Marzo 28th, 2014 Riccardo Fucile
UN DOSSIER FALSO SUL PM ROBLEDO, BASATO SULLE PAROLE DI UN’AMICA DI FORMIGONI… E ARCHIVIATO DAL SUO CAPO SENZA AVVERTIRLO
Nel menù del grande scontro fra magistrati che sta lacerando la procura di Milano, ci mancavano solo le polpette avvelenate dei servizi segreti di Cl.
La Procura di Brescia ha aperto un’inchiesta su una manovra diretta a screditare il procuratore aggiunto Alfredo Robledo, capo dei pm milanesi anti-corruzione, accusandolo falsamente di spifferare scottanti segreti investigativi ad amici ed estranei.
L’indagine, in corso da mesi, è condotta personalmente dal pm Fabio Salamone, il numero due della procura di Brescia.
Il reato ipotizzato è la calunnia ai danni di Robledo.
È il segno che l’esperto magistrato bresciano ha già accertato la totale falsità delle insinuazioni contro il collega, che furono travasate anche in un dossier diffamatorio spuntato a sorpresa negli archivi della stessa procura di Milano.
Ora l’inchiesta continua, per smascherare non solo gli effettivi esecutori, ma anche i possibili mandanti dell’operazione di dossieraggio.
L’inchiesta si sta concentrando su personaggi che in base ad altre indagini sono risultati in stretto contatto con l’ex presidente ciellino della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, pluri-indagato per corruzione proprio dalla procura di Milano.
Alfredo Robledo è l’alto magistrato che, con una iniziativa senza precedenti, ha denunciato il suo procuratore capo, Edmondo Bruti Liberati, accusandolo di averlo escluso da una serie di indagini di sua competenza, per privilegiare altri pm.
Nella lettera-esposto inviata al Csm e alla procura generale (pubblicata integralmente sul sito de “l’Espresso”), Robledo cita apertamente le indagini sulla bancarotta dell’ospedale San Raffaele e sui diversi tronconi del caso Ruby: anche quando sono emersi fatti di corruzione o concussione, che in teoria sarebbero spettati ai pm del suo dipartimento (l’equivalente del vecchio “pool” di Mani Pulite), Bruti Liberati ha deciso di affidarli ad altri gruppi di magistrati, guidati dagli “aggiunti” Ilda Boccassini, Francesco Greco e Pietro Forno, competenti rispettivamente per l’antimafia, i reati economici e gli abusi sessuali.
A differenza di quanto era avvenuto in passato in altre procure, però, in nessuno di questi casi la denuncia ha mai messo in discussione i risultati delle indagini, che hanno portato alla condanna in primo grado dell’ex premier Berlusconi e al rinvio a giudizio di Formigoni per corruzione.
Il problema è solo il presunto aggiramento delle regole generali di assegnazione delle indagini, aggravato dal mancato scambio di atti e informazioni tra pm che non si parlano più.
Malumori, rivalità e lamentele covavano da mesi, come in molti ambienti di lavoro, ma la denuncia è partita solo quando il pm Robledo ha chiuso l’inchiesta sulla vendita di una quota della Sea, la società controllata dal Comune di Milano che gestisce gli aeroporti di Linate e Malpensa.
Questa indagine era nata da un’intercettazione trasmessa da Firenze a Milano il 25 ottobre 2011, prima che si svolgesse la gara ritenuta truccata, fissata il 16 dicembre.
Il fascicolo però è rimasto nella cassaforte del procuratore capo fino al 16 marzo 2012: Robledo se l’è visto assegnare solo dopo che “l’Espresso” aveva pubblicato le prime indiscrezioni su quell’intercettazione.
Pochi giorni più tardi, Bruti Liberati ha scritto una lettera di scuse a Robledo, assumendosi tutta la colpa di aver «dimenticato» l’inchiesta in cassaforte, ma precisando che lo stesso aggiunto non gliene aveva più accennato.
Lo scontro fra toghe a questo punto verrà deciso dal Csm.
Potrebbe chiudersi senza vinti nè vincitori, con un impegno per il futuro a collaborare e rispettare i criteri di assegnazione, oppure costare il posto a entrambi: Bruti Liberati, leader della corrente progressista di Md, deve ottenere la riconferma a procuratore e potrebbe essere attaccato dai consiglieri di centrodestra; ma anche Robledo, che non fa parte di alcuna corrente, rischia di trovarsi isolato dalle toghe di centrosinistra e vedersi trasferire anche senza alcuna colpa, per la cosiddetta «oggettiva incompatibilità ambientale».
Di certo, mentre si avvicinano le elezioni per il nuovo Csm, attorno a questo scontro tra personalità e impostazioni giudiziarie diverse, si giocano le cariche di vertice di una procura simbolo come Milano.
Non tutte le carte però sono ancora sul tavolo.
Nella sua denuncia il pm Robledo accennava a un’inchiesta in quel momento segreta, quella che solo nei giorni scorsi ha portato agli arresti dei dirigenti formigoniani di Infrastrutture Lombarde, la cabina di regia dei grandi appalti della Regione, coinvolti anche nell’Expo 2015.
Anche qui due gruppi di pm, guidati da Robledo e Boccassini, hanno indagato sulle stesse persone, senza coordinarsi nè scambiarsi informazioni, con il risultato di non poter utilizzare le intercettazioni realizzate all’insaputa dei colleghi.
Ma nelle ultime righe della sua lettera-esposto, Robledo parlava anche di «ulteriori episodi» che avrebbero «turbato» la procura, che sembravano riferirsi solo a casi già noti come il presunto scontro con Bruti sull’iscrizione tra gli indagati di Guido Podestà , presidente berlusconiano della provincia di Milano, per le firme false presentate a sostegno del listino elettorale di Formigoni. In realtà , tra gli “ulteriori episodi” considerati più gravi, ora spunta la manovra calunniatoria ricostruita nell’inchiesta della procura di Brescia, di cui finora si ignorava l’esistenza.
Tutto parte da una relazione di servizio scritta da un maresciallo della procura, fino a prova contraria in buona fede: come agente di polizia giudiziaria, riferisce tutte le ipotetiche notizie di reato rivelategli da una fonte che è stato chiamato a seguire e che i magistrati non conoscono.
Tra molte dichiarazioni dubbie e tutte da verificare, salta fuori un’accusa diretta a Robledo: il magistrato, giocando a golf in allegria con amici, si lascerebbe scappare segreti investigativi che riguarderebbero perfino le indagini su Berlusconi.
