Marzo 8th, 2014 Riccardo Fucile
SUL CASO ILVA “NON DICE LA VERITA’, DEVE DIMETTERSI”
“Su Ilva e Taranto, Vendola racconta una storia che non è la realtà ». Il leader dei Verdi Angelo Bonelli incalza il governatore pugliese e leader di Sel all’indomani della richiesta di rinvio a giudizio per concussione, presentata nell’ambito dell’indagine sul disastro ambientale provocato dalla grande acciaieria
Ha rivolto cinque domande a Vendola per evidenziare il suo fallimento sul caso Ilva?
«Non spetta a me processarlo, ma deve delle spiegazioni. Si vanta di aver varato una legge per abbattere le emissioni di diossina dalle acciaierie. Ma quella legge non è stata applicata. E ora chiedo perchè non è stato avviato il monitoraggio in continuo ed è stato fissato un livello soglia superiore a quello previsto per i centri siderurgici della Germania. Quella legge venne concordata con Ilva e con il governo Berlusconi, proprio come dicono i giudici»
E gli altri quattro quesiti?
«Vendola ci spieghi i ritardi nell’istituzione del registro tumori. E perchè non ha impugnato dinanzi alla Consulta la legge favorevole all’Ilva sulle emissioni di benzoapirene, il veleno industriale che uccide i tarantini. Vorrei capire, inoltre, perchè la Regione diede parere favorevole all’Aia del 2011, nonostante i dubbi che poi hanno trovato conferma nell’inchiesta. E da ultimo vorrei comprendere come mai non sia stata avviata una indagine epidemiologica per decifrare gli impressionanti dati sulla mortalità a Taranto»
Secondo lei Vendola dovrebbe dimettersi?
«Sul web circola una sua foto. In mano ha un cartello e sopra c’è scritto: i politici indagati devono dimettersi. Non c’è altro da dire».
Il governatore sostiene di aver difeso migliaia di lavoratori…
«A Taranto bisognava difendere il diritto alla salute e alla vita prima di ogni cosa. E migliaia di agricoltori, pescatori e mitilicoltori hanno perso il posto. Nessuno li ha difesi»
Il futuro a Taranto è un punto interrogativo?
«Invece di fare leggi speciali per un risanamento discutibile con la prospettiva di riconsegnare la fabbrica ai Riva, il governo dovrebbe istituire una no tax area per attirare investimenti, ridisegnare il centro urbano di una città straordinariamente bella. Renzo Piano si è detto disponibile. Una politica seria non deve far cadere nel vuoto questa opportunità ».
Mario Diliberti
(da “la Repubblica”)
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Marzo 8th, 2014 Riccardo Fucile
RICERCATORI A LIBRO PAGA, DURATA DEI BREVETTI PROLUNGATA, ACCORDI PER FISSARE I RIMBORSI… LE CASE FARMACEUTICHE SI SONO SPARTITE IL MERCATO COME VOLEVANO… CASO AVASTIN-LUCENTIS: PRIMI INDAGATI A TORINO
Prolungare la durata dei brevetti, fare accordi illeciti per fissare i prezzi dei farmaci, mettere a busta paga ricercatori e scienziati.
Sono solo alcuni degli escamotage utilizzati dai colossi farmaceutici per poter sponsorizzare i propri medicinali e gonfiare i fatturati.
Non resta isolato il caso Roche-Novartis, le due case farmaceutiche che solo qualche giorno fa sono state sanzionate dall’Antitrust.
Dovranno pagare una multa di 180 milioni di euro in totale, perchè hanno fatto cartello per sponsorizzare il Lucentis, che costa circa 700 euro, rispetto all’Avastin che ne costa 80. Sul caso indaga sia la procura di Roma (per aggiotaggio e truffa), che quella di Torino, dove sono già stati iscritti alcuni nomi nel registro degli indagati.
Negli anni le multinazionali dei farmaci si sono spartite il mercato, quasi sempre a discapito dei farmaci generici meno costosi sia per le tasche del servizio sanitario nazionale che per quelle dei malati.
Leggendo le sanzioni emesse dall’Antitrust, l’autorità garante della concorrenza e del mercato, è possibile ricostruire le modalità di una serie di strategie messe in atto dalle case farmaceutiche.
