Marzo 6th, 2014 Riccardo Fucile
SU 151 REATTORI NUCLEARI OPERATIVI IN EUROPA (ESCLUSA LA RUSSIA), 67 HANNO PIU’ DI 30 ANNI, 25 PIU’ DI 35, 7 PIU’ DI 40
Questa mattina siamo entrati in azione in sei nazioni europee — Belgio, Svizzera, Svezia, Francia,
Spagna e Paesi Bassi — per chiedere ai governi UE di non investire più su reattori nucleari ormai vecchi e pericolosi e puntare su fonti di energia pulite e sicure come le rinnovabili.
In contemporanea in tutta Europa, 240 nostri attivisti hanno preso parte alle proteste per evidenziare i rischi dell’invecchiamento degli impianti nucleari in Europa.
Mantenere in attività queste centrali nucleari obsolete, mette tutti noi cittadini europei di fronte ad enormi rischi dovuti a possibili incidenti.
Per denunciare questa situazione, abbiamo lanciato oggi un nostro nuovo importante rapporto, ‘Lifetime extension of ageing nuclear power plants: Entering a new era of risk’ (L’estensione della durata di vita delle vecchie centrali nucleari: inizio di una nuova era di rischio), da cui emerge che su 151 reattori nucleari operativi in Europa (esclusa la Russia), 67 hanno più di trent’anni, 25 più di trentacinque e 7 di loro oltre quarant’anni.
Di norma, il ciclo di vita di un reattore è di trenta/quarant’anni.
La nostra analisi invece mostra che il 44 per cento dei reattori nucleari europei hanno oltre trent’anni, con un’età media di ventinove.
Un’ombra sul nostro futuro: se i governi europei continueranno a voler investire su questi impianti datati e obsoleti invece di puntare su fonti rinnovabili, dovranno affrontare la prospettiva di una nuova e pericolosa era a rischio di incidenti nucleari in tutta Europa e dovranno darne conto a tutti noi cittadini.
L’Europa è a un bivio fondamentale. I leader che a fine marzo si riuniranno a Bruxelles per decidere della politica energetica comunitaria da qui al 2030, dovranno assolutamente cogliere l’opportunità e decidere di puntare in modo deciso sullo sviluppo di energie sicure e pulite, fissando target vincolanti e ambiziosi, come quello del 45 per cento di rinnovabili da noi auspicato.
Non possiamo perdere altro tempo.
È il momento di dire basta al nucleare e scegliere un futuro verde e rinnovabile.
È il momento giusto per la nostra Energy Revolution.
Greenpeace.org
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Marzo 6th, 2014 Riccardo Fucile
SU 151 REATTORI NUCLEARI OPERATIVI IN EUROPA (ESCLUSA LA RUSSIA), 67 HANNO PIU’ DI 30 ANNI, 25 PIU’ DI 35, 7 PIU’ DI 40
Questa mattina siamo entrati in azione in sei nazioni europee — Belgio, Svizzera, Svezia, Francia,
Spagna e Paesi Bassi — per chiedere ai governi UE di non investire più su reattori nucleari ormai vecchi e pericolosi e puntare su fonti di energia pulite e sicure come le rinnovabili.
In contemporanea in tutta Europa, 240 nostri attivisti hanno preso parte alle proteste per evidenziare i rischi dell’invecchiamento degli impianti nucleari in Europa.
Mantenere in attività queste centrali nucleari obsolete, mette tutti noi cittadini europei di fronte ad enormi rischi dovuti a possibili incidenti.
Per denunciare questa situazione, abbiamo lanciato oggi un nostro nuovo importante rapporto, ‘Lifetime extension of ageing nuclear power plants: Entering a new era of risk’ (L’estensione della durata di vita delle vecchie centrali nucleari: inizio di una nuova era di rischio), da cui emerge che su 151 reattori nucleari operativi in Europa (esclusa la Russia), 67 hanno più di trent’anni, 25 più di trentacinque e 7 di loro oltre quarant’anni.
Di norma, il ciclo di vita di un reattore è di trenta/quarant’anni.
La nostra analisi invece mostra che il 44 per cento dei reattori nucleari europei hanno oltre trent’anni, con un’età media di ventinove.
Un’ombra sul nostro futuro: se i governi europei continueranno a voler investire su questi impianti datati e obsoleti invece di puntare su fonti rinnovabili, dovranno affrontare la prospettiva di una nuova e pericolosa era a rischio di incidenti nucleari in tutta Europa e dovranno darne conto a tutti noi cittadini.
L’Europa è a un bivio fondamentale. I leader che a fine marzo si riuniranno a Bruxelles per decidere della politica energetica comunitaria da qui al 2030, dovranno assolutamente cogliere l’opportunità e decidere di puntare in modo deciso sullo sviluppo di energie sicure e pulite, fissando target vincolanti e ambiziosi, come quello del 45 per cento di rinnovabili da noi auspicato.
Non possiamo perdere altro tempo.
È il momento di dire basta al nucleare e scegliere un futuro verde e rinnovabile.
È il momento giusto per la nostra Energy Revolution.
Greenpeace.org
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Marzo 6th, 2014 Riccardo Fucile
MULTA DA 180 MILIONI A NOVARTIS E ROCHE, HANNO IMPOSTO LA VENDITA DI UN FARMACO PER GLI OCCHI A 900 EURO INVECE DI 81 EURO
Big Pharma, il cartello delle grandi multinazionali del farmaco, è stata scoperta e multata.