Robledo in effetti, con il collega Fabio De Paquale, ha condotto anche le inchieste (caso Mills e frodi fiscali) che hanno portato alla prima condanna definitiva del leader di Forza Italia.
L’accusa è insidiosa anche perchè la fonte del maresciallo non si presenta come ostile a Robledo: al contrario, sostiene di volerlo avvisare del rischio di fughe di notizie.
La relazione del maresciallo viene consegnata a un pm del dipartimento reati societari, Luigi Orsi, che la trasmette al procuratore Bruti Liberati, senza avvertire Robledo.
Fin qui è tutto normale: tocca al capo valutare l’ipotetica notizia di reato e trasmetterla a Brescia, ovviamente senza mettere in allarme il pm potenzialmente indagabile.
Il fascicolo però resta a Milano.
Secondo quanto ha potuto ricostruire “l’Espresso”, viene archiviato nel cosiddetto “modello 45″, tra i fascicoli che non contengono notizie di reato credibili. E proprio per questo non garantiscono la massima riservatezza.
Qualche mese dopo succede un imprevisto: a Milano finisce sotto inchiesta proprio la fonte, che perde l’anonimato e viene accusata di diffondere notizie e atti falsi.
A quel punto il maresciallo si sfoga con un altro sottufficiale della procura: com’è possibile, protesta, che i superiori lo abbiano incaricato di coltivare i rapporti con quella fonte in realtà screditata e già inquisita da altri pm milanesi?
Nel trambusto che ne segue nella polizia giudiziaria, la strana vicenda arriva alle orecchie di Robledo, che solo allora viene a sapere della relazione-trappola.
E va su tutte le furie: tra l’altro, non ha mai giocato a golf, per cui si sente vittima di una falsità facilmente accertabile.
Probabilmente è proprio per questo che Bruti Liberati l’aveva archiviata sul nascere. Ma Robledo si sente spiato di nascosto: se il capo l’avesse denunciato o almeno informato, lui avrebbe potuto difendersi e sbugiardare la manovra calunniatoria; invece nel modello 45 è rimasta solo la relazione con la falsa accusa, senza alcuna smentita dell’aggiunto ingiustamente denigrato.
L’incidente è aggravato dalla circostanza che il maresciallo ha qualche amico nei servizi segreti (com’è normale tra ex colleghi) e in quei mesi Robledo sta indagando su personaggi che vantano entrature con spioni di Stato ostili alle procure.
Fin qui, sembra andare in scena una specie di commedia degli equivoci tra magistrati che, in un clima di sfiducia, interpretano negativamente ogni mossa dell’altro.
Il vero problema nasce quando le indagini svelano l’identità della fonte, che si rivela una dottoressa ciellina legatissima a Formigoni, che l’8 ottobre 2011 è stato addirittura suo testimone di nozze: è Maria Vicario, una cardiologa del Niguarda inquisita proprio dalla procura di Milano con l’accusa di aver falsificato lettere di “raccomandazione”, in realtà inesistenti, da lei attribuite nientemeno che al capo dello Stato, Giorgio Napolitano, e al suo segretario generale.
Con credenziali fasulle del Quirinale è riuscita a contattare persino Giovanni Bazoli e farsi concedere da Banca Intesa mutui per un milione di euro.
Ma per questo è stata denunciata proprio dalla presidenza della Repubblica.
La dottoressa Vicario era già citata negli atti dell’inchiesta sul San Raffaele come presunta spia delle indagini sulla bancarotta del grande ospedale privato.
Nella seconda metà del 2011, dopo il clamoroso suicidio del manager Mario Cal, la cardiologa è stata intercettata mentre riferiva i presunti sviluppi dell’inchiesta (allora segretissima) a Mauro Villa, il segretario di Formigoni, che poi girava i messaggi al presidente «con linguaggio criptico».
Un’interferenza costante, documentata da sms espliciti e da 139 contatti con il cellulare di Villa e altri 65 con telefoni fissi della Regione.
Proprio in quei mesi l’inchiesta sul San Raffaele ha portato i magistrati a scoprire i fondi neri utilizzati dal faccendiere ciellino Piero Daccò (ormai condannato in appello) anche per le presunte corruzioni di Formigoni a colpi di benefit da otto milioni di euro.
Allora però restava un mistero come una cardiologa del Niguarda potesse vantarsi di spiare la procura. Mentre ora, dalle indagini sulla calunnia ai danni di Robledo, si scopre che la dottoressa Vicario, strumentalizzando il suo rapporto con la polizia giudiziaria, riusciva davvero a infilarsi nelle segrete stanze della Procura.
E addirittura a partecipare ai brindisi tra magistrati organizzati nell’ufficio del procuratore per festeggiare un collega.
Ora resta solo da capire se le sue bugie contro Robledo avessero qualche suggeritore eccellente.
Paolo Biondani
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Marzo 28th, 2014 Riccardo Fucile
VIAGGIO NEI CANTIERI DI MILANO: 4350 METRI QUADRI CHE DOVREBBERO ESSERE PRONTI IL 1 MAGGIO 2015… UN MIRACOLO IL RISPETTO DEI TEMPI
Una landa popolata di fantasmi umani e di mostri meccanici.
Il campo di un milione e cento metri quadrati, lungo due chilometri e largo da 350 a 750 metri, che tra quattrocento giorni coperto di cinquecentomila alberi e tra idilliache scenografie dovrebbe portare dal mondo 20 milioni di visitatori e certificare la fine della decadenza della Nazione, sembra sulle mappe il profilo di un pesce spiaggiato. Come l’Italia.
A guardarlo viene persino voglia di dare ragione, per una volta, al disfattismo di Beppe Grillo, che qualche giorno fa è stato qui e ha commentato: «Non c’è niente, c’è un campo e quattro pezzi di cemento. Ma chi ci viene a Rho?»
Eppure, per fare le cose per bene l’Italia aveva a disposizione 2.585 giorni da quel 31 marzo 2008, il giorno in cui tra epici festeggiamenti ottenne dal Bureau International des Exposition l’organizzazione dell’evento mondiale del secondo decennio del secolo, vincendo la sfida con Smirne.
“Grosse Koalition” all’ombra della Madonnina scrisse il “Financial Times”, commentando la collaborazione tra il governo Prodi, ormai al lumicino, e la destra che governava Milano e la Lombardia con Letizia Moratti e Roberto Formigoni.
Tutti insieme si spesero, anzi spesero in regali ai paesi votanti: scuolabus nei Caraibi, borse di studio nello Yemen e in Belize, una metrotramvia in Costa d’Avorio, una centrale del latte in Nigeria, bus a Cuba, e così via.
