Settembre 24th, 2013 Riccardo Fucile
TELECOM ITALIA, ALITALIA, IL LUSSO E L’ALIMENTARE: UN PAESE OBERATO DAI DEBITI CHE NON RIESCE A SOSTENERE LE PROPRIE IMPRESE…SIAMO TERRA DI CONQUISTA PER POCHI SPICCIOLI
Con un pugno di soldi, circa 324 milioni di euro, Telefonica conquista Telecom Italia, il colosso italiano delle tlc, che fattura 30 miliardi di euro, dà lavoro a 82mila dipendenti, possiede la rete nazionale delle telecomunicazioni e gestisce i dati sensibili delle procure di tutto il Paese, le intercettazioni.
Le banche di sistema, Intesa e Mediobanca con la controllata Generali (tutte azioniste di controllo di Telecom), hanno deciso in assenza della politica che il Paese può farne a meno.
Del resto tutta la telefonia non parla più italiano.
E senza colpo ferire la società , inabissata dai debiti come del resto l’Italia stessa, è pronta a finire nelle mani di chi dovrebbe rilanciarla. Chissà dove.
Lo stesso destino toccherà tra poco ad Alitalia.
La compagnia di bandiera, sempre oberata dai debiti, volerà in Francia, qualora i soci coraggiosi (da Colaninno a Tronchetti Provera, dai Ligresti a Marcegaglia, dai Benetton ai Toto) lanciatasi in uno pseudo-salvataggio pilotato da Banca Intesa, non decidano di sostituirsi ai francesi nella gestione del gruppo in perenne crisi di liquidità .
Saranno comunque ancora loro, dopo che la politica se n’è lavata le mani ben cinque anni fa, a decidere che l’Italia potrà fare a meno anche di un vettore nazionale in grado di collegare un territorio impervio come quello della Penisola e delle sue isole.
Resiste, invece, in mani italiane la società Autostrade, l’arteria viaria del Paese, che lo Stato ha affidato alla famiglia Benetton.
I veneti hanno cercato di disfarsene, quando anche loro schiacciati da una acquisizione fatta a debito e con il pericolo del blocco delle tariffe, avevano intavolato le trattative per la cessione.
Manco a dirlo, da Roma sono rispuntati gli aumenti tariffari e la società è rimasta italiana.
Diversa sorte, invece, è toccata ad altre due grandi privatizzazioni italiane, Eni ed Enel, le cui reti, nevralgiche per il Paese, sono rimaste sotto il cappello dello Stato, nonostante la quota di controllo sia stata ridotta all’osso.
Con il passaggio all’estero di molti colossi del lusso e dell’alimentare, se ne va non solo parte del Prodotto interno lordo, ma anche di quella forza economica che dovrebbe far ripartire il Paese.
Le stesse aziende, diventate multinazionali, decideranno autonomamente dove pagare o non pagare le tasse.
I casi delle grandi società di Internet, da Google a Facebook, da Apple ad Amazon, ma anche di gruppi come Starbucks e Fiat puntano da sempre a una eufemistica “ottimizzazione fiscale”.
Il pericolo è poi che con un debito che arriverà a oltre il 130% del Prodotto interno lordo, lo Stato non decida di cedere altri gangli nevralgici del Paese. Finmeccanica, il gruppo che gestisce tutti gli appalti delle nostre forze armate, e le sue controllate sono già in vendita.
Dopo di che restano i tesori artistici, come Pompei e il Colosseo, per i quali la Disney farebbe tappeti d’oro.
Walter Galbiati
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Settembre 24th, 2013 Riccardo Fucile
LA COMPAGNIA FRANCO-OLANDESE PRESENTERA’ UNA PROPOSTA MA NON VUOLE SUPERARE IN OGNI CASO LA SOGLIA DEL 50% PER NON CONSOLIDARE LE PASSIVITA’
Air France presenterà proposte per una ristrutturazione del debito di Alitalia, ritenendo che le necessità finanziarie di Alitalia non siano colossali.
“Per limitare i rischi, Air France-Klm sarebbe pronta a partecipare a una ricapitalizzazione di Alitalia e ad acquistare i titoli che non trovano acquirenti, in modo da assicurarsi il controllo della compagnia ma senza passare la soglia del 50%, al fine di non dover consolidare il debito di Alitalia” afferma il quotidiano Les Echos citando alcune fonti, secondo le quali la proposta sarebbe accompagnata da condizioni precisa in termini di ristrutturazione del debito.
