Giugno 18th, 2014 Riccardo Fucile
GRILLO IN VACANZA, CASALEGGIO LATITANTE, IL MOVIMENTO IN MANO A UN GRUPPO CAPITANATO DA DI MAIO E DAL FIGLIO DEL GURU… CRESCE IL MALUMORE TRA I PARLAMENTARI: “NON C’E’ DISCUSSIONE”
Senza una bussola, nel caos.
E soprattutto ostaggio di un vuoto di potere che ha fatto emergere un nuovo cerchio magico. È il Movimento cinque stelle, allo sbando dopo la batosta delle Europee.
Nessun summit, zero discussioni sulla linea politica e una giravolta strategica che ha disorientato un po’ tutti. Grillo in vacanza, Casaleggio assente.
I due “fondatori” che fanno sentire meno la loro voce. Così, dietro la polvere, già si intravede la figura di Luigi Di Maio.
Di fatto, è il reggente del nuovo corso. Gradito a molti e combattuto da altri, la sua ascesa ha scatenato un vespaio nei gruppi parlamentari
I segnali non sono incoraggianti. Il leader, per dire, è scomparso dai radar. Sfinito da un lunghissimo tour e demoralizzato dal voto, ha staccato clamorosamente la spina.
Il “guru”, convalescente, ha rallentato il ritmo. «Manca una guida», sussurrano in molti. Da quando le urne si sono chiuse, in effetti, il comico ha evitato di mettere piede a Roma. Trascurati e un po’ abbattuti, deputati e senatori hanno appreso dal blog l’improvviso cambio di linea.
E anche chi aveva spinto per il dialogo con le altre forze politiche è rimasto spiazzato: «Prendo atto che non ne abbiamo discusso assieme — rileva Walter Rizzetto — la decisione è stata presa da parte di alcuni che la considerano digeribile ».
Con il Movimento alla deriva, allora, è toccato a un gruppo di fedelissimi della Casaleggio associati prendere in mano il timone del grillismo.
In cima alla piramide, come detto, c’è il vicepresidente della Camera. Si muove con pieni poteri. È lui a condurre le danze nel corso della conferenza stampa della svolta e a gestire il delicato nodo dello streaming.
E sarà sempre lui a guidare la delegazione del M5S che si recherà a palazzo Chigi per trattare sulla legge elettorale. «È molto preparato sostiene Tancredi Turco — e per i responsabili della comunicazione è fra i migliori in tv».
I mugugni, però, stentano a restare negli argini. Si lamentano alcuni falchi e qualche colomba.
Nel corso di una riunione di senatori, Elena Bulgarelli ed Elena Fattori hanno chiesto conto del “doppio ruolo“ di Di Maio: «La base degli attivisti ci fa notare che critichiamo la Boldrini perchè non super partes, ma mandiamo il nostro vicepresidente della Camera a guidare la nostra delegazione politica a Palazzo Chigi. Vi sembra il caso?».
Da qualche mese Casaleggio preferisce limitare gli spostamenti e governa il Movimento dal quartier generale di via Manzoni, nel cuore di Milano.
Lavora lì, nel suo studio razionalista senza tv, alle spalle uno sfavillante poster di Tex Willer.
Tra le pareti bianco-verdi della Casaleggio associati, comunque, il vicepresidente è considerato il più affidabile.
«Per me — sostiene la senatrice Serenella Fucksia — Luigi è una figura che mette tutti d’accordo. È equilibrato, garbato e — scherza — sbaglia meno lui di Grillo…».
A comporre l’inner circle c’è naturalmente anche Davide Casaleggio, figlio del guru e socio dell’azienda paterna.
Lavora fianco a fianco con una ventina di giovanissimi dipendenti, incollato come loro ai quattro maxi schermi al plasma che monitorano il flusso di “Beppegrillo.it”.
È una squadra affiatata: nelle pause restano tutti a pranzare in un cucinotto interno alla sede, dove c’è spazio solo per la differenziata.