Oltre a un numero imprecisato di orologi di pregio e altri presenti a ministri di mezzo mondo. Poi per quasi duemila tragici giorni andò in scena il bieco spettacolo di spartizione tra politici, partiti, correnti, faccendieri, signori degli appalti e anche coppole storte, per la caccia alle poltrone e per assicurarsi fette della torta di potere e denaro. Interessi che la Direzione Nazionale Antimafia definì subito “maggiori persino di quelli ipotizzabili dalla realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina”, che Berlusconi, tornato a palazzo Chigi, aveva rimesso in cima al delirio sulle Grandi Opere.
Ma non una pietra fu mossa in quella striscia di terra tra i comuni di Milano, Rho e Pero, che il nuovo presidente del Consiglio Matteo Renzi, qui in visita tra qualche giorno, dovrà necessariamente presentare come l’evento del grande riscatto del paese di cui si dichiara il protagonista.
Ora il Decumano e il Cardo, come aulicamente vengono chiamate le vie, che nelle città romane si intersecavano da est a ovest e da nord a sud, cominciano a intuirsi nel fango.
Il fango del cantiere e quello dell’inchiesta della procura milanese che ha già portato all’arresto otto persone e promette sviluppi conturbanti. Sviluppi che – Dio non voglia – potrebbero fulminare la corsa contro il tempo per evitare all’Italia la figuraccia mondiale che rischia il primo maggio dell’anno prossimo, quando l’Expo dovrebbe partire
Molti avevano previsto che il sogno sarebbe diventato un incubo.
Di fronte alla sanguinosa lotta per le nomine, il controllo dei finanziamenti e degli appalti, si fece portavoce del “partito della rinuncia” l’architetto Vittorio Gregotti, il quale ricordò il saggio precedente di Francois Mitterrand che all’ultimo momento nel 1989 cancellò i faraonici progetti per la celebrazione del bicentenario della rivoluzione francese.
Ma a Parigi non c’era la simoniaca cupola politico-affaristica lombarda, che per diciotto anni sotto le insegne del casto Roberto Formigoni, capitano di una legione di sedicenti lottatori per la fede ma incapace di sottrarsi al peccato, non ha perso occasione per accumulare potere e denaro con mezzi illeciti, in nome del “ciellenismo realizzato” attraverso la Compagnia delle Opere: un blocco di potere con 34 mila aziende associate e almeno 70 miliardi di fatturato, che ha svuotato lo Stato dall’interno con l’alibi della sussidiarietà .
Negli scandali che si sono susseguiti negli anni, il cerchio magico del Celeste c’è sempre tutto. Organizzato quasi militarmente per specialità di business: la sanità , gli ospedali, l’ambiente, l’urbanistica, l’edilizia, le opere pubbliche.
Delle ruberie sui 17 e passa miliardi annuali della sanità pubblica ormai, con le inchieste e i processi in corso, si sa molto.
Come molto si sa da anni sulla mangiatoia delle opere pubbliche. Alcuni dei nomi che ricorrono nell’inchiesta sull’Expo sono gli stessi che figurano in quella sul “Formigone”. Così è stato ribattezzato il palazzo che l’ex zar della regione ha fatto erigere in via Melchiorre Gioia a perenne celebrazione della sua potenza.
Con i suoi 167 metri di altezza – più alto della Madonnina, come l’ex governatore sostiene volesse Papa Paolo VI – il mausoleo formigoniano è l’emblema dell’appaltopoli meneghina nello skyline dell’ex capitale morale dell’ormai obliata borghesia produttiva.
La procura non trascura un’inchiesta partita sulla base di un rapporto del colonnello Sergio De Caprio, il “Capitano Ultimo” che arrestò il boss mafioso Totò Riina. Ricorrono i nomi di Rocco Ferrara, già arrestato per le estrazioni petrolifere in Basilicata, e di Antonio Rognoni, l’ex direttore di Infrastrutture Lombarde, quello appena arrestato per gli appalti dell’Expo.
Per la cronaca, il “Formigone”, che doveva costare 185 milioni di euro, ne ha ingoiati oltre 500. Capite allora cosa intende la procura quando analizza la vittoria dell’appalto per la “Piastra” dell’Expo da parte della Mantovani, al posto dell’Impregilo, che doveva vincere con il solito accordo di cartello scambiando appalti sulla Pedemontana Lombardo- Veneta, con un ribasso d’asta di oltre il 40 per cento, pari a 100 e più milioni?
Che con gli inevitabili aggiornamenti prezzi c’è “ciccia” per tutti, soprattutto in un’operazione che coinvolge la dignità nazionale in corsa disperata contro il tempo. Un classico nella corruttela nazionale, i cui esempi si sprecano, a cominciare dagli appalti per il G8 della Maddalena gestiti direttamente a palazzo Chigi da Guido Bertolaso, regnante Berlusconi.
Quando l’appalto per la “Piastra” (oltre 160 milioni) andò alla Mantovani, società di cui era diventata pars magna la segretaria dell’ex presidente del Veneto Giancarlo Galan, Claudia Minutillo, con Erasmo Cinque e la Ventura di Barcellona Pozzo di Gotto (poi esclusa per sospetti di mafia), Formigoni fece un comunicato di fuoco per l’eccessivo ribasso d’asta.
E il responsabile delle gare Pierpaolo Perez protestò con un interlocutore al telefono: «Ma cosa si è fumato? Io non lo voto più questo qui, deve essere internato». «È il politico più stupido che io conosco», disse del resto una volta Ciriaco De Mita di Formigoni. O il più furbo di tutti negli affari? Non capì niente in castità perfetta e povertà evangelica, come si richiede ai Memores Domini, o sapeva tutto?
Personalità da psicoanalisi il Celeste, lo stesso uomo che balla sulle note di Hot Chili Peppers su uno yacht da milioni e che poi va a confessarsi dal padre salesiano di via Copernico.
Piove sul fango di piazza Italia, 4.350 metri quadrati che non si sa se saranno mai pronti per il primo maggio 2015; piove sul Children Park e sull’Anfiteatro, già realizzato – così dicono – al 20 per cento; l’Orto Planetario è stato cassato, come buona parte delle autostrade; non piove sulle Vie d’acqua, cancellate dai progetti, che dovevano collegare Rho al vecchio porto della darsena, nè sulla linea ferroviaria Rho Gallarate, che resterà un pezzo di carta inumidita.
Dicono che a 400 giorni dal giorno fatidico per il prestigio internazionale di questa nostra Italia siamo al 40 per cento dell’opera.
Soltanto un rifiuto risoluto del disfattismo nazionale ci permette di crederci.