Un’ipotesi confermata anche dall’ad di Air France-Klm, Alexandre de Junica secondo cui l’aumento della quota in Alitalia è un obiettivo “alla portata” del vettore: “Le necessità finanziarie di Alitalia non sono colossali e sono alla portata di Air France-Klm, per quanto non sia certo il momento migliore. Il problema e come risollevare Alitalia e a quale prezzo, su un mercato nazionale fortemente penetrato dalle compagnie low-cost e del Golfo, alle quali il governo italiano ha concesso parecchi diritti di traffico”. Minimizza per il momento il ministro Flavio Zanonato, che puntualizza: “Non c’è nulla di concreto”.
A queste notizie si levano le prime paure e gli allarmi, come quello lanciato da Antonio Divietri, presidente di Avia, l’associazione degli assistenti di voli italiani, che paventa il rischio di duemila licenziamenti con il passaggio ai francesi.
Non si tratterebbe, tornando all’operazione, di cancellare il debito ma di renderlo più sopportabile.
Sugli 1,1 miliardi di euro di debito, due terzi sono legati all’acquisto di aerei e – mette in evidenza Les Echos – potrebbero essere rinegoziati a condizioni più favorevoli nel quadro di un’integrazione in seno a Air France-Klm.
Una tale revisione implicherà la revisione degli accordi conclusi nel 2008 con la società AP Fleet di Carlo Toto, con base in Irlanda, divenuta il maggiore fornitore di aerei Alitalia.
E così dopo mesi di quasi ostentato disinteresse (per lo meno nelle dichiarazioni ufficiali) per la partita italiana, giustificato con il problematico andamento dei conti del gruppo franco olandese, Oltralpe “è maturata un’apertura su Alitalia” che metterebbe all’angolo ogni pretesa di preservare l’italianità della compagnia tanto sbandierata fin dalla costituzione della cordata che rilevò l’ex compagnia di bandiera in dissesto, cinque anni fa. Air France-Klm, che ha chiuso il primo semestre 2013 con quasi 800 milioni di perdite, è però impegnata in un piano di riduzione del proprio indebitamento, mentre un’altra incognita è costituita dall’atteggiamento della componente olandese del gruppo, “più reticente” a un rafforzamento in Alitalia, che invece trova maggiore consenso presso la compagine francese.
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Settembre 24th, 2013 Riccardo Fucile
IN POLE BALDELLI, MA IL PARTITO FIBRILLA: TROPPI GLI SCONTENTI
Simone Baldelli rimane in pole position per succedere a Maurizio Lupi nel ruolo di vicepresidente della Camera in quota Pdl.
Ma quella che porterebbe l’attuale segretario d’aula azzurro sullo scranno più alto di Montecitorio è una partita tutt’altro che chiusa.
L’interessato scherzava all’ora di pranzo sull’argomento con i colleghi, come se si trattasse di una questione già archiviata. È tale, o quasi, per Renato Brunetta.
Proprio il capogruppo avrebbe virato in direzione del suo vice, cercando una mediazione fra le varie anime del partito.
E connotando le sue come posizioni sempre più lontane da quelle dei falchi, che non si smuovono da quella che ritenevano una posizione acquisita.
Quale? “Per me il nome di Baldelli non esiste – ragionava un deputato tra i più vicini a Berlusconi – Nel senso che io sono rimasto all’unica linea politica che ha dato il partito, che è quella di votare Daniela Santanchè”.
La pasionaria pidiellina fu bloccata all’inizio dell’estate dal veto del Pd. Ma, fino a ieri, la sua era l’unica candidatura in campo.
E anche oggi, in pieno pomeriggio, l’interessata non si sbilanciava: “Ne stiamo discutendo in queste ore, ci stiamo riflettendo”.
Un segnale che la scelta di Brunetta non è stata accolta serenamente.
E per tutto il giorno è stata oggetto di conciliaboli tra gli onorevoli azzurri in Transatlantico.
La scelta, oltre che dalla Santanchè, è risultata poco digeribile per chi ambiva alla poltrona di vice di Laura Boldrini.
Su tutti si è registrato il malumore di Stefania Prestigiacomo, che descrivono come furibonda, ma anche quello di Mara Carfagna e di Laura Ravetto non è un mistero.