Non è tutto, perchè a supportare il Fondatore ci sono Claudio Messora, Rocco Casalino e Ilaria Loquenzi, new entry della comunicazione di Montecitorio.
Senza dimenticare Silvia Virgulti, tv coach ascoltatissima dal guru. Decisiva nel cambio di strategia, allena i parlamentari ad andare in tv.
Sono i “prescelti” che hanno potuto calcare il logoro parquet della Casaleggio associati, accolti dall’imponente parete che celebra l’ascesa grillina con copie incorniciate dei quotidiani nazionali.
Tommaso Ciriaco
(da “La Repubblica“)
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Giugno 18th, 2014 Riccardo Fucile
SUPER-FLESSIBILI: SIGLATO ACCORDO CHE PREVEDE DEROGHE PER APPRENDISTI, PRECARI E DIRITTO DI SCIOPERO
L’evento internazionale su cui l’Italia e Matteo Renzi si stanno giocando la faccia, è ormai noto
per lo scandalo-mazzette, per gli appalti truccati e tutto quello che ne consegue.
Meno note, invece, sono le ricadute sul lavoro dell’Expo 2015 a Milano.
Lo scorso 5 giugno è stato firmato “l’Avviso comune” tra le parti sociali e la Regione che definisce così tante deroghe ai contratti di lavoro da rendere i cantieri milanesi una vera terra di nessuno.
Un luogo dove l’unica legge sarà la corsa contro il tempo senza offrire prospettive al di là dell’Expo.
La filosofia del documento, infatti, punta tutto sui contratti “a tempo determinato o di somministrazione” (gli interinali) e su tutte le “soluzioni di flessibilità mansionaria e organizzativa” in grado di rispondere “al meglio alle esigenze che si presenteranno”.
Lavorare a termine senza futuro
I contratti a tempo determinato, come indicato dal precedente documento preliminare il “Patto per il lavoro”, prevedono la completa deroga rispetto ai limiti di utilizzo in rapporto ai dipendenti complessivi e al numero di deroghe.
La legge Poletti, recentemente approvata dal Parlamento, prevede una percentuale del 20 per cento di lavoratori a tempo determinato e la possibilità massima di cinque deroghe. Con questo accordo tali limiti saltano.
Un esempio di iper-flessibilità è “l’apprendistato in somministrazione”. Il contratto in somministrazione è quello in cui un lavoratore viene assunto da un’agenzia interinale che, a sua volta, lo “affitta” a un terzo, “l’utilizzatore”.
Questa triangolazione, nei cantieri dell’Expo, potrà avvenire anche in forma di apprendistato, “un’interessante opportunità ” che ha bisogno di “un’adeguata promozione”.
“Un’aberrazione” secondo il segretario della Fiom lombarda, Mirco Rota, anche perchè non si capisce chi dovrebbe formare il giovane apprendista — l’utilizzatore o il somministratore? — per cosa, per quanto tempo.
Corollario di tutto questo progetto è, infine, l’impegno a “procedure di raffreddamento” degli scioperi e delle controversie per garantire “che l’evento non diventi occasione per manifestazioni rivendicative che rischiano di pregiudicare l’immagine del Paese”.
Le previsioni non realizzate
Con questo accordo l’Expo ripone le speranze di riuscita nella quantità di flessibilità realizzabile.
Con rischi evidenti per la sicurezza e prospettive fumose per il futuro. L’intesa, infatti, non prevede nulla circa le stabilizzazioni e, anzi, fissa la scadenza al marzo 2016, cioè un anno dopo lo svolgimento dell’Expo. Con la possibilità di ulteriori rinnovi.
L’aleatorietà dell’occupazione è confermata dall’insistenza con cui si parla di volontariato. Il “Programma volontari” ufficiale ha predisposto un sito apposito, volun  teer.expo2015.org  , che vanta l’opportunità di essere “parte di questo grande evento” nell’accoglienza “e supporto per i visitatori”.
