Marzo 22nd, 2014 Riccardo Fucile
ABITUATO A FREQUENTARE LE AMBASCIATE STRANIERE, GRILLO HA LA CODA DI PAGLIA…. CHE CI FACEVANO PIUTTOSTO LUI E CASALEGGIO ALL’AMBASCIATA INGLESE?
Dopo le “rivelazioni” di Grillo l’ex premier Enrico Letta replica: «Sono tutte farneticazioni». E poi spiega: «Ero in ambasciata quel giorno per una riunione di preparazione del programma del Forum di Pontignano».
Si riferisce al Convegno Italia-Gran Bretagna appuntamento annuale che si ripete dal 1993 e che Letta ora presiede, dopo essere subentrato a Giuliano Amato, «insieme a Chris Patten», ex commissario Ue per le Relazioni esterne e ultimo governatore inglese di Hong Kong.
«Ebbene – prosegue Letta – verso la fine della riunione, l’ambasciatore mi disse: “Oggi viene Grillo con Casaleggio per un pranzo, se vuoi gli dico che sei qui, se volete potete incontrarvi».
Richiesta che Letta così declinò: «Per trasparenza digli pure che ci sono, ma non vedo il motivo per incontrarci. Se ci dobbiamo vedere facciamolo a livello ufficiale e alla luce del sole».
«Il fatto – conclude l’ex premier – che fossimo entrambi nello stesso posto era un caso, tutto il resto sono farneticazioni».
E anche dall’ambasciata inglese giunge pronta la smentita su «complotti e macchinazioni». «Letta era nella Villa – spiega un portavoce dell’ambasciata – ma per parlare di tutt’altre vicende che la politica».
Le affermazioni di Grillo «non corrispondono a verità » e «la presenza concomitante è stata gestita nel pieno rispetto della privacy di entrambi gli ospiti e non ha portato ad alcun incontro tra i due, incontro che l’ambasciata non aveva peraltro alcun interesse a promuovere».
Arriva su Twitter la replica dell’ex segretario Pd al leader del M5s che nell’intervista a Mentana aveva detto: “Mandato al massacro”.
“Grillo lasci stare Letta e stia tranquillo. Le persone perbene so riconoscerle”. Questa la secca risposta di Pier Luigi Bersani a Beppe Grillo, che ieri nell’intervista a Mentana ha sostenuto che Enrico Letta fosse tra quanti gli avevano impedito di andare a Palazzo Chigi.
(da “La Repubblica“)
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Marzo 22nd, 2014 Riccardo Fucile
COME FU CHE IL PARLAMENTO, ALL’UNANIMITà€, CI IMPOSE IL VINCOLO SUL DISAVANZO… L’EROISMO SOLITARIO DI IANNACCONE
Nell’aula della Camera, proprio mentre gli afflati europeisti toccavano vette tuttora
inesplorate, il solo Arturo Iannaccone — medico avellinese di tradizione Dc, passato nel Ccd, poi nell’Udc, poi in Mpa e infine in Noi Sud — faceva sentire la voce della sinistra politica: “Riteniamo che sia sbagliato imporre ulteriori vincoli. Stiamo rincorrendo questa folle corsa della Germania a realizzare un’Europa austera che non guarda alla crescita e alle condizioni dei più deboli, ma solo al rigore e ai bilanci”.
La battaglia contro l’austerity, Iannaccone, la faceva già nel novembre 2011, quando la patria si stringeva attorno a Mario Monti e votava in cinque minuti l’introduzione in Costituzione del pareggio di bilancio.
Per unico alleato trovò Giorgio La Malfa: “Se questa norma venisse intesa nel senso letterale daremmo addio agli investimenti in questo Paese”, scolpì a uso dei distratti colleghi.
Ancor peggio andò in Senato: l’unico a sventolare la bandiera rossa fu Mauro Cutrufo, democristiano pure lui, ma in forza al Pdl.
BREVE RIEPILOGO
Forse Matteo Renzi non lo sa, ma ha ragione: il vincolo del 3 per cento tra deficit e Pil è “anacronistico”.
Nel senso che il Parlamento italiano — all’unanimità — solo due anni fa ha avuto modo di darsene un altro assai più stringente: il pareggio di bilancio, appunto, cioè il vincolo dello zero per cento. Il pareggio, o equilibrio, di bilancio è stato introdotto nella Costituzione italiana il 20 aprile del 2012: regnava — da cinque mesi — Mario Monti, ma lo zero per cento era nato già con Silvio Berlusconi.
Deriva infatti dal patto “Europlus” del marzo 2011, da cui nasce il Fiscal Compact, e compare anche nella famosa lettera della Bce al governo dell’agosto 2011.
Fu, infatti, proprio il governo dell’ex Cavaliere a presentare alle Camere (il 7 settembre) un ddl per inserire il pareggio di bilancio all’articolo 81 della Carta.
Si trovò in buona compagnia visto che ddl analoghi li avevano presentati quasi tutti i partiti: dal Pd (prima firma Pier Luigi Bersani) a Italia dei Valori, dal Pdl al Terzo Polo.
Il dibattito sul tema cominciò in ottobre alla Camera, entrò nel vivo a novembre, dopo il cambio di governo, ad aprile era tutto finito. Rileggerlo è istruttivo.
La voglia di bondage economico — mani legate, sacrifici, tagli — dei partiti italiani in quei giorni aveva raggiunto il culmine, anche di quelli come Forza Italia o Lega Nord che oggi vogliono la rivolta contro l’Europa.
IL PAREGGIO?