A Brunetta si contesta una gestione verticistica del gruppo. “Ma se devi trovare una mediazione in poche ore – spiegava un deputato di lungo corso – è impossibile convocare un gruppo di 100 persone, non si troverebbe mai la quadra”.
Il nodo politico tuttavia rimarrebbe l’andare a Canossa sul nome della pitonessa, la cui testa rotolerebbe su un veto posto dai Democratici, ipotesi che fa fibrillare l’ala dura del partito.
“Per quanti franchi tiratori dei nostri ci possano essere – continua il deputato – Simone è uno che prenderà voti anche dal centrosinistra, mentre Daniela finirebbe impallinata”.
Con il voto segreto, sarà assai complicato se non impossibile misurare il dissenso, soprattutto se il segretario d’aula del Pdl intercettasse i voti anche dai banchi del Pd. Ma la quadra per gli azzurri sta risultando più complicata del previsto.
Una carta da giocare per arginare, almeno parzialmente, i malumori, è quella della sostituzione di Baldelli come vicecapogruppo e segretario d’aula.
Potrebbero essere le stesse Carfagna, Prestigiacomo o Ravetto a succedergli. Ma circola in queste ore anche il nome di Antonio Leone.
Un contentino per la pitonessa e i suoi supporter, il cui ruolo nelle dinamiche di partito, in caso di passo indietro, potrebbe essere ridimensionato.
Soprattutto se, come sembra, anche i deputati vicini a Denis Verdini non si straccerebbero le vesti qualora la sua candidatura dovesse tramontare.
Dopo l’accertata antipatia di Francesca Pascale, sarebbe un altro segnale di (temporanea?) difficoltà della pitonessa nelle dinamiche interne alla (ri)neonata Forza Italia.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 24th, 2013 Riccardo Fucile
I MEMBRI DEL PD IN GIUNTA RIFIUTANO L’AUT AUT DEL PARTITO E ANCHE ROMA DA’ L’ORDINE DI “RICUCIRE I RAPPORTI”
Non si dimettono, anzi rimarranno saldi sulle loro poltrone nonostante il loro partito gli abbia dato un aut aut: o stanno con il Pd e si dimettono, oppure rimangono con Rosario Crocetta.
Tertium non datur. Almeno per il momento, i quattro assessori regionali indicati undici mesi fa proprio dal Pd alla terza opzione non hanno voluto neanche pensare: rimarranno fedeli al governatore, che ieri sera è stato di fatto scaricato dai democratici siciliani.
“Le nostre nomine sono state concordate con il Pd e noi siamo quattro dirigenti del Pd: nessuno può giocare ad essere più piddino dell’altro: io non mi dimetto”, ha esordito stizzita la giovane Nelli Scilabra, ex senatrice accademica dell’Università di Palermo, poi elevata al vertice del delicato assessorato alla Formazione su indicazione del senatore Beppe Lumia.
“Non ci dimettiamo perchè non c’è più tempo per la Sicilia”, ha rincarato la dose l’assessore all’Ambiente Mariella Lo Bello, che fino a ieri sera era completamente all’oscuro del terremoto politico messo in cantiere dal suo partito.
“Ho letto ora su livesicilia (quotidiano online palermitano ndr.) quello che stava succedendo e sono arrivata qui” raccontava, intervenendo all’assemblea dei democratici convocata proprio per scaricare il governo di cui fa parte, insieme all’altro assessore Nino Bartolotta, anche lui rimasto fedele a Crocetta.
Rimane in sella, almeno per ora, anche l’assessore al Bilancio Luca Bianchi che ha dalla sua i gradi di tecnico in prestito da Roma, da dove è stato inviato in Sicilia dopo essere stato vice presidente dello Svimez.
“Io vengo da un’esperienza esterna, ho studiato il Mezzogiorno per anni: ho fatto molta teoria e zero pratica. Per questo ho accettato la proposta di venire in Sicilia, e credo che l’esperienza sul campo sia stata molto positiva. Non mi dimetterò, non prima di capire se è possibile che si ricostruisca il rapporto tra governo e partito. Certo, non parteciperò a nessun governo che non abbia l’appoggio del Pd”.
La posizione di Bianchi è la cartina di tornasole di come i dirigenti nazionali del Pd abbiano preso il terremoto messo a punto dai loro omologhi siciliani.
Da Roma dunque l’obbiettivo è ricucire i rapporti tra i democratici siciliani e Crocetta, che nella capitale sembra godere ancora di credito.