In particolare, si spiega, i volontari possono conoscere “20 milioni di persone” nel corso dei sei mesi in cui conosceranno “davvero” il mondo.
Un’operazione di convincimento che è stata promossa anche tramite Twitter, lo scorso maggio, con l’operazione #askexpo, un hashtag che ha occupato per giorni il social network ricevendo così tante risposte, quasi tutte negative, da dare vita a un tweetbook, un “libro” di messaggi e commenti di ben 70 pagine.
Nel testo si possono leggere commenti ironici, furiosi, disincantati: “Avevate promesso un milione di posti di lavoro, ma parlate di volontari?”.
Oppure: “Certo che fare volontariato per una Spa che aveva a disposizione 10 miliardi di euro pare buffo, no?”.
Ci sono, però, anche coloro che hanno chiesto se dal volontariato si potrà passare seriamente a un lavoro vero. Domande senza risposta.
Il problema è che il lavoro è stata davvero l’ultima preoccupazione di Expo 2015.
Anche un osservatore non ascrivibile alla contestazione, ma indipendente, come il professore della Bocconi, Roberto Perotti, ha argomentato su lavoce.info (vedi tabella accanto) come le “ottimistiche” previsioni sull’economia e sul lavoro si siano basate su “risultati attesi sovrastimati”.
Il saggio di Perotti si spinge fino a illustrare come i soldi stanziati per l’avvenimento avrebbero potuto essere impiegati diversamente e conclude con una constatazione sconfortante: “Quando si rinuncia a ogni considerazione razionale di costi e benefici per la collettività , il rischio è che i simboli divengano delle zavorre o addirittura degli incubi”.
Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 18th, 2014 Riccardo Fucile
LA CORTE DEL “GRANDE BURATTINAIO” SI STAVA GIà€ OCCUPANDO DELL’ITER PER LA NUOVA PIATTAFORMA OFF SHORE DI 2MILA METRI QUADRI: APPROVATO IL PROGETTO DA 3 MILIARDI
Dopo il Mose il porto off shore. La cricca Serenissima si era già apparecchiata la prossima grande opera veneziana: una piattaforma di duemila metri quadrati da costruire in mare, 12 chilometri dalle rive del Lido, dove convogliare petroliere e navi merci.
Un progetto avviato nel 2010, al momento ancora sulla carta ma già approvato e in parte finanziato, con una previsione di spesa iniziale di 3 miliardi.
Il Mose, per capirci, doveva costarne poco più di uno poi è lievitato a 5 miliardi e seicentomila euro.
La torta da spartire è notevole ed era stata quantificata proprio dagli uomini della cricca.
Il primo progetto presentato è infatti firmato dalle società Mantovani e Thetis, in pratica i signori del Mose, Piergiorgio Baita e Giovanni Mazzacurati.
Il primo arrestato nel luglio 2013 il secondo due settimane fa.
Insieme a Maria Giovanni Piva e Patrizio Cuccioletta, che si sono avvicendanti sulla poltrona di presidente del Magistrato alle acque, figura chiave per tutto ciò che si muove a Venezia: il Mav riceve i fondi dello Stato e poi stabilisce a chi e come assegnarli.
Così, scorrendo gli atti di approvazione del progetto off shore, si scopre che sono tutti approvati da Piva e Cuccioletta. Mentre firmavano gli atti a favore di Mantovani, patron del Cvn, ricevevano dal dominus della cricca, uno “stipendio” di 400 mila euro e altri benefit.
A conferma che il patron del Consorzio sia la figura centrale c’è un’intercettazione del 18 novembre 2010. Paolo Costa, ex ministro delle infrastrutture del governo Prodi, già sindaco di Venezia e oggi presidente dell’autorità portuale di Venezia, che dovrà gestire la piattaforma off shore, chiama Mazzacurati per chiedere i fondi necessari per avviare la progettazione.