La decisione è dell’Antitrust. Le due aziende annunciano ricorso al Tar. Due procure, quella di Roma e quella di Torino, hanno aperto un’inchiesta.
Roche e Novartis dovranno pagare oltre 180 milioni di euro, rispettivamente 90,5 milioni e 92 milioni, per essersi accordate illecitamente con l’obiettivo di favorire la vendita del farmaco molto più costoso (Lucentis) rispetto a quello low cost (Avastin) destinato alla cura di una grave malattia degli occhi, la maculopatia che senza terapie adeguate porta alla cecità .
La clamorosa decisione è stata presa ieri dall’Antitrust italiano guidato da Giovanni Pitruzzella.
È una delle multe più elevate comminate in tutta la sua storia dall’Authority. Sulla stessa vicenda indaga dal 2012 il procuratore di Torino, Raffaele Guariniello; ieri ha aperto un fascicolo la procura di Roma che ha affidato gli accertamenti al pm Nello Rossi; il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ha chiesto al Consiglio superiore della sanità nuovi accertamenti sull’Avastin; la Corte dei Conti ha acquisito dal Garante del mercato tutta la documentazione raccolta durante l’inchiesta avviata un anno fa.
Perchè una dose di Avastin ha un prezzo tra i 15 e gli 80 euro, mentre una di Lucentis viaggia intorno ai 900 e ce ne vogliono almeno sei nel corso dell’anno.
L’Antitrust dice che per colpa del cartello il servizio sanitario ha già speso 45 milioni di euro in più, la Società oftalmologica italiana (Soi) stima che circa 100 mila pazienti non possono essere curati perchè i costi non sono compatibili con i budget all’osso degli ospedali imposti dalla logica della spending review.
E con l’avvocato Riccardo Salomone ha presentato un esposto alla procura di Torino ipotizzando i reati di truffa aggravata e addirittura di corruzione Si difendono Roche e Novartis: «Sono accuse infondate. I due farmaci sono diversi».
Entrambe hanno annunciato che ricorreranno al Tar. Sarà una battaglia.
Perchè questa è una storia complessa nella quale si intrecciano, come sempre con Big Pharma, la ricerca scientifica e la ricerca dei profitti, la produzione privata e le regole fissate dalle autorità pubbliche competenti, le autorizzazioni e le successive deroghe, la cura delle malattie e la concorrenza tra aziende, gli accordi sottobanco e le strategie di marketing, le lobby.
Questa è una storia esemplare.
UNA SCOPERTA ITALIANA IN CALIFORNIA
Tutto inizia in California. Lì nei laboratori della Genentech di San Francisco (prima che venisse acquistata al 100 per cento dalla Roche), Napoleone Ferrara, catanese d’origine ora con doppio passaporto, vincitore nel 2010 del prestigioso premio Lasker Awards che in molti casi ha condotto poi al premio Nobel, scopre un principio per bloccare il fattore della crescita dei vasi sanguigni. È il principio contenuto nell’Avastin, un farmaco biotecnologico prescritto per la cura dei tumori metastatici al colon retto, all’ovaio, alla mammella, al rene e al polmone.
L’Avastin viene registrato negli Usa dalla Genentech e dalla Roche nel resto del mondo, Italia compresa.
A partire dal 2004, da quando cioè questo farmaco viene commercializzato, si accerta che i pazienti colpiti anche dalla degenerazione maculare senile (malattia molto diffusa tra gli over 60 e prima causa di cecità nelle popolazione) finiscono per guarire. Diversi approfondimenti tecnici confermano l’efficacia terapeutica del farmaco.
La Roche, però, non chiede di registrarla anche per gli usi oculari. Lascia il campo a Lucentis, prodotta dalla Novartis.
«È però un fatto – scrivono Michele Bocci e Fabio Tonacci nel libro-inchiesta sulla malasanità , “La mangiatoia” – che nella maggior parte dei paesi d’Europa e soprattutto negli Usa i medici scelgono l’Avastin. Del resto il National Eye Institute del National Institute of Health degli Usa ha pubblicato uno studio nell’aprile del 2011 dopo aver provato i due farmaci su 1.200 pazienti dimostrando che Lucentis e Avastin hanno gli stessi effetti contro la degenerazione maculare».
IL NO DELL’AUTHORITY
In Italia no, però. Anche se, nel 2007, l’utilizzo dell’Avastin nella cura delle maculopatie fu permesso dall’Aifa (l’agenzia del farmaco) nella forma off label, quando cioè il farmaco viene prescritto dal medico sotto la sua responsabilità nonostante non sia registrato specificatamente per quel tipo di malattia.
Si va avanti così fino al 2012, quando l’Aifa esclude l’Avastin dalla “lista 648”, quella composta dai farmaci che appunto possono essere comunque utilizzati dal servizio sanitario nazionale.
Da allora la sanità pubblica passa solo il carissimo Lucentis per le malattie della vista, con gli effetti sui pazienti e sui conti pubblici che abbiamo visto («era in gioco la salute dei pazienti ma anche il bilancio pubblico», ha detto il presidente Pitruzzella). Eppure almeno due studi indipendenti, l’americano Catt e il britannico Ivan, entrambi non finanziati dalle multinazionali del farmaco, dimostrano l’equivalenza nell’efficacia e nella sicurezza dei due farmaci.