Per ostacolare l’ingresso dei genericisti sul mercato, alcune aziende negli anni hanno abusato della posizione di dominio.
Come la Pfizer che a gennaio 2012 ha ricevuto una multa di 10,6 milioni di euro da parte dell’Autorità garante.
In questo caso il Servizio Nazionale ha mancato incassi per 14 milioni di euro. Il farmaco in questione serviva per curare il glaucoma, un disturbo visivo che può comportare — in casi gravi — anche la perdita della vista. Il 60 per cento del mercato comprava il medicinale a base del principio attivo latanoprost dalla Pfizer, che per mantenere questa posizione di dominio, a seguito della scadenza della protezione brevettale, ne ha prolungato artificiosamente la durata, prima fino a luglio 2011 e poi fino al gennaio 2012, per allinearla a quella in vigore negli altri Paesi europei.
E non è tutto perchè la stessa Pfizer avrebbe inviato diffide ai produttori di farmaci generici conducendo anche un contenzioso amministrativo e civile, con importanti richieste di risarcimento danni in caso di commercializzazione.
In questo modo si creava incertezza giuridica nei produttori di farmaci generici sulla possibilità di commercializzare i propri medicinali, ritardandone l’ingresso sul mercato. Ma ci sono stati anche altri casi.
Risale alle fine degli anni 90 l’istruttoria su un farmaco utilizzato la cura delle infezioni delle vie respiratorie. In quel caso furono condannate sei case farmaceutiche perchè si misero d’accordo per fissare i prezzi dei medicinali.
A pagare di tasca propria, chi di quelle cure aveva bisogno.
Tanto che il farmaco in dieci mesi aumentò il prezzo del 50 per cento. E ancora. Un altro escamotage consiste nel cambiare la composizione dei principi attivi presenti nei medicinali, anche se di pochissimi milligrammi.
In questo modo possono essere immessi sul mercato prodotti apparentemente nuovi, ma più costosi, con gli stessi effetti di quelli che già esistevano.
Per non parlare dei casi di aziende farmaceutiche che hanno comprato i pareri degli esperti. A libro paga negli anni ci sono finiti medici indipendenti e ricercatori, ma anche laboratori, istituzioni finanziatrici e riviste specialistiche.
Negli Stati Uniti sono scoppiati parecchi scandali di questo tipo.
Come il caso del dottor Katz, che — come rivelò il Los Angeles Times — ha ricevuto nel corso degli anni centinaia di migliaia di dollari da aziende farmaceutiche.
Con Katz altri cinque nomi illustri erano registrati a libro paga, tutti esperti che dovevano sperimentare ed esprimere un’opinione sul farmaco.
Un problema che si è ripetuto in altri casi tanto da costringere il governo a varare la Physician Paymentes Sunshine Act, una norma , in vigore da gennaio 2013, che impone ai produttori di medicine di dichiarare i fondi con i quali vengono finanziati anche gli istituti di ricerca.
E questo non è un problema oltre confine, lontano da noi, perchè quei farmaci vengono venduti anche nelle nostre farmacie.
Valeria Pacelli
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 8th, 2014 Riccardo Fucile
IL DISCORSO DI NAPOLITANO PER LA FESTA DELL’ 8 MARZO: “LA DENUNCIA E’ UN DETERRENTE CONTRO I VIOLENTI”
«Troppo spesso si sente dire che il tema delle pari opportunità è superato perchè viviamo già in una condizione di uguaglianza giuridica e materiale tra i sessi. Ovviamente non è vero». Nel giorno della Festa della donna il Capo dello Stato ha affermato chiaramente che la strada da percorrere per una vera parità è ancora lunga. Il suo intervento ha chiuso la cerimonia per l’8 marzo che si è svolta stamani al Quirinale alla presenza di rappresentanti delle istituzioni (accanto ai presidenti di Camera e Senato c’era la quota “rosa” del Governo), della cultura e della società civile. Una cerimonia durante la quale Giorgio Napolitano ha consegnato onorificenze a sette donne.
Tra loro anche Lucia Annibali, l’avvocatessa sfregiata con l’acido, e la siciliana Franca Viola, che ha segnato una tappa fondamentale nella storia dell’emancipazione femminile rifiutando un «matrimonio riparatore».
