Giugno 29th, 2014 Riccardo Fucile
UN TERZO DELLE SOCIETA’CHE DIPENDONO DAGLI ENTI LOCALI E’ IN ROSSO
Una miriade di società che sono costate lo scorso anno solo alle casse dello Stato 26 miliardi.
Sono le partecipate pubbliche, imprese di un mondo ancora poco conosciuto e poco trasparente e che necessita al più presto di “un disegno di ristrutturazione organico e complessivo”.
E’ la sollecitazione che arriva dalle Corte dei Conti, la quale sottolinea anche un altro dato preoccupante: un terzo delle 5.258 partecipate che dipendono dagli enti locali è in perdita.
Nell’ultima rilevazione della Corte le partecipate sono in tutto circa 7.500: 50 dallo Stato e 5.258 dagli enti locali cui si sommano altri 2.214 organismi di varia natura (consorzi, fondazioni ecc…).
Il numero è però “variabile, in quanto le società sono soggette a frequenti modifiche dell’assetto societario”.
Per il loro peso finanziario e per la dimensione economica, gli enti partecipati – sottolinea il procuratore generale Salvatore Nottola nel suo giudizio sul rendiconto generale dello Stato – “hanno un forte impatto sui conti pubblici, sui quali si ripercuotono i risultati della gestione, quando i costi non gravano sulla collettività , attraverso i meccanismi tariffari”.
Il movimento finanziario indotto dalle società partecipate dallo Stato, costituito dai pagamenti a qualsiasi titolo erogati dai Ministeri nei loro confronti ammontava a 30,55 miliardi nel 2011, 26,11 miliardi nel 2012 e 25,93 nel 2013; il “peso” delle società strumentali sul bilancio dei ministeri è stato di 785,9 milioni nel 2011, 844,61 milioni nel 2012 e 574,91 milioni nel 2013.
Un mondo così variegato e ricco di implicazioni “richiederebbe una assoluta trasparenza del fenomeno ma la realtà è diversa”.
L’assetto delle società è mutevole e soggetto a vicende che i magistrati contabili definiscono “complesse”, con aspetti contabili che sono “spesso oscuri”
Da qui la richiesta di porre mano “ad un disegno di ristrutturazione organico e complessivo, che preveda regole chiare e cogenti, forme organizzative omogenee, criteri razionali di partecipazione, imprescindibili ed effettivi controlli da parte degli enti conferenti e dia a questi ultimi la responsabilità dell’effettivo governo degli enti partecipati”.
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Giugno 29th, 2014 Riccardo Fucile
L’EX MINISTRO DELLA GIUSTIZIA E’ CONSULENTE DEL GOVERNO DI PECHINO
La Cina è il paese del comunismo, ma non della giurisprudenza.
Per questo, quando ha avuto bisogno di un parere per scrivere il suo codice civile, la Cina si è rivolta a un comunista italiano: Oliviero Diliberto, per anni segretario del Pdci.
Colui che, ironizzando, propose di portare la mummia di Lenin in Italia.
Uno, quindi, che con il comunismo internazionale ha sempre avuto a che fare. E che nel 1999, quando era ministro della Giustizia, ha aperto una vera e propria collaborazione con le università e il ministero cinese per aiutare la Cina a sviluppare il suo codice civile.
“Tutto nasce da un’intuizione di Sandro Schipani – racconta Diliberto – che nel 1988 capisce che la Cina, dovendosi aprire al mercato internazionale, avrebbe avuto bisogno di regole”.
Da quel momento si inizia a tradurre in cinese la giurisprudenza romana, fino a quando, nel 1996, il Parlamento cinese decide di dotarsi di un codice civile basato sul modello romano.
Si arriva così al 1999, quando Diliberto, in quanto ministro, ma soprattutto comunista e insegnante di diritto romano, avvia una collaborazione ufficiale con la Cina.
Così, aumenta il numero di studenti cinesi che vengono a prepararsi in Italia per poi poter collaborare alla realizzazione del codice in patria.
Come funziona l’apporto dato da Diliberto e altri docenti italiani, l’ex ministro lo spiega chiaramente: “Il codice lo scrivono loro, ma noi forniamo un supporto, diamo consigli e pareri quando richiesti”.