Non basta, fateci soffrire di più, smaniavano i parlamentari d’ogni colore (eccetto Iannaccone). Prendiamo Pier Paolo Baretta, Pd, sottosegretario all’Economia di Renzi: “Il metro di misura del risanamento è un bilancio non in rosso. Il discrimine non è obbligatoriamente l’avanzo, che pure non guasta, ma certo l’abbattimento del disavanzo”.
Giuseppe Marinello, Pdl, uomo di Angelino Alfano, vedeva già il sangue per le strade: “Non sono bastate le lezioni del Cile del 1973, dell’Argentina degli anni scorsi, della Grecia quest’anno? Paesi dove un welfare insostenibile ha alimentato il debito e poi portato alla bancarotta e alla guerra civile”.
Il berlusconiano, poi montiano, Giuliano Cazzola, addirittura si astenne per protesta: “La norma doveva essere netta: non può contenere riserve che consentano di derogare al pareggio”.
Pure un altro montiano, Benedetto Della Vedova, voleva di più: “Mancano strumenti che ‘inchiodino’ la politica” (oggi è sottosegretario di quello che il 3 per cento è anacronistico).
Pure Francesco Barbato (Idv) partecipò a suo modo: “Basta cda pubblici, basta auto blu, basta casta!”.
Alcuni, va detto, fecero sfoggio di erudizione fuori dal comune.
L’attuale viceministro all’Economia Luigi Casero, allora Pdl, ricorse ad arditi paragoni scientifici: “È la fisica che dimostra che una leva troppo lunga, la leva finanziaria, si spezza quando deve sollevare pesi troppo elevati come l’economia occidentale”.
Peppino Calderisi, altro berluscones: “Lo short-termism che caratterizza le moderne democrazie di massa riduce drammaticamente gli spazi per un uso coerente del deficit spending”.
Roberto Simonetti, Lega Nord: “L’economia sociale di mercato ha messo in crisi il dogma del pareggio di bilancio che fu raggiunto in tempi lontani, per esempio nel 1897, dal biellese Quintino Sella. Lo dico da presidente della provincia di Biella”.
Daniela Melchiorre, Liberaldemocratica già diniana, inneggiò alla cosa — per così dire — con la doppietta: “È un segnale forte e chiaro in un momento di incertezza e travaglio per la nostra economia e il nostro Paese”.
Altri, invece, lo dicevano da anni che bisognava pareggiare.
Tipo Renato Cambursano di Italia dei Valori: “Questo impegno avremmo dovuto assumerlo molto prima… Siamo in ritardo”.
Ma di quanto? Rispose Linda Lanzillotta, ex ministro: “È un passaggio importante anche se arriva, purtroppo, con trent’anni di ritardo”.
Altri, in questa orchestra, sceglievano senz’altro di suonare il trombone. Antonino Lo Presti, finiano: “È un momento solenne, una svolta di portata storica per il legislatore italiano, che sceglie di vincolare le proprie decisioni future al rigore finanziario”.
Enrico Letta, ex premier: “Noi assumiamo questa sfida: la assumiamo per il destino dei nostri paesi, per il destino di noi europei e, soprattutto, per il futuro dei nostri figli”.
Gianclaudio Bressa, Pd, dopo aver scomodato Luigi Einaudi, Ezio Vanoni e Costantino Mortati, concludeva leggermente su di tono: “Torniamo protagonisti del riscatto della democrazia parlamentare!”.
Ci voleva un vero democristiano come Roberto Occhiuto, giovine deputato Udc, per riportare il tutto ad una dimensione più consona: “Tutti negli anni abbiamo sbagliato: chi più, chi meno”.
E in coerenza con questo aureo principio alla Camera, in due letture, si contarono solo 3 voti contrari, in Senato nessuno.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 22nd, 2014 Riccardo Fucile
TRA TWITTER, GAFFE E MANICHE DI CAMICIA…E ALLA FINE SQUINZI LO SMENTISCE SULL’ENTUSIASMO DELLA MERKEL
Lo stile è il suo, in trasferta si nota anche di più: su Twitter Matteo Renzi commenta il suo debutto al “Consiglio d’Europa”, che però è un’istituzione completamente diversa da quella in cui si è impegnato in questi due giorni, cioè il Consiglio europeo (gli fanno notare l’errore e, dopo alcune ore, il Tweet sparisce).
In conferenza stampa racconta il suo stupore per aver scoperto “una usanza che non conoscevo”: cioè che durante la riunione del Consiglio tra i capi di governo “si parla continuamente, anche mentre si mangia”.
Renzi non ha la confidenza con i riti dell’Europa che aveva Mario Monti e neppure il rispetto assoluto che era di Enrico Letta.
Bruxelles è soltanto uno sfondo diverso per mandare gli stessi messaggi di ottimismo renziano alle famiglie italiane che vedranno il premier al Tg.
La piccola sala stampa dell’Italia nel seminterrato del palazzo di Justus Lipsius cambia per il nuovo premier: via il tavolo verde da cui Monti raccontava i duelli con Angela Merkel, ecco il podio per Matteo, che interviene da solo, come sempre.
Il resto della squadra europea, dall’ambasciatore Stefano Sannino al sottosegretario Sandro Gozi, restano silenziosi in disparte.
La cena deve essere tutta per il premier, che arriva trafelato come sempre, “a young man in a hurry”, il giovanotto che va di fretta, lo hanno chiamato Financial Times ed Economist.
Appena entra nella saletta si toglie anche la giacca e la affida a una signora bionda (responsabile del cerimoniale, abituata a ben alti formalismi), si arrotola le maniche della camicia bianca e comincia lo show dal podio.