Pochi giorni prima il Cipe ha deliberato uno stanziamento di 230 milioni a favore del Mose. “Come è andata?”, esordisce Costa. “Mah, ci hanno dato un po’ di soldi…”.
Costa allora ribatte: “Bisogna che partiamo rapidamente…”. E Mazzacurati: “Vabbè, combiniamo in qualche maniera”.
L’ex sindaco insiste: “Volevo sapere se c’era scritto che ‘sti cinque c’erano per partire capito? C’è bisogno di una pagliuzza per avviare il tutto… bisogna che non ci fermiamo su questo!”. “Direi che la troviamo”, chiude Mazzacurati riferendosi, annotano gli inquirenti, ai cinque milioni. Costa segue con apprensione le vicende che riguardano l’off shore e si confronta costantemente con le persone da cui dipendono le sorti dell’opera. Che sono Mazzacurati e Cuccioletta.
A luglio, pochi mesi prima della delibera Cipe, li invita a cena a casa sua per avere garanzie che tutto vada come deve andare. “Ho parlato con Cuccioletta — dice Costa a Mazzacurati — varrebbe la pena fare il punto della situazione”. Dice che il 27 “sarebbe l’ultimo giorno utile… potrei immaginare di averla a casa mia… magari anche con il nostro presidente… ci mettiamo d’accorso su tutti i passaggi in modo tale da stare tranquilli tutti”.
L’argomento è il porto off shore, annotano gli inquirenti. E “il nostro presidente” è Cuccioletta.
Il “presidente” approverà tutto il necessario per far avanzare l’opera, come si ricostruisce dai documenti allegati agli atti dell’inchiesta sul Mose.
A Roma lavorano i “facilitatori” della cricca veneziana reclutati da Mazzacurati per i fondi del Mose. La rete dei palazzi si muove come un sol uomo ormai, ricostruiscono gli inquirenti, è rodata.
Tanto che i Serenissimi danno per scontato che la piattaforma sarà “la prossima torta”.
Nel giugno 2012 Baita viene intercettato al telefono mentre parla con Wiliam Colombelli, titolare della Bmc di San Marino e, secondo i magistrati, socio di Giancarlo Galan attraverso la sua ex segretaria, usata come prestanome, Claudia Minutillo. Baita gli spiega come guardare al futuro: “Tu non confondere l’attività industriale con la nostra. Noi lavoriamo per commessa, quando finisce un lavoro è come aver chiuso lo stabilimento, ne prendi un altro e ne cominci un altro, su quelle commesse, cioè l’off shore… avranno degli sviluppi”.
Dopo appena pochi mesi, il 24 dicembre 2012, il governo concede il primo stanziamento utile per il progetto della piattaforma: 100 milioni di euro.
A Palazzo Chigi c’è Mario Monti, il ministro Elsa Fornero si è da poco mostrata in lacrime alle telecamere firmando il cosiddetto “salva Italia”.
Gli stessi ministri stanziano poi i primi fondi. Ma scavalcano il Magistrato delle acque e li mandano direttamente all’Autorità portuale. Cioè a Paolo Costa.
Da qui si apre un braccio di ferro con la cricca del Mose che comunque otterrà la gestione della diga e altre opere collegate alla piattaforma, ma la gestione degli appalti è passata a Costa.
Contattato dal Fatto, l’ex sindaco, dice di non aver mai subito pressioni da parte di Mazzacurati e Cuccioletta. “Loro erano le persone con le quali dovevo confrontarmi e sinceramente sono rimasto stupito di quanto accaduto. Ma perchè chiamò Mazzacurati chiedendogli cinque milioni e parlando di “una pagliuzza”? “Avevano i fondi”.
L’invito a cena di Mazzacurati e Cuccioletta? “Qualche giorno dopo avremo firmato l’accordo di programma”. Così “siamo riusciti a liberarci degli uomini” della cricca.
Se non fossero stati arrestati? Secondo l’accusa hanno fatto lievitare il costo del Mose da uno a quasi sei miliardi. Oggi la piattaforma off shore dovrebbe costare, dopo vari ridimensionamenti del progetto iniziale, due miliardi.