Come il razzismo anche il sessismo «diventa un virus duro da estirpare» ha constatato il presidente della repubblica con esplicito riferimento agli insulti e alle minacce ricevute da Laura Boldrini.
Ha messo in guardia contro i rischi del web e ricordato che la violenza fisica e sessuale sulle donne è un comportamento molto diffuso ( «in Italia c’è un calo degli omicidi, mentre non diminuisce il numero dei femminicidi» ha confermato il ministro Alfano).
Ma si può e si deve contrastare. Intanto, come ha suggerito il ministro degli Affari Esteri, Federica Mogherini facendo «crescere i bambini e le bambine di oggi nella consapevolezza di avere un compito comune: rompere gli schemi, avere il coraggio di cambiare, non piegarsi a percorsi obbligati, non accettare gli stereotipi».
Non è un caso che, come ha denunciato oggi l’Istat, per sei italiani su 10 (57,7%) nel nostro Paese la vita è migliore per gli uomini che per le donne.
Ed è vero – lo ha ricordato stamani il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini – che sebbene in Italia le donne siano più numerose e in media più qualificate degli uomini, «hanno salari più bassi, maggiore precarietà , difficile conciliazione dei tempi tra casa, figli e lavoro, minore indipendenza economica».
Insomma, lo scenario che emerge induce a non archiviare la festa dell’8 marzo che oggi è stata al centro di una miriade di iniziative in tutta la penisola.
A Napoli, davanti alla sede dell’ente provinciale, in piazza Matteotti, sono state sistemate 150 sedie vuote, ciascuna con il nome delle altrettante vittime del «femminicidio» registrate nel 2013.
Nella Capitale un flash mob, organizzato da Intervita onlus, è andato in scena a Piazza di Spagna: un grande bracciale arancione per stringersi in un abbraccio con l’intenzione di dire `basta’ alla violenza sulle donne.
In Sardegna nella rotonda di Sa Serra a Gavoi (Nuoro) scarpe sul selciato, rosse come il sangue che ha versato Dina Dore il 26 marzo 2008, quando è stata ammazzata davanti alla figlioletta di otto mesi per mano di un killer mandato dal marito.
«L’8 marzo serve ancora e servirà fin quando ci sarà violenza sulle donne» ha ammonito il presidente della Camera, Laura Boldrini.
E la cronaca conferma che la scia di sangue non accenna a fermarsi: anche oggi due donne sono state uccise, una è stata trovata morta nel pomeriggio nella camera di un albergo di Gualdo Tadino in Umbria, la prima ipotesi dei carabinieri è che sia stata uccisa dall’uomo che era con lei; l’altra è stata accoltellata a Vigevano, nel Pavese, dal marito.
Loro non hanno avuto il tempo di festeggiare con la mimosa.
(da “La Stampa“)
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Marzo 8th, 2014 Riccardo Fucile
IL PRIMO VORREBBE DARE I 10 MILIARDI TEORICI ALLE IMPRESE, IL SECONDO AI LAVORATORI SOTTO I 25.000 EURO LORDI DI REDDITO… PECCATO CHE I 10 MILIARDI NON CI SIANO
Accelerazioni e frenate. Chi tira da una parte e chi dall’altra, e in questo caso renziani da un lato e ministri economici dall’altro.
Nella maggioranza e nella stessa squadra di governo è in corso un braccio di ferro per decidere la platea alla quale destinare il corposo taglio del cuneo fiscale che dovrebbe essere pari a circa 10 miliardi.
Ai lavoratori o alle imprese? Irpef o Irap?
Due le ipotesi: destinare tutti i 10 miliardi agli sgravi ai lavoratori (probabilmente con un tetto di reddito fissato a 25mila euro) o ridurre di circa il 30% l’imposta regionale sulle attività produttive.
E se alla fine, per mettere d’accordo tutti, si decidesse di suddividerli a entrambi?
Ai renziani non dispiacerebbe destinare l’intera somma ai lavoratori, mentre i ministeri dell’Economia e dello Sviluppo economico spingono per favorire le imprese. Fermo restando che l’esecutivo è ancora a caccia delle coperture e delle risorse a favore delle misure che dovrebbero essere varate mercoledì dal Consiglio dei ministri. Il condizionale è d’obbligo.