Parlare di Europa non è la cosa che gli riesce più facile, dietro gli europeismi obbligati si intravede l’insofferenza (“la Commissione si chiama così ma non è una commissione d’esame”).
Al premier però piace – un po’ come piaceva a Silvio Berlusconi – il genere di racconto “io e i grandi della Terra”
Ha anche rievocato la cena di lunedì scorso a Berlino, con la Merkel e gli imprenditori tedeschi.
Subito gli replica dall’Italia il capo della Confindustria Giorgio Squinzi, uno dei pochi italiani non renziani rimasti: “Devo sfatare il clima idilliaco descritto per l’incontro di lunedì tra Merkel e Renzi. Io ero alla cena e lei è molto austera nei nostri confronti: non è che ci abbia accolto a baci e abbracci, ha detto che non possiamo derogare alle regole”.
Dettagli, minuzie, quisquilie per Renzi che da Bruxelles torna con la sicurezza di aver interpretato perfettamente quel misto di scetticismo e sopportazione che domina tra gli italiani quando pensano all’Europa.
Anche da Bruxelles il premier vuole prima di tutto essere in sintonia col suo pubblico, tutto il resto – i tecnicismi sul deficit e anche la crisi Ucraina – è secondario.
Non cita mai, neppure una volta, il documento conclusivo del Consiglio, quando invece Monti e Letta si impegnavano in minuziose analisi del testo.
Renzi supera anche l’inevitabile test di Ivo Caizzi: il veterano dei corrispondenti da Bruxelles, del Corriere della Sera, ha fatto perdere la calma più volte a Mario Monti e perfino a Fabrizio Saccomanni, con le sue domande. Renzi lo ascolta e poi lo neutralizza: “Bene, raccogliamo un po’ di domande così rispondo a tutte insieme” (scegliendo con una certa cura quali dimenticare e quali no)
In altri momenti – quelli più drammatici della crisi dell’euro – la disinvoltura renziana avrebbe inorridito le vestali delle forme europee.
Oggi no, c’è un clima di smobilitazione, tutti i presidenti sono in scadenza, incluso il padrone di casa Herman van Rompuy.
Che Renzi pronuncia con una correttezza rara, con la “u” che si legge quasi “o”. Sembra che il premier improvvisi, ma anche ostentare dilettantismo è una scelta.
E uno stile che, per ora, funziona.
Stefano Feltri
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Marzo 22nd, 2014 Riccardo Fucile
NON OTTIENE NESSUN RISULTATO CONCRETO IN EUROPA E DICE: “IL FISCAL COMPACT VA RISPETTATO”… CRITICA IL COMMISSARIO COTTARELLI: “ALCUNE COSE DELLA SUA SPENDING REVIEW NON MI HANNO CONVINTO”
Il Fiscal compact è un impegno che il nostro Paese ha preso e come tutte le regole che ci siamo
dati confermiamo l’impegno”.
Alla fine è soltanto questa frase che conta: in Parlamento il premier Matteo Renzi aveva definito “anacronistico” il vincolo del deficit al 3 per cento del Pil (è di vent’anni fa), ma a Bruxelles promette di rispettare la gabbia più contemporanea, quella che impone fin nella Costituzione il pareggio in bilancio.
E per rispettarlo subito bisognerebbe fare quella correzione di bilancio da 4-5 miliardi di euro strutturali che la Commissione europea chiede, inascoltata, da mesi.
Di solito le conferenze stampa alla fine del Consiglio europeo servono ai capi di governo a vantarsi dei risultati ottenuti durante i lunghi negoziati notturni, a presentare come epiche vittorie nazionali gli scialbi compromessi che di solito si nascondono dietro le frasi del comunicato finale del Consiglio.
Renzi invece parla soprattutto del semestre di presidenza italiano che comincerà a luglio, di quello che il governo vuole fare, di tutte le occasioni che ci saranno per incontrare gli altri leader, sei mesi che devono diventare “l’occasione di una grande scommessa sull’Europa”.
Risultati che può vantare dalla due giorni europea: nessuno concreto, ma “non siamo mica venuti qui a farci dare la bollinatura alle nostre riforme”.
Poco è filtrato della colazione tra il premier e il presidente del Consiglio europeo, Herman van Rompuy.
L’incontro con il presidente della Commissione Josè Barroso, giovedì, non era andato benissimo, nessuna concessione sul deficit e nessun via libera preventivo: prima di avallare le riforme di spesa, come il taglio delle tasse in busta paga, la Commissione vuole vedere i provvedimenti di legge che attuano la spending review.
Renzi contesta questa lettura, dice che sono “ricostruzioni fuori dalla realtà ” e che comunque il suo obiettivo è “far sorridere le famiglie italiane”, non i due leader europei che, ci tiene a ricordarlo il premier, “sono in scadenza di mandato”.
In questi due giorni Renzi ha fatto poco per rassicurare i suoi interlocutori europei che sono ammirati dalla forza politica del giovane leader, ma un po’ perplessi sulla sua disinvoltura contabile.
L’idea di scorporare la spesa per il cofinanziamento dei fondi strutturali dal deficit (cioè il contributo dell’Italia ai progetti europei) non è un tabù a Bruxelles.
Ma preoccupa il fatto che la priorità del premier non sembri affatto rilanciare i progetti di infrastrutture che con quel trucco contabile si potrebbero finanziare, ma guadagnare margini di manovra per tagliare le tasse prima delle elezioni europee. L’argomento usato da Renzi — “siamo contribuenti netti”, cioè diamo all’Europa più di quanto riceviamo — è di quelli usati da sempre dalla Gran Bretagna e dai Paesi più euroscettici: non funzionerà mai per convincere la Commissione.