Antonio Massari e Davide Vecchi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 18th, 2014 Riccardo Fucile
NELLA CRICCA ANCHE UN VICE DI BERTOLASO E UNA FUNZIONARIA DEI BENE CULTURALI… COME AVEVANO INFILATO UN EMENDAMENTO NELLA LEGGE DEL GOVERNO
L’ultima cricca scoperta a L’Aquila era negli uffici regionali del ministero dei Beni culturali. 
E non prendeva solo mazzette (180 mila euro per un appalto da 19 milioni per la chiesa delle Anime Sante): era arrivata al punto di scrivere un emendamento a un’ordinanza della presidenza del consiglio sulle regole della ricostruzione.
La correzione dell’articolo 2 – poi consegnata agli uffici dell’allora premier Enrico Letta – avrebbe reso la Curia aquilana stazione appaltante di 500 milioni di euro di lavori pubblici (per la ricostruzione di 195 chiese) senza dover rispettare il codice degli appalti.
Luciano Marchetti, ex vicecommissario alla ricostruzione, Alessandra Mancinelli, funzionaria del Mibac, Giuseppe Di Girolamo, dirigente ministeriale, e gli imprenditori Massimo Vinci e Patrizio Cricchi erano quasi riusciti nell’intento attivando quella che uno di loro chiama «massoneria cattolica» – come emerge da una intercettazione effettuata dalla squadra mobile dell’Aquila – e soprattutto strumentalizzando tutti i vescovi dell’Abruzzo e del Molise, con un ruolo da protagonista per monsignor Giovanni D’Ercole, oggi vescovo di Ascoli e fino a poche settimane fa vescovo ausiliare dell’Aquila.
Se dal punto di vista normativo, sei mesi fa, l’ufficio legislativo del Governo ha bloccato l’emendamento, ieri il giudice per le indagini preliminari del capoluogo abruzzese, Giuseppe Romano Gargarella, ha fatto scattare cinque arresti e undici avvisi di garanzia per funzionari, imprenditori e professionisti.
«ABBIAMO FATTO BINGO”
«Se la Curia gestisce gli appalti per noi è fatta » si raccontavano al telefono la Mancinelli (ora in carcere) e Marchetti (ai domiciliari).
«A te Luciano andranno tutti gli incarichi vedrai », dice la funzionaria. Ma non erano solo loro a spingere per l’emendamento acchiappa- appalti degli immobili della Chiesa aquilana.
Dietro si muovevano gli imprenditori. «Letta firmerà … E se Palazzo Chigi fa sta cosa abbiamo fatto bingo! Abbiamo vinto!», esultava in una intercettazione ambientale il costruttore Vinci, che già pagava alla cricca le mazzette per ottenere l’appalto della chiesa di Santa Maria del Suffragio (detta delle Anime Sante).
Affare che sarebbe presto lievitato a «30 milioni di euro come minimo», aveva assicurato agli imprenditori lo stesso Marchetti.
E Vinci arrivava a falsificare la firma del parroco — malato e incapace di intendere e di volere — nei documenti per l’appalto
«LA MASSONERIA CATTOLICA»
Per la vicenda dell’emendamento un ruolo centrale l’ha avuto Antonello Antonellis, sindaco di San Donato Val di Comino, nel Frusinate, che si è presentato alla cricca del Mibac come grande amico di Enrico Letta. «Io ed Enrico siamo come fratelli, tu lo sai», diceva al telefono alla Mancinelli.
Ed è sempre Antonellis a suggerire la strada per Palazzo Chigi, quella che lui chiama della «massoneria cattolica». «Ad Enrico gli diciamo che questa cosa è venuta direttamente dalla Cei… è chiaro, no!?» dice Antonellis.
«È per questo che D’Ercole… – risponde al Mancinelli – mi ha detto: lo voglio far uscire il documento con la firma dalla Conferenza episcopale! Capito?».
