che diceva che lo Stato doveva espropriarla.
Ho colto il suggerimento per passare al problema principale, anche se ormai avevo capito che navigavo in brutte acque. Non la espropria perchè poi i soldi per il risanamento li deve mettere lui.
E dove li trova lo Stato 15 miliardi? Vedete, il lavoro deve essere remunerativo; che vuol dire ripagare l’investimento e garantire la paga del lavoratore. Se non è così, non si può mantenere.
Chi dovrebbe pagare il salario dei lavoratori che non ricavano da quello che fanno le risorse necessarie? Tutti gli altri, non c’è soluzione.
Questo già avviene con la cassa integrazione in deroga. È una forma di tassa.
Quanto può andare avanti un Paese che fa pagare a tutti, pro quota, il lavoro di quelli che non ricavano di che pagarselo da soli?
In questo senso, il diritto al lavoro è subordinato anche alle leggi dell’economia: niente utile, niente paga.
Se non ci sono soldi, come si potrebbe corrispondere un salario?
A momenti mi ammazzavano. La cosa più gentile che mi hanno detto: parli bene tu con la tua pensione milionaria che ti paghiamo noi.
Che, tra tante stupidaggini, è stata l’unica cosa sensata; in effetti un po’ in imbarazzo mi sono sentito, anche se di milioni non se ne parla.
Un simpatico sindacalista che era sul palco con me mi ha spiegato che la soluzione era ovvia: la nazionalizzazione di tutti i mezzi di produzione, industrie, commerci, banche: e, naturalmente, l’uscita dall’euro.
Ho pensato al Muro di Berlino e alla Corea del Nord e ho rabbrividito.
Alla fine, sguardi ostili e incazzatura generale.
Mi spiace per il mio amico; ma con questa gente non si può ragionare.
Bruno Tinti
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Settembre 27th, 2013 Riccardo Fucile
PUNITI PER LE EMISSIONI INQUINANTI
Tra un passato distrutto dalle troppe vittime, un presente sfregiato dai molti ammalati e un futuro in dubbio con tassi elevatissimi di sterilità , l’Unione Europea certifica il disastro ambientale di Taranto.
Ieri la Commissione ha annunciato l’avvio di una procedura di infrazione a carico dell’Italia. «In seguito a diverse denunce provenienti da cittadini e Ong, la Commissione ha accertato che l’Italia non garantisce che l’Ilva rispetti le prescrizioni dell’Ue relative alle emissioni industriali, con gravi conseguenze per la salute umana e l’ambiente» dicono.
«L’Italia è inoltre inadempiente anche rispetto alla direttiva sulla responsabilità ambientale, che sancisce il principio “chi inquina paga”».
Ora l’Italia, spiega il commissario Janez Potocnik, ha due mesi di tempo per rispondere. Altrimenti scatteranno le procedure di sanzione con multe salatissime ai danni dello Stato.
«La Commissione – spiega però il ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando – ha apprezzato il lavoro del nostro Governo. La prima risposta sarà l’approvazione del nuovo piano ambientale: gli interventi di risanamento e di innovazione che i commissari stanno ultimando sono parte essenziale di questa risposta».
«Spero che non siano soltanto buone intenzioni» risponde però Potocnik, che ben conosce evidentemente i 20 anni di promesse mai mantenute della politica italiana per difendere Taranto dai veleni.
A partire dalle due Autorizzazioni integrate ambientali rilasciate dal governo Berlusconi e da quella di Monti che avrebbero, secondo Bruxelles, disatteso le norme comunitarie.
Su questo, indaga anche la procura di Taranto che proprio nelle scorse settimane ha sequestrato a Roma documenti al Ministero.
A esultare per l’apertura della procedura sono le associazioni ambientaliste: Bruxelles si è infatti mossa soltanto dopo a un lungo lavoro e a un accurato dossier presentato da Peacelink, con Antonia Battaglia, Fabio Matacchiera e Alessandro Marescotti che hanno lavorato per mesi alla messa in mora dello Stato italiano.