E visto che tutta la credibilità delle coperture delle promesse renziane si fonda sulla revisione della spesa, attaccare il commissario Carlo Cottarelli nella conferenza stampa di Bruxelles non è stata forse la scelta tattica migliore. “Il piano di Cottarelli è un buon punto di partenza”, ha detto il premier, che poi ha subito precisato: “Ma alcune cose non mi hanno convinto”.
Tipo l’ipotesi di intervenire sulle pensioni, che Cottarelli continua a riproporre.
La scelta di spostare il commissario dal Tesoro a palazzo Chigi sembra sempre di più un modo per ridurlo al rango di consulente (qualche giorno fa l’aveva retrocesso a “commercialista”) che offre suggerimenti, non certo prescrizioni.
Solo Renzi è così concentrato sull’economia. Gli altri leader sono molto più preoccupati dalla crisi ucraina e di come contenere l’avanzata di Vladimir Putin.
Il Consiglio europeo firma una prima parte politica di un “accordo di associazione” che serve ad ancorare Kiev alla Ue, mentre arrivano sanzioni per altri 12 soggetti vicini a Putin.
Ma la grande battaglia, quella sull’energia, quella per emancipare l’Europa e l’Ucraina dalla dipendenza dal gas russo, ancora non è davvero cominciata, la Germania invita alla cautela.
Di Russia Renzi si scorda di parlare, in conferenza stampa.
Quando glielo ricordano si scusa, ma non c’è più tempo: deve tornare subito a Roma.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 22nd, 2014 Riccardo Fucile
DALLE INTERCETTAZIONI EMERGE CHE L’AMICO CHE HA PAGATO L’AFFITTO AL SINDACO TENEVA I RAPPORTI DEL COMUNE CON IL COSTRUTTORE FUSI
“Ci si rimette con il progetto in mano a vedere cosa si può fare traendone il meglio reciprocamente? Perchè il meglio dovete trarne voi come imprenditori e noi come Comune”. Così Marco Carrai parlava a Lorenzo Nencini, incaricato da Riccardo Fusi a creare rapporti nell’amministrazione guidata da Matteo Renzi.
Tanto che poi lo stesso Fusi incontrerà di persona il sindaco.
L’intercettazione è del 2 settembre 2009. La giunta dell’attuale premier si era da poco insediata.
Quello che oggi si dichiara solo un amico del premier e che ha confermato di avergli pagato casa per tre anni in centro a Firenze, abitazione in cui Renzi prese anche la residenza, all’epoca parlava a nome dell’amministrazione comunale.
Pur non avendo incarichi formali. Quelli sarebbero arrivati dopo.
Come consigliere particolare del sindaco, il 25 settembre, nonostante già fosse responsabile dell’associazione Noi Link creata per raccogliere fondi a favore dell’attività di Renzi.
Poi lo sarà anche della Fondazione Big Bang e siederà in Firenze Parcheggi prima di insediarsi alla guida dell’Adf, società che gestisce l’aeroporto cittadino e nell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze.
“Non sono un politico, sono un imprenditore”, ha ribadito più volte negli ultimi giorni Carrai.
Eppure queste intercettazioni dimostrano che la parola di Carrai valeva quanto quella di Renzi . “Sono la stessa testa”, almeno per i suoi interlocutori.
Il due settembre Nencini telefona a Fusi per riferire l’esito degli incontri avuti in mattinata.
“Sono appena rientrato in ufficio dopo quell’incontro che ti avevo detto (…) lì ho incontrato tutti: sindaco, vice sindaco… quindi Renzi, Nardella… e poi sono andato a pranzo con questo Cerrai (Carrai, annotano gli inquirenti)… questo Cerrai oltre a essere il migliore amico di Renzi è proprio non si può neanche dire il ‘braccio destro’ è la solita testa; nel senso che quello che dice Cerrai è quello che dice Renzi e viceversa (…) ha potere decisionale”.
I due, riferisce ancora Nencini, hanno parlato dei progetti che stanno particolarmente a cuore alla Btp di Fusi, lavori oggi ancora bloccati: l’area del Panificio militare e quella della Manifattura Tabacchi.
Io, riferisce Nencini, ho detto: “Guarda… Marco… a noi non ci pare il vero… se ci si crea la possibilità di sedersi a un tavolo e sfruttare al meglio quell’area … ma sfruttare vuol dire … per il Comune che ne tragga il miglior beneficio e per noi imprenditori se ne tragga perlomeno il nostro (…) ci fa solo piacere ma con l’amministrazione di prima avevan fatto uguale… perchè …”.
“Si … si… so tutto… so tutto… so tutto”, lo interrompe Carrai.
“In finale — conclude Nencini — mi ha detto: “Dammi questi dieci… una decina di giorni… mi riunisco con tutti … ti richiamo … ci si rivede… si mette le cose sul tavolo… e si snocciola il problema… e si decide che fare”.
I contatti proseguono.
Si arriva all’incontro tra Fusi e Renzi il 21 ottobre.
Questa volta è l’imprenditore a chiamare Nencini e spiegare come portare a casa la partita dei lavori.
Nencini, dice Fusi, tiene i rapporti con Carrai, mentre Egiziano Maestrelli (altro imprenditore toscano) ha contatti con l’allora vicesindaco, poi parlamentare e ora candidato a sindaco di Firenze, Dario Nardella.
“Sono uscito ora”, esordisce Fusi , alle 20.50.