Se il miracolo si compirà – e ce lo auguriamo – si aprirà la fase delle Red Arrings, le aringhe rosse, bocconi olezzanti che i cacciatori britannici disponevano sul terreno di caccia per distrarre i cani dei cacciatori avversari.
L’Expo come aringa per attirare una speculazione immobiliare da 3 o 400 milioni di euro, quando il peccato originale dell’esposizione universale sarà un angoscioso ricordo.
Si è già fatta sotto personalmente Barbara Berlusconi, leader politica in pectore, manifestando interesse per costruire su 12 ettari del pescione Expo uno stadio da 60 mila per il Milan.
E magari qualche nuova “caricatura” di città nella città , come le chiama l’architetto Mario Botta. Secondo le tradizioni di famiglia.
Alberto Statera
(da “La Repubblica”)
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Marzo 28th, 2014 Riccardo Fucile
I PM: “PRESENZE GONFIATE NEL CENTRO DI GRADISCA, TRIPLICATE RISPETTO ALLA REALTA'”
La truffa nasce da un’idea elementare, almeno secondo la procura di Gorizia: considerato che lo Stato versa una somma fissa per ogni ospite straniero (42 euro) la società che gestisce i Centri migranti ha fatto lievitare i numeri incassando corrispettivi molto più alti del dovuto.
Agile, fraudolento, profittevole.
E così, dal 2008, i responsabili del Centro di identificazione ed espulsione (Cie) e del Centro di accoglienza dei richiedenti asilo (Cara) di Gradisca d’Isonzo (Gorizia) avrebbero truccato regolarmente le fatture riguardanti la struttura che sorge a un tiro di schioppo dal confine sloveno.
Per esempio, i pm scrivono di 3458 ospiti dichiarati contro i 1754 effettivi ad aprile, 4050 invece di 1403 a maggio, 6792 e non 4003 a giugno, 8.094 (4370) a luglio, 8309 (3166) ad agosto, e avanti così per quasi quattro anni, con un picco di 11342 registrati nel settembre 2008, quasi il triplo di quelli reali.
Il che si è tradotto in un centinaio di ricevute contestate per circa tre milioni di euro di «sovrafatturazione» (uno attribuito al Cie e due al Cara), incassati indebitamente dal Consorzio Connecting People di Trapani che amministra la struttura, una delle 19 gestite in Italia: dal Friuli alla Puglia, dal Piemonte alla Sicilia.
Tutte somme versate dal ministero dell’Interno attraverso la Prefettura
«Sistema stabile e organizzato»
Emerge dalle carte depositate dai pm al giudice di Gorizia che martedì scorso ha deciso il rinvio a giudizio di tredici persone, fra cui vari amministratori, attuali ed ex, della Connecting e il viceprefetto di Gorizia, Gloria Sandra Allegretto.
I primi, accusati di associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata e alla frode in pubbliche forniture, la seconda per falso ideologico.
«Erano capi, promotori e organizzatori del consorzio criminale – non fanno sconti i magistrati agli undici che dovranno rispondere dei reati più gravi – Realizzavano un sistema stabile, organico e organizzato per ottenere la liquidazioni sempre maggiori rispetto agli importi dovuti»
Acqua e chiavette
Ad abundantiam , la frode avrebbe riguardato anche le forniture dei beni destinati agli immigrati del Centro di Gradisca, teatro qualche anno fa di accese proteste per le condizioni di vita .
Cioè, il giudice contesta pure il furto di beni a loro destinati: sottratte 89.020 bottiglie d’acqua, 311 schede telefoniche, 3.366 pacchetti di sigarette.
«Omettevano di consegnarle agli ospiti – scrivono i pm – Oltre a non ricaricare le chiavette in uso agli stessi per un importo complessivo di 140613 euro».
Briciole, in termini economici, rispetto alla truffa milionaria contestata al Consorzio. Fin qui, dunque, l’accusa.
Il dirigente e l’alto ufficiale
A processo, che partirà il prossimo 12 giugno, è finito, dunque, il viceprefetto di Gorizia, Allegretto. «Che non intende dimettersi – ha anticipato il suo avvocato, Giuseppe Campeis – E la ragione è semplice: c’è una relazione redatta dal ministero dell’Interno, che incrocia i dati della Prefettura, della Questura e del Centro, dalla quale si evince la correttezza dei comportamenti e delle fatture».
Fra gli imputati anche l’ex generale dell’esercito Vittorio Isoldi, già vice comandante della missione italiana in Libano, poi passato a dirigere il Centro di Gradisca.
«Sono amareggiato, quei numeri non sono falsi», ha dichiarato il suo legale, Enrico Agostinis, arrivando addirittura a sostenere che «semmai, sono sbagliati per difetto». Quanto a bottiglie d’acqua, sigarette e schede telefoniche ricorda invece che le forniture erano gestite da ditte subappaltanti.
E dello stesso tenore la reazione dell’ex direttore del Cie, Giovanni Scardina, pure lui rinviato a giudizio, che parla per bocca del suo legale Alberto Tarlao: «Siamo perplessi, avevamo chiesto un incidente probatorio che ci è stato negato, nonostante il ministero dichiari di non aver subito alcun danno».
Ma per gli inquirenti che hanno lavorato sottotraccia per un paio d’anni non ci sono dubbi: «Tutto è stato ampiamente passato al setaccio, si è trattato di una grande truffa allo Stato italiano».
Andrea Pasqualetto
(da “il Corriere della Sera”)
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Marzo 28th, 2014 Riccardo Fucile
BRESCIA E IL LATTE MATERNO, ROMA E L’ARSENICO, NAPOLI E LE ANALISI TRUCCATE
Brescia, latte materno compromesso e tumori a seno e fegato
Il problema di Brescia sono il cromo e i solventi organoalogenati, sostanze altamente tossiche che risultano presenti nell’acqua potabile.
Che ci fa quella roba nel rubinetto? La falda che serve Brescia ha subìto per decenni l’inquinamento dell’area industriale Caffaro, a pochi passi dalla città .
Le analisi dell’Asl, nel tempo, hanno dato risultati più o meno allarmanti. Lo scorso gennaio due cittadini hanno deciso di far analizzare a proprie spese alcuni campioni: il primo prelievo, fatto in periferia, ha riscontrato una concentrazione di 26,6 microgrammi di cromo per litro d’acqua, dato più di due volte superiore rispetto a quello rilevato dalle analisi Asl tre mesi prima.
Il secondo test, in pieno centro, ha scovato tracce di cromo esavalente per valori poco più bassi ma comunque seri (circa 11,6 microgrammi ogni litro).