Non si sa se quattro giorni basteranno per sciogliere tutti i nodi e ai piani alti di Palazzo Chigi si respira scetticismo.
Bisogna vedere i costi e gli effetti che le norme possono avere, spiegano fonti governative, e capire quali possono essere le coperture.
Ciò che è certo è che queste sono ore di studio e che al momento tutte le ipotesi restano sul tavolo, anche quella di destinare i fondi sia ai lavoratori sia alle imprese. Pur di uscire dall’impasse.
Quest’ultima ipotesi era stata accantonata dopo che il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, in un’intervista al Sole 24 Ore, aveva spiegato che sarebbe stato opportuno “concentrare tutto l’intervento in una direzione, tutto sulle imprese o tutto sui lavoratori”. Su questo punto il premier si sarebbe detto d’accordo. Ma, un attimo dopo, si è posto il problema della platea: motivo di discordia.
Secondo quanto riferiscono fonti di palazzo Chigi, quella di concentrare tutte le risorse sul taglio dell’Irpef sarebbe “solo una delle ipotesi in campo” e Renzi così come il sottosegretario Graziano Delrio, al momento, non ha preso una decisione poichè si starebbe ancora valutando la possibilità di intervenire sul carico fiscale che pesa sulle imprese.
In questa direzione spinge una parte dell’esecutivo, quella appunto che ha incarichi economici.
Sia il vice ministro dell’Economia, Enrico Morando, in sintonia con il ministro Padoan, sia il vice ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, chiedono infatti di puntare sul taglio dell’Irap. Ed è quest’ultimo che interviene con una nota ufficiale: “Concentrare tutte le risorse disponibili sul taglio dell’Irap è fondamentale per rimettere in moto la crescita e l’occupazione. Chiunque abbia mai messo piede in un’azienda — spiega – sa perfettamente che anche gli incentivi alle assunzioni funzionano solo se un’impresa è messa nelle condizioni di competere e investire, e oggi in Italia così non è”.
Ci limitiano a due considerazioni.
1) Destinare tale importo, facendo finta per un attimo che i 10 miliardi esistano davvero, a chi ha un reddito lordo sotto i 25.000 euro vorrebbe dire circa 80 euro in più in busta paga a chi ne guadagna meno di 1000 al mese.
Con i milioni di disoccupati che vi sono in Italia, ormai alla canna del gas, non sarebbe meglio destinarli a costoro o per favorire l’assunzione di giovani disoccupati?
2) Seconda verità : i presunti 10 miliardi che Renzi “promette” in realtà sono 7 (in quanto siamo a marzo) , di cui 3 già stanziati da Letta. Morale sono 4.
E dove si prendono? Dai soliti teorici tagli alle spese e, udite udite, dal famoso accordo con la Svizzera per il rientro dei capitali occultati. Quello di cui da almeno 5 anni hano parlato tre governi (Berlusconi, Monti e Letta).
Ma se evitassero di prenderci per i fondelli, no eh?
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Marzo 8th, 2014 Riccardo Fucile
MA SE FOSSE VISSUTO NELLA REPUBBLICA DI GENOVA SAREBBE ANCORA A PIEDE LIBERO?….SALVINI, ALTRO DISPERATO, CONCORDA: “BATTAGLIA COMUNE”
“Basta Roma, torniamo alla Repubblica di Venezia e alle Due Sicilie”. Nel bel mezzo del repulisti interno al M5S (una partita, quella dei dissidenti da epurare il prima possibile, che Gianroberto Casaleggio intende chiudere entro le elezioni europee), Beppe Grillo strizza l’occhio alla Lega Nord.
Al ritmo (ormai pressochè consolidato) di un’uscita al giorno, il fondatore e leader del Movimento oggi torna a scrivere sul proprio blog utilizzando temi storicamente cari al Carroccio.
Tipo: “l’Italia è “un’arlecchinata di popoli, di lingue e di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme”.
Una saldatura sul secessionismo che non dispiacerà affatto alla Lega Nord e su cui sarà il Pd a chiosare: “Ormai le tenta tutte”.