Il governatore scaricato dal Pd siciliano ha continuato fino ad oggi a tenersi lontano da Palermo. Da Catania, dove continua a seguire le condizioni mediche degli uomini della sua scorta coinvolti in un incidente, fa sapere di non aver intenzione di riagganciare i contatti col suo partito.
“Io dovrei chiamarli? No, chi lo pensa allora non mi conosce. Non posso entrare in questi giochi di potere, la verità è che tra me e loro c’è un problema di linguaggio, di comunicazione”.
A Palazzo dei Normanni, intanto, il caos regna sovrano.
Il Movimento Cinque Stelle ha in serbo già da settimane una mozione di sfiducia contro Crocetta, e lo stesso Nello Musumeci, leader della destra sconfitto alle elezioni, rimane alla finestra in attesa che il governo dell’ex sindaco di Gela naufraghi definitivamente.
Un’ipotesi che non è per nulla scontata.
Se in teoria è vero che oggi Crocetta non avrebbe più la maggioranza in parlamento regionale, è vero anche che troppo spesso Palazzo dei Normanni ha assunto le sembianze di un vero e proprio mercato di voti e deputati.
In seno agli stessi democratici, oltre agli assessori, iniziano infatti a sfilarsi altri esponenti di partito.
Il primo è stato Fabrizio Ferrandelli, neo leader della corrente di Matteo Renzi all’Ars, che già in mattinata ha utilizzato l’inglese per andare incontro al governatore, non allontanandosi troppo dal suo partito.
“Stabiliamo una road map tutti insieme — ha detto mimando il lessico british del sindaco di Firenze — Facciamo una road for peace and change, una tabella di marcia per la pace e soprattutto per il cambiamento”.
Non parla inglese ma volge lo sguardo comunque all’estero Marco Forzese, eletto deputato dell’Udc, inserito nella lista dei cosiddetti candidati impresentabili in campagna elettorale per un’indagine sulle promozioni facili al comune di Catania, che per garantire l’appoggio a Crocetta guarda invece addirittura alla Spagna.
“È arrivato il tempo — ha detto il deputato fondatore del movimento Democratici e Riformisti — di creare un modello simile a quello della Catalogna che prevede sì la presenza dei partiti nazionali in Sicilia, ma in una logica di confronto con un grande partito regionale che insieme possiamo rappresentare”.
E anche dall’opposizione arrivano segnali di apertura nei confronti di Crocetta.
Il deputato del Pdl Vincenzo Vinciullo, per esempio, guarda al governo Letta, proponendo immediatamente un “patto istituzionale tra partiti per salvare la Sicilia dal default”: una sorta di governo delle larghe intese con il presidente del Pd, sostenuto da Udc, Pdl e vari deputati apolidi in ordine sparso.
Senza, però, l’apporto degli stessi democratici che, dopo aver appoggiato Raffaele Lombardo fino alla vigilia delle dimissioni, adesso hanno scaricato il primo presidente di centro sinistra eletto in Sicilia.
Come dire che dopo anni di strapotere del Pdl e di Totò Cuffaro, a sinistra abbiano dimenticato ad amministrare le vittorie.
Giuseppe Pipitone
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Settembre 24th, 2013 Riccardo Fucile
SPUNTA UN EMENDAMENTO “AD PARTITUM”
Forza Italia? Un partito nato “vecchio”, tant’è che il Pdl, suo progenitore, sta cercando di spianargli la strada delle agevolazioni sui futuri finanziamenti con il solito emendamento ad personam.
Ad partitum, in questo caso.
Basta leggere la proposta Pdl alla legge Letta sui futuri soldi ai partiti firmato dal segretario amministrativo Bianconi. Ma non basta.
Sempre per garantire il futuro economico di Forza Italia e i milionari passaggi di denaro che provengono dal suo padre-padrone Berlusconi, ecco la battaglia per evitare che ci sia un tetto troppo basso alle donazioni, massimo 100mila euro come propongono Pd e Sel. Quelli del Pdl pretendono che si superi il milione di euro, e che si vada anche oltre.
E non è certo un caso che sia stata bocciata, anche dal Pd, la proposta di Sel che bloccava finanziamenti in arrivo da chi ha una condanna definitiva (vedi caso proprio Berlusconi).
Va così, in commissione Affari costituzionali della Camera, la battaglia sulla legge Letta che da mesi attende d’essere sdoganata.