E Antonellis spiega la strategia: D’Ercole chiama Piva (Amedeo Piva, funzionario delle Ferrovie e dirigente del Pd, ndr) e gli dice: la conferenza episcopale delibera questa cosa che la mandiamo a Letta; gli dà il testo… in modo che mercoledì, quando andiamo non tanto da Letta, ma da Ferrara che è il… vice segretario generale… spingeranno anche loro sui lavori per qualche impresa amica». E poi Antonellis si spiega meglio: «Tu hai capito che Piva è l’uomo del Vaticano, no? È lui che rappresenta… come dire… quella massoneria cattolica… eh… che comanda! Eh… se viene da lì… da Amedeo… significa che… il Vaticano… Così anche se qualche ministro vuole fare lo stronzo, quando gli dice che viene dalla Cei non può dire nulla».
Antonellis non è indagato nell’inchiesta, ma per i pm David Mancini e Antonietta Picardi rappresenta il collegamento con il livello romano.
LA TANGENTE AL RISTORANTE
Ma ci sono anche le mazzette: una tangente da 10 mila euro (acconto di 180 mila) che la Finanza dell’Aquila segue e filma.
La consegna avviene in un ristorante di Carsoli. Ed è l’imprenditore Vinci a dare la busta alla Mancinelli sotto gli occhi dell’imprenditore Cricchi e dell’ex commissario Marchetti.
La Mancinelli si era anche fatta regalare un divano e pagare i lavori idraulici in casa
GIANNI LETTA SPINGE PER L’APPALTO
Nelle carte spunta anche il nome di Gianni Letta, ex sottosegretario alla presidenza del consiglio del governo Berlusconi. La lettera dei vescovi con allegato l’emendamento già pronto, oltre che sul tavolo dell’allora premier Enrico, arriva anche su quello dello zio. È sempre monsignor d’Ercole ad inviargliela.
Ed è invece Marchetti in una intercettazione ambientale a rivelare che Letta senior avrebbe fatto pressioni per far ottenere dei lavori a una ditta a lui vicina.
Giuseppe Caporale
(da “La Repubblica“)
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Giugno 18th, 2014 Riccardo Fucile
SAREBBE L’AVVIO DI UN TENTATIVO PER LA RIDUZIONE DEL DANNO CHE SOLITAMENTE SI PROCURA SEGUENDO IL SUO ISTINTO SUICIDA
È il ministro dell’Altrove. Se accade una cosa di là lui è di qua.
E se la vede da vicino la racconta male, s’ingarbuglia, s’intrappola e alla fine si perde.
Bisogna anzitutto togliergli Twitter. Sarebbe un atto di comprensione e l’avvio di un tentativo per la riduzione del danno che purtroppo Angelino Alfano si procura seguendo il suo istinto suicida.
Com’è chiaro da quando ha scelto il logo del suo partito e quella sigla con assonanze straordinariamente pericolose (gli avranno nascosto la storia dell’Italia criminale e della Nco, con la quale Raffaele Cutolo, il super boss camorrista, spadroneggiava) Angelino ha l’aspetto di un girasole in autunno.
Il corpo è indebolito e pendente e anche la mente singhiozza, e gli atti sono consequentia rerum.
Ogni volta che accade qualcosa, lui è altrove.
E non sarebbe nemmeno il peggio dei mali. Immaginate se, al tempo del sequestro da parte dei reparti speciali italiani della cittadina straniera Alma Shalabayeva, Angelino fosse stato avvertito. Avrebbe sicuramente twittato qualcosa, è pur sempre l’azione che gli riesce meglio.
Non glielo dissero e lui spiegò con mestizia al Parlamento che il ministro dell’Interno non sapeva.
E in Italia meno si sa e meglio si sta.
E non sapeva neanche che Genny ‘a carogna, quando si impossessò dell’Olimpico e iniziò a trattare con lo Stato, fosse uomo o animale, maschio o femmina, capo tifoso oppure osservatore della Figc.