Secondo Grillo, “per far funzionare l’Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l’identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle Due Sicilie”.
Nel mirino finiscono tutto e tutti, Giorgio Napolitano e Matteo Renzi in primis: “E se domani – scrive infatti Grillo – quello che ci ostiniamo a chiamare Italia ci apparisse per quello che è diventata?”
“La Bosnia – prosegue il post – è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti”
La reazione del Carroccio si fa attendere solo qualche ora. A commentare le parole del ‘garante’ dei Cinque Stelle è il segretario Matteo Salvini che ‘apre’ all’ipotesi di una battaglia comune: “Non vorrei – dice il numero uno della Lega – che essendo in difficoltà , Grillo inseguisse la Lega (che invece gode di ottima salute….n.d.r.) ma se da lui non ci saranno “solo parole”, fra M5s e Lega “sarà una battaglia comune”. Salvini chiede poi a Grillo di sostenere sin da ora il referendum per l’indipendenza del Veneto.
Speriamo per Grillo che non rifacciano la Repubblica di Genova: rischierebbe di finire ai ferri per farneticazioni pubbliche.
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Marzo 8th, 2014 Riccardo Fucile
“OCCORRE RIPORTARE LA FINANZA AL SERVIZIO DELL’ECONOMIA PRODUTTIVA”…”LA FLESSIBILITA’ HA SOLO DIMINUITO I POSTI DI LAVORO”
Mentre lo raggiungiamo al telefono, il professor Luciano Gallino sta leggendo un rapporto sul sistema sanitario in Grecia: “Un disastro assoluto, il prodotto di politiche di austerità che produce risultati terrificanti”.
Quanto si vede finora con il nuovo governo sembra andare in quella direzione.
“Finora si è parlato molto, gli impegni sono tutti da vedere, ma mi sembra che ci muova sulla linea degli ultimi 20-25 anni. E che hanno solo aumentato la flessibilità e la precarietà del lavoro”.
Nessuna speranza su Renzi?
Direi che la sua domanda è una buona metafora del mio stato d’animo.
Cosa non la convince del piano del lavoro per come lo si conosce finora?
Sono passati 20 anni dalle prime proposte Ocse sulla flessibilizzazione del lavoro. Il risultato è che i precari sono aumentati a dismisura.
La riforma del “mercato del lavoro” non può servire a ridurre la precarietà ?
È uscita una gran quantità di saggi che dimostrano come le riforme dei contratti di lavoro non modificano, se non in peggio, la creazione di posti di lavoro.
La tendenza che lei vede in atto, quindi, è la stessa dei precedenti governi?
Mi sembra proprio di sì. In realtà non si è mai voluto analizzare in profondità il motivo per cui le imprese chiedono maggiore flessibilità .
E qual è?
Non solo evitare la grana dei licenziamenti , ma anche trasformare il lavoro in un’appendice dei movimenti di capitale. La catena del valore si è ormai internazionalizzata e la forza lavoro viene collocata in uno stato di perenne transizione. Si pensi ai contratti a zero ore.
Contratti a zero ore?
Sì, in Gran Bretagna ne sono stati stipulati circa un milione. Zero ore per zero soldi. Il lavoratore firma un contratto che lo mette a disposizione dell’impresa che lo può chiamare con un sms anche per poche ore. Il lavoro diventa una sorta di rubinetto da aprire e chiudere a piacimento.
Cosa pensa dei mini-job tedeschi?
Parliamo di contratti da 15 ore alla settimana a 450 euro al mese. Se ne collezioni almeno due riesci a raggiungere un reddito che si colloca sulla soglia di povertà .
L’obiezione ricorrente è che è sempre meglio di niente.
È una brutta obiezione, perchè sarebbe come dire che se hai contratto una brutta malattia in realtà potresti stare peggio. La forza della Germania, il suo export, si fonda sull’impennata della produttività senza aumenti retributivi. Il successo tedesco si fonda sulla pelle dei lavoratori.
La sua idea per contrastare la precarietà e creare lavoro?
Riportare la finanza al servizio dell’economia produttiva, creare occupazione assumendo direttamente su progetti ad hoc. Con investimenti pubblici si possono ristrutturare ospedali, interventi idrogeologici, etc.