L’Asl, solo venti giorni prima, non aveva riscontrato tracce della sostanza e l’acqua delle fontane pubbliche risultava incontaminata.
Da notare che la California nel 2013 ha adottato un limite di 10 microgrammi al litro, mentre quello in vigore in Europa (50 microgrammi per il cromo totale) risale al 1958.
Il gestore dell’acquedotto, A2a, garantisce che tutto è sotto controllo: nel miscelare l’acqua potabile è stata aumentata la dose proveniente dalla fonte (pulita) di Mompiano, e si sta tentando l’abbattimento del cromo versando solfato ferroso nei pozzi sperimentali. Le dosi entrate nel circolo vitale però stanno dove stanno: per esempio nel latte materno, o nelle percentuali anomale di tumori al seno e al fegato.
L’area inquinata è di due milioni di metri quadri, secondo le stime
Roma, l’arsenico scorre nelle tubazioni laziali: 90 Comuni coinvolti
Sono 90 i Comuni del Lazio dove l’acqua non è potabile a causa dell’arsenico, un elemento naturale presente nel sottosuolo per l’origine vulcanica dei terreni, ma che è dannoso per la salute dell’uomo se concentrato in quantità eccessive.
L’area più colpita è quella a nord della Capitale: secondo Legambiente, solo a Viterbo oltre 82 mila persone sono esposte al rischio. Anche a sud, tra Latina e l’area pontina, i Comuni sono alle prese con ordinanze che vietano il consumo dell’acqua, con onerosissimi costi per il servizio autobotti, e l’inevitabile contorno di denunce e polemiche.
Da febbraio il guaio è arrivato anche a Roma, con il divieto emanato dal sindaco Ignazio Marino di utilizzare l’acqua per uso alimentare, igiene personale e ogni altro utilizzo in diverse strade dei Municipi XIV e XV (Primavalle, Labaro e Giustiniana).
I comitati dei cittadini protestano ricordando che da anni hanno segnalato infezioni intestinali e problemi alla pelle. Semplice la sintesi fornita dall’Autorità per l’Energia, che stima per il Lazio una popolazione di 300 mila persone tuttora a rischio nonostante le promesse di soluzioni lampo e un piano regionale allestito dopo i primi allarmi lanciati dall’Unione Europea nel 2004: “I 9 anni di deroghe, scaduti il 31 dicembre 2012, non sono stati sufficienti a rientrare pienamente nei parametri di conformità ”.
Napoli, la camorra e quelle analisi truccate dai laboratori privati
Quando i militari Usa lasciarono le loro case di Casal di Principe, spaventati da quello che c’era nell’acqua (e forse pure nell’aria), la Regione Campania decise misure urgenti e straordinarie per verificare l’entità del pericolo.
Alcune delle società scelte — senza gara — per fare le analisi sono finite all’attenzione del pm della Dda di Napoli, Antonello Ardituro.
Il magistrato scoprì che diversi test sulla potabilità dell’acqua non erano stati eseguiti direttamente dalla Regione, ma da laboratori privati senza alcuna convenzione con la Regione. Una procedura anomala, perchè con una legge del 2001 venne stabilito che solo la Regione Campania può certificare la potabilità dell’acqua.
Così, dall’inchiesta principale sugli affidamenti diretti dei lavori, nacque un’indagine parallela che indaga su alcuni laboratori privati: l’Eurolab srl di Battipaglia, la Scar srl della zona industriale di San Marco Evangelista, la Natura srl di Casoria, il Centro Diagnostico Roselli di Sperone, l’Ultrabios di Nocera Inferiore, la Biopat di Sant’Angelo a Cupolo, Villa Carolina di Torre del Greco, l’Eco Control di Caserta e la Sca srl di Marigliano.
Come ha spiegato Il Mattino, il pentito del clan dei Casalesi, Salvatore Venosa, ha chiuso il cerchio confessando che diversi “imprenditori legati alla camorra hanno lavorato per la Regione nel settore idrico”. In sostanza, il sospetto della procura è che le stesse procedure per stabilire l’inquinamento delle acque siano state artefatte. E che la verità sulle acque campane sia tuttora un mistero.
Chiara Paolin
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 28th, 2014 Riccardo Fucile
“TUTTE LE AZIENDE CHIMICHE INQUINANO, IN ITALIA TENERE APERTA UNA FABBRICA E’ DIVENTATO UN CRIMINE”
Per Leonardo Capogrosso, l’uomo che secondo la Procura di Pescara è l’autore del “pizzino” della Montedison con la consegna del silenzio («non dobbiamo spaventare chi non sa» era scritto a penna sul documento ritrovato nel suo ufficio) e che è sotto processo per avvelenamento delle acque e disastro ambientale (insieme a altri 18 imputati), la fabbrica dei veleni di Bussi non esiste. «Mi scusi, ma quante persone sono morte dopo aver bevuto quell’acqua? Glielo dico io, nessuna. Quindi, di quale fabbrica dei veleni stiamo parlando?»
L’ex dirigente che secondo le indagini della Forestale di Pescara è l’autore di quel foglietto che nel marzo del 2001 invitò i tecnici di una ditta (Hpc) incaricata dei rilevamenti sull’inquinamento del polo chimico di Bussi sul Tirino a taroccare i dati, oggi è un pensionato di 75 anni che vive a Spinetta Marengo in provincia di Alessandria a due passi da un altro stabilimento ex Montedison Ausiliare (ora Solvay) e che attende l’esito del processo in primo grado in Corte d’Assise a Chieti.
Ci spiega quel “pizzino”, quel foglietto?
«E che ne so? Chi l’ha visto… Dicono che faccia parte della documentazione sequestrata nei nostri uffici. Sicuramente se è così chiariremo tutto».
Voi avete truccato i dati sull’inquinamento, questo è scritto nelle carte dell’accusa.
«È falso, ma risponderemo nelle sedi opportune. Punto su punto».
E allora le mail, i pizzini? Le pressioni alla ditta incaricata dei rilevamenti per far taroccare i dati? Che scopo avevano?
«Guardi, io alla Montedison Ausiliari lavoravo dodici ore ogni giorno, non certo per occuparmi dei dati dell’inquinamento, ma per mandare avanti la fabbrica ».
Sì, ma adesso avete lasciato lì la più grande discarica d’Europa.
«Veramente ho scoperto l’esistenza di questa discarica il giorno che la Forestale ha fatto scattare i sequestri…».
Lei ha scoperto l’esistenza della discarica da pensionato, dopo oltre 30 anni di lavoro?