Certo colpisce la posizione espressa ieri dall’Aifa: «Si tratta di una sentenza storica per tutta l’Europa e non solo». Ora – ha aggiunto – bisogna approfondire «i rischi connessi all’uso su larga scala di farmaci non studiati per specifiche indicazioni terapeutiche e per i quali la farmacovigilanza si è dimostrata carente». Un’autocritica?
Ma perchè è successo? Qui ci aiuta l’indagine dell’Antitrust.
La tesi è che Roche e Novartis si siano messe d’accordo.
LA COLLUSIONE
Abbiamo visto che la Genentech è di proprietà della Roche che incassa alte royalties dalla concorrente Novartis per la commercializzazione del Lucentis che utilizza un principio attivo registrato dalla controllata americana della Roche.
Ma c’è di più. Perchè Novartis (entrambe le multinazionali hanno sede in Svizzera) partecipa per oltre il 33 per cento al capitale della Roche e dunque condivide pro quota gli utili. Philippe Barrois, ammini-stratore delegato della Novartis Italia, e Maurizio Di Cicco, ad della Roche Italia, si scambiano mail, finite nella documentazione raccolta dall’Antitrust. Novartis chiede alla concorrente di darsi da fare per mettere in evidenza i danni che può provocare agli occhi l’uso dell’Avastin.
L’ad della Roche mette significativamente tra virgolette la parola “differenziazione” riferita ai due farmaci. In un documento interno della capogruppo Novartis si legge che bisogna «generare e comunicare» preoccupazione relativamente alla sicurezza dell’Avastin nelle cure oftalmiche.
E poi c’è il lavoro lobbistico, sui media specializzati, sui parlamentari delle commissioni competenti, sui medici, sugli organismi ministeriali.
Così si fa cartello. Che si traduce in miliardi di profitti per le multinazionali e in maggiori costi per il servizio sanitario nazionale, cioè per noi.
Nel 2014 quasi 600 milioni in più, ha stimato l’Antitrust.
Roberto Mania
(da “La Repubblica”)
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Marzo 6th, 2014 Riccardo Fucile
LA NEO-CAPOGRUPPO DI NCD: “TORNO CON L’UMILITA’ DEL PRIMO GIORNO”
Nunzia De Girolamo, dopo i giorni neri delle dimissioni da ministro e dello scandalo della Asl di
Benevento, torna oggi alla luce con la nomina a capogruppo alla Camera del Nuovo Centrodestra.
«Sono grata ad Alfano e al mio partito perchè mi sono stati accanto in un momento molto difficile della mia vita. Torno con l’umiltà del primo giorno e la determinazione a fare le cose utili per il mio paese».
È stata lei a subire le pressioni dei renziani affinchè mollasse l’incarico all’Agricoltura. E sentire oggi il ministro Boschi in Aula difendere i sottosegretari del Pd indagati le ha fatto un certo effetto.
Fra l’altro il suo avversario a Benevento, Umberto Del Basso De Caro, quello che preannunciò il voto favorevole alla mozione di sfiducia nei suoi confronti, è stato nominato sottosegretario da Renzi ed è uno dei quattro sotto inchiesta.
Lei come voterà sulla mozione dei grillini contro i sottosegretari?
«Io sono garantista con gli amici e con i non amici. Non sono uno sciacallo, penso di avere uno stile diverso. L’ho dimostrato in passato e continuerò a farlo ».
Due mesi fa Boschi in tv definì il suo caso «una vicenda triste». Cosa ha pensato quando oggi l’ha sentita difendere i quattro sottosegretari?
«Premesso che auguro a Renzi di governare bene l’Italia – motivo per cui gli abbiamo dato fiducia – spero anche che abbia finalmente la forza di rottamare questa doppia morale della sinistra, che con noi, con Berlusconi e con tutti quelli che la pensano diversamente si comporta in un modo, mentre è molto permissiva, garantista e a volte distratta con i propri compagni di partito ».
Con lei i renziani non furono teneri…
«Ripeto, io sono garantista, dunque coerente. Il Pd invece non ha mai dato prova di coerenza sul tema. Spero che alle tante belle parole e ai tanti tweet seguano adesso fatti e azioni concrete, che mandino in soffitta la lunga stagione di conflittualità tra poteri dello Stato e consentano alla politica di riappropriarsi del suo ruolo, della sua credibilità e della sua autorevolezza».
Nel suo partito, quando si dimise, qualcuno disse che era stata usata dai renziani per far saltare Letta…
«Se me lo domanda è perchè forse molti ancora se lo chiedono ».
Va bene, ma la sua risposta?
«Mi sono dimessa per tutelare la mia dignità e per evitare che qualcuno usasse o pensasse di poter usare un giovane ministro, senza protezione, solo per regolare conti interni».
Senza protezione: intende a differenza della Guardasigilli Cancellieri?
De Girolamo, nel cortile della Camera, aspira una boccata dalla sigaretta e non risponde.
Che ne dice delle dimissioni del vostro Antonio Gentile? Perchè lui sì e gli altri quattro, che pure sono sotto inchiesta, no?
«Non entro nelle scelte che farà Renzi. Credo però che Gentile abbia preso una decisione trasparente e responsabile. Basta con questa caccia all’uomo».