Intanto, mentre il commissario Bondi promette la dismissione degli impianti più inquinanti a favore di altri a impatto molto più basso, a Taranto continua il braccio di ferro tra magistratura e famiglia Riva per la riapertura degli impianti fermi da quasi due settimane al Nord.
La situazione è kafkiana, con la Procura e il gip che dicono di non aver mai ordinato il fermo degli impianti ma di aver tolto solo le somme dalla disponibilità della famiglia Riva per passarle in quelle del custode, e la famiglia Riva che invece giura di essere stata costretta a chiudere.
In attesa di definire quindi la differenza tra sequestro e serrato, dovrebbe intervenire il Governo con un decreto ad hoc: il ministro Flavio Zanonato sostiene che è pronto ma il Consiglio dei ministri, traballante per motivi politici, non si è ancora riunito.
Giuliano Foschini
(da “la Repubblica“)
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Settembre 27th, 2013 Riccardo Fucile
IL SENATORE SI E’ RIFIUTATO DI FIRMARE: “SAREBBE BASTATO RINVIARE LA LEGGE SEVERINO ALLA CORTE COSTITUZIONALE”
Senatore Giovanardi, proprio lei, un fedelissimo di Berlusconi che alla fine lo tradisce e non firma le dimissioni.
“Lei non ha letto bene la mia dichiarazione. Io non tradisco nessuno. Questa è una doppia mascalzonata, quella che sta facendo il Pd e anche quella che sta studiando qualcuno ai danni di Berlusconi”.
Spieghi meglio.
“Il Pd sta facendo una forzatura sul voto di decadenza dal Senato del Cavaliere. Sarebbe bastato rinviare la legge Severino alla Corte Costituzionale e tutto si sarebbe aggiustato”.
Lei è un democristiano di vecchio stampo, così forse si aggiustava tutto, ma l’elettorato del Pd non l’avrebbe perdonato.
“Si però adesso fanno la parte dei giustizialisti. Inutilmente. E il governo rischia. Inutilmente”.
Perchè dice che anche dentro il partito questa storia delle dimissioni non giova a Berlusconi?
“E’ una cosa che è stata gestita malissimo. Anche Martino (il senatore Antonio Martino, ndr) non è d’accordo, perchè non serve a nulla, non si sa a cosa voglia arrivare. Poi, adesso sto ascoltando interpretazioni diverse da parte di alcuni colleghi che dicono che comunque è solo un gesto di solidarietà a Berlusconi, nulla di più. Ma con le dimissioni non si scherza, io quindi non mi dimetto”.
Diranno che lei è attaccato alla poltrona.
“Dicano pure ciò che vogliono, ho fatto il ministro, il capogruppo, il sottosegretario, il vicepresidente, ho un’esperienza parlamentare che alcuni dei miei colleghi se la sognano, cosa vuole che stia attaccato alla poltrona? Dico solo che questa storia non sta in piedi”.
Non crede che il suo gesto, decisamente coraggioso visto dall’esterno e visto il suo ruolo dentro il partito, possa servire da apripista anche per altri senatori, casomai alla prima legislatura?
“Io il mio gesto l’ho motivato. Io non ho firmato e non firmerò le dimissioni perchè ritengo non siano la modalità giusta per costringere le forze politiche ad assumersi le responsabilità nei confronti del Paese, soprattutto in vista della campagna elettorale. Poi, se il 4 ottobre il Pd si renderà complice di questa mascalzonata contro Berlusconi, allora sarà evidente che non ci sono più le condizioni per continuare un’alleanza di governo. Che bisogno c’è di dimettersi? Per darci in pasto ai grillini che poi, una volta dovessero mai arrivare al voto dell’aula, si divertirebbero a votare uno sì e uno no. “Tu resti perchè ci sei simpatico, tu invece no perchè sei antipatico”, ma che razza di cultura politica è mai questa? Ripeto, non è una cosa seria”.
Scusi, ma lei l’altra sera c’era alla riunione dei gruppi dove avete deciso di dimettervi in massa
“Certo che c’ero”.