Si è arenata una prima volta sulla scandalo del tentativo di cancellare il reato di finanziamento illecito, stoppato grazie alla denuncia della stampa e alla reazione sdegnata dei magistrati.
È arrivata in aula, ma l’intesa è salata.
Ora siamo di nuovo in commissione, in un rush che non disdegna le ore notturne nel tentativo di tornare nell’emiciclo domani.
Vertici a ripetizione tra il ministro per le Riforme Quagliariello e i relatori Gelmini (Pdl) e Fiano (Pd), qualche accordo, come quello sulla cig per i dipendenti dei partiti, con il netto disaccordo di Sel (Boccadutri), ma restano i nodi di fondo – tetto al finanziamento, norma Forza Italia, colpo di spugna sulle inchieste – che potrebbero far saltare tutto.
La minaccia, più volte ribadita da Letta, è che il governo ricorra al decreto.
Certo è che il Pdl non perde mai il vizio di utilizzare l’attività parlamentare per tutelare i suoi interessi.
La legge sul finanziamento lo conferma.
Un pomeriggio caldo nella commissione presieduta da Francesco Paolo Sisto, avvocato barese di strettissima fede Pdl.
Passano all’unanimità alcuni emendamenti considerati “buoni”, come quello che cancella la possibilità di agevolazioni per le sedi dei partiti, o quello che azzera gli spazi tv gratis – a scapito di chi non può contare, come Pdl alias Forza Italia, su tv di famiglia – , oinfine quello su tariffe agevolate.
Ma finiscono accantonarti i punti dolenti. Tetto massimo, regole per accedere alle agevolazioni (2 per 1000 e detrazione dei contributi), reato di finanziamento illecito restano i cardini su cui un compromesso opaco finirebbe per stroncare il senso stesso della nuova legge.
Il Pdl – di certo – non demorde. La “salva Forza Italia” suona singolare.
Emendamento 8.8. Le agevolazioni «si applicano ai partiti a cui dichiari di far riferimento almeno la metà più uno dei candidati eletti sotto il medesimo simbolo alle più recenti elezioni per il rinnovo di Camera e Senato».
Dunque: un partito, tipo il Pdl, muore, ne nasce uno nuovo, Forza Italia. La legislatura è la stessa. Forza Italia dovrebbe perdere ogni privilegio. Invece basterà che la metà più uno degli eletti dichiari la sua fedeltà al nuovo gruppo per lasciare tutto invariato.
Scandalosa poi la proposta sul reato di finanziamento illecito, perchè salta il passaggio fondamentale per cui non basta l’iscrizione nel bilancio della società , ma è obbligatoria la delibera della società stessa.
Il Pdl (Gelmini) garantisce che i processi in corso sono salvi, il Pd teme il colpo di spugna, Sel ritiene che la nuova norma possa anche passare ma solo con la garanzia certa che il colpo di spugna non ci sarà .
Un fatto è certo, se si cambia la norma, i processi saltano, perchè se i reati vengono contestati sulla base della mancata delibera della società , e questa previsione viene cancellata, è ovvio che il processo si nebulizza.
Rissa pure sulla cassa integrazione.
Il Pdl vota la proposta Pd – contro Sel e M5S – per cui ce ne sarà una ad hoc per i dipendenti dei partiti, di fatto “tassando” tutti gli altri, anche i piccoli.
Protesta Sergio Boccadutri, capogruppo di Sel in commissione, che ricorda come gestì la cig per Rifondazione comunista usando la cassa in deroga: «Così, invece, Pd e Pdl colpiscono tutti per salvare se stessi».
Liana Milella
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Settembre 24th, 2013 Riccardo Fucile
PAIONO ADATTI A VINCERE LE BATTAGLIE MA A PERDERE LA GUERRA
Che fine ha fatto il Movimento 5 Stelle?
Quando cominceranno le doppie conferenza stampa mensili di Grillo a Genova e Milano?
E il nuovo Vaffa Day?
Certo, M5S sta combattendo molte battaglie, su tutte quelle in difesa della Costituzione e contro l’omofobia.
Come e più di Sel, è l’unica opposizione alle larghe intese. I parlamentari 5 Stelle sono i meno assenteisti e i più battaglieri.
La loro attività sembra però seguire una strana sinusoide. Per i primi due mesi, complice il duo Tafazzi Lombardi-Crimi, hanno sbagliato molto.