Francesco Bei
(da “La Repubblica”)
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Marzo 6th, 2014 Riccardo Fucile
ALFANO HA FATTO DIMETTERE GENTILE, IL PD NON PUO’ FAR DIMETTERE I SUOI
Può giocare brutti scherzi lo spartiacque del governo. Il prima e il dopo.
Prima di approdare a Palazzo Chigi, la solenne promessa da parte di Renzi del nuovo a ogni costo.
Dopo, il gioco in difesa.
Prima, la perentoria richiesta di dimissioni a Cancellieri e De Girolamo e quell’inderogabile «se ne devono andare».
Dopo, i sofismi per tenere nell’esecutivo i sottosegretari inquisiti. Gentile, il più impresentabile, è stato dimissionato ed era un esponente dell’Ncd, il partito di Alfano. Quelli del Pd invece restano con il diktat affidato alla Boschi. Una sorta di improvviso “doppiopesismo”.
Sconcerta sentire il giovane ministro dire a Montecitorio che il governo non chiederà le dimissioni «sulla base di un avviso di garanzia». Suona strumentale, politicamente imbarazzante, e anche un po’ cinico, il richiamo alla «presunzione di innocenza». Disgraziata quella frase – «l’avviso di garanzia è un atto dovuto, non è un’anticipazione di condanna» – perchè evoca le argomentazioni cui la destra di Berlusconi è sistematicamente ricorsa in questi vent’anni per giustificare il connubio tra illegalità e politica. Manca solo l’attacco ai giudici.
Da chi, come Renzi, dialoga con Saviano e promette una lotta decisa alla corruzione e all’illegalità , c’era da aspettarsi tutt’altra coerenza nella selezione del personale politico.
Soprattutto se il capo del governo è al contempo il segretario del “nuovo” Pd.
Un partito che in questi anni ha sempre preso le distanze dai politici indagati. E non può scoprirsi improvvisamente garantista solo quando va al governo e quando si tratta di difendere alcuni dei suoi esponenti.
Poi bisognerebbe avere la forza e il coraggio di separare la posizione di chi è accusato di un semplice abuso d’ufficio rispetto a chi è indagato per avere usato fondi pubblici a scopo personale.
Ma qui il caso è ancora diverso. La «presunzione d’innocenza» non c’entra. Non si tratta di sottosegretari che hanno ricevuto un avviso di garanzia. Ma di membri dell’esecutivo che erano stati già toccati dalle indagini.
Era proprio necessario mettere al governo persone sotto accusa?
Non se ne potevano scegliere altre?
Se sono stati selezionati quelli, qual è stata la vera ragione?
Qui le colpe di Renzi diventano doppie. Non solo ha abiurato alle promesse che egli stesso ha fatto sulla pulizia e trasparenza di chi regge la cosa pubblica, non solo ha usato un criterio per criticare le debolezze di Letta e un altro, ben più corto e flessibile, per assolvere le sue scelte, ma soprattutto sta compromettendo il futuro.
Il rischio è di riconsegnare ancora una volta nelle mani dei magistrati il compito di dispensare lasciapassare per i buoni e i cattivi candidati.
O dire – con una condanna o una assoluzione – se i sottosegretari possano restare o debbano andarsene.
Liana Milella
(da “La Repubblica”)
argomento: Partito Democratico, PD, Renzi | Commenta »
Marzo 6th, 2014 Riccardo Fucile
I TANTI ERRORI GIA’ COMPIUTI DA RENZI
Dinamiche forti attraversano il sistema politico italiano, e lo stanno cambiando
profondamente. Ma, se pure questo processo è stato accelerato dalle iniziative di Renzi, per comprenderlo bisogna andare oltre la stretta attualità , gettare lo sguardo sull’intera fase che abbiamo alle spalle.
Altrimenti si rimane prigionieri di formule ingannevoli – «Aspettiamo Renzi alla prova dei fatti», «Se fallisce, è la fine» – che rivelano non tanto una deriva personalistica, quanto piuttosto una sfiducia nella possibilità stessa di condurre analisi politiche.
E invece proprio dalla politica bisogna ripartire, registrando che siamo alla fine di un ciclo che si è dipanato attraverso l’emergenza montiana, le larghe intese e le piccole intese, senza offrire nè soluzioni a breve nè prospettive, sì che Renzi finisce con l’apparire come una sorta di curatore fallimentare.
Il suo obiettivo è visibilmente quello di strutturare il sistema politico intorno a due poli, non due partiti, e proprio qui scatta l’impossibilità di liberarsi con una mossa tutta volontaristica dell’eredità del passato.
“Padrone”, almeno nelle apparenze, di un partito che aveva conquistato senza combattere, Renzi ha poi rivolto lo sguardo dall’altra parte e, muovendo da una sottovalutazione del suo partner di governo, il Nuovo Centro Destra, si è lanciato verso la rilegittimazione di Berlusconi, impigliandosi però nei prevedibili conflitti determinati dall’affidarsi all’astuzia della “doppia maggioranza”.
Ora la nuova “intesa” intorno alla legge elettorale mostra come egli non debba solo fare i conti con i fallimenti del passato, ma pure con l’esito infelice del suo stesso azzardo.