E perchè non l’ha detto subito che lei non ci stava?
“Io ho chiesto la parola, poi è arrivato Berlusconi e mi è stato detto che il dibattito non c’era più, quindi non mi sono potuto esprimere”.
Quanti altri come lei?
“Parecchi. Non faccio numeri, ma le assicuro che non ho visto mica tanti entusiasmi in giro”.
Tanti da costituire una gamba per una maggioranza alternativa?
“Ma questo proprio non lo so, è veramente presto per parlarne”.
Già , ma visto che vi siete ficcati in un cul de sac, adesso come pensate di uscirne?
“Ah, non ne ho proprio idea. Io non ho firmato, quindi questo gioco non mi riguarda. Se la vedesse chi l’ha inventato”.
E’ stato Brunetta.
“Io ho fatto un gesto in piena coscienza, non ho firmato. Se la vedesse lui con la sua”.
Sara Nicoli
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Settembre 27th, 2013 Riccardo Fucile
SARANNO RIVISTE IN FUTURO LE ALIQUOTE, INTANTO AUMENTANO LE ACCISE
Accordo fatto.
L’aumento dell’Iva dal 21% al 22% slitta dal primo ottobre a gennaio, nella speranza di poterlo congelare definitivamente entro la fine dell’anno.
E’ quanto emerge dalla Bozza del decreto legge anticipata dall’Ansa. Entro l’anno prossimo, poi, verranno “ridefinite le misure delle aliquote ridotte” dell’Iva “nonchè gli elenchi da assoggettare alle medesime”.
Il Consiglio dei ministri di oggi, inoltre, ha rifinanziato la Cassa integrazione in deroga per il 2013 con un’ulteriore somma di 330 milioni di euro “da ripartirsi tra le regioni”.
Le coperture per il mancato rialzo dell’Iva a ottobre arriveranno dall’aumento dell’acconto dell’Ires (al 103%) e dell’Irap per il 2013, oltre che dall’incremento delle accise sui carburanti per 2 centesimi al litro fino a dicembre 2013 e poi fino al 15 febbraio 2015 di 2,5 2,5 cent al litro.
Il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, negli ultimi giorni aveva indicato in un miliardo di euro la cifra necessario per far slittare il provvedimento, inizialmente previsto per giugno.
La Bozza prevede anche l’integrazione con 120 milioni di euro del fondo di solidarietà comunale istituito per il 2013 per compensare i Comuni del mancato gettito Imu.
Sono state quindi accolte, almeno per il momento, le richieste delle associazioni di categoria.
L’ultimo a chiedere lo stop all’aumento era stato Carlo Sangalli, questa mattina, a Radio1Rai: “Anche se alcuni indicatori come ad esempio l’export e la fiducia delle famiglie e delle imprese cominciano a dare segnali di risveglio, ancora latitano gli effetti sull’economia reale. Noi confermiamo le stime di marzo con il Pil a -1,7% e i consumi a -2,4%. Bisogna far ripartire la domanda interna e per questo si deve scongiurare il previsto aumento dell’Iva dal 21 al 22%”.
(da “La Repubblica”)
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Settembre 27th, 2013 Riccardo Fucile
L’EX SENATORE HA GIà€ AMMESSO DI AVER GESTITO LA COMPRAVENDITA DI PARLAMENTARI PER FAR CADERE PRODI
È da settimane che Silvio Berlusconi agita il fantasma del suo arresto.
Un fantasma che viaggia in coppia con un altro spettro: la decadenza dal ruolo parlamentare che ricopre.
Senza immunità , infatti, queste fantomatiche manette potrebbero scattare più facilmente.
Alle voci ha già risposto esattamente un mese fa, il procuratore capo di Napoli Giovanni Colangelo parlando di “notizie prive di qualsiasi fondamento”: “Non c’è alcuna misura di custodia cautelare nei cassetti e — per rispetto della legge — non potrebbe esserci”.
Lasciando le voci di arresto al loro rango, quello delle ipotesi, restano i fatti della cronaca giudiziaria che, da soli, giustificano l’idea di un autunno caldo per il Cavaliere, nelle aule giudiziarie napoletane.