«Sì, sono andato in pensione nel 2003 e mi sono accorto di tutto guardando la tv, il giorno dei sigilli».
Nel 2007? Possibile?
«Certo, guardi che a Bussi sui terreni della Montedison non c’era un cartello con la scritta “discarica”… La verità è un’altra ».
E qual è?
«Sui quei terreni sono stati sotterrati rifiuti industriali dal 1950 al 1965. Io sono entrato in azienda, come anche altri 16 imputati di questo processo, dopo il 1970. Quindi non sapevamo proprio nulla della discarica. Ora però siamo tutti sotto processo perchè non potevano non sapere… La qual cosa è folle in quanto non potevamo effettivamente sapere cosa ci fosse sotto quei terreni. Potevamo immaginarlo, forse»
Ora sa cosa c’è lì sotto?
«Certo, ma si tratta di rifiuti, le ripeto, interrati tra gli anni 50 e gli anni 60. Questo è».
Avevate comunque l’obbligo di gestire lo stabilimento chimico senza inquinare.
«E secondo lei è possibile produrre chimica senza inquinare? Tutte le aziende chimiche inquinano. Tutte. La verità è che con le nuove norme non si può tenere aperta una fabbrica di quel tipo, perchè basta un errore, un incidente…»
Non le sembra un’affermazione quantomeno esagerata?
«Posso dirle che in Italia tenere aperta una fabbrica è diventato un crimine».
Però sotto processo ci siete voi, per inquinamento delle acque e disastro ambientale.
«Ma quale avvelenamento… È morto qualcuno? Non mi risulta. Comunque chiariremo in tribunale ».
Il danno ambientale è sotto gli occhi di tutti. L’Istituto superiore di sanità sostiene che è stata messa a rischio la vita di 700mila persone. Lo sa che nel paesino di Bussi oggi c’è una incidenza della diffusione dei tumori supera del 70 per cento la media regionale?
«Ho letto e mi dispiace, ma non ci sono elementi certi per collegare questi dati con la storia del polo chimico di Bussi».
In quel “pizzino”, in quel biglietto c’era scritto “occorre non spaventare chi sa…” che significava?
«Non ne so nulla, non mi ricordo ».
Guseppe Caporale
(da “La Repubblica”)
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Marzo 28th, 2014 Riccardo Fucile
PENA DI UN ANNO AL TESORIERE NARO, COINVOLTO NELL’INCHIESTA SUGLI APPALTI ENAV
Nell’aprile del 2012 Pierferdinando Casini annunciò lo scioglimento del partito. Ma ancora oggi l’Udc esiste e più che al centro della politica sembra essere nei pensieri di pubblici ministeri, giudici e Guardia di Finanza.
Dopo la notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati di Roma di Lorenzo Cesa per finanziamento illecito, per lo stesso reato incassa una condanna a un anno grazie alle attenuanti l’ex tesoriere in uno dei processi per gli appalti Enav.
Quando scoppiò lo scandalo Rocco Buttiglione di lui disse: “Non fa certe cose”.
Oggi però per l’ex segretario amministrativo Giuseppe Naro è arrivato un primo verdetto di colpevolezza per la vicenda della tangente di 200mila euro che l’imprenditore Tommaso Di Lernia, sostiene avergli versato nel febbraio 2010.
Naro ha sempre respinto l’accusa di concorso in finanziamento illecito, ma oggi il Tribunale ha accolto interamente le richieste del pm Paolo Ielo.
”Ribadisco la mia totale estraneità alle accuse che mi sono state formulate. Per questo ricorrerò in Appello contro una sentenza ingiusta, certo che in tale sede — dice Naro – si riuscirà a fare piena chiarezza su questa vicenda”.
Secondo l’accusa fu Di Lernia, responsabile della Print Sistem, società legata ai subappalti del colosso specializzato nella realizzazione di apparecchiature radar Selex (di cui hanno arrestato l’ex direttore operativo Stefano Carlini nell’indagine su Sistri), a versare il balzello al tesoriere dell’Udc.
Ad accompagnarlo nell’ufficio di Naro, in via Due Macelli, in base a quanto ricostruito dagli inquirenti, fu Guido Pugliesi, ex amministratore delegato di Enav.
Per la procura di Roma – che aveva chiuso le indagini nel maggio del 2012 — a confermare tale circostanza era anche il telefono cellulare di Di Lernia, risultato agganciato alla cella della zona in cui lavora Naro, ed il passaggio della sua auto nella zona a traffico limitato.
Sia Naro sia Pugliesi, avevano respinto le accuse, mentre Di Lernia, che con le sue rivelazioni aveva consentito di aprire uno squarcio nel meccanismo degli appalti dell’Enav, avrebbe riconosciuto l’ex segretario amministrativo dell’Udc in una foto durante un interrogatorio.
Naro invece dichiarò che “Di Lernia si propose dicendo che avrebbe voluto finanziare il partito in vista delle elezioni, facendo tutto secondo le regole. Mi era stato presentato da Guido Pugliesi, però non diede seguito a quelle sue intenzioni”.
Il contributo di 200mila euro destinato a Naro, invece secono la tesi della Procura accolta dal Tribunale, fu la conseguenza di un accordo tra Lorenzo Cola (ex consulente Finmeccanica) e lo stesso Di Lernia, su richiesta e attraverso la mediazione di Pugliesi.
Per l’episodio di via Due Macelli hanno già patteggiato la pena sia Cola, sia Di Lernia, mentre Pugliesi sarà giudicato con il rito ordinario a maggio.
Il 31 gennaio scorso Di Lernia durante una delle udienze del processo aveva raccontato che i soldi furono consegnati a Naro perchè non c’era Casini: “Quella mattina (2 febbraio 2010) l’allora Ad di Enav Guido Pugliesi mi disse che non c’era Pierferdinando Casini, ma che la valigetta che conteneva 200mila euro l’avremmo potuta consegnare a un’altra persona“.
Nel corso della sua deposizione Di Lernia ha raccontato che quel giorno “in via dei Due Macelli” una persona si “presentò come Pippo e si scusò per averci ricevuto in una stanzetta perchè nel suo ufficio era in corso una bonifica dopo la scoperta di una cimice“.
L’imprenditore, rispondendo alle domande del pm, aveva aggiunto che “Pugliesi non prendeva mai direttamente, personalmente soldi, ma mi indicava le persone a cui consegnarli. Erano dell’area dell’Udc”.