Indicata come un passaggio necessario per un chiarimento del quadro politico, la nuova fase della riforma elettorale produce, al contrario, una inquietante confusione istituzionale, destinata a sfociare in conflitti (ricatti?) incrociati, rendendo più soggetta a condizionamenti l’azione di governo e più esposta la nuova soluzione a chiari vizi di incostituzionalità .
Frutto evidente di pure strumentalità partitiche, dissolve la logica, già precaria, della doppia maggioranza, spinge tanto Berlusconi quanto Alfano a perseguire le proprie convenienze, a rafforzare la propria identità , aprendo la via a conflitti inevitabilmente destinati ad influire su tempi e scelte del governo.
L’apertura a Berlusconi era stata, nei fatti, una evidente sfida ad Alfano, così come la precedente apertura su lavoro e diritti civili lo era stata nei confronti di Letta. Cambiati i ruoli, mutato Renzi da sostanziale sfidante ad alleato obbligato di Alfano, quale sarà in concreto la linea della maggioranza ora rinsaldata?
Bisogna tornare, a questo punto, alla questione dei due poli, in vista dei quali è stata confezionata la nuova legge elettorale, con chiusure conservatrici a favore di chi già è insediato all’interno del sistema, introducendo così una ulteriore rigidità di cui, prigionieri di una poco riflessiva furia “riformatrice”, non sembra siano stati adeguatamente valutati tutti gli effetti.
Sul versante berlusconiano, è evidente l’intenzione di costruire una coalizione nella quale sarà obbligato ad entrare tutto il pulviscolo dei gruppi e gruppetti che si agitano a destra in questo momento per dare l’impressione di una autonomia del tutto finta, poichè sanno benissimo che la nuova legge elettorale, quali che siano le soglie fissate, precluderà loro ogni possibilità di accesso al Parlamento.
Si creano così le premesse per negoziati opachi, per contropartite d’ogni genere, mantenendo le condizioni che hanno in passato inquinato il nostro sistema politico e anticipando alla fase preelettorale il potere dei gruppi marginali, ma indispensabili per assicurare il successo della coalizione. Inoltre, l’alta soglia dell’8%, imposta alle liste autonome, diventa un potente disincentivo per avventure solitarie del Nuovo Centro Destra.
Diversa si presenta la situazione nel centrosinistra, dove Renzi sembra aver ripreso la logica della “vocazione maggioritaria” e, fidando sul proprio appeal, non manifesta aperture verso le diverse realtà esistenti, mostrandosi piuttosto interessato al recupero di una parte dell’elettorato del Movimento 5Stelle (strategia peraltro analoga a quella di Silvio Berlusconi).
Peraltro, la sua sbrigativa rilettura di quel che oggi sarebbe la sinistra, unita ai quotidiani slittamenti ai quali lo obbliga la convivenza con gli alfaniani, ha creato condizioni propizie all’apertura di un processo che oggi, sia pure in forme ancora da chiarire, vede coinvolti Sel e il gruppo di Pippo Civati, la lista Tsipras e i parlamentari (e non solo) che si allontanano dal Movimento 5Stelle.
Sono realtà diverse, ciascuna delle quali meriterebbe una analisi specifica, ma di cui qui può essere indicato quello che appare un possibile terreno comune.
Civati, con quella che non è soltanto una battuta, ha parlato di Nuovo Centro Sinistra, ponendo così un problema: è possibile un processo, tutt’altro che semplice e breve, che abbia come primo obiettivo quello di liberare il Pd dal legame pericoloso con il Nuovo Centro Destra e, in prospettiva, consenta di lavorare intorno ad una ipotesi di sinistra nuova e non velleitaria?
Di questo si dovrebbe tener conto, senza rifugiarsi nelle troppo comode obiezioni “realistiche” che, negli ultimi tempi, hanno privato il centrosinistra di ogni capacità di creare le condizioni pur minime per non essere sempre succube di stati di necessità , veri o costruiti.
La politica è anche, talora soprattutto, capacità di assumersi rischi, senza la quale nessuna vera innovazione è possibile.
Forse è qui che il proclamato “coraggio” di Renzi dovrebbe esercitarsi pure in questa direzione.
E si potrebbe anche cominciare a ragionare fuori da un’altra pesante ambiguità , l’indicazione della durata del governo fino al 2018, che sembra un artificio per tener buono Alfano.
Qualora al Senato si creassero le condizioni per liberarsi da questa ingombrante tutela, si potrebbe ragionevolmente discutere di un programma limitato e di un ritorno alle urne secondo una logica politica, e non puramente strumentale, anche se ora contro questa possibilità si leva il pasticcio dell’eventuale elezione differenziata di Camera e Senato.
Ripeto. È un processo non facile, che tuttavia può permettere di avviare un cammino che faccia uscire dal deserto politico nel quale continuiamo ad aggirarci. In questa prospettiva si presenta come assai impegnativa l’iniziativa della lista Tsipras perchè, in particolare, la partecipazione alle elezioni europee significherà sottoporsi ad un vero confronto pubblico.
È una impresa rischiosa e, proprio per questo, vorrebbe dai suoi promotori un rigore estremo.
Dal passato vengono esempi che ammoniscono sul rischio legato a logiche autoreferenziali (il fallimento nelle ultime due elezioni politiche dalla Sinistra arcobaleno e della lista Ingroia).