Con la candidatura di Rodotà sono tornati in carreggiata.
Da quel momento, crivellati da un sistema mediatico che perlopiù li detesta, sono cresciuti.
Inciampando però in quella odiosa refrattarietà al dissenso che li caratterizza, dal caso Gambaro alla strategia (by Casaleggio) per isolare i reprobi.
Negli ultimi giorni, M5S non dà molto segno di sè. O meglio: lo fa, ma più che altro per eventi collaterali: l’obiezione degli scontrini per combattere il fisco, la guerriglia alla Preside Permalosa Boldrini, le teorie complottiste sull’11 settembre.
In quello che sembra il momento più nero per Berlusconi, con il governo eternamente in bilico, i 5 Stelle parlano d’altro.
Durante la discussione in Giunta, uno dei più efficaci era stato il senatore Mario Michele Giarrusso.
Ora anche Berlusconi sembra marginale: ci sono cose più importanti di cui parlare, garantiscono.
Per esempio il ritiro, grazie alla loro opposizione, di un emendamento Pd che intendeva dare un milione di euro l’anno ai partiti per i loro archivi.
Tutto bello, tutto nobile.
Poi però uno si chiede: sì, ma quei 9 milioni o giù di lì di voti? Non li hanno messi in frigo, perchè in Parlamento lottano, ma sembra che a ogni snodo decisivo il M5S ami giocare di rimessa.
Gli ultimi sondaggi li ridanno sopra il 20%, segno che forse hanno ragione loro e che certo non hanno ragione quelli che a marzo li davano già finiti.
Permane, eppure, la sensazione che i 5 Stelle siano bravissimi a combattere le battaglie e perdere le guerre.
È già qualcosa, ma non è abbastanza.
Hanno deciso di andare in tivù, in collegamento o faccia a faccia, comunque lontani dai pollai. C’è chi lo sa fare, come Luigi Di Maio, e chi non lo sa fare, come Paola Taverna.
E c’è chi è bravo a incendiare il dibattito come Alessandro Di Battista.
In un’intervista all’Espresso, alla domanda se i 5 Stelle avessero sin qui commesso errori politici, Di Battista ha risposto senza esibire dubbi: “No”.
Magari (per loro) fosse vero. Ne hanno fatti e ne fanno, regalando alibi industriali proprio a chi odiano sempre più: il Pd.
Ogni volta che potrebbero uscire dall’angolo se ne stanno a guardare, ripetendo poi “Noi l’avevamo detto” quasi compiacendosi dei disastri altrui.
Non vogliono alleanze col Pd, e c’è da capirli, ma neanche propongono rilanci concreti.
Di nomi non ne fanno mai: “Tanto Napolitano non li accetterebbe”, ripetono, dimenticando la differenza tra strategia coerente e duro purismo fighetto.
Basterebbe proporre un governo di scopo, sottoponendo agli altri una lista di alto profilo (Zagrebelsky, Strada, etc): “Ci state o non ci state?”.
Sarebbe sufficiente per fare tana al Pd e dimostrare di essere forza di governo, oltre che di lotta. Ma non lo fanno.
Rivoluzionari in terra sbagliata e adusi all’ortodossia assembleare, dovrebbero forse leggere meno mail di Casaleggio e più scritti corsari di Pasolini.
Andrea Scanzi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 24th, 2013 Riccardo Fucile
CRISI E LIBERALIZZAZIONI: GUADAGNI IN DISCESA LIBERA
La crisi da una parte, le liberalizzazioni dall’altra. Così il reddito dei professionisti italiani è caduto in picchiata negli ultimi due decenni.
I calcoli li ha fatti l’Adepp (l’Associazione degli enti previdenziali privati), nel primo rapporto sulla previdenza privata, riportato da Italia Oggi.
Reddito dimezzato per i notai.
Numeri che raccontano la profonda trasformazione della composizione della ricchezza nel nostro Paese.
Spicca il dato dei notai, professione da sempre associata ad ingenti guadagni e ad alti tenori di vita. In sei anni, mostra il rapporto, il reddito medio dei notai si è più che dimezzato: il repertorio, l’indicatore degli atti registrati, è passato da 129.400 euro a 66.800.
A spingere al ribasso è soprattutto la netta flessione delle compravendite immobiliari, il cui andamento riflette quello del repertorio notarile.