E ancora: “In prossimità di non so quale campagna elettorale, mi disse che era meglio se Finmeccanica si fosse avvicinata all’Udc, tramite una dazione per sostenere la loro campagna elettorale. Non so se mi disse che era diretta a Casini o al partito di Casini. Quel 2 febbraio venne a prendermi all’ingresso Pugliesi. Dopo alcuni convenevoli, lasciai i soldi a Pippo, come eravamo d’accordo e dissi: ‘Ti lascio questo pensiero, spero vi faccia cosa gradita’”.
Non è la prima volta che l’ex parlamentare finisce nei guai.
Nel 1992 Naro, da dimissionario presidente della Provincia di Messina, fu indagato per abuso d’ufficio.
L’ inchiesta era relativa all’acquisto di 462 fotografie, raffiguranti paesaggi del Messinese, costate all’amministrazione provinciale 357 milioni di lire.
Nell’aprile del 1993 Naro era stato arrestato per lo stesso reato, ma per un’altra vicenda. Tutte inchieste da cui era uscito indenne.
E così nel 2005 Naro era diventato segretario amministrativo e nel 2006 era tra i nomi in testa di lista dell’Udc al Senato in Sicilia in cui si trovavano anche Totò Cuffaro e Calogero Mannino.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 28th, 2014 Riccardo Fucile
CONDANNATO IN PRIMO GRADO A SEI ANNI PER AVER FIRMATO BILANCI FALSI, SAREBBE STATO SOLLEVATO DALL’INCARICO IN BASE ALLA LEGGE SEVERINO
All’indomani della condanna a sei anni per «abuso e falso» il governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti annuncia le dimissioni: «Le sentenze vanno rispettate sopratutto quando si è uomini delle istituzioni».
Ma si dice sorpreso per una «sentenza clamorosa che lancia un messaggio inquietante e pericoloso per tutti gli amministratori del Paese».
«Abbiamo di fronte a noi – ha detto ancora Scopelliti – la grande responsabilità di dire che è giunto il momento di rassegnare le dimissioni. Ora lo concorderemo con tutta questa grande squadra che mi ha affiancato in questi anni. La Calabria ha bisogno di un governo legittimato».
Poi rilancia: «Lavoreremo e torneremo in campo come sempre a combattere la battaglia da postazioni e con ruoli diversi». «Avere un ruolo o un posto – ha aggiunto – non significa battersi per la propria gente. Il legame profondo che ho con la mia gente e con la mia terra continuerà ad essere in cima ai miei pensieri. Oggi è una giornata molto importante e penso che da questa partita esco con la maglietta bagnata e con la testa alta».
Il Nuovo CentroDestra, partito di Scopelliti, esprime solidarietà al governatore dimissionario.
Scopelliti è stato condannato a sei anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per abuso e falso nella sua qualità di ex sindaco di Reggio Calabria in merito alle vicende legate alle autoliquidazioni dell’ex dirigente dell’Ufficio finanza del Comune di Reggio Orsola Fallara, suicidatasi nel 2010.
L’ex sindaco di Reggio dovrà pagare anche una provvisionale di 120 mila euro.
La sentenza è giunta al termine di quasi un anno e mezzo di processo avviato dalle autoliquidazioni di Orsola Fallara, suicidatasi nel 2010 ingerendo acido muriatico. Parcelle per un importo di 750 mila euro emesse per il suo incarico di rappresentante del Comune nella Commissione tributaria.
Partendo da questo, la Procura ha avviato un’inchiesta che poi si è allargata con una serie di accertamenti tecnici sui conti del Comune dai quali sarebbero emerse una serie di irregolarità nei bilanci dal 2008 al 2010.
Della vicenda si sono occupati anche gli ispettori generali delle Finanze rilevando un disavanzo che sarebbe stato di circa 170 milioni di euro.
Se anche non si fosse dimesso, appena il governo avesse preso atto della condanna di primo grado, il governatore sarebbe stato sospeso dalla carica per effetto della legge Severino.
(da “il Corriere della Sera”)
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Marzo 28th, 2014 Riccardo Fucile
VOLENTEROSA, PESO SPECIFICO ZERO, SPESSO IN DIFFICOLTA’
Maria Elena Boschi, ministro 33enne da Laterina, Arezzo, ha un passato d’attrice: per qualche anno, infatti, ha fatto la Madonna nel presepe vivente organizzato dalla sua parrocchia.
Ebbene, non sembri irriverente il paragone, ma anche oggi la giovane ministro ai Rapporti col Parlamento interpreta la parte della Madonna, stavolta nel presepe renziano.
In aula, gli eletti d’ogni ordine, grado e colore passano, in interminabile processione, a renderle omaggio e a sussurrarle all’orecchio frasi preziose: forse è per la sua simpatia, forse perchè tutti sanno che è una delle poche persone ammesse alla confidenza di Matteo Renzi.
Qualcuno, sostengono i più maligni, passa solo per farsi una bella foto nell’occhio del ciclone del renzismo, visto che gli obiettivi dalle tribune puntano la ministro senza sosta
“Magari non è brillantissima nella conoscenza delle tecniche parlamentari, ma la sua vicinanza a Renzi, il suo peso politico, le garantisce che almeno l’aula la ascolti con attenzione”, racconta un deputato.
Poco male per la tecnica e la gestione dei rapporti: alla Camera la copre la sottosegretario Sesa Amici, deputata di lungo corso e politica d’esperienza che si sobbarca anche l’arduo compito di auscultare gli umori dei gruppi in Transatlantico; al Senato quel compito è appannaggio di Luciano Pizzetti, funzionario di partito pure lui, alla terza legislatura.
Le Camere, d’altronde, sono la vera casa del ministro Boschi: l’ufficio di Largo Chigi è per i funzionari, lei – a differenza dei suoi predecessori Giarda e Franceschini – è continuamente in Parlamento.
Si tratta, insomma, di un politico assai volenteroso, ma il cui peso specifico è al momento pari a zero.
Il debutto, per dire, fu di quelli terrificanti: il 26 febbraio – quando Boschi era in carica solo da quattro giorni – si ritrovò in una riunione ristretta a spiegare che il decreto Salva-Roma sarebbe stato lasciato decadere perchè non c’era abbastanza tempo per convertirlo.
Il problema, poi risolto con una nuova norma, era che la capitale senza i soldi stanziati in quel testo non avrebbe pagato gli stipendi a lungo: quando le fecero presente la cosa, racconta una fonte, la ministro andò nel panico e fu Graziano Delrio da allora a gestire la pratica.
Pure sui sottosegretari indagati, dopo i mesi del Renzi manettaro delle primarie, fu mandata in aula con poche righe scritte dagli uffici in risposta ad una interrogazione del M5S: “Non è intenzione di questo governo chiedere dimissioni sulla base di un avviso di garanzia, ma eventualmente per motivi di opportunità politica”, lesse con tono monocorde.