Dal presente viene l’obbligo a riflettere su che cosa significhi, al di là del fatto simbolico, il riferimento a Tsipras e al suo partito, Syriza.
Si tratta di una esperienza maturata attraverso un lavoro politico non breve e che si è consolidato grazie ad una intensa presenza sociale.
Condizioni, queste, che non trovano corrispondenza nella lista italiana e nella variegata coalizione che la sostiene, che peraltro non ha dato una esaltante prova di sè proprio nella scelta delle candidature, come attestano le cronache di ieri.
Per tutti quelli che vogliano andare oltre la semplice critica al governo Renzi, si apre una stagione assai impegnativa.
Ma proprio con queste difficoltà bisognerà misurarsi.
Stefano Rodota’
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Marzo 6th, 2014 Riccardo Fucile
BARBARA SPINELLI: “CI METTO LA FACCIA, MA NON SO FARE POLITICA”
Non c’è più Andrea Camilleri, una candidatura smentita, ma accanto a quelli di Barbara Spinelli, Moni Ovadia e Adriano Prosperi, che tre giorni avevano spiegato il senso della loro candidatura con una lettera aperta, altre personalità della cultura e del giornalismo italiano (come Curzio Maltese) hanno sposato la causa della lista Tsipras per le elezioni europee del prossimo maggio.
Ci sono, tra gli altri, Luca Casarini, Giuliana Sgrena, Piergiovanni Alleva, Sandro Medici, Ermanno Rea.
Il simbolo scelto è un cerchio rosso con al centro la scritta bianca in stampatello: “L’altra Europa con Tsipras”. A partire dal prossimo fine settimana prenderà avvio in tutta Italia la raccolta firme necessaria alla presentazione della lista.
Nella lettera di tre giorni fa, la scrittrice e giornalista Barbara Spinelli, una dei sei garanti della lista, sottoscriveva l’impegno a candidarsi perchè convinta della proposta di Alexis Tsipras per l’Europa, premettendo che in caso di elezione avrebbe ceduto il seggio a Strasburgo a qualcuno più capace. “Io penso che ognuno deve fare quello che sa”, spiega in conferenza stampa, “e io mi esercito nella scrittura, nello smascherare le falsità che vengono dette in politica. Questa cosa, bene o male, la faccio da decenni. So fare solo questo. Non so fare politica”.
Ma a “un certo punto, però – prosegue Barbara Spinelli -, ho pensato che questa idea di Europa e queste idee dovevo usarle in modo diverso, non per cominciare un altro mestiere ma per metterci la faccia, testimoniando con questo impegno diretto il mio appoggio e la mia adesione alla battaglia che vogliamo fare”.
Secondo Spinelli, “non ci si può limitare solo ad aderire a un appello, ma bisogna certificare il valore attribuito alla proposta. La questione della visibilità che in qualche modo io ho, grazie alla scrittura, è stata centrale nella decisione. Con la mia scelta, questa visibilità è data a tanti invisibili, a tanti combattenti d’Europa. Io penso che la stessa cosa pensi Moni Ovadia. Per questo non ritengo che si tratti di un inganno per l’elettore”.
Il dato rilevante della Lista è che diversi sondaggisti le attribuiscono il 7% di consensi.
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Marzo 6th, 2014 Riccardo Fucile
RENZI HA DIRITTO A GIRARE PER LE SCUOLE D’ITALIA, MA PER CAMBIARLE, NON PER DEGRADARLE A SERBATOIO DI MAJORETTES
La canzone era così servile che avrebbe messo in imbarazzo i nordcoreani. 
Perciò Renzi, che ha fama di disobbediente («sono un po’ bullo»), avrebbe dovuto liberare, fare discoli e mandar fuori a giocare quei poveri figli di Siracusa che gli cantavano «facciamo un salto / battiam le mani / muoviam la testa/ facciam la festa».
Diciamolo più chiaro: se fosse stato ancora lo stesso che, appena eletto segretario, scelse come inno “Resta ribelle” dei Negrita, Renzi avrebbe certamente intonato «prendi una chitarra e qualche dose di follia / come una mitraglia sputa fuoco e poesia».
E, con l’incitamento a contestare e a irridere i maestri, avrebbe coperto quei miagolii che dai maestri erano stati imposti: «Presidente Renzi, da oggi in poi / ovunque vai, non scordarti di noi».
Non l’ha fatto e l’Italia intera lo ha visto ubriaco di lusinghe.
Ha cominciato ad abbracciare tutti e «Facebook non vale un abbraccio» ha detto, e pensate quanto sarebbe stato renzianamente bello sentirgli invece dire: «Disobbedite, se volete il mio abbraccio».
Anche quel vezzo stucchevole di farsi chiamare Matteo più che da sindaco d’Italia sta diventando un tic da televisivo, non statista in versione Vasco Rossi ma imbonitore in formato Antonella Clerici, quella di “Ti lascio una canzone” che è appunto la fiera del bambino da salotto, tutto moine e mossette, che nessuno, soprattutto a sinistra, vorrebbe avere per figlio.
C’era in più, in quella filastrocca cortigiana, anche il tentativo del glamour, con il clap and jump,e persino con il blues, la disposizione in semicerchio, il gioco perverso di regolare gli evviva e gli applausi, la fatica ruffiana di tradurre e adattare un testo inglese.