L’avesse saputo avrebbe sicuramente twittato: con Genny neanche un caffè.
Angelino vorrebbe dare il Daspo ai violenti. Il suo premier vorrebbe dare il Daspo ai politici ladroni. E questo è un altro tormento.
Perchè l’Ncd si è provvisoriamente trovato circondato da colleghi con frequentazioni opache, sospettati, indagati o peggio.
Angelino che ne sa? Eppure s’è visto che cosa è successo.
L’Ncd lambito dal crimine ha pagato nelle urne al punto che il vorace Renzi stava pensando di ridurre l’esposizione moderata nel governo di qualche unità . Sarebbe stata una vera tragedia.
Un fatto è certo, purtroppo: da quando c’è Matteo lui non tocca palla, che nemmeno gli gira più intorno.
Da qualche settimana Alfano sembra una statua di marmo. Non fa un passo. Non avanza nè indietreggia. Fermo in mezzo al campo col Twitter in mano. Prova un clic per sentirsi vivo.
E quando sbuca il suo pensiero dal nero in cui è piombato, apriti cielo! Con questo ultimo maledetto tweet ha indicato agli italiani l’assassino di Yara Gambirasio, lui proprio.
Il ministro in persona personalmente, direbbe Camilleri.
Dimenticando sia la grammatica istituzionale che non affida al Viminale gli interrogatori degli imputati che la presunzione d’innocenza, cavallo di battaglia che lo portò nel marzo dell’anno scorso a guidare, nel giubilo collettivo, la trasferta parlamentare di Forza Italia davanti al tribunale di Milano.
Era Silvio il capo allora e tutto si spiega
Infatti, in omaggio ai comuni destini, Angelino annunciò durante l’assemblea del suo partito col medesimo giubilo l’arresto in Libano di Marcello Dell’Utri, un suo vecchio amico.
Perfetto, misurato, istituzionale come pochi e anche dalla memoria di ferro.
Aspettava quell’ora da anni, e non l’aveva detto a nessuno. Quando scattarono le manette a Dell’Utri lui zac, rubò un microfono e diede sfogo a tutta la rabbia che aveva in corpo. Finalmente in gabbia.
Antonello Caporale
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Giugno 18th, 2014 Riccardo Fucile
I PM METTONO SOTTO ACCUSA IL TITOLARE DEGLI INTERNI PER LA FUGA DI NOTIZIE
Ore 18,24 del 16 giugno 2014, al mio tweet scatenate l’inferno (e fate arrabbiare i giudici):
“Individuato l’assassino di Yara Gambirasio”.
Firmato: Angelino Alfano, ministro dell’Interno del governo Renzi.
Subito dopo, arriva il comunicato stampa del Viminale: “Le Forze dell’Ordine, d’intesa con la Magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. Secondo quanto rilevato dal profilo generico in possesso degli inquirenti, l’assassino della piccola Yara è una persona del luogo, dunque della Provincia di Bergamo. Nelle prossime ore, saranno forniti maggiori dettagli. Ringraziamo tutti, ognuno nel proprio ruolo, per l’impegno massimo, l’alta professionalità e la passione, investiti nella difficile ricerca di questo efferato assassino che, finalmente, non è più senza volto”.
I giornalisti impazziscono e si precipitano a Bergamo; la Rete impazzisce e fa rimbalzare la notizia su tutti i siti del mondo; gli inquirenti impazziscono e cominciano a chiedersi perchè il ministro dell’Interno abbia sentito la necessità di bruciare tutti dando la notizia così in fretta, proprio nei minuti in cui Massimo Giuseppe Bossetti era ancora seduto in caserma ad ascoltare le accuse.
E invece lui, Angelino Alfano, gongola di soddisfazione perchè un altro pericoloso assassino verrà consegnato alle patrie galere.