E le liberalizzazioni varate dal governo Monti potrebbero non arrestare la discesa. Entro il 2016, secondo quanto previsto dall’ex presidente del Consiglio, la pianta organica dovrebbe salire dai 5700 notai attuali a 6200.
Avvocati fermi al 1990, ma iscritti triplicati in 20 anni.
Per gli avvocati le lancette dell’orologio si sono fermate 23 anni fa. Dal 1990 il reddito medio, al metto dell’inflazione, non ha subito alcun mutamento.
In questo caso, oltre alla crisi, pesa anche il sensibile aumento degli iscritti alla Cassa forense. Si passa dai 45 076 del 1990 ai 170,106 del 2011. Nella sola Roma, come spesso viene ricordato, ci sono tanti avvocati quanto in tutta la Francia.
Segno meno per architetti e ingegneri. Brutte notizie anche per ingegneri e architetti. Per i primi, dal 2007 il reddito scende da 33.037 a 28.444.
Per i secondi da 27.139 a 22.430. Parallelamente cala sensibilmente anche il volume d’affari medio, da 52.628 a 44.590 per gli ingegneri, e da 37.367 a 30.173 per gli architetti.
Psicologi a 625 euro al mese.
Allarmanti dati che riguardano poi gli psicologi. Un terzo degli psicologi europei risiede in Italia, la metà dei giovani professionisti risultano disoccupati e il livello delle retribuzioni si attesta sui 625 euro al mese.
Gli aumenti.
Non sole cattive notizie però. C’è anche chi , negli ultimi dieci anni, ha visto il proprio reddito aumentare. È il caso delle professioni economiche: dottori commercialisti, ragionieri, e consulenti del lavoro.
Complice la sempre più serrata lotta all’evasione condotta dall’erario e la conseguente crescita di adempimenti, il lavoro negli ultimi anni non è mancato.
Per i ragionieri commercialisti si passa dai 42.833 euro del 2004 ai 52.358 del 2012. Incremento da 57.177 a 63.391 euro invece per i dottori commercialisti.
(da “Huffingtonpost“)
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Settembre 24th, 2013 Riccardo Fucile
LA SCALATA DI TELCO E’ COSTATA 748 MILIONI. MA NEL 2012 HA CHIUSO CON 51,2 MILIARDI DI DEBITI
L’ultimo shopping, da 748 milioni di euro, è stata la scalata, ultimata stanotte, di Telco, la holding che controlla il 22, 4% di Telecom Italia, passando dal 46, 2% al 70% delle azioni.
Ma Telefà³nica, il colosso spagnolo nato nel 1924 come filiale della Itt e privatizzata nel ’97 dall’ex premier popolare Aznar che mise sul mercato il 20,9% che controllava lo Stato, è abituata ad essere protagonista sui mercati mondiali.
Solo nello scorso giugno, con un blitz da 8 miliardi di euro, ha conquistato E-Plus, diventando leader in Germania.
Secondo operatore europeo, primo in America Latina, il colosso spagnolo guidato dal presidente Cèsar Alierta ha però un sacco di debiti: il suo obbiettivo strategico 2013 è quello di ridurlo a 47 miliardi di euro.
Un rosso che nel 2012 è stato pari, con un fatturato di 62, 3 miliardi di euro ed utili netti di 3, 9 miliardi du euro, a 51, 2 miliardi di euro.
Telefà³nica ha 316 milioni di clienti in tutto il mondo.
È ovviamente leader in Spagna, sia nel fisso, che nei cellulari che in Internet, ed offre da tempo la fibra ottica.
Non solo: sta per lanciare il 4G, l’Internet velocissimo per i telefonini.
Gian Antonio Orighi
(da “la Stampa”)
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Settembre 24th, 2013 Riccardo Fucile
CAMBIAMENTI DEGLI ASSETTI PROPRIETARI: NESSUNA DICHIARAZIONE DEL GOVERNO
Il governo del premier Enrico Letta per ora ha scelto la strada del silenzio su Telecom e Alitalia: nessuna dichiarazione nè commento è arrivato finora dal premier o da suoi ministri sulle due vicende che stanno toccando profondamente l’assetto proprietario di due società strategiche dell’industria italiana.
«Il governo si chiama fuori da Alitalia e Telecom», ha detto una fonte governativa interpellata dall’agenzia Reuters all’indomani dell’intesa sulla holding che controlla Telecom e che la farà diventare spagnola e mentre Air France-Klm ha intenzione di prendere parte all’aumento di capitale di Alitalia arrivando al 50%.