Tutto questo per aggiungere charme al solito immaginario canoro degli italiani: una spruzzatina del Sanremo di Fabio Fazio sui bimbi- scimmiette del Mago Zurlì.
Ecco il punto: Renzi ha tutto il diritto di girare le scuole d’Italia, se è questa la sua cifra di politica popolare, ma per cambiarle, come aveva promesso, e non per degradarle a serbatoi delle sue majorettes.
Capisco che qui è facile il paragone con l’uso dei bambini nei totalitarismi, sul quale infatti si è banalmente esibito Beppe Grillo: i figli della lupa, gli avanguardisti della ventisettesima legione che salutavano il duce intonando “Giovinezza”, oppure “i battaglioni della speranza”, ragazzini dai dodici a quattordici anni checantavano nelle parate dell’Est europeo.
La verità è che anche in democrazia troppo si abusa dei giovanissimi, perchè fa un sacco bello lasciare che i bambini vengano a noi e, come ha scritto Milan Kundera, “nessuno lo sa meglio degli uomini politici: quando c’è in giro una macchina fotografica si precipitano verso il bambino più vicino per sollevarlo in aria e baciarlo sulla guancia”.
A Siracusa dunque non c’è stata la manipolazione sordida tipica dei regimi ma lapaideia, il tentativo di ridurre i bambini a protesi ornamentale, di formarli alla piaggeria e all’adulazione: “non insegnate ai bambini la vostra morale /è così stanca e malata potrebbe far male” cantava il Gaber citato da Renzi persino nei libri.
Gaber li vedeva cantare e battere le mani e pensava che facessero “finta di esser sani”, Renzi invece li ha passati in rassegna dando a tutti il cinque.
Ma ieri a Siracusa ho visto di peggio.
Un retroscena rivela infatti che nell’esibizione di quella scuola di borgata, vicina alla chiesa di Lucia, santa e sempre più cieca, non c’è stato solo l’accanimento politico – e ridicolo – del sindaco Giancarlo Garozzo.
Ecco il colpo di scena: la preside Cucinotta, che è la vera regista responsabile dello spettacolino, e la sua vice Katya De Marco sono accanite militanti di Forza Italia.
E dunque io, che da quelle parti sono nato, ci ho visto soprattutto la tristezza infinita di un Meridione che è ancora e sempre lo scenario naturale dello zio d’America, e mi sono ricordato che Silvio Berlusconi a Lampedusa fu accolto come un messia, come un conquistador.
Perchè sempre così è salutato l’uomo potente che viene da fuori, l’uomo del cargo che può essere un capopartito, un cantante, un calciatore, un presidente del consiglio o non importa chi, purchè venga appunto da fuori.
Renzi si rilegga, per risarcire l’Italia, Carlo Levi che racconta di quel tal Vincent Impellitteri che – cito a memoria – tornato dall’America, entra in paese (era la provincia di Palermo e non di Siracusa) su una lussuosa macchina scoperta, ed è accolto dalla gente in festa che lo tratta come uno sciamano: «’Tuccamu a machina, così ce ne andiamo in America’ gridavano i ragazzi del luogo».
Ebbene, Impellitteri non solo non li abbraccia e non dà loro il cinque, ma si addolora e si rattrista al punto che si mette a piangere.
Francesco Merlo
(da “La Repubblica“)
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Marzo 6th, 2014 Riccardo Fucile
L’INTERVISTA AL “MATTINO” MANIPOLATA , MA L’ACCANIMENTO CONTRO DI ULI CONTINUA
Un giorno o l’altro qualcuno dovrà vergognarsi e chiedere scusa al giudice Antonio Esposito, presidente della II sezione della Cassazione.
Bisogna tornare indietro agli anni d’oro di Mani Pulite per trovare una campagna di screditamento così forsennata contro un magistrato onesto.
Una campagna talmente trasversale che, a spiegarla, non basta neppure la sentenza di condanna di B. nel processo Mediaset.
Infatti c’è dell’altro: Esposito, oltre ad aver seguito con rigore e serietà una montagna di mafia e/o malaffare politico e finanziario, l’11 giugno 2013 ha presieduto il collegio che ha respinto la ricusazione presentata dall’ex capitano Giuseppe De Donno contro il gup di Palermo Piergiorgio Morosini, un altro giudice onesto e coraggioso che aveva rinviato a giudizio tutti gli imputati del processo sulla trattativa Stato-mafia.
Su quella ricusazione i molti amici degli imputati politici, dal Quirinale in giù, avevano puntato tutte le speranze di far saltare il processo.
Che invece, grazie a Esposito, riprese subito spedito davanti alla Corte d’Assise di Palermo.
Un mese dopo, il 9 luglio, Esposito divenne assegnatario — come presidente di turno della sezione feriale della Cassazione — del processo Mediaset. E il 1° agosto lesse il dispositivo della condanna che ha terremotato la politica italiana tutta, mettendo in crisi le larghe intese che sorreggevano il governo Letta-Berlusconi-Napolitano.
Poteva Esposito pensare di passarla liscia, dopo aver fatto il proprio dovere non una, ma due volte nel giro di un mese nei due processi più temuti dal sistema di potere che infesta l’Italia? No che non poteva.