Un modello keynesiano classico?
Abbiamo l’acqua non più alla gola, ma sopra gli occhi. Occore fare qualcosa urgentemente.
Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 8th, 2014 Riccardo Fucile
IL POLITOLOGO D’ALIMONTE RACCONTA COME IL COLLE FOSSE CONTRARIO AL SISTEMA SPAGNOLO PERCHE’ PREMIAVA TROPPO I GRANDI PARTITI
A Napolitano la prima versione dell’accordo tra Renzi e Berlusconi, sostanzialmente il modello spagnolo, fortemente bipartitico, non piaceva.
A raccontarlo, seppur con i termini e l’occhio del politologo, è Roberto D’Alimonte. Ovvero il costituzionalista che ha lavorato con Renzi e per Renzi alla legge elettorale. Che ieri in un convegno all’Istituto Sturzo di Roma ha ricostruito tutte le fasi iniziali della riforma ora al voto della Camera.
Facendo emergere due punti fondamentali: il ruolo del presidente della Repubblica e la mediazione continua di Renzi con Denis Verdini, emissario di Silvio Berlusconi. Che come accade anche in questi giorni è quello al quale il segretario dem affida l’ultima parola prima di qualsiasi modifica.
Fino alla chiusura dell’accordo del Nazareno con il Caimano, Renzi si era totalmente affidato ai servizi del Professore, che aveva cercato di congegnare un meccanismo che rispettasse i requisiti della Corte costituzionale, rispondendo però alle esigenze tecnico-politiche di Renzi in primis e di Berlusconi, poi.
Quando si è arrivati alla Camera le cose sono cambiate.
Lo stesso D’Alimonte non aveva previsto l’algoritmo (ovvero il sistema della ripartizione dei seggi) e su quello hanno poi lavorato gli uffici studi della Camera.
Ma soprattutto per l’esigenza di mediare con i piccoli il testo concordato da Matteo e Silvio, il modello iniziale è stato totalmente stravolto.
Senza che Renzi abbia più sentito la necessità o l’esigenza di parlare con quello che doveva essere il padre, e che ora si definisce lo “zio”, della riforma.
E che da qualche giorno prende le distanze, con interviste e articoli.
Pur ammettendo la necessità del “compromesso” in politica, e definendola comunque “una buona legge con qualche difetto” ha usato parole critiche sulla scelta di dare validità all’Italicum solo per la Camera, con due sistemi opposti nei due rami del Parlamento.
In un primo momento, dunque a gennaio il segretario del Pd e il leader di FI avevano trovato un’intesa su un modello spagnolo: proporzionale con elevata capacità selettiva e con effetti potenzialmente bipartitici grazie a collegi plurinominali molto ridotti, al riparto dei seggi su base territoriale con assenza di recupero nazionale dei voti, a soglie di sbarramento implicite assai elevate.
E l’aggiunta di un premio di governabilità .
Ma Napolitano, spiega D’Alimonte, era preoccupato che il sistema elettorale non riproponesse alcuni meccanismi già censurati dalla Corte, “troppo maggioritari e distorsivi della rappresentanza”.
In particolare, al Presidente la soglia per far scattare il premio di maggioranza sembrava troppo bassa e l’entità del premio troppo grande. Non solo.
L’intesa provocò una reazione negativa da parte dei piccoli penalizzati, di Letta timoroso delle ripercussioni negative sulla tenuta del proprio esecutivo per le critiche e defezioni di Ncd, Sc e Per l’Italia.
Così si giunse all’elaborazione di un modello ben diverso, con il premio che scattava in un primo momento al 33% dei suffragi e poi al 37%.
Fu poi nel corso dell’incontro al Nazareno del 18 gennaio che Renzi chiese al Cavaliere l’introduzione del ballottaggio, non ottenendo risposta poichè, come racconta D’Alimonte, il tema doveva essere esaminato accuratamente da Denis Verdini.
E per questo motivo l’attuale premier non ne fece cenno nella conferenza stampa quella sera. Solo il 20 gennaio, con l’ok di Verdini, la riserva fu sciolta con l’accettazione del doppio turno da parte del fondatore di Fi in cambio di una soglia relativamente bassa di suffragi per evitarlo.