Anzi, non ancora contento, alle 19,24 fa inviare al suo staff un nuovo comunicato stampa: “L’Italia è un Paese dove chi uccide e chi delinque viene arrestato e finisce in galera. Può passare del tempo o può finirci subito. Ma questo è il destino che attende i criminali. Oggi, due successi che dedichiamo ai familiari delle vittime e agli italiani onesti”.
Applausi. Medaglia al valore
Alfano lunedì va a dormire contento (in fondo, dalla Procura è arrivato solo un invito alla prudenza, “siamo in una fase delicatissima”) ma ieri mattina a gelare il suo entusiasmo, arriva una dichiarazione al veleno del procuratore capo di Bergamo, Francesco Dettori: “Era intenzione della Procura mantenere il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, secondo la Costituzione, esiste la presunzione di innocenza”.
Ecco, forse un po’ di prudenza non avrebbe guastato. Tutti gli inquirenti sapevano, tutta la catena di comando da Bergamo al Viminale sapeva, ma era proprio il caso di sbandierare un successo prima che questo si fosse realmente compiuto?
Il vice premier incassa il colpo, ma non può fare marcia indietro: “L’opinione pubblica ha diritto a sapere e ha saputo. Credo che questo sia un elemento di rassicurazione. L’opinione pubblica una volta di più ha chiaro come lo Stato vinca, e chi invece delinque o uccide, perde”.
Anzi, ci pensa su e rincara la dose: “In un giorno di grandi successi non voglio fare polemiche. Non ho divulgato dettagli e non credo che il procuratore ce l’abbia con me, piuttosto si dovrebbe chiedere chi ha inondato il nostro mondo dei mass media di informazioni e dettagli. Certamente non è stato il governo”.
E però, forse il tiro va un po’ aggiustato, la Procura è stata più garantista del politico, e allora parte un nuovo tweet: “Ovviamente la presunzione di innocenza vale per tutti”.
Ma come, non era stato individuato l’assassino (senza presunto) di Yara Gambirasio?
Il dado è tratto, la polemica è servita e il veleno tra Bergamo e Roma scorre, nonostante gli stessi magistrati provino a smorzare i toni.
“Non c’è nessuna polemica, ma questa situazione non mi è piaciuta”, risponde lo stesso Dettori. “A che pro parlare di polemica? — gli fa eco il procuratore generale di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso — È chiaro che un procuratore aspira ad agire senza i riflettori, è fisiologico, accade in ogni indagine. Di fronte a un caso di questa eclatanza — aggiunge — è normale che chi si è occupato delle indagini sente, per così dire, l’ansia e la trepidazione tanto più se c’è un’opinione pubblica attenta a una cosa del genere”.
“Nessuna polemica”, neanche per il questore di Bergamo, Fortunato Finolli.
Indagine rovinata o solo riflettori scippati?
Quel che appare certo è che gli inquirenti avrebbero avuto bisogno ancora di 48 ore di tempo per completare alcuni accertamenti (testimoni, eventuali favoreggiatori, complici) e poi, loro sì, convocare una conferenza stampa, e non scrivere un tweet.
La pressione mediatica scatenata lunedì da Alfano ha rovinato questi piani, e magari dato un’accelerata a tutto, ma non ha inficiato l’indagine.
Tanto è bastato per far rimanere Beppe Grillo “senza parole.
Il ministro Alfano l’ha fatta grossa”, ha scritto ieri il leader dei M5S sul suo profilo Facebook.
Il forzista Furlan ne ha chiesto addirittura la testa: “Dal Kazakistan al caso Gambirasio, storia di un ministro inadeguato. Ma cosa deve accadere perchè un ministro si dimetta?”.
Al fianco di Alfano il viceministro della Giustizia Enrico Costa: “Non ho compreso — ha detto — la reazione del procuratore di Bergamo. I cittadini non avevano forse il diritto di conoscere una notizia così rilevante?”.
Ma due giorni in più, cosa sarebbe cambiato?
Silvia D’Onghia
(da “il Fatto Quotidiano”)
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