“Ho fatto un incontro fino ad ora con il sindaco (…) e quindi praticamente a me ha dato tutte le linee guida (…) più ha detto… ha già dato mandato all’avvocatura del comune di procedere in questo senso… mi ha autorizzato a dire che io stasera ho incontrato lui (…) e quindi te domani mattina se tu vai lì a parlare con Carrai tu gli puoi dire tranquillamente quello che ho detto io ‘le linee guida le ha già date il sindaco”.
Nencini ribatte: “Sì, ma vedrai lui le saprà di già … perchè come te chiami me sicuramente Renzi avrà chiamato Carrai”.
Fusi: “Sì ma per non mettere in difficoltà nessuno (…) perchè ognuno dei suoi parla… con te ci parla Carrai … con il Maestrelli gli telefona quell’altro … Nardella”.
Prosegue Fusi. “Lui mi fa: ‘Riccardo le linee guida sono queste, te dai all’avvocato Traina queste linee… si va avanti così… perchè io lo voglio fare in tempi da record’.. quindi te domattina tu vai lì e tu gli dici in questo modo”.
I lavori non sono mai iniziati: Fusi, coinvolto nell’inchiesta sui grandi appalti della cosiddetta Cricca, è finito in carcere.
Ma i progetti sono in Comune e lunedì prossimo arriveranno sui banchi del Consiglio comunale che voterà il regolamento urbanistico che riguarda le strutture care a Fusi. Va detto che l’area da costruire prevista nel progetto iniziale è stata ridotta da 100 mila metri quadrati a 88 mila.
Da allora Carrai ha deciso di lasciare ogni tipo di incarico a Palazzo Vecchio.
Si è seduto a Firenze Parcheggi e poi in Adf, preoccupandosi però di pagare l’affitto della residenza fiorentina dell’amico Matteo, almeno fino al 23 gennaio 2014.
Oggi Carrai è all’estero. La Procura, che ha aperto un fascicolo su via degli Alfani, attende il suo rientro per sentirlo come persona informata sui fatti.
Lui ieri ha contattato un penalista.
Davide Vecchi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 22nd, 2014 Riccardo Fucile
BARBARA BERLUSCONI SEMPRE PIU’ VICINA ALLA DISCESA IN CAMPO
Un partito dilaniato da uno scontro interno senza esclusioni di colpi, una guerra di coltelli nel
crepuscolo del leader, alla vigilia dell’ibernazione di un anno imposta dalla condanna: Forza Italia è sul punto di esplodere.
Tanto che persino l’uomo forte del partito, Denis Verdini, diventato il simbolo stesso dell’ultimo decennio berlusconiano, sta meditando di ritirarsi dalla vita politica.
A questo punto forse soltanto il colpo di scena rappresentato dall’arrivo della figlia Barbara Berlusconi potrebbe raddrizzare una nave che imbarca acqua sotto la linea di galleggiamento.
L’attacco di Francesca Pascale a Santanchè e Cosentino – tra le righe dell’intervista concessa ieri a Repubblica – ha portato infatti alla superficie la vera partita in gioco in vista della decisione del 10 aprile del Tribunale di Sorveglianza di Milano.
Chi controllerà Forza Italia quando Berlusconi sarà ai domiciliari e non potrà nemmeno fare una telefonata ai suoi capigruppo?
È l’Organizzazione il cuore del partito. Chi ci mette le mani vince tutta la posta.
E l’Organizzazione, con il dipartimento elettorale, è ancora nelle mani di Verdini e dei suoi uomini, da Ignazio Abrignani a Gregorio Fontana.
O meglio lo sarebbe, visto che Verdini – di fatto il segretario politico – formalmente non è più nulla.
Le vecchie cariche del Pdl non sono state rinnovate, quelle nuove non prevedono più il suo ruolo, tutto è sospeso in un limbo in attesa che la guerra stabilisca nuovi equilibri.
Nemmeno il tanto discusso ufficio di presidenza esiste ancora.
Nel frattempo avanza un’organizzazione parallela, quella dei Club Forza Italia, affidati a un membro del cerchio magico come Marcello Fiori.
Perchè è questa la linea di frattura che emerge, il quadrumvirato guidato dalle due lady di ferro – la fidanzata Francesca Pascale e il capo dello staff Maria Rosaria Rossi – con il consigliere politico Giovanni Toti e Marcello Fiori.
Contro la vecchia guardia rappresentata da Verdini e da tutti quelli, come Raffaele Fitto o Claudio Scajola, che possono vantare un loro bacino di voti, una loro riconoscibilità politica a prescindere dalla benevolenza del Capo
Lo scontro è violento. Senza attaccare direttamente Verdini, Pascale ieri ha asfaltato due esponenti considerati vicini all’ex coordinatore: Daniela Santanchè e Nicola Cosentino.
La prima ha scelto (per ora) di non rispondere. Cosentino invece ha vibrato una rasoiata che è arrivata a far sanguinare anche il Cavaliere: Rispondendo «ad alcune dichiarazioni della signorina Pascale», l’ex coordinatore campano non l’ha presa alla larga: «Se il suo l’imbarazzo riguarda il fatto che io sono indagato, allora cominciamo a guardare anche a quelli che hanno sentenze passate in giudicato. Perchè in quel caso ci sarebbe, sì, l’imbarazzo della scelta».
Denis Verdini, scelto come bersaglio dei Quadrumviri, ha fatto sapere in giro che potrebbe anche andarsene e occuparsi dei casi suoi.
«Io con la politica c’ho solo rimesso», ha confidato amareggiato agli amici.
Artefice del patto con Renzi e della riabilitazione politica del Cavaliere, Verdini pensa di non meritarsi il trattamento che gli viene riservato.