Un via libera concesso da Berlusconi nella convinzione di poter vincere al primo turno.
Wanda Marra
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 8th, 2014 Riccardo Fucile
SI DELINEA UNA TRINCEA TRASVERSALE PER CAMBIARE L’ITALICUM SU PREFERENZE E SOGLIA
Può darsi che si tratti solo di un tentativo di intimidazione contro il governo. Oppure di una somma di debolezze e di frustrazioni destinate a rivelarsi un bluff.
Ma la possibilità che la riforma elettorale in via d’approvazione alla Camera sia cambiata al Senato sembrerebbe tutt’altro che remota.
A Montecitorio, tra lunedì e martedì il cosiddetto Italicum diventerà legge, come il premier Matteo Renzi aveva promesso.
Nessuno, però, è pronto a scommettere che il testo uscirà indenne dalla discussione nell’altro ramo del Parlamento. E non tanto perchè nella strategia del presidente del Consiglio la «Camera alta» è destinata ad assumere un rilievo politico più o meno ornamentale.
Sono i numeri a far ritenere che le forze minori cercheranno una rivincita in grado di bilanciare lo strapotere che i partiti maggiori, Pd, FI e M5S, si vedranno attribuire dall’Italicum.
Ma, in quel caso, c’è da chiedersi quali saranno i possibili effetti sull’asse tra Renzi e Silvio Berlusconi che ha già ingoiato di malavoglia le modifiche imposte dal Nuovo centrodestra a Montecitorio.
Gli attacchi del partito di Angelino Alfano a FI sembrano fatti per rendere più difficile la sintonia istituzionale tra i due maggiori partiti.
L’impazienza del Cavaliere trasuda dalle pagine del Mattinale, il bollettino diffuso dal gruppo parlamentare.
«Attento, Renzi – scriveva ieri–, la luna di miele con gli italiani dura poco…».
In parallelo, viene chiesto al premier di richiamare all’ordine quanti, nel suo Pd, non nascondono la volontà di «migliorare» la riforma elettorale a palazzo Madama: al punto che i renziani sono costretti a ricordare che la direzione del partito ha approvato il progetto a stragrande maggioranza.
In discussione sono soprattutto le preferenze: quelle che ridurrebbero il potere dei leader nella designazione di fatto dei parlamentari, a seconda della loro posizione nelle liste.
Alla Camera la proposta non è passata per una trentina di voti. Il tentativo dei dissidenti è di farla approvare al Senato.
E nel frattempo di insinuare dubbi corposi sulla costituzionalità della riforma che sta prendendo corpo. In più, non riesce a decollare l’idea delle «quote» femminili nelle liste; e questo aggiunge un altro focolaio di tensione trasversale.
Una degli avversari di Renzi, Anna Finocchiaro, pd e presidente della commissione Affari costituzionali, ha annunciato che in Senato si lavorerà per abbassare la soglia che sbarra l’ingresso in Parlamento delle forze minori, e per alzare il premio di maggioranza.
«La soglia dell’8 per cento per i partiti che vanno da soli è molto alta. E per il premio, è ragionevole il 40 per cento». Sono bastate queste parole per tirarle addosso l’ira di berlusconiani e renziani: al punto che è intervenuto a difenderla il vicepresidente del Senato, Vannino Chiti. «Sono stupefatto e preoccupato», ha detto. «Il Senato c’è ancora e pesa. Cercheremo di migliorare la legge elettorale, come è nostro dovere».
Eppure, nonostante tutto, il patto Renzi-Berlusconi regge.
Il Ncd parla maliziosamente di un Cavaliere desideroso di far parte del governo.
Sono punture di spillo che nascono da una campagna elettorale già in atto, alla quale tutti più o meno consapevolmente partecipano.
Rimane da capire se è solo per le Europee di maggio, o se possa sfociare in un voto politico anticipato.