Anche mercoledì in Senato, per dire, non è andata benissimo. Presa la parola in aula per porre la fiducia sulla legge sulle province, s’è ritrovata nel mirino di Roberto Calderoli, il quale – con malvagia noncuranza – le ha chiesto se il testo da votare era quello della Camera o quello modificato dal Senato.
Alcuni secondi di vuoto, sguardo perplesso, silenzio: solo l’intervento di Piero Grasso le ha consentito di mettere insieme una risposta.
Maurizio Gasparri, impietoso: “Tremo al pensiero di affrontare la legge elettorale con un ministro che ha dovuto prendere la parola per tre volte per spiegare che metteva la fiducia e su cosa. L’esperienza, la conoscenza dei fatti e la non improvvisazione sono requisiti essenziali per affrontare questioni complesse”.
L’ex ministro delle Comunicazioni, in realtà , può stare tranquillo: pur avendo la delega anche alle Riforme, la legge elettorale e la modifica della Costituzione non sono materia per Maria Elena Boschi.
La trattativa sui contenuti si svolge fuori dalle Camere e dalla portata del ministro. Quando poi, come fu per l’Italicum, c’è qualcosa che non torna, appaiono improvvisamente nei paraggi Luca Lotti e Denis Verdini: i due si mettono d’accordo, verificano la tenuta dei gruppi e poi fanno una bella chiacchierata anche con l’avvocato Boschi, già consigliere giuridico del sindaco di Firenze.
Nel presepe renziano ognuno ha la sua parte.
E per lo più si recita a soggetto.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 28th, 2014 Riccardo Fucile
ESCLUSI DALLA CORSA ALLE EUROPEE COSENTINO E SCAJOLA… PER IL CAPO E IL SUO CERCHIO MAGICO UNA SCONFITTA MASCHERATA DA COMPROMESSO
Arrivato all’ennesimo momento della verità , tra falchi e cerchio magico, Berlusconi se la cava, come riferisce un partecipante reduce dalla riunione, “con un colpo al cerchio e uno alla botte”. Un classico del berlusconismo che si fa concavo e convesso.
Palazzo Grazioli, le quattro del pomeriggio. L’ex Cavaliere riunisce nel suo parlamentino il nuovo comitato di presidenza di Forza Italia.
Più di sessanta azzurri tra prima (con diritto di voto) e seconda fascia (senza).
Il compromesso sulle liste per le Europee è questo: “Se qualcuno tra gli attuali parlamentari alla Camera o al Senato si vuol candidare, una volta a Strasburgo, si dovrà dimettere”.
Raffaele Fitto, uno dei cosidetti big portatori di voti, interviene subito dopo: “Per me va bene, se mi candido, mi dimetto”
Il braccio di ferro con i falchi di Denis Verdini finisce con questa soluzione.
Lo sherpa di B. per le riforme aveva messo nero su bianco la necessità di candidare i notabili per evitare un flop. Berlusconi aveva ribattuto, preceduto dalla fidanzata napoletana, con un no secco, invocando un presunto rinnovamento a favore della linea movimentista Toti-Fiori.
Alla resa dei conti, però, B. ha concesso qualcosa. Sì a Fitto, anche se resta il no a Cosentino. A Napoli, nonostante le smentite, domenica mattina è previsto il debutto di Forza Campania, partitino scissionista dei cosentiniani
Sul lodo Fitto si è anche votato. Un altro partecipante racconta che non c’è stata alcuna differenza tra i presenti: “Il presidente ha chiesto a tutti di votare, anche a quelli nominati come semplici partecipanti e non membri”.
Un motivo c’è. La pace, meglio la tregua interna è passata all’unanimità . Nessuno si è messo contro.
Anche se sono state almeno due le assenze polemiche.
La prima è quella di Gianfranco Rotondi, premier del governo ombra del centrodestra. In un tweet ha annunciato: “Non partecipo al comitato di presidenza di Forza Italia, sono impegnato a innaffiare le piante”. Da notare che ieri, a Roma, pioveva.
Seconda assenza quella della siciliana Stefania Prestigiacomo, offesa per essere stata inserita nella seconda fascia nonchè infuriata per la promozione del suo corregionale Gibiino nella prima cerchia
Nel suo intervento, Berlusconi ha ovviamente affrontato la “persecuzione giudiziaria” nei suoi confronti (sotto accusa “le toghe rosse di Magistratura democratica”) e ha dettato l’ambiguo slogan per le elezioni del 25 maggio: “Più Italia in Europa, meno Europa in Italia”.
Ambiguo perchè Forza Italia, accreditata di un terzo posto dopo Pd e Grillo, tenterà di intercettare il vento anti-euro con una campagna critica che però non si spingerà fino in fondo. Tra le priorità di B. anche la possibilità della Bce di stampare moneta per gli Stati in difficoltà . Sulle alleanze per le amministrative è stato ecumenico: “Si vince se il centrodestra è unito”. Chiaro il riferimento a Ncd, il partito di Angelino Alfano.
Da qui a ipotizzare , però, un fronte comune anche alle Europee ce ne vuole. A parole, B. mostra per la prima volta i muscoli al premier: “Il patto sulle riforme non si tocca, ma l’opposizione deve essere più dura altrimenti finiremo per essere nè carne nè pesce”.
Dopo Berlusconi, a chiedere la parola sono stati appena in tre. Fitto, appunto.
E poi l’ex an Altero Matteoli e Antonio Martino, tra i fondatori di Forza Italia.
Ieri ricorreva pure il ventesimo anniversario della prima vittoria di B. alle politiche, quella contro la gioiosa macchina da guerra del centrosinistra di Achille Occhetto. In silenzio tutti gli altri.
A partire da Verdini, il nemico numero del cerchio magico formato da Francesca Pascale, Maria Rosaria Rossi, Giovanni Toti e Marcello Fiori.
Presenti questi ultimi tre ma non la fidanzata.
Prima di entrare il neoazzurro Clemente Mastella ha liquidato così le polemiche sulla Pascale: “Lei alla riunione? Mi pare una stronzata, detto con franchezza”.
L’ex Guardasigilli su cui inciampò e cadde il governo Prodi quasi certamente sarà in lista al sud. Non tutti sono felici dentro Forza Italia: “Dire di sì a Mastella e no a Cosentino e Scajola non ha senso”.
Senza dimenticare che Fitto si è salvato con la clausola capestro delle dimissioni da Roma.
Fabrizio D’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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