Ma certo non ha nascosto al leader le sue idee, puntualmente messe nere su bianco in un report recapitato ad Arcore.
Nel documento il “mago dei numeri” afferma che senza 10-12 candidature di peso, di gente capace di mobilitare decine di migliaia o centinaia di migliaia di preferenze, Forza Italia rischia la dèbà¢cle alle Europee.
Una visione opposta a quella di Toti e Fiori, che sperano basti il nome Berlusconi nel simbolo per risolvere ogni cosa.
Un altro che potrebbe mollare tutto è Raffaele Fitto, a cui viene impedito di candidarsi alle europee. «Mi stanno provocando – ha spiegato ai suoi – perchè sperano che sbatta la porta, ma non gli farò questo favore».
La partita delle Europee si intreccia con quella della successione del Cavaliere.
I figli maggiori, Pier Silvio e Marina, si sono ufficialmente chiamati fuori.
Barbara invece ci spera ancora e ci lavora Nelle ultime ore il movimento intorno al suo nome è aumentato, si parla di un incontro decisivo nel week-end con il padre ad Arcore.
Sul tavolo ci saranno i sondaggi fatti da Alessandra Ghisleri sul suo nome.
Francesco Bei
(da “La Repubblica”)
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Marzo 22nd, 2014 Riccardo Fucile
OBIETTIVO MATRIMONIO E FAR FUORI VERDINI, FITTO, SANTANCHE’ E TUTTA LA VECCHIA GUARDIA
I big azzurri lo hanno ribattezzato “l’assalto finale”, formula usata nei momenti dei conflitti più cruenti con le procure.
Solo che stavolta la formula è riferita a Francesca Pascale. Che, dopo aver conquistato la casa, ora vuole chiudere la pratica matrimonio diventando la “signora Berlusconi” ai tempi della decadenza.
E rottamare quella classe dirigente che gode di un proprio consenso, da Fitto a Scajola, per arrivare a Verdini.
Spiegano così il “pizzino” affidato alla aspirante first lady, nella sua intervista alla bravissima Conchita Sannino, firma di Repubblica nota anche per lo scoop su Noemi Letizia.
Quello che fece emergere il rapporto di Berlusconi con le minorenne.
L’inizio della fine, insomma. È la prima intervista tutta politica dell’ex velina di Telecafone, a pochi giorni dalla decisione del tribunale di Milano che limiterà la libertà dell’ex Cavaliere.
Nella quale Francesca auspica la discesa in campo di Marina, ora che le voci su Barbara si fanno sempre più insistenti. E nella quale critica dirigenti storici di Forza Italia come Daniela Santanchè e quei big alla Fitto che, forti del loro consenso, vogliono candidarsi alle europee.
È insomma il “comando io” di Francesca. E non è un caso che l’intemerata viene accolta nel rabbioso silenzio di tutto il partito. Perchè il gossip non conta nulla.
È l’ultimo tassello di una escalation tutta politica portata avanti con estrema lucidità dal duo composto da Maria Rosaria Rossi e Francesca Pascale.
Una fonte autorevole, la mette così, chiedendo l’anonimato perchè tira un’aria pesante: “Francesca sta facendo di tutto per farsi sposare. E da un lato cerca l’asse con Marina dall’altro manda questo messaggio: io so, anche cose imbarazzanti. È arrivato il momento in cui dire il fatidico sì”.
L’assalto finale, appunto. Che arriva dopo le indiscrezioni sulle nozze a Lacco Ameno, uscite sul quotidiano ischitano il Golfo.
E dopo l’intervista al Fatto, il quotidiano più ostile a Berlusconi, con l’esplicita richiesta. E con annessa finta professione di umiltà : “Non lo faccio per i soldi, posso rinunciare al patrimonio”. Eventualità praticamente impossibile dal punto di vista giuridico.
Il Fatto, dunque, quotidiano cui ha concesso interviste anche Maria Rosaria Rossi. Poi, la penna di Repubblica che diede il via alla stagione degli scandali di Berlusconi sulle minorenni.
Qualche giorno fa (il 18 marzo) su Repubblica Carmelo Lopapa ha riportato gli sfoghi preoccupati della vecchia guardia di Forza Italia: “Le due hanno sequestrato Berlusconi”. Nel senso che si sono impadronite dell’agenda, delle telefonate e filtrano le presenze a corte, garantendo l’accesso di quelle gradite.
E allontanando quelle sgradite, a partire dalle donne (anche parlamentari) più giovani e carine. Andando a scavare trapelano altri elementi.
E cioè che ormai è stato raso al suolo lo staff storico di Berlusconi. E non solo l’ufficio stampa, con Bonaiuti che ormai fa il senatore a tempo pieno.
Ma anche i titolari dei dossier più delicati. Valentino Valentini, ad esempio, grande tessitore dei rapporti internazionali di Berlusconi e in particolare di quelli russi.
Fino a qualche settimana fa non si vedeva in modo assiduo alla Camera. Ora è stato di fatto allontanato dalla cerchia ristretta dal duo Rossi-Pascale. E si è diradata la presenza sia ad Arcore che a Grazioli di Sestino Giacomoni, anche lui diventato un abituale frequentatore di Montecitorio.
Mentre il segnale della conquista definitiva della casa è stato l’allontanamento di Marinella, storica segretaria del “dottore” dai tempi di via Rovani. Rientrata dopo la gravidanza è stata allontanata.
È a casa con regolare stipendio, ma la sua presenza non era più gradita ad Arcore. Proprio Marinella, che ha rapporti di stima e amicizia con tutti i figli che ha tenuto da piccoli sulle ginocchia, ha rappresentato a loro un quadro assai preoccupato, innanzitutto a Marina.