Massimo Franco
(da “il Corriere della Sera“)
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Marzo 8th, 2014 Riccardo Fucile
SE ALLA CAMERA I FRANCHI TIRATORI SONO STATI 70, AL SENATO DOVE IL MARGINE E’ DI OTTO IL GOVERNO RISCHIA LA DISFATTA
Numeri che si restringono, dichiarazioni infuocate della maggioranza contro le indicazioni del governo: giovedì notte la Camera al voto dell’Italicum era l’immagine plastica del pantano in cui si sta approvando la legge elettorale.
E neanche finito un pantano, se ne annuncia uno ben peggiore: da Ncd e minoranza Pd è tutto un avvertimento che in Senato la legge si cambierà .
In barba all’accordo intoccabile (pena la fine della legislatura) tra Renzi e Berlusconi.
Giovedì notte, l’emendamento Pisicchio (gruppo Misto) che introduceva la possibilità di esprimere due voti di preferenza è stato bocciato — a voto segreto — con solo 42 voti di scarto. 278 contro 236.
Presenti in media in Aula tra i 450 e i 520 deputati. La maggioranza conta su 394 voti, all’appello ne sono mancati 60-70.
Ovvero, quelli di Ncd (29 a ranghi pieni), quelli di Scelta Civica (27 anche qui a ranghi interi), più alcuni del Pd.
Toni esasperati, accorati. Il lettiano Meloni il suo dissenso rispetto alla legge lo dichiara in Aula, così la Bindi. E Boccia quota al 20% la possibilità che alla fine voti la legge.
Poi c’è il documento bipartisan per la parità di genere sottoscritto dalle parlamentari di tutte le forze politiche. Le deputate sono intenzionate a non mollare.
Che farà il governo? Risponde Lorenzo Guerini, nella veste di portavoce della segreteria Pd e di mediatore in Parlamento per conto di Renzi: “Non ci sarà nessuna modifica se non rientrerà nell’accordo”. Quello tra Pd e FI.
Lo stesso Guerini, mentre si dice soddisfatto della tenuta del gruppo Pd l’altra notte, ammette che ci sono continui contatti per arrivare a capire se ci sono le basi per qualche modifica. “Questa legge è una schifezza, ma è frutto di un accordo extraparlamentare, quindi non c’è battaglia che tenga”, si sfogava ieri qualche deputato.
La convinzione più o meno generale è che alla fine in qualche modo la Camera l’Italicum lo approverà . E in Senato si vedrà .
Tra i renziani c’è chi è pronto pure ad appellarsi alla Provvidenza o a sperare in qualche risultato entusiasmante del governo.
Basta sentire Anna Finocchiaro, presidente della Commissione Affari costituzionali del Senato, dove la riforma uscita da Montecitorio (e dove i renziani sono minoranza) andrà incardinata: “Lavoreremo in Commissione per una norma sulla parità di genere, la soglia dell’8% per i partiti che vanno da soli, poi, è molto, molto alta. Per quanto riguarda il premio di maggioranza, invece, una soglia ragionevole è il 40%”. Sostanzialmente smonta l’accordo. Tanto che il suo omologo alla Camera, Francesco Paolo Sisto, la richiama all’ordine: “Io trovo sconcertante che di fronte a un patto che è stato raggiunto fra Renzi e Berlusconi, si possa pensare già con riserva mentale di mutarlo”.
Il Senato non è la Camera e i numeri del governo sono molto più risicati. 169, per una maggioranza di 161. Se alla fine, per dire, contro l’Italicum votassero tutto Ncd (32 senatori) e i 25 democrat che già hanno firmato contro la legge, pure con il soccorso dei 60 di Fi i numeri sarebbero molto a rischio.
I presupposti ci sono tutti. Renato Schifani chiarisce: “Palazzo Madama non farà il notaio della Camera”.
E in Commissione la Finocchiaro fa sponda con Francesco Russo, fedelissimo di Letta: il progetto è quello di mettere il più possibile i bastoni tra le ruote all’Italicum e di far passare prima la riforma del Senato.
Alla faccia di quello che Maria Elena Boschi avrebbe scritto a Dorina Bianchi (come riporta l’Huffington Post): “Se passa l’emendamento che hai difeso (sulle preferenze, ndr.) , salta tutto e si va a votare. Voglio vedere dove prendi i voti per essere eletta”.
Smentiscono entrambe, sia il ministro che la deputata: ma il clima è quello.
Wanda Marra
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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