PD E PDL: «IL GOVERNO RIFERISCA»
Pd e Pdl, i due partiti maggiori del governo di coalizione, chiedono invece al governo di riferire «al più presto» al Parlamento sulle vicende di Alitalia e Telecom Italia.
«Le vicende contestuali di Alitalia e Telecom rappresentano in modo impietoso l’esito di una lunga catena di errori in gran parte dovuti all’assenza ventennale di una politica industriale e, conseguentemente, alla prevalenza degli interessi privati sugli interessi pubblici», ha detto in una nota Luigi Zanda, presidente dei senatori democratici. «È necessario che il governo venga al più presto in Senato a riferire sul grave declino del sistema industriale italiano che coinvolge due imprese strategiche per i nostri servizi pubblici», ha aggiunto.
Anche Pippo Civati, candidato alla segreteria del Partito democratico, ha sottolineato: «Quella di Telecom è la prima delle privatizzazioni all’italiana di cui parla Letta? Cedere pezzi significativi del Paese per mantenere in piedi “questa” classe dirigente, pubblica e privata? Perdere il controllo di occupazione, ricerca e sviluppo in settori strategici mentre quelli tradizionali vanno a picco?».
Dall’altra parte dello schieramento, il capogruppo del Pdl alla Camera Renato Brunetta ha commentato: «Sulla vendita di azioni Telco alla società spagnola Telefonica e sul conseguente nuovo assetto di controllo di una delle imprese chiave per lo sviluppo del nostro Paese, Telecom Italia, serve un quadro dettagliato per esprimere qualsiasi giudizio ma è evidente che è proprio la mancanza di dettagli e di chiarezza che alimenta le preoccupazioni».
LE CONSEGUENZE PER L’INDUSTRIA ITALIANA
Telecom Italia è al centro di un’operazione della spagnola Telefonica, che si appresta a salire al 66% della controllante Telco, per un esborso di 324 milioni di euro, per il momento senza aumentare i diritti di voto, ma che potrebbe arrivare secondo gli accordi al 100%, una volta ottenute le necessarie autorizzazioni dell’Antitrust.
«Cosa cambierà con i due terzi del capitale Telco in mano agli spagnoli? Ci saranno ancora le risorse per gli investimenti e per lo sviluppo dei servizi? A che punto è il progetto di scorporo della rete fissa e quali sono le prospettive del settore in Italia?», ha chiesto Brunetta, sollecitando un intervento dello stesso premier.
INTERESSE NAZIONALE
Air France-Klm potrebbe invece salire al 50% del capitale di Alitalia, di cui detiene attualmente il 25%, e il governo italiano ha già detto che non porrà alcun veto in proposito.
«La vicenda Alitalia conferma la sciagurata disinvoltura con cui nel 2008 sono stati buttati al vento cinque miliardi di euro dal Governo Berlusconi», ha detto ancora Zanda nel comunicato.
«Il caso Telecom è, sotto il profilo dell’interesse nazionale, ancora più serio. L’Italia sta perdendo il controllo di una grande società che, prima di essere privatizzata (nel 1997) era all’avanguardia tecnologica, non aveva debiti ed era in grado di crescere in Italia e nel mondo».
I SINDACATI: «A RISCHIO 16MILA POSTI» –
La questione Telecom spaventa molto anche i sindacati. A rischio, secondo le stime di Michele Azzola della Slc Cgil, ci sono fino a 16mila posti.
Di fronte a questo scenario il Governo «ha il compito di convocare subito le parti sociali e Telefonica per conoscerne il piano e valutare l’utilizzo della golden share prevista dall’articolo 22 dello Statuto di Telecom».
Quella con Telefonica «è la prima operazione – spiega Azzola – che consegna agli stranieri un gruppo strategico italiano. Un’operazione mai avvenuta in nessun Paese occidentale».
Il rischio è, secondo le sigle di settore, che Telefonica adotti per Telecom lo stesso modello di esternalizzazione del Call center e dell’Information Technology che ha usato in casa propria. Il Governo, aggiunge il segretario confederale della Cisl Annamaria Furlan, «deve attivare subito un tavolo per capire cosa intende fare perchè la proprietà della rete non sia esclusivamente di un’azienda spagnola».
(da “il Corriere della Sera“)
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