Il quadro è quello di un Berlusconi già ai domiciliari: ha perso molti dei collaboratori storici perchè non graditi.
Ma l’effetto Rossi, titolare delle questioni amministrative e della spending review di Palazzo, ha avuto come effetto l’allontanamento di collaboratori che ormai erano persone di famiglia.
Come il maggiordomo Alfredo, che ora ha aperto un ristorante in piazza delle cinque Lune. Era Alfredo che preparava ogni sera la tisana al “dottore” e magari faceva qualche considerazione su una parlamentare che era andata bene in tv, o su altri argomenti, con l’affetto di uno di casa.
E a qualche parlamentare che frequenta il suo ristorante non nasconde l’amarezza per l’accaduto e la nostalgia per i bei tempi andati.
Ora, l’assalto finale del duo R&P (Rossi e Pascale): far saltare i rapporti di Berlusconi con il pezzo forte della classe dirigente di Forza Italia, impedendo che possano ottenere successo Fitto, Scajola e tutti coloro che vantano di un proprio consenso fatto di preferenze e rapporti col territorio: “Se Fitto si candida — ragionava Marcello Fiori, responsabile dei Club Forza Silvio — arriva primo come preferenze. E a quel punto è il nuovo capo di Forza Italia”.
È Giovanni Toti la figura su cui punta il duo Rossi-Pascale nella fase dei servizi sociali. E questa è la manovra che sta monitorando la Rossi. Manovra ad alto rischio, su cui rischia di esplodere Forza Italia: “Si sta passando il segno — dice più di un azzurro — se Berlusconi va avanti così salta tutto”.
Per Francesca la manovra spericolata si chiama matrimonio. Per arrivare all’obiettivo vanno piegate le resistenze di Berlusconi. Che non solo non è convinto, ma comincia a manifestare una certa noia per prigionia cui è stato costretto.
Ci sono quattro persone che hanno libero accesso ad Arcore senza bisogno del permesso di quelle che nel Palazzo vengono chiamate le badanti.
E sono Marcello Dell’Utri, Gianni Letta, Cesare Previti e Fedele Confalonieri.
A loro Silvio ha detto che non ha intenzione di sposarsi. E che non si sta divertendo affatto.
I quattro, contrariamente a Berlusconi, hanno rapporti con i parlamentari.
E così la notizia circola: a Berlusconi già manca la libertà .
(da “Huffingtonpost“)
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Marzo 22nd, 2014 Riccardo Fucile
RENZI ERA A CONOSCENZA DEL CASO DI FRACANTONIO GENOVESE, MA CHIESE I SUOI VOTI PER LE PRIMARIE… E A MESSINA OTTENNE IL 90% DI CONSENSI
Dopo la richiesta di dimissioni dei sottosegretari indagati, per Renzi arriva una pianta ancora
più spinosa: il ‘caso Genovese’.
Comincia a emergere il background della vicenda che riguarda il potente deputato democratico di Messina accusato di peculato, truffa aggravata e falso in bilancio nell’ambito dello scandalo sui fondi per i corsi di formazione in Sicilia.
I risvolti di questa storia assumono una rilevanza non più tanto isolana quanto ormai nazionale.
Renzi e gli uomini a lui molto vicini erano stati informati, nella primavera del 2013, sulla qualità della politica di Genovese, proprio quando l’attuale premier, in profumo di segretaria, era stato invitato dallo stesso Genovese a salire sul palco di piazza Duomo a Messina per sostenere la candidatura a sindaco del suo stretto sodale, Felice Calabrò.
Messina viene così invasa dai manifesti che annunciano, con tanto di faccione sorridente dell’attuale premier, il comizio del 21 giugno.
Nella stessa mattinata, a Comiso, i renziani della Sicilia orientale, sbaragliati nella lotta interna dai metodi e dalla potenza di genovese, tanto da non essere stati candidati alle amministrative, incontrano Renzi in persona e gli comunicano non solo di essere stati messi da parte, ma gli anticipano anche “la bomba” che da lì a poco sarebbe scoppiata e che ora sta deflagrando nel Pd.
Bomba che era stata fatta presente ancora prima, per scongiurare la presenza di Renzi a Messina, al siciliano Davide Faraone (lo stesso che ora dice ‘Siamo pronti a votare per l’arresto se la richiesta è legittima’) e a Luca Lotti, attuale sottosegretario a palazzo Chigi e titolare dei dossier più importanti del governo in carica.
“Caro Renzi, vista la commistione oscura che esiste tra Genovese e il traffico dei corsi professionali – gli fanno notare all’epoca dei fatti Alessandro Russo, Francesco Quero e altri renziani di prima fila, e adesso lo ribadiscono all’HuffPost – non è opportuna la tua presenza sul palco insieme a lui a sostegno del suo candidato anche perchè noi (renziani della prima ora ndr) siamo stati esclusi dalle liste. Ecco rassegna stampa completa sulla questione ‘enti di formazione e Genovese'”.
Renzi la legge e alla Leopolda dell’ottobre successivo, due mesi prima delle primarie, indicando “il Pd che non vogliamo”, Matteo cita il tipo di Pd alla maniera di Genovese: “Non vogliamo il Pd dei corsi di formazione come in Sicilia”.
Nel frattempo però quella sera di giugno, Renzi sale lo stesso sul palco messinese accanto al figlioccio di Genovese, evita la foto opportunity con il deputato Pd, ma l’accordo era stato fatto prima: Genovese, ras delle tessere, secondo quanto si racconta, aveva promesso a Renzi i voti alle primarie dell’8 dicembre.