La prima data da tenere a memoria è quella del 23 ottobre, giorno d’udienza per il procedimento sulla compravendita dei senatori che, nel 2007, portarono alla caduta del governo Prodi.
Berlusconi è accusato — i pm sono Vincenzo Piscitelli, Henry John Woodcock, Alessandro Milita e Fabrizio Vanorio — di corruzione, in concorso con Valter Lavitola, per aver pagato 3 milioni di euro a Sergio De Gregorio, leader di “Italiani nel mondo”, che aveva il compito di traghettare i transfughi del centrosinistra nelle file del-l’opposizione per far cadere il governo Prodi.
E De Gregorio — da quando ha ammesso le sue responsabilità , chiedendo il patteggiamento — è diventato il principale accusatore di Berlusconi anche per altre vicende giudiziarie, a partire dalla questione rogatorie con Hong Kong nel procedimento Mediaset.
Pochi giorni fa è stato lo stesso Valter Lavitola a insinuare nuovi dubbi, dichiarando che Berlusconi rischia — a suo dire — un’incriminazione per corruzione internazionale, per le vicende panamensi legate a Finmeccanica, nelle quali il Cavaliere potrebbe essere indagato addirittura per associazione per delinquere, proprio con Lavitola.
Lavitola mette al centro della sua ipotesi la costruzione di un ospedale per bambini, a Panama, legato alla chiusura di un appalto per la costruzione di una metropolitana. L’unico fatto certo è che negli atti d’indagine, il nome di Berlusconi, viene fuori più volte, ma anche in questo caso non v’è traccia di iscrizioni nel registro degli indagati. C’è poi un terzo filone d’inchiesta che lambisce il Cavaliere e, anche in questo caso, il suo vecchio amico Valter Lavitola.
E anche questa preoccupa il fondatore di Forza Italia che però non risulta indagato, esattamente come Lavitola, ma vede accusato il direttore del settimanale di famiglia, Panorama, per rivelazione del segreto d’ufficio è corruzione.
Un’inchiesta che, come le altre due, è condotta dai Vincenzo Piscitelli ed Henry John Woodcock.
La storia risale all’estate di due anni fa, quando Panorama, diretto da Giorgio Mulè, pubblicò uno scoop sensazionale: la Procura di Napoli intendeva arrestare Valter Lavitola e Gianpi Tarantini.
Ma secondo l’accusa non si trattò di una normale fuga di notizie, perchè l’atto non era stato ancora firmato dalla gip, Amalia Primavera e, dalla ricostruzione degli investigatori, si scopre che fu un cancelliere, compiendo un reato, a estrarre il documento dal computer dell’ufficio.
Fin qui, la cronaca giudiziaria, ma ad agitare gli incubi del Cavaliere c’è una serie di quesiti dettati dal buon senso: quella pubblicazione, al di là del suo aspetto giornalistico, può aver agevolato la fuga e la conseguente latitanza di Lavitola?
Il faccendiere era infatti già all’estero quando lo scoop fu pubblicato, e all’estero rimase per parecchi mesi successivi.
E ancora: il direttore e il giornalista, prima di pubblicare lo scoop, avvisarono il loro editore oppure no?
In altre parole, Berlusconi sapeva, prima della pubblicazione, della richiesta di arresto per il suo vecchio amico Lavitola?
Sono domande dettate dalla logica, delle quali Berlusconi conosce la risposta, così come conosce la verità sui suoi rapporti con Valter Lavitola, Sergio De Gregorio e Gianpi Tarantini.
Dei tre, l’unico ad avergli voltato le spalle è De Gregorio.
E il caldo autunno napoletano s’inaugura il 23 ottobre, con l’udienza sulla compravendita dei senatori, che potrebbe aprire un nuovo processo per Berlusconi.
Il patteggiamento richiesto da De Gregorio è un primo, importante risultato ottenuto dall’accusa.
Ma nell’attesa, Berlusconi già agita lo spettro dell’arresto.
Antonio Massari
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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