Settembre 23rd, 2013 Riccardo Fucile
IL PRIMO GRUPPO TELEFONICO ITALIANO FINIRA’ SOTTO IL CONTROLLO DEL LEADER IBERICO DELLE TELECOMUNICAZIONI
Per capire che cosa significhino espressioni come “l’Italia è un Paese in declino”, “vige un capitalismo asfittico e di relazioni”, basta ripercorrere le vicende di Telecom Italia.
Oggi si guarda alla prossima scadenza del patto tra gli azionisti di Telco, la holding che controlla Telecom, e al consiglio di amministrazione del 3 ottobre, come all’inizio di una nuova era. Eppure, quindici anni di lenta agonia suggeriscono scetticismo e, forse, rassegnazione.
LA MADRE DI TUTTE LE PRIVATIZZAZIONI
Telecom Italia nasce con la privatizzazione del 1997 voluta dal governo Prodi. E parte con un difetto d’origine: uno Stato dirigista o, ancor peggio, che vorrebbe esserlo, ma non ne è capace. A prescindere dal colore dei governi.
Così le privatizzazioni si fanno solo per far cassa e perchè lo impone l’ingresso nell’euro. Pertanto Telecom viene collocata come un monopolio integrato, perdendo l’occasione per creare concorrenza in un settore agli albori della liberalizzazione e nella sua fase di massima crescita.
Ma il Tesoro riesce ad incassare 12 miliardi di euro per il 42%, più di quanto oggi valga l’intera società .
E si perde l’occasione per promuovere il mercato dei capitali, perchè lo Stato vuole pilotare il controllo in mani amiche.
Si sceglie l’approccio del nocciolo duro, con Agnelli primo azionista (e un investimento risibile, come d’abitudine) e Guido Rossi presidente. Per facilitargli il controllo, non si convertono le azioni di risparmio (senza diritto di voto), sopravvissute fino a oggi.
Cambiano i vertici: Rossignolo e poi Bernabè (l’attuale presidente, non suo figlio).
Ma l’interesse dei nuovi azionisti privati è solo di incassare il dividendo della rendita monopolistica. E l’azienda rimane un pachiderma sonnacchioso e pieno di soldi.
I CAPITANI CORAGGIOSI
L’avvento dell’Euro, nel 1999, elimina la barriera del rischio di cambio, spalancando all’Italia le porte del mercato internazionale dei capitali.
Cade così uno dei principali vincoli strutturali alla crescita nel nostro Paese: fino ad allora, il risparmio nazionale era obbligatoriamente incanalato verso il finanziamento del debito pubblico; e poichè il rischio lira scoraggiava l’ingresso degli stranieri, i gruppi italiani dovevano operare in uno stato di razionamento dei capitali, dal quale Mediobanca, che agiva da surrogato al mercato finanziario, traeva la propria forza.
Con l’Euro tutto questo finisce. Colaninno & Co. sono rapidi a sfruttare questa opportunità , e raccogliere all’estero gli ingenti prestiti necessari a lanciare un’Opa su Telecom.
Quello che poteva essere l’inizio di un mercato dei capitali efficiente, dove il controllo delle aziende va a chi è più bravo a gestirle, scardinando dirigismo e capitale di relazioni, e permettendo ai gruppi italiani di crescere in competizione con quelli stranieri, si trasforma presto in una cocente delusione: invece di fondere holding e società operative create per scalare Telecom, concentrarsi sulla gestione industriale e ripagare l’enorme debito contratto, i capitani coraggiosi si comportano da vecchi capitalisti nostrani, perpetuando la lunga catena societaria creata con l’Opa per valorizzare il premio di controllo nella holding Bell (lussemburghese, naturalmente).
La preoccupazione resta il controllo, con il minimo dei capitali e il massimo del debito.
Ma la bolla della dot.com scoppia, e con essa le valutazioni insensate che il mercato attribuiva alle telecomunicazioni.
Per Colaninno & Co. è un brusco risveglio: il valore di Telecom crolla, ma i debiti rimangono; e i creditori bussano alla porta. In Italia, però, c’è sempre qualcuno pronto a strapagare il controllo (coi soldi di banche amiche) pur di soddisfare voglie di impero.
LA VOGLIA DI IMPERO DI TRONCHETTI
Liquido perchè baciato dalla fortuna durante la bolla Internet, Tronchetti Provera vede nelle difficoltà dei capitani coraggiosi l’occasione per costruire il proprio impero. Ma l’ambizione acceca.
Nel 2001 strapaga il controllo di Telecom; naturalmente il premio va alla Bell (quasi tax free), non al mercato come da italica abitudine.
E perpetua gli errori di Colaninno & Co., esercitando il controllo con una catena societaria ancora più lunga (Olimpia al posto di Bell, più Pirelli, Camfin eccetera), e ancora più debito, ovviamente con il sostegno di Intesa e Unicredit, socie in Olimpia.
Poi infila una serie incredibile di errori.
Per far fronte ai debiti vende tutte le attività che la Telecom dei capitani coraggiosi aveva acquistato all’estero, in mercati a forte crescita (unica decisione giusta); salvo poi accumularne di più per fondere Tim con Telecom, puntando prevalentemente sulla telefonia mobile in Italia: un mercato in via di saturazione, a bassa crescita e sempre più concorrenziale.
E non investe nella banda larga, perdendo il treno di Internet.
Così, nel 2006, Tronchetti si trova nella stessa situazione di Colaninno & Co. nel 2001: il valore di Telecom in calo irreversibile; troppo debito; e i creditori alla porta.
Ma questa volta non c’è un altro aspirante imperatore in Italia, così Tronchetti cerca di vendere agli americani di AT&T o al messicano Slim. Orrore!
L’OPERAZIONE DI SISTEMA
In Italia, come nel gioco dell’oca, ogni tanto si torna al via.
Nel 2006, Prodi è nuovamente al Governo e il sempreverde animo dirigista impone la salvaguardia di una azienda “strategica per il paese”.
Se però il mercato dei capitali non funziona (meglio, non lo si crea) e l’Europa impedisce allo Stato di intervenire, ci si inventa “l’operazione di sistema”.
Al comando torna Guido Rossi (quello del 1997), con il compito far uscire indenne Tronchetti e creare un patto per mantenere il controllo in mani italiane.
Ancora una volta, prioritari sono debito, controllo e relazioni con il Governo: le prospettive del settore, e quale sia il modo migliore per valorizzare l’azienda, sono aspetti marginali.
Chi allora meglio di Banca Intesa, autoproclamatasi banca di sistema, insieme al salotto buono di Mediobanca e Generali, per un’operazione di sistema gradita al Governo?
Con la spagnola Telefonica, comprano il controllo da Olimpia, rinominata Telco (senza che il mercato veda un euro), facendo uscire Tronchetti prima che l’avventura Telecom lo porti al dissesto. E finanziano l’operazione a debito. Nulla cambia nella struttura finanziaria (troppo debito) e proprietaria (controllo in una holding fuori mercato).
Telefonica è straniera, ma non conta: la Spagna ha un capitalismo come il nostro e ci si intende. E poi ha una quota di minoranza.
Ma in questo modo le si concede di fatto un diritto di prelazione sul controllo futuro, magari a prezzo di saldo.
Infatti sembra che oggi Intesa, Mediobanca e Generali, non potendo più permettersi le perdite che le operazioni di sistema inevitabilmente generano, stiano cercando di vendere a Telefonica la loro quota in Telco (naturalmente fuori mercato); a una frazione di quanto avrebbero incassato cinque anni fa. Come con Air France in Alitalia, o Edf in Edison: le operazioni di sistema non mi sembrano capolavori di astuzia.
LA LENTA AGONIA
Nel 2007, il comando torna a Bernabè (quello del 1998).
Da allora sfoglia la margherita. Il debito è rimasto quello di 13 anni prima, ma i ricavi dalla telefonia in Italia, dove l’azienda è concentrata, sono in declino irreversibile e non generano cassa bastante a rimborsarlo.
Ci vorrebbe un forte aumento di capitale, ma i soci non hanno soldi. Anzi, vogliono uscire. E, in ogni caso, non si saprebbe come remunerarlo adeguatamente.
Non si può vendere Tim per consolidare un mercato nazionale troppo frazionato perchè evidenzierebbe una perdita colossale derivante dall’abbattimento del valore dell’avviamento a bilancio.
Vendere il Brasile, che pure è ai massimi, significherebbe fossilizzarsi in un mercato in declino. Non ci sono i soldi per investire nella rete e ci sarebbero problemi a remunerare gli investimenti anche perchè la regolamentazione impone di spartirne la redditività con i concorrenti.
Nè si può venderla, perchè la Cassa depositi sarebbe il solo compratore accettabile per il governo: una sorta di nazionalizzazione antistorica e impraticabile; e Telecom perderebbe l’asset con le migliori prospettive.
Fare l’azienda a pezzi e offrirli sul mercato globale al migliore offerente, approfittando dell’attuale ondata di fusioni e acquisizioni nel mondo equivarrebbe, nella lingua italiana, a una bestemmia.
IL MORTO CHE CAMMINA
Non capisco la frenetica attesa con cui si attende la fine del patto in Telco a fine settembre e l’ennesimo “nuovo piano industriale” (quanti ne sono stati presentati?) nel consiglio del 3 ottobre. Non può essere risolutivo perchè il problema, ancora una volta, non è una questione prettamente finanziaria, di controllo, o di chi sia al vertice; ma di un’azienda priva di prospettive, ancorata a un paese senza crescita, incapace di stare al passo con i rapidi e repentini cambiamenti del settore.
Definire Telecom un morto che cammina, ridotto in questo stato da una vicenda che è lo specchio delle storture del Paese, sembra quasi un eufemismo.
Alessandro Penati
(da “La Repubblica“)
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Settembre 23rd, 2013 Riccardo Fucile
“NON CI RICONOSCIAMO PIU'”: DOPO LA LITE SUL “MEGAFONO”, LA LISTA PERSONALE DEL GOVERNATORE, ORA A PESARE E’ IL RIFIUTO AL RIMPASTO OPPOSTO DA CROCETTA
Si sono riuniti all’hotel che fu dei fratelli Graviano, il San Paolo Palace di Brancaccio, per mettere le carte in tavola e definire finalmente i rapporti che legano il Partito democratico al governatore della Sicilia Rosario Crocetta.
E mentre a Roma l’assemblea nazionale si è infiammata, a Palermo il responso è stato univoco: il Pd ha scaricato la giunta regionale guidata dell’ex sindaco di Gela.
“Noi non ci riconosciamo più nell’azione del governo Crocetta, non ci sentiamo più vincolati a sostenere l’azione di un governo che sta commettendo errori gravi che si ripercuoteranno sui siciliani: da adesso, valuteremo provvedimento per provvedimento e atto per atto” è stato il de profundis recitato all’assemblea siciliana dei democratici dal segretario regionale Giuseppe Lupo.
Per Crocetta dunque è scattata l’ora X della crisi di governo: da domani dovrà governare senza l’appoggio del suo partito.
“Il governo Crocetta ha un’idea politica diversa dal partito. Gli assessori in giunta ormai, dopo quello che è successo, non possono più considerarsi rappresentanti del Pd: traggano le loro conclusioni” ha rincarato la dose Antonello Cracolici, in passato sostenitore dell’alleanza con Raffaele Lombardo, e ora principale oppositore del governatore.
Crocetta ha preferito non intervenire all’assemblea, annunciando di voler seguire le condizioni degli uomini della sua scorta, coinvolti in un incidente automobilistico alcuni giorni fa.
“Mi aspettavo una visita da parte loro. Un atto fatto col cuore, di amore. Ma la politica lo conosce il linguaggio del cuore?’ — ha replicato il presidente da Catania — Per me si continua il programma che è stato concordato con il popolo siciliano. Io non mi faccio condizionare da alcuno e non sarò il pupo di alcuno”.
La decisione del Pd di mollare il presidente arriva dopo un’estate infuocata: sul banco degli imputati era finita la decisione di Crocetta di creare Il Megafono, il suo movimento personale.
Una lista che non è stata digerita dai democratici perchè sottrarrebbe voti proprio al Pd.
E non è un caso se l’ultimo sodale rimasto a Crocetta è proprio il senatore Beppe Lumia, anche lui ex sostenitore dell’alleanza del Pd con Lombardo, e oggi rieletto a Palazzo Madama proprio nella lista del Megafono, senza quindi dover passare dalle primarie.
“Questo è il primo presidente della Regione di cui non dobbiamo vergognarci” è stato l’intervento di Lumia in difesa di Crocetta, mentre dalla platea parecchi abbozzavano un sorriso: “E Mattarella dove lo mettiamo” ricordava qualcuno ridacchiando.
Il Pd non ha digerito soprattutto l’opposizione netta di Crocetta ad un rimpasto: in giunta sono rimasti soltanto assessori tecnici di area politica, ma nessun parlamentare o politico di ruolo è stato accolto dal governatore, come invece avevano chiesto dalla maggioranza.
“Non è vero che noi puntiamo solo alle poltrone — ha smentito Lupo — ma mi ha fatto molto male leggere che il presidente, che si considera un condannato a morte dalla mafia, abbia ventilato l’ipotesi che il Pd potesse lasciarlo da solo su questo tema. È un’offesa a un partito da sempre in prima fila nella lotta all’illegalità ”.
Ad ascoltarlo proprio dalle prime file della platea c’erano attentissimi Nino Papania e Mirello Crisafulli, i due ex parlamentari nazionali cancellati dalle liste del Pd alle ultime elezioni politiche dopo l’appello di Franca Rame contro gli impresentabili.
E l’unico che non sembra deluso da Crocetta sembra essere proprio Crisafulli. “Io deluso dall’assenza di Crocetta? E perchè mai? Io sono qui per parlare col mio partito. Crocetta fa parte del Megafono, come è evidente, visto che fa anche le feste…” sibilava l’ex deputato, che aspettando l’inizio dell’assemblea si è adagiato su una panchina scrutando da lontano i vari compagni di partito che arrivavano alla chetichella.
Poche ore dopo avrebbero puntualmente scaricato Crocetta.
Dopo decenni di strapotere del Pdl e della destra, dopo l’appoggio al governo di Raffaele Lombardo, il Pd in Sicilia è imploso appena 11 mesi dopo la storica vittoria delle elezioni regionali.
Giuseppe Pipitone
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Settembre 23rd, 2013 Riccardo Fucile
PER FARLO EMERGERE BASTEREBBE IMPORRE PAGAMENTI TRACCIABILI
L’ultimo blitz è scattato, come nella migliore tradizione, in piena estate, quando mezza italia è sotto l’ombrellone.
Martedì 6 agosto due senatori del Popolo delle libertà , Cinzia Bonfrisco e Antonio D’Alì, hanno presentato un emendamento al cosiddetto decreto “del fare” per rialzare a 3.000 euro la soglia sull’utilizzo del denaro contante, che Mario Monti aveva fissato a quota mille.
Il governo ha espresso parere contrario e la proposta è stata bocciata.
Ma, c’è da scommetterci, l’argomento tornerà presto a far capolino nelle aule parlamentari, perchè la massima libertà nell’uso del cash è un pallino di Silvio Berlusconi & Co.
E una mano santa per il partito degli evasori fiscali più incalliti
A fare da apripista, il 2 luglio, era stato non a caso un altro esponente del Pdl: il sottosegretario allo Sviluppo Economico, Simona Vicari, molto cara al presidente dei senatori berlusconiani, Renato Schifani.
«Così com’è oggi, la soglia rappresenta una camicia di forza ai cittadini e frena la ripresa e la crescita in tutti i settori», aveva cinguettato.
Aggiungendo che la sua idea incontrava il favore del ministro, il Pd Flavio Zanonato (che pur essendo piuttosto loquace era rimasto muto come un pesce).
Così aveva concluso la Vicari: «Bisogna rivedere la legge senza pregiudizi e furori ideologici (…) autorevoli studi e pubblicazioni dimostrano che sulla lotta al riciclaggio e all’evasione fiscale la riduzione della soglia di circolazione del contante non ha effetti decisivi».
Quali tomi abbia compulsato la Vicari resta un mistero.
Perchè che il sommerso viva di nero e il nero si nutra di contante lo sanno anche i bambini. Tanto che un altolà era arrivato a stretto giro di posta dalla Corte dei Conti.
La magistratura contabile aveva detto che il tetto all’uso del denaro liquido andava sì cambiato, ma per abbassarlo ulteriormente.
«È intuibile come la gran parte delle transazioni che possono dar luogo all’occultamento dei ricavi si addensi al di sotto della soglia dei mille euro», si legge in una relazione presentata dieci giorni dopo dal presidente, Luigi Giampaolino.
La battaglia sull’uso del contante (che oggi, paradossalmente, è esentasse, al contrario di assegni, cambiali e conti correnti, tutti colpiti da un bollo) non è cominciata ieri.
Nel 2007, un anno dopo aver vinto le elezioni, Romano Prodi ha abbassato il tetto da 12.500 a 5.000 euro.
E stabilito, con il decreto Bersani-Visco, un ulteriore dècalage per i soli professionisti: la soglia sarebbe dovuta scendere a 1.000 euro nel luglio 2007, a 500 un anno dopo e addirittura a 100 euro (lo stesso limite oggi in vigore in Germania) nell’estate del 2009.
Il piano è però rimasto sulla carta. Perchè a palazzo Chigi è arrivato Silvio Berlusconi. E Giulio Tremonti, l’ex superministro dell’Economia che pagava in contanti la metà dell’affitto dell’appartamento romano al suo più stretto collaboratore (e coinquilino) Mario Milanese, lesto ha ripristinato il limite dei 12.500 euro (giugno 2008).
Salvo poi essere costretto dalla crisi della finanza pubblica a dare, suo malgrado, un giro di vite nella lotta all’evasione fiscale, riportandolo a 5.000 (maggio 2010) e poi a 2.500 (agosto 2011).
Quindi il Cavaliere ha dovuto passare la mano a Monti, che dopo aver accarezzato l’idea di scendere a 500, ha poi invece stabilito, con l’articolo 12 del decreto “Salva Italia” (dicembre 2011), la quota attuale di mille euro.
UN TESORO INCALCOLABILE
La partita è sempre aperta. Del resto, la posta in palio è un tesoro immenso: il sommerso.
«Si tratta», come scrive con semplicità il tributarista e collaboratore del “Sole 24Ore” Ernesto Maria Ruffini nel suo “L’evasione spiegata a un evasore”, «di tutte quelle attività economiche che non sono misurate dalle statistiche ufficiali: alcune intenzionalmente, come il volontariato o il lavoro domestico; altre perchè nascoste, come le attività criminali o l’evasione fiscale».
Quasi per definizione, quanto sia esattamente il sommerso è impossibile sapere.
Il documento conclusivo del Gruppo di lavoro su economia non osservata e flussi finanziari, guidato dall’attuale ministro del Lavoro e delle politiche sociali, Enrico Giovannini, nel 2011 aveva stabilito per il valore aggiunto prodotto dall’area del sommerso economico una forchetta tra il 16,3 e il 17,5 per cento del prodotto interno lordo.
In soldoni, tra i 255 e i 275 miliardi di euro (dato 2008), ben nascosti nei fatturati dell’agricoltura (32,8 per cento del totale), del terziario (20,9 per cento) e dell’industria (12,4). I numeri di Giovannini coincidono con quelli di un rapporto dell’ufficio studi della Confcommercio ancora fresco di stampa, essendo datato luglio 2013.
Nel documento si parla di un sommerso pari al 17,4 per cento, che su un Pil stimato per il 2013 a 1.563 miliardi di euro fa 272 miliardi.
Ma il professor Friedrich Schneider dell’Università di Linz, guru mondiale della materia, che misura l’economia sommersa osservando proprio l’utilizzo del denaro contante, ha diviso gli Stati dell’Ocse in tre gruppi.
Mettendo l’Italia, insieme a tutti i Paesi mediterranei e al Belgio, in quello dove ciò che non risulta dalle statistiche sta tra il 20 e il 30 per cento.
Saremmo insomma come minimo al di sopra dei 300 miliardi, come del resto avvalorano stime basate su dati Eurosat, che parlano di 330 miliardi.
E che a loro volta non si discostano da quelle dell’istituto di geopolitica texano Stratfor Global Intelligence: gli analisti guidati dal politologo George Friedman indicano una forchetta tra il 17 e il 21 per cento del Pil, cioè tra i 270 i 340 miliardi (dati 2012).
Ma c’è chi va ancora oltre.
È il caso di uno studio del 2012 targato Eurispes (“L’Italia in nero-riflessioni sull’economia sommersa”), che si spinge a ipotizzare un nero pari a quasi 530 miliardi. Una cifra che si avvicina a quella (575 miliardi) del totale delle venti manovre economiche varate negli ultimi dodici anni dai governi di turno. In ogni caso, chiunque abbia ragione sui conti, si tratta di una situazione del tutto fuori controllo, se solo si pensa che il fenomeno è valutato al 6,7 per cento in Gran Bretagna, al 5,3 negli Stati Uniti, al 3,9 in Francia e addirittura allo 0,3 in Norvegia.
Ed è a causa del sommerso che la pressione fiscale effettiva, quella cioè che grava sui contribuenti onesti, è arrivata al 54 per cento, quasi dieci punti più in alto di quella teorica (44,6 per cento).
ALLO SPORTELLO 343 MILIARDI
Le cifre in discussione sono dunque tali da far apparire ridicolo il balletto in corso sulla manciata di miliardi (quattro) che il governo dovrebbe racimolare per tagliare l’Imu.
Il recupero (almeno in parte) del malloppo nascosto è però possibile solo se si mette un freno alla circolazione delle banconote, obbligando da un lato, e incoraggiando dall’altro, chi acquista beni e servizi a utilizzare strumenti di pagamento tracciabili.
Scrive Schneider in “The shadow economy in Europe” (2013) che la rilevanza dell’economia sommersa sul prodotto interno lordo degli Stati dell’Unione europea diminuisce all’aumentare del numero di transazioni effettuate tramite carte di pagamento.
Il che è certamente vero. Come lo è anche che il sommerso aumenta quando circolano più banconote. «Grecia e Italia sono i Paesi europei che mostrano i prelievi di contanti di importo medio più elevato (rispettivamente 250 e 175 euro) e contestualmente», nota su lavoce.info l’economista del Centro Europa Ricerche Carlo Milani, «hanno la più alta incidenza dell’economia sommersa sul Pil»
Ma sul fronte dei sistemi di pagamento l’Italia ha accumulato un ritardo drammatico. Un paper della Banca d’Italia, datato novembre 2012 e intitolato “Il costo sociale degli strumenti di pagamento”, dice che da noi il contante viene usato nell’82,7 per cento delle transazioni, contro una media dell’Europa a 27 del 66,6 cento.
Il ricorso alla carta di pagamento è fermo a quota 6,4 per cento (contro il 13,2 dell’Europa a 27). Anche perchè da noi di carte ce ne sono di meno: 1,2 per abitante, secondo un report di Datamonitor, contro la media Ue di 1,5, che nasconde picchi di 2,4 in Gran Bretagna e di 1,8 in Olanda e Belgio.
Risultato: secondo i dati dell’Istituto per la competitività nel 2011 in Italia sono stati effettuati pagamenti con carte di credito o di debito (il Bancomat) per 122 miliardi, pari all’8 per cento del Pil. In Francia la cifra raggiunge i 393 miliardi (19,6 per cento del Pil) e in Gran Bretagna i 578 miliardi (33,1 per cento).
Un po’ di italiani tiene pure la carta in tasca, ma al momento di pagare il conto preferisce tirare fuori denaro frusciante, magari su richiesta dell’esercente: i calcoli della Bce dicono che il 31 per cento dei compratori estrae un fascio di banconote anche quando deve regolare conti per importi compresi tra 200 e 1.000 euro.
Se poi lo scontrino (quando c’è) è sotto i 50 euro, a pagare in contanti è il 98 per cento degli italiani, percentuale che scende solo al 93 quando la cifra è compresa tra i 50 e i 100 euro (Rapporto Ipsos, giugno 2012)
Secondo i calcoli di Bank for International Settlements, nel 2008 in Italia le operazione pro capite con carta erano ferme a quota 24,5, contro una media per l’area euro di 57 e un picco di 124,5 per la Gran Bretagna (gli Stati Uniti erano a 191,1).
Poi la situazione è migliorata, ma non il divario con i grandi paesi. Nel 2011, dice la Guardia di Finanza, l’Italia era salita a 68 operazioni cashless pro capite, ma nel frattempo l’area euro era arrivata a quota 182, la Francia a 255, la Gran Bretagna a 257 e l’Olanda addirittura sopra le 300.
Lo stesso vale per i Bancomat, utilizzati molto più per prelevare contante (oltre 160 miliardi nel 2012) che per pagare i negozianti (le operazioni sui Pos, i terminali elettronici, risultano ferme a 73 miliardi).
Si legge nel rapporto annuale dell’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia che nel 2011 il totale di prelievi e versamenti è ammontato a 343.356 milioni di euro.
QUINDICI MILIARDI DI BIGLIETTI
Se non fossimo in un Paese che ha un’evasione fiscale da Guinness dei primati e che risulta al venticinquesimo posto su 26 (preceduto da Messico, Slovenia e Grecia) nella classifica sulla diffusione di pagamenti irregolari e tangenti elaborata dalla Confcommercio su dati del World Economic Forum e della Banca mondiale, l’uso della moneta elettronica converrebbe a tutti. In primo luogo perchè, anche se pochi ne sono consapevoli, il contante ha un costo sociale (cioè per il sistema economico nel suo complesso) molto elevato.
Bisogna infatti produrlo, trasferirlo in sicurezza e custodirlo: e non è proprio uno scherzo, se la Guardia di Finanza ha calcolato che nel 2011 circolavano sul territorio nazionale 15 miliardi di banconote, per un controvalore di 870 miliardi di euro.
Secondo la Bce per il denaro l’Europa a 27 spende lo 0,46 del suo prodotto interno lordo, pari a 60 miliardi. E l’Italia, dove i biglietti di banca sono più diffusi che altrove, per palazzo Koch sborsa da sola 8 miliardi (10 in base al rapporto 2011 di Cap Gemini), lo 0,52 per cento del Pil (contro una media europea dello 0,40).
Che vuol dire 133 euro pro capite (senza prendere in considerazione le rapine subite dai privati). La moneta elettronica invece, rendendo il circuito economico più efficiente, aiuta la crescita.
Uno studio del 2013 di Moody’s Analytics sostiene che le carte di pagamento hanno generato a livello mondiale una maggior crescita di 983 miliardi di dollari e due milioni di posti di lavoro tra il 2008 e il 2012, dando una spinta dello 0,3 per cento alle economie mature e dello 0,8 per cento a quelle in via di sviluppo.
Restando alla sola Italia, l’Istituto per la competitività , elaborando i dati di Eurostat, della Bce e del professor Schneider, ha calcolato che se ogni italiano riducesse di 15 euro i prelievi medi che effettua al Bancomat ci sarebbe una diminuzione dell’economia sommersa in grado di garantire un maggior gettito di 9,8 miliardi. E che se ci fossero in circolazione dieci milioni di carte in più (incremento inferiore a quello registrato tra il 2006 e il 2011) si avrebbe un calo del sommerso tale da far incassare al fisco 5 miliardi in più.
Il combinato disposto dei due fattori darebbe insomma quasi quattro volte la somma necessaria a sopprimere l’Imu.
E un documento dell’Ufficio analisi economiche dell’Abi va ancora oltre: per i banchieri un aumento di dieci punti percentuali delle famiglie dotate di carta farebbe riemergere 10 miliardi. E se a dotarsi del tesserino di plastica fossero proprio tutte i nuclei familiari la cifra salirebbe a 40 miliardi.
QUELLI CHE CI MARCIANO
Chi compra usando la carta ha solo vantaggi: a partire dal fatto di non rischiare di smarrirlo o farselo rapinare (la sicurezza è il principale driver al ricorso ai pagamenti elettronici, come dice uno studio del 2012 di Hall & Partners).
Se poi l’acquirente usa la carta di credito sosterrà materialmente l’esborso solo in un secondo tempo e senza pagare interessi.
Ma chi ci guadagna in maniera più consistente, come dimostra un recente studio di Edgar Dunn & Co., è l’esercente, che vende di più, risparmia sui costi di gestione del contante, ed è garantito dalle banche.
I conti dicono che il valore aggiunto derivante dall’uso delle carte è pari al 7,8 per cento dell’ammontare delle transazioni effettuate con questi strumenti. Mentre il costo complessivo si ferma al 3,4 per cento. Insomma il negoziante (o il ristoratore o il parrucchiere) ha tutto da guadagnarci
E infatti è lui a finanziare con la quota maggiore il sistema che deve garantire la remunerazione delle due banche parte del business: la sua (che trattiene una commissione) e quella del compratore, che si fa girare dalla prima una parte della commissione stessa per aver dato la sua garanzia sull’importo dovuto dall’acquirente.
Se dunque l’esercente non si dota del Pos, sostenendo che il sistema è troppo caro, c’è una sola spiegazione logica: non ha alcuna intenzione di far sapere al fisco che ha incassato quella somma.
Cosa che diventa molto rischiosa se accetta un pagamento tracciabile. Il resto sono solo balle. Come quella di chi sostiene che in Italia si usano poco le carte perchè la popolazione è più anziana che altrove: la Germania ha la stessa quota di ultrasessantacinquenni (il 20 per cento) e il doppio dei tesserini magnetici.
SOSTIENE IL GOVERNO
Il problema vero è dunque l’evasione fiscale.
E i milioni di voti che la lotta nei suoi confronti può spostare e senza i quali non si vincono le elezioni.
Un fattore che pesa, sia pure in misura molto diversa, in tutti i Paesi. E infatti i politici su questo fronte traccheggiano a ogni latitudine.
In Italia il governo Monti aveva promesso di intervenire, regolamentando le commissioni bancarie a carico dei commercianti. Si era parlato di un provvedimento del ministero dell’Economia concertato con quello dello Sviluppo Economico, sentite la Banca d’Italia e l’Antitrust, che a gennaio scorso ha espresso il suo parere.
Quattro paginette dove si invoca maggiore trasparenza e dunque concorrenza.
Dalla lettura del documento dell’Authority si capisce chiaramente che l’esecutivo è sceso a più miti consigli: stando alla bozza, che risale a diversi mesi fa, il decreto non interviene sulla commissione pagata dall’esercente al proprio istituto di credito, ma si limita a stabilire che non debba mai salire quella interbancaria (in genere tra lo 0,6 e lo 0,7 per cento, con punte dell’1 per cento).
Una mezza pagliacciata, insomma.
Per giunta sparita in qualche cassetto del nuovo governo. Nè più incisiva appare l’iniziativa strombazzata nei giorni scorsi dalla Commissione europea.
A Bruxelles hanno approvato una proposta di regolamento in base alla quale scatterebbe un tetto alle commissioni interbancarie dello 0,2 per i Bancomat e dello 0,3 per le carte di credito. Uno sconto a favore della banca del commerciante, che potrebbe (e non dovrebbe: e c’è una bella differenza) trasferirlo alla tariffa applicata al suo cliente: se anche lo facesse per l’intera somma (e quando mai) si tratterebbe di una limatura della commissione di mezzo punto percentuale.
Nel caso italiano, significherebbe offrire uno sconto dello 0,5 per cento a un gioielliere, per esempio, che se invece si fa pagare in contanti e non mette gli importi nella sua dichiarazione dei redditi risparmia il 23 per cento sui primi 15 mila euro e il 27 sui successivi 3 mila (in media la categoria sta, scandalosamente, a quota 18 mila). Da ridere, insomma.
IN REALTA’ UNA SOLUZIONE SEMPLICE CI SAREBBE
L’hanno sperimentata, all’inizio degli anni Duemila, nella Corea del Sud.
Dove prima hanno imposto un tetto al contante equivalente a 42 dollari. Poi hanno concesso ai titolari di carta che la utilizzavano per gli acquisti e si prendevano la briga di conservare la ricevuta uno sconto fiscale (che per giunta garantiva la partecipazione a una lotteria) fino a un massimo di 4.200 dollari l’anno o del 20 per cento del reddito.
E ribassato del 2 per cento l’Iva ai commercianti che dimostravano di aver incassato tramite Pos. Ha funzionato.
Algebris Investments ha studiato il caso. E sulla base di dati della Myongji University si è presa la briga di calcolare che quelle semplici misure hanno ridotto il sommerso di cinque punti in percentuale sul Pil.
Da noi vorrebbe dire recuperare d’un colpo 20 miliardi di gettito fiscale.
Stefano Livadiotti
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Settembre 23rd, 2013 Riccardo Fucile
IL POSTO LASCIATO SCOPERTO DA LUPI POTREBBE ANDARE AL VICEPRESIDENTE DEL GRUPPO PDL… SU DI LUI C’E’ L’ACCORDO CHE ERA MANCATO A LUGLIO PER LA PITONESSA
La ‘pitonessa’ Daniela Santanchè, fedelissima di Silvio Berlusconi, potrebbe sacrificare sull’altare della nuova Forza Italia la sua candidatura a vicepresidente della Camera, la carica lasciata vacante da Maurizio Lupi cinque mesi orsono, per ricoprire l’incarico di ministro dei Trasporti del governo Letta.
L’indiscrezione è stata pubblicata sulla versione online di Europa, giornale del Partito democratico.
Secondo il quotidiano, l’idea di proporre alla vicepresidenza di Montecitorio Simone Baldelli – 43 anni, già vicepresidente del gruppo pidiellino alla Camera – sarebbe venuta in mente a Renato Brunetta, presidente dei deputati Pdl.
Baldelli, scrive Europa che ne traccia una breve biografia, sarebbe stato scelto al posto della Santanchè, la cui corsa ad una delle poltrone di vertice della Camera aveva provocato, l’estate scorsa, una spaccatura della maggioranza per il fermo no opposto dal Pd alla sua candidatura e dello stesso Pdl, lacerato tra i “falchi” — di cui la “pitonessa” è uno degli esponenti più agguerriti — e le colombe.
La decisione di rinviare l’elezione del vicepresidente della camera in quota Pdl a dopo l’estate era stata infatti assunta dalla conferenza dei capigruppo di Montecitorio il 2 luglio.
L’assemblea di Montecitorio è chiamata a votare mercoledì mattina per la vicepresidenza.
Nelle ultime settimane, sempre secondo il quotidiano di area dem, per il gioco di veti incrociati all’interno del Pdl nelle ultima settimane sarebbero via via caduti i nomi delle possibili alternative alla Santanchè: Maria Stella Gelmini, Mara Carfagna (ala colombe) e, ultima, Stefania Prestigiacomo (considerata invece una delle “amazzoni” di Berlusconi).
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Settembre 23rd, 2013 Riccardo Fucile
MENTRE LA COOPERAZIONE E’ AL COLLASSO, STORMI DI PROFESSIONISTI CON INDENNITA’ DA DIPLOMATICI VENGONO PAGATI CON I FONDI PUBBLICI
C’è chi scappa dalla Cina per cercar fortuna e chi ha la fortuna di andarci, lavorare 44 giorni e tornare in Italia con 70-80mila euro sul conto.
Pagati dallo Stato, con le risorse destinate all’aiuto per i poveri.
In Parlamento si stracciavano le vesti per il taglio ai fondi della cooperazione allo sviluppo — per poi approvarli con la benda sugli occhi — e dalla Farnesina partivano “esperti” in missione all’estero con costi di cinquecento, anche mille euro al giorno.
Un settore a cui lo Stato destina poche risorse: negli ultimi anni è stato tagliato l’80 percento dei contributi diretti e sono stati chiusi molti uffici, anche con finanziamenti già erogati e progetti ancora in corso.
Le Regioni aspettano per anni di vedersi restituire milioni di euro anticipati come crediti d’aiuto, le Ong a corto di fondi richiamano i volontari, gli uffici tecnici per la cooperazione all’estero chiudono. Ma da Roma vanno e vengono come nulla fosse stormi di consulenti privati pagati a peso d’oro. Saranno bravissimi, sicuro i migliori su piazza. Ma c’è da rimanere a bocca aperta per gli importi, ancorchè lordi e comprensivi di costi assicurativi.
Scorrendo il “quadro missioni” della Direzione Generale per la cooperazione allo sviluppo (Dgcs) c’è il professore di economia da inviare per quattro mesi in Ghana, dove il 28% della popolazione vive sotto la soglia di povertà internazionale di 1,25 dollari, a 70mila euro per svolgere non meglio precisate attività di “supporto privato”.
A un capo progetto che va un anno in Senegal, reddito pro capite non supera i due dollari al giorno, vengono riconosciuti 180mila euro, un appartamento.
Un forestale, e dalla Sicilia in su tanti ce ne sono, in Mozambico prende 11-12mila euro al mese. Stando così le cose tanti italiani partirebbero volentieri in missione.
Solo che “esperti” non si diventa, non c’è concorso. Esperti ti ci fanno.
Ad attribuire gli incarichi sono digli uffici della Dgcs, la direzione che coordina, gestisce e realizza tutte le attività internazionali dello Stato italiano dirette al sostegno dei paesi in via di sviluppo: ospedali, scuole, strade, interventi umanitari d’emergenza tutti finanziati con fondi italiani.
La figura degli “esperti” nasce con la legge n. 49/1987, quella che a parole tutti i governi vorrebbero riformare (compreso quello attuale) e poi mollano il colpo.
Esordisce come “legge speciale”, tale cioè da derogare le applicazioni giuridico-finanziarie imposte dalla contabilità generale dello Stato, le norme su assegnazione di incarichi, trasparenza e la tracciabilità dei flussi finanziari.
Da qui sembra discendere anche la discrezionalità di selezionare chi inviare in missione come “personale di supporto e assistenza tecnica”.
Gli esperti sono di due tipi, quelli assunti presso le Unità tecniche centrali e quelli esterni. I primi sono stati inizialmente inseriti a termine, con contratti individuali di diritto privato e retribuzioni lorde fino ai 73mila euro che possono arrotondare con le missioni all’estero.
La loro carriera da professionisti privati è finita nel marzo 2012 atterrando sul velluto della previdenza pubblica: i contratti sono stati trasformati a tempo indeterminato, nonostante l’età media di 63 anni.
Fino al 2011 gli esperti Utc non erano pensionabili e non era raro incontrare ultraottantenni che ancora operavano negli uffici della Farnesina.
Visto anche il rischio di cause, s’è deciso poi che erano come dipendenti a tutti gli effetti e ne è stato regolamentato anche il pensionamento, lasciandogli però la possibilità di rientrare come consulenti per compiere nuove missioni con limite di 75 anni.
Per gli esperti privati il trattamento economico di base è modesto ma schizza alle stelle con l’indennità di servizio all’estero (esentasse) calcolata secondo il “coefficiente di disagio” della destinazione applicato ai diplomatici.
Qualcuno è riuscito a farne un vero e proprio mestiere e anno dopo anno, a furia di missioni brevi e lunghe, ha girato il mondo e messo via un bel gruzzoletto.
Sapere chi fa parte del “club degli esperti” non è facile.
Nell’area “trasparenza” del sito della Dgcs c’è una sezione incarichi ma è ferma da due anni e non riporta curriculum e motivo dell’incarico.
Per arginare la discrezionalità delle assegnazioni e aprire il più possibile la partecipazione alle selezioni tre anni fa la DGcs ha messo alcuni paletti inderogabili e valorizzato l’esperienza sul campo.
Anche perchè, nel frattempo, non tutti gli esperti si sono rivelati necessariamente onesti: proprio nel 2010, ma la vicenda è emersa solo l’anno scorso, si è scoperto che 29 di loro dichiaravano residenze fittizie in Italia per intascare indennità da 150-390 euro al giorno cui non avevano diritto perchè regolarmente residenti nei paesi di destinazione.
Si andava da compensi tra i 10mila e gli oltre 300mila euro, frutto di varie missioni cumulate.
Sono stati denunciati alla Procura di Roma, tra loro c’erano anche stimati professori universitari. Non si capisce se la qualifica di esperto deroghi la legge sull’affidamento di incarichi esterni che dal 2007 obbliga le amministrazioni a verificare preventivamente l’esistenza di analoghe professionalità interne per non creare inutili doppioni a carico dei contribuenti.
Possibile che non se ne riescano proprio a trovare in un ministero da 7mila dipendenti o in altri che pullulano di chirurghi, agronomi, forestali e quant’altro?
Si dirà che questa storia non è poi una novità per l’Italia, visto che anche nel 2012 siamo riusciti a spendere 1,3 miliardi affidando 300mila incarichi.
Ma ancora non si era arrivati a perlustrare il fondo della Repubblica delle consulenze: far soccorre chi campa con un dollaro da consulenti privati che paga anche mille volte di più. Col paradosso che un giorno di missione in meno riempie la pancia a migliaia di disperati. Ma uno sciopero degli esperti, chissà perchè, ancora non s’è sentito.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Settembre 23rd, 2013 Riccardo Fucile
I VANTAGGI DEL RISANAMENTO CALCOLATI DAL MINISTERO… MA ENTRO DICEMBRE SERVONO NUOVE RISORSE
Un risparmio di dieci miliardi di euro all’anno, probabilmente anche più alto, se i tassi di interesse nel frattempo dovessero pure scendere.
Tanto varrebbe la diminuzione dello spread , cioè del differenziale di rendimento tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi, ai cento punti base indicati come obiettivo dal ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni: tre miliardi di minor spesa il primo anno, sei il secondo, dieci e più a regime.
Le stime del bonus-tassi, o se si vuole del costo dell’instabilità , le hanno fatte proprio i suoi uffici.
Danno un’idea dei vantaggi del risanamento, e al tempo stesso gettano la luce su quella che all’Economia chiamano la «vera tassa», o la «tassa nascosta»: la spesa per gli interessi sul debito pubblico.
Quest’anno arriverà a 84 miliardi di euro, e sono 1.450 euro a carico di ciascun cittadino, neonati compresi
Nella politica del rigore che presuppone il mantenimento del tetto nominale del 3% del deficit pubblico, ed il pareggio strutturale tra un anno, la minor spesa sui tassi di interesse è il primo dividendo da cogliere.
Ed è un obiettivo da perseguire, nella logica del Tesoro, a prescindere dai vincoli europei. Il «tre virgola zero» non è una cattiveria, ma la consapevolezza che mantenere quell’impegno è la premessa per tassi più bassi.
Il che significa, oltre a spendere meno sulle emissioni di titoli di Stato, anche mutui e prestiti meno cari per le famiglie e le imprese.
La tenuta della diga sul deficit aprirebbe poi la possibilità di vedersi scomputata dalla spesa pubblica la quota dei fondi nazionali destinati ad accompagnare quelli europei per i progetti al Sud, un altro «tesoretto» che, dopo l’accordo con Bruxelles, si potrebbe investire sul rilancio
La diga, però, deve tenere.
Mentre ha già qualche crepa che deve essere rattoppata. Per rientrare sotto al 3%, bisogna trovare 1,6 miliardi euro entro dicembre.
Per farlo non ci sarà bisogno di nuove misure o manovre aggiuntive: nei decreti già approvati dal Parlamento ci sono già un paio di clausole di salvaguardia efficaci, che il ministero dell’Eco-nomia può attivare alla bisogna.
C’è la possibilità di un aumento degli acconti sulle tasse che vengono pagati a fine anno sia per le persone fisiche che per le imprese, e quella di un intervento sulle imposte indirette e sulle accise. Al Tesoro non ci si augura di dovervi ricorrere, ma i paracadute ci sono, pronti ad essere usati in caso di necessità .
Oltre a chiudere il «buco», l’altra esigenza inderogabile sono le missioni di pace all’estero da qui alla fine dell’anno, per le quali servono 400 milioni di euro che i tecnici del Tesoro hanno già trovato con la rimodulazione di altre spese.
Forse potrebbero esserci anche altri fondi aggiuntivi per la cassa integrazione in deroga.
Ma per l’Iva, la seconda rata dell’Imu sulla prima casa, i terreni agricoli, gli sgravi sugli immobili delle imprese, o altro, a meno di non immaginare nuovi tagli ai ministeri, non c’è la copertura.
Nè per quest’anno, nè per il prossimo. La riforma della Tares e delle imposte sulla casa, e il riordino delle aliquote Iva dovranno avvenire, in linea di principio, a parità di gettito
Al Tesoro faticano a trovare le risorse per finanziare la riduzione delle tasse sul lavoro del 2014, uno degli obiettivi principali del governo Letta.
Con la legge di Stabilità di metà ottobre ci sarà un nuovo piano di riduzione della spesa pubblica, anche se Saccomanni ha avvertito che senza altre riforme incisive i margini di intervento sono ridotti.
Così, per creare maggior spazio alla diminuzione delle tasse sul lavoro, si sposterà una parte del loro peso da qualche altra parte.
Per coprire gli sgravi a favore delle imprese e dei loro dipendenti, i minori contributi e le minori tasse che incasserà lo Stato, saranno ridotte alcune agevolazioni
Nel 2014 ci sarà un primo intervento sensibile sulle tax expenditures , le centinaia di sconti fiscali oggi in vigore, assicurano al Tesoro.
La ricerca di risorse per il taglio del cuneo fiscale prosegue: Letta e Saccomanni vorrebbero dare una dimensione importante all’operazione che considerano una vera riforma, anzi forse la prima vera riforma del governo.
E poi attaccare la riduzione del debito, per comprimere la vera tassa, quella occulta degli interessi. Già entro la fine di quest’anno ci saranno le prime dismissioni, «per rompere il ghiaccio», dicono a via XX Settembre, e proseguire poi più spediti nel 2014.
Mario Sensini
(da “il Corriere della Sera“)
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Settembre 23rd, 2013 Riccardo Fucile
ALLE SPALLE DEL PAPA: AFFARI, DENARO E TARIFFE SPACCIATE PER OFFERTE
Ad Assisi l’accoglienza non prevede neanche la possibilità di andare al bagno gratis. Se uno ha la sfortuna di un bisogno impellente deve sperare nella fortuna di avere sessanta centesimi brevi manu, altrimenti è inevitabile affidarsi a una preghiera per impietosire il responsabile della toilette costruita sotto il piazzale inferiore della Basilica di San Francesco. Niente da fare.
Al pellegrino gli spicci vengono donati da un benefattore.
Soldi, incasso, business, questa è la formula vincente nel paese del Poverello.
Basta camminare per le vie, inerpicarsi per le salite, prendere fiato nelle discese, leggere i prezzi (mediamente alti) fuori da negozi, bar, agenzie immobiliari, società specializzate in pellegrinaggi per capire che dello spirito evocato in questi mesi dal papa, fatto di carità , profilo basso, accoglienza, c’è veramente poco: qui è anche impossibile trovare un punto di appoggio per mangiare il proprio, tutto è organizzato per obbligare il forestiero a usufruire dei servizi locali. E spendere.
Ancora peggio se prendiamo alla lettera le parole pronunciate la settimana scorsa da Francesco: “Che i conventi siano aperti ai bisognosi, non siano alberghi”.
Bussiamo alla Casa di Santa Brigida, gestita dalle suore Svedesi: la struttura è stata restaurata magnificamente, nel totale rispetto della tradizione umbra, con mattoncini a vista, legno alle finestre, una rara vista sulla vallata e su Santa Maria degli Angeli. “Buongiorno vorrei sapere se avete posto a metà ottobre per un gruppo di venti fedeli”.
“Mi dica i giorni esatti”, risponde una suora di colore, modi bruschi, una vaga inflessione tedesca.
“Dal 14 al 16, o anche dopo, a seconda della disponibilità ”. In silenzio prende il registro delle presenze. Sfoglia. Riflette, gioca con la matita. Poi sentenzia: “È tutto pieno fino a novembre.
Per caso nel gruppo ci sono bambini o molto anziani?”. “Cosa, scusi?”. “Sì, i bambini causano confusione, mentre gli anziani creano problemi, meglio se li sistemate in una struttura più centrale. Non siamo attrezzati per gli ospiti disabili”.
“Bene, qual è il prezzo?”. “65 euro la pensione completa, 55 la mezza. Guardi che le stanze hanno ogni comfort, compreso il bagno privato. Aspetti, le do la brochure”.
La parola magica è “offerta”
Riprendiamo il cammino.
A cinquecento metri in linea d’aria incontriamo la Casa di Accoglienza di Santa Elisabetta d’Ungheria, sul portone un semplice campanello e indicazioni su orario e giorno.
“Se abbiamo posto per trenta persone? Ne accogliamo fino a sessanta”, illustra una laica davanti a un bancone con sopra una lunga serie di portachiavi a forma di croce in legno.
“Quanto costa una stanza? No, qui si va a offerta… comunque 55 euro a notte”.
Ecco la parola magica: offerta.
Ad Assisi ogni ordine ha la sua struttura, ogni ordine negli anni ha conquistato il proprio spazio per marcare una presenza in uno dei luoghi di maggior pellegrinaggio al mondo. Ogni ordine accoglie, ma solo a pagamento, un pagamento mascherato “da offerta”.
Un frate da quindici anni presente nella cittadina ci dà il buongiorno, ma in stile don Abbondio preferisce evitare la pubblicazione del suo nome di battesimo: “Non vorrei avere problemi con gli altri fratelli. Comunque sì, qui funziona così, qui è business. Cosa? Lo so, non è bello, abbiamo perso completamente la via indicata da Francesco e con l’escamotage dell’offerta alcune strutture possono usufruire di benefici fiscali, come la tassa sull’immondizia o l’Imu. Ad Assisi oltre a San Francesco, si ringrazia anche un altro beato: ‘San Terremoto’”.
Anno 1997: un sisma sconquassa Marche e Umbria. Danneggiate anche Foligno , Nocera Umbra, Preci, Sellano. E, appunto, Assisi dove muoiono in diretta televisiva quattro persone tra tecnici e frati, impegnati nella verifica dei danni.
Le immagini del crollo vennero riprese da un cameraman di Umbria Tv, in quel momento presente all’interno della basilica.
“Per la ricostruzione sono giunti miliardi su miliardi, tanti, più i fondi stanziati per il Giubileo del 2000 — spiega l’ingegner Paolo Marcucci, consigliere comunale — in ambo i casi parliamo di finanziamenti pubblici che hanno reso Assisi quello che è oggi, con qualche stortura o facilitazione a favore dei frati”.
Per scoprire a cosa si riferisce l’ingegner Marcucci, dobbiamo tornare virtualmente ai bagni sotto la Basilica, quella struttura è al centro di un contenzioso tra l’ordine religioso e la stessa Assisi: la piazza è del Comune; i frati ci realizzano dei locali a spese dello Stato, “poi con un atto arbitrario modificano a loro nome l’intestazione catastale precedentemente intestata al Comune di Assisi — continua Marcucci — il Comune fa ricorso contro questa procedura, per la quale si arriva in Cassazione. Peccato che in campagna elettorale il sindaco ha promesso di risolvere la faccenda e di rinunciare al ricorso”.
In sostanza l’amministrazione ha regalato ai frati la piazza inferiore e i suoi bagni “e poi vada a fare un salto al negozio sotto la Basilica, ogni tanto si dimenticano di battere lo scontrino”, sollecita di nuovo il nostro “don Abbondio”.
Cartoline, ovvio. Crocefissi in tutte le forme, misure, materiali. San Francesco ovunque, Francesco anche .
Calendari, tazze, ma anche vino, liquori, rossetto per le labbra, saponi e prodotti di cosmesi come il gel struccante alla calendula. A noi lo scontrino lo fanno con altri scatta la dimenticanza.
“Professore, professore!” urla un signore dall’aspetto modesto per le vie di Assisi, si rivolge a un cinquantenne dalla camminata impegnata.
“Professore per caso sa dove posso dormire questa notte? Sono disposto a pagare, anche se come al solito non ho grandi disponibilità ”.
Il professore: “Ora ho fretta, ci penso, ma queste sono giornate difficili, con il prossimo arrivo del papa è tutto pieno”.
Chi chiede aiuto si chiama Gabriele, viaggia con un paio di buste di plastica piene, si definisce un colpito dalla crisi, quindi senza lavoro.
Si arrangia, magari fa qualche lavoretto per i conventi, consegna la posta. “Ma ricevere aiuto qui — racconta — è oramai impossibile”.
Stesso refrain, simili racconti da Angela Serracchioli, bolognese di origine, da otto anni impegnata ad Assisi e autrice di una guida del pellegrino: “Non esistono posti dove si offrono pasti ai poveri. Da nessuna parte. Ma lo sa quanti pellegrini ho visto aggirarsi per la città stupiti e affranti perchè nessun convento li ha voluti ospitare? Una volta ho rifocillato anche un frate argentino…”.
Prezzi bassi, alti benefici
Direzione suore Alcanterine. Hanno un palazzo centrale, dietro un vicoletto buio, chiuso, nascosto, ecco il portone.
Dietro c’è una struttura bellissima, luminosa, curata, con un ampio chiostro.
Di lato è organizzata la cucina, le suore sono impegnate a impiattare il pranzo.
“C’è posto per una trentina di pellegrini a metà ottobre?”. “Aspetti controllo”. Solito registro delle presenze. “Tutto pieno fino a novembre, ma dopo c’è posto. Il costo è di 55 euro per la pensione completa, abbiamo anche la cappella”.
Sul loro sito è scritto: “L’offerta del nostro servizio intende rispondere alla necessità di tutti coloro che, oggi sempre più numerosi, bussano alla nostra porta”.
A quanto pare è vero, rispetto ai “numerosi”.
“Per noi albergatori tutto questo è un problema: loro hanno oggettivamente costi molto ridotti, anche solo di personale — interviene Fabrizio Leggio, proprietario dell’hotel Windsor Savoia — Le do un solo dato per farle capire: il costo vivo per ogni mia stanza è di quasi 40 euro. In sostanza non ho quasi più margine”. Ma nella zona non c’è solo il caso-Assisi.
A tre, quattro chilometri, nella vallata, a Santa Maria degli Angeli sorgono due strutture di gran lusso, la “Domus paci” e il “Cenacolo francescano”.
La seconda in particolare è stata data in gestione a una società straniera previo un generoso affitto annuale.
Così, come recita la pubblicità , tra uno snack, una passeggiata, un’escursione, magari la lavanderia, un drink per rilassarsi è possibile vivere “la splendida atmosfera del luogo con gli ampi spazi verdi che invitano alla riflessione e garantiscono un soggiorno perfetto, adatto alle esigenze di tutti i target di clientela (religiosi, turisti, uomini d’affari, famiglie, gruppi, meeting)”.
Turisti, religiosi e uomini d’affari.
Anche perchè “vicino all’albergo vive una comunità di Frati Minori disponibili a rispondere alle esigenze spirituali e morali dei pellegrini e degli ospiti”.
Insomma, pacchetto completo.
L’importante è pagare, anche qui ad Assisi.
Alessandro Ferrucci
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 23rd, 2013 Riccardo Fucile
IL SENATORE AVEVA INVITATO A RAGIONARE SU UN GOVERNO ALTERNATIVO E SCATTA L’ISOLAMENTO SOVIETICO SU IMPUT DI CASALEGGIO
Il senatore Lorenzo Battista invita a ragionare su un governo alternativo a quello di Enrico Letta? Bisogna espellerlo.
Le esternazioni del parlamentare triestino del Movimento 5 stelle sono piaciute sempre meno a Gianroberto Casaleggio, tanto da rendere necessario un chiarimento fra i due.
L’incontro, avvenuto prima dell’estate, non è stato risolutivo, e Battista è rimasto delle sue opinioni, che ha per di più condiviso anche con la stampa.
La classica goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Ma lo staff non vuole più procedere a espulsioni dall’alto, il caso di Adele Gambaro è costato troppo a livello d’immagine.
Così si mette in atto la nuova strategia: una pressione dal basso, da parte degli eletti locali e dei meetup della zona, per isolare il malcapitato e costringerlo a mollare. Successe già con la senatrice emiliana, è capitato con Luis Orellana.
Allora ci furono dei contatti informali con il meetup di Pavia, ma è con Battista che il nuovo modus operandi è stato impiegato nella sua interezza.
Il contenuto della mail l’ha scovato il Messaggero: “A seguito intervista [era quella concessa a La Stampa] rilasciata dal nostro cittadino portavoce alla stampa nazionale urge presa di distanza dalle sue dichiarazioni. Vi giro il comunicato da mandare. Se avete contrarietà fatemi sapere entro un’ora”.
Casaleggio smentisce (anche se il quotidiano romano non gliela attribuisce): “Alcune testate on line riportano una mia “mail segreta” inviata a degli esponenti del M5s. Tale mail è frutto della fantasia di qualcuno. Non ho mai inviato mail segrete”.
Il testo esiste e gira tra gli eletti del Friuli Venezia Giulia. A quanto risulta all’Huffpost l’estensore non sarebbe direttamente il guru, ma Stefano Patuanelli, consigliere comunale triestino, che gode di un rapporto fiduciario con lo staff. È lui, dopo essersi consultato con chi di dovere, a farsene principale sponsor.
Arriva fino a Roma, ma l’accoglienza che riceve dagli eletti friulani, Walter Rizzetto, Aris Prodani, oltre allo stesso Lorenzo Battista, è a dir poco fredda.
Parte un giro di telefonate, che coinvolge lo stesso guru, il quale avrebbe prospettato il medesimo trattamento per chiunque avesse mancato di sottoscrivere la scomunica a Battista.
Ma gran parte degli eletti tira il freno a mano: anche se il merito di quanto detto dal senatore è da molti messo in discussione (prima fra tutti dalla consigliera regionale Eleonora Frattolin: “Crediamo sia opportuno prendere le distanze, tra gli impegni presi vi è quello di agire sentendosi portavoce e non erigendosi a rappresentanti”) il metodo è tuttavia ritenuto inaccettabile.
Nessuna sottoscrizione, fanno sapere a Milano, al massimo possiamo convocare un’assemblea della base e lasciare a iscritti e attivisti la decisione.
Il guru ascolta le rimostranze, non forza la mano e accetta il nuovo modo di procedere. Il 14 settembre è convocata una riunione di tutti i meetup friulani e giuliani a Palmanova.
Sulla bacheca pubblica i toni sono soft. Si parla infatti di un dibattito “sulle affermazioni sui giornali del cittadino Lorenzo Battista portavoce al Senato”.
Ma le reazioni non sono comunque unanimi, anzi. “Non mi sembra che Lorenzo abbia detto niente di grave” osserva Paolo Romano.
“Se fate un’assemblea per delle proposte da portare ai nostri candidati, partecipo volentieri. Altrimenti preferisco spendere il mio tempo per il Gdl amianto o la pedonalità del mio comune”, gli fa eco Emanuele Romano.
Davide Stanic è tra i più netti: “Trovo agghiacciante che Lorenzo venga messo in discussione. Per quanto mi riguarda lui si è speso per portare avanti le istanze della mia terra e posso solo ringraziarlo. La partecipazione non è votare l’espulsione di qualcuno”.
Ma è Francesca Leto a fornire un indizio su quel che sta succedendo nel backstage: “Trovo assurda l’indizione di questa assemblea con questo ordine del giorno. Un’assemblea voluta dall’alto. Cos’ha detto Lorenzo di così sbagliato?”.
Così, la sera prima, è il gruppo consiliare dei 5 stelle in Regione a comunicare la retromarcia: “A causa di problemi organizzativi l’assemblea di domani è rinviata a data da destinarsi”.
Questioni organizzative che alcuni eletti sintetizzano così: “Mai avremmo partecipato ad un processo inquisitorio nei confronti del nostro senatore”.
Ma il redde rationem è solo rinviato.
(da “Huffingtonpost“)
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Settembre 23rd, 2013 Riccardo Fucile
ANGELA MERKEL SENZA LA MAGGIORANZA ASSOLUTA CERCA UN ALLEATO TRA SPD E VERDI
Per soli cinque seggi Angela Merkel ha bisogno di un nuovo alleato: i vecchi alleati, i liberali (Fdp) sono fuori dai giochi, quindi la Cdu deve trovare un nuovo partner, scegliendo tra i socialdemocratici e i verdi, poichè la cancelliera avrebbe escluso un governo minoritario.
“Abbiamo due possibilità : i socialdemocratici (Spd) o i Verdi” e “daremo al nostro Paese un governo forte”, ha confermato il capogruppo dei cristiano democratici Volker Kauder.
La Spd, che dovrebbe essere la prima scelta della potente cancelliera, temporeggia: nessuno nel partito di Peer Steinbrueck, in primis lui stesso, ha voglia di giocare il ruolo del “junior partner” della Cdu.
L’esito di 4 anni di grosse koalition, durante il primo mandato di Merkel, fu il crollo della Spd alle elezioni del 2009, una ferita ancora troppo aperta.
Lo sfidante ha già detto di non essere “a disposizione” come ministro; Frank-Walter Steinmeier, ex vicecancelliere di Merkel nel 2005, resterà capogruppo parlamentare Spd; altri pesi da novanta non sono disponibili, i nuovi sono poco conosciuti a Merkel.
Una riunione dei vertici è prevista venerdì 27 nel corso di un “minicongresso”
L’alternativa sono i Gruenen. A favore gioca proprio l’importante “energiewende”, la svolta energetica impressa da Angela Merkel, con la sepoltura definitiva del nucleare. Sulla politica europea non ci sono divergenze di rilievo, così come per le missioni estere della Bundeswehr.
Ma è pur vero che tutte le esperienze di coalizione dei vari governi dei laender hanno funzionato poco o per niente.
Ora i numeri: nel nuovo Bundestag entreranno 630 deputati.
La maggioranza dunque è di 316 voti.
L’unione Cdu/csu ha conquistato 311 seggi (41,5%); la Spd 192 seggi (25,7%); i Verdi 63 seggi (8,4%); la Linke 64 seggi (8,6%).
Restano sotto la soglia di sbarramento la Fdp con il 4,8%, alternative Fuer deutschland con il 4,7% e i pirati con il 2,2%.
(da “Huffington Post”)
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