Infatti tra Messina e provincia l’attuale segretario raccoglie 19.540 preferenze su 24.000 votanti e nella sola città il 90 per cento dei voti.
Anche la Velina Rossa, il foglio politico vicino al centrosinistra, chiede a Renzi “di dire qualcosa non solo sui sottosegretari indagati ma anche sulla faciloneria di alcuni suoi alleati alle primarie”.
Adesso la bomba messinese democrat è arrivata in Giunta per le autorizzazioni a Montecitorio che dovrà valutare la richiesta di arresto.
L’operazione sganciamento da Genovese è partita in maniera plateale ed è irreversibile.
I democratici si guardano bene dal chiedere l’incarico di relatore, almeno per il momento. Ben sapendo, come tutti sanno e sapevano, che Francantonio Genovese, uomo d’affari, padrone di partito, ex segretario del Pd siciliano, oltre che ex sindaco di Messina e più volte deputato, è stato quello che ha portato i voti siciliani prima a Bersani e poi a Renzi. Non è un caso se è conosciuto come ‘il re delle tessere’.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 22nd, 2014 Riccardo Fucile
NEL 2013 RIMBORSI PER 450.000 EURO CONTRO I 2,3 MILIONI DEL 2012…
ORA FORZA ITALIA, FRATELLI D’ITALIA E NCD SPENDONO UN DECIMO DEL VECCHIO PDL
La cura, drastica, sembra funzionare.
I consiglieri piemontesi devono aver offerto meno pranzi in costosi ristoranti, pagando di tasca propria alcuni acquisti superflui.
Nel 2013, dopo lo scandalo dei rimborsi al Consiglio regionale in Piemonte, i gruppi politici hanno chiesto meno soldi per le loro spese. I dati emergono dai rendiconti pubblicati sul sito istituzionale.
Da questi documenti, semplici tabelle con le voci di spesa, emergono per la prima volta pure i costi per lo staff dei partiti: quasi quattro milioni di euro in totale.
Malgrado le riduzioni nei giorni scorsi la sezione di controllo della Corte dei conti ha chiesto al presidente dell’assemblea regionale Valerio Cattaneo di chiarire come siano stati spesi 200mila euro da alcuni gruppi.
Secondo i calcoli, i rimborsi ottenuti dalle 18 forze politiche sono passati dai circa 2,3 milioni di euro del 2012 ai 450 mila dello scorso anno.
Sono calate le spese per il funzionamento, cioè quelle per consulenze, missioni, materiale di cancelleria, telefoni, abbonamenti, convegni e altro, spese in cui prima rientravano pure i pasti nei ristoranti, i caffè consumati tra una riunione e l’altra, ma anche i tosaerba, i biglietti della Juventus, le consolle dei videogiochi o le mutande verdi di Roberto Cota. Tra i gruppi più numerosi, il Pd passa dai circa 243mila euro del 2012 ai 98mila circa nel 2013; il Pdl (ora scisso in tre gruppi: Forza Italia, Fratelli d’Italia e Nuovo Centro Destra) passa da 596mila a quasi 35mila e la Lega da 380mila circa a meno di 30mila euro.
C’è anche chi ha ridotto all’osso questi costi, come Maurizio Lupi dei “Verdi verdi — L’ambientalista per Cota”, tra i primi indagati della “Rimborsopoli” piemontese: dopo l’avviso di garanzia ha speso poco meno di mille euro.
Alcuni hanno fatto ancora meglio.
Luigi Cursio, fuoriuscito dall’Idv nel gennaio 2013, si è fatto rimborsare solo 127 euro. Diverso il caso di Andrea Stara, politico del Pd e consigliere della lista “Insieme per Bresso” per il quale mercoledì la pm Enrica Gabetta ha chiesto il rinvio a giudizio per peculato (tra le sue spese c’era un tosaerba).
Nel 2013 ha speso 53mila euro per il funzionamento del gruppo di cui è l’unico componente: in questa cifra rientrano 24mila euro per sale riunioni o altre spese logistiche e quasi 17mila euro per “consulenze, studi o incarichi”.
Sono invece 84mila gli euro spesi per questo ambito dal consigliere dei “Moderati” Michele Dell’Utri, indagato per peculato (i pm gli contestano 190mila euro di sondaggi telefonici fatti dalla società del suo compagno di partito Gabriele Moretti).
Per la prima volta però il consiglio regionale rende pubblici anche i costi per il mantenimento del personale dei gruppi politici.
Il Pd, che ha trenta dipendenti, ha speso 984mila euro. Lo staff di Forza Italia e Ncd nel 2013 è costato quasi 615mila euro.
Progett’azione (un gruppo di fuorisciti dal Pdl ora confluiti in Forza Italia) ne ha usati quasi la metà , la Lega Nord poco più di 443mila euro.
I gruppi con un solo consigliere hanno costi di personale di circa 120mila euro ciascuno. Alcuni sono riusciti a spendere molto meno per lo staff, arrivando sui 60mila euro. Nonostante gli sforzi dei consiglieri i magistrati contabili hanno chiesto approfondimenti perchè “l’esame condotto sui rendiconti ha evidenziato per alcuni gruppi consiliari l’esistenza di irregolarità ”.
In certi casi alcune cifre non corrispondono ai documenti forniti e alcune spese non sarebbero state necessarie perchè la Regione ha a disposizione i servizi e gli strumenti pagati. Intanto il 4 aprile Cota e 40 consiglieri si troveranno davanti al gup che dovrà decidere sul loro rinvio a giudizio.
Andrea Giambartolomei
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