“Ad esempio – racconta Diliberto – abbiamo suggerito una soluzione sulla proprietà privata, ovvero quella di concedere a privati e a comunità le terre di proprietà dello Stato, rendendole redditizie e risolvendo il problema della proprietà che così rimarrebbe dello Stato”.
Proprio quello della proprietà privata è uno degli aspetti più dibattuti in Cina: “Ci sono voluti tre anni per decidere – continua Diliberto – il punto chiave era quello di conciliare uno stato socialista con le leggi di diritto. Fatto quello, nel 2006, si è aperta la strada a tutto il resto”.
Dopo la carriera politica – dalla quale Diliberto non si è del tutto ritirato, “rimanendo nel suo partito ma lasciando largo ai giovani” – le soddisfazioni arrivano dalla giurisprudenza per il docente di diritto romano della Sapienza: “Vedere la propria materia applicata nel presente e nel più grande paese del mondo – racconta – è una soddisfazione grandissima, un contributo a un pezzo di storia di cui essere orgoglioso come italiano”.
Diliberto, insomma, si “consola con la Cina”. “Sono soddisfatto della mia carriera politica – continua – ho fatto cose che non mi sarei mai aspettato”, ma ora la strada è dura.
“Mi auguro che i comunisti possano tornare in Parlamento, ma nella sinistra prevalgono le spinte centrifughe e le divisioni: ci sono stati spessi errori delle classi dirigenti, da cui non mi tiro fuori”.
E neanche il processo di riforme di cui si parla oggi convince Diliberto: “Quella del Senato sembra aberrante, le larghe intese mi sembrano innaturali” e anche su Renzi il giudizio è “critico”.
(da “Huffingtonpost“)
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Giugno 29th, 2014 Riccardo Fucile
TUTTE HANNO DOVUTO LASCIARE GLI APPARTAMENTI PER EVITARE LA REITERAZIONE DEL REATO
“Olgettine” non lo sono più da un pezzo. Perchè la diaspora, da quel palazzo signorile che prende il nome dall’omonima via, è ormai quasi completa.
Alcune di loro fanno le emigranti, di lusso, negli Stati Uniti. O almeno così dicono. Altre, più semplicemente, si sono spostate in umili appartamenti in affitto nella zona di piazzale Loreto, a due passi dalla (ormai ex) agenzia di Lele Mora, la LM Management, alla quale adesso la magistratura ha posto i sigilli, il quartier generale di vip e soubrette da dove — nelle calde notti del Bunga Bunga – auto cariche di affascinanti fanciulle partivano dirette alla volta di Arcore.
Di sicuro, si guardano bene dal mettere ancora piede a Mediaset. Visto che per molte, nell’ultimo anno, la sorpresa è stata amara: si sono viste annullare i sostanziosi contratti che avevano firmato con l’impero televisivo del Cavaliere e si sono ritrovate di punto in bianco disoccupate.
Come se ci fosse una invalicabile rete di sicurezza per tenere a distanza quelle stesse ragazze che fino a pochi anni fa animavano le serate di villa San Martino.
Quindi che fine hanno fatto le papi-girls, a quattro anni dalla bufera giudiziaria che ha travolto l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e che ha svelato al mondo intero i segreti delle notti di Arcore?
Il processo Ruby è ormai in fase di Appello, la sentenza potrebbe arrivare già il 18 luglio, e mentre pubblica accusa e difesa ripercorrono in aula davanti alla corte tutte le tappe che hanno segnato questa inchiesta — dalla notte in Questura della minorenne marocchina alle serate del “Bunga Bunga” — c’è ancora un dubbio che attanaglia i magistrati: le olgettine sono ancora oggi a libro paga di Silvio, come rivelarono loro stesse un anno fa in aula, oppure il leader di Forza Italia ha davvero tagliato i ponti con ognuna di loro, come vorrebbe far credere?
Ufficialmente sembrerebbe di sì, a sentire i loro racconti.
Alcune di loro si sono riciclate aspiranti cantanti, aspiranti attrici, ragazze immagine, businesswomen in attesa di aprire una loro linea di vestiti e persino cameriere.
E girano il mondo fra hotel di lusso
La questione non è secondaria, visto che molte di queste ragazze sono indagate nel terzo filone dell’inchiesta Rubygate, il