Aggredito per tutta l’estate da una campagna politico-giornalistica berlusconiana e mai difeso da chi avrebbe dovuto, cioè il centrosinistra e soprattutto il Quirinale e il Csm, Esposito finì addirittura alla sbarra a Palazzo dei Marescialli, con proposta di trasferimento d’ufficio, per un’intervista (manipolata) a Il Mattino.
Era accusato di aver anticipato le motivazioni della sentenza Mediaset prima che fossero depositate. Accusa che tutti sapevano fin da subito essere falsa: nel testo concordato con il giornalista, l’intervista non conteneva alcun accenno — nè nelle domande, nè nelle risposte — a B. o al processo Mediaset.
Il giudice, parlando in generale di questioni giuridiche, aveva soltanto spiegato che la formula “non poteva non sapere” non esiste in diritto: per condannare un imputato bisogna dimostrare che sapeva o che faceva.
La domanda “Non è questo il motivo per cui si è giunti alla condanna? E qual è allora?”, fu aggiunta dal giornalista sul testo già concordato via fax e all’insaputa del giudice, così da poter sparare un bel titolo su B. “condannato perchè sapeva”.
A novembre, dopo tre mesi di graticola, il Csm dovette arrendersi a un’evidenza chiara fin da subito e archiviare il trasferimento di Esposito.
Ma i consiglieri Pdl, per sfregiarlo ugualmente, proposero di inserire una nota di demerito nel suo fascicolo personale: proposta fatta propria a fine febbraio dalla IV commissione del Csm.
Così lo sputtanamento continua alla vigilia della decisione del Consiglio giudiziario, che ogni quattro anni deve confermare o revocare gli incarichi direttivi ai giudici “apicali”.
La speranza dei molti nemici di Esposito è che venga cacciato da presidente della II sezione. E non è detto che restino delusi: il Consiglio giudiziario doveva esprimersi il 3 marzo, ma ha stranamente rinviato il verdetto senza fissare la nuova data.
Così l’assedio a Esposito prosegue, a tenaglia, da tre fronti: non solo la IV commissione del Csm e il Consiglio giudiziario, ma anche la Procura generale della Cassazione.
Ieri infatti fonti del Csm, violando il segreto d’ufficio, hanno fatto trapelare ai giornali che il Pg Gianfranco Ciani ha avviato l’azione disciplinare contro Esposito, sempre per l’intervista al Mattino; e qualcun altro, in barba al segreto investigativo, ha spifferato al Corriere la notizia di un’indagine a Brescia sul figlio di Esposito, Ferdinando, pm a Milano.
Naturalmente il Corriere ha fatto benissimo a pubblicare la notizia. Ma il fatto che quella su Esposito figlio sia uscita in contemporanea a quella, pure segreta, sull’azione disciplinare contro il padre autorizza qualche sospetto.
L’inchiesta su Ferdinando, comunque si concluderà , non riguarda in alcun modo Antonio (si ipotizzano incontri del giovane pm con B. ad Arcore che, se anche fossero avvenuti, risalgono a mesi prima del 1° luglio, quando il processo Mediaset approdò in Cassazione, e del 9 luglio, quando fu assegnato al presidente Esposito).
L’azione disciplinare contro Antonio invece si fonda (si fa per dire) su un capo d’incolpazione a dir poco lunare: Esposito è accusato di avere danneggiato gli altri quattro membri del collegio del caso Mediaset con l’intervista in cui non parla del processo Mediaset; di avere scavalcato un fantomatico “ufficio stampa della Cassazione”, che notoriamente non esiste; e di aver sollecitato l’intervista al Mattino, mentre l’intervistatore ha più volte dichiarato (al manifesto e a Tempi) che fu lui a chiamare Esposito e non viceversa.
Insomma, tre accuse palesemente e notoriamente farlocche. In attesa che lorsignori se ne accorgano, Esposito rosolerà sul girarrosto per qualche altro mese, così intanto magari verrà cacciato dalla II sezione e i mandanti della vergognosa campagna saranno soddisfatti.
Naturalmente il “metodo Esposito” non si applica solo a Esposito, ma a chiunque altro disturbi i manovratori.
Ne sa qualcosa il pm Nino Di Matteo, che sostiene l’accusa nel processo Trattativa e coordina le nuove indagini collegate: dal giugno 2012, quando il Quirinale lo “segnalò” al Pg Ciani perchè lo sistemasse a dovere, è nel mirino del Csm, anche lui per un’intervista: aveva osato spiegare a Repubblica cosa prevede la legge nel caso di intercettazioni indirette penalmente irrilevanti.
Siccome però si riferiva a quelle di Napolitano con Mancino, apriti cielo. Pazienza se la loro esistenza era già stata rivelata da Panorama e poi da tutta la stampa: Di Matteo finì ugualmente sotto procedimento disciplinare e ci rimase per un anno e mezzo, finchè nel dicembre 2013 Ciani scoprì finalmente l’acqua calda: Di Matteo non poteva rivelare una notizia già rivelata dai giornali. Dunque chiese l’archiviazione.
Oggi la sezione disciplinare del Csm deciderà se accoglierla o meno. Ma state tranquilli che, se mai l’accoglierà , subito dopo scoprirà che Di Matteo ha sbagliato cravatta, o è mal pettinato, o ha la barba lunga.
Come disse Piercamillo Davigo quando toccò al pool Mani Pulite, “non ce l’hanno con noi per quello che diciamo, ma per quello che facciamo”.
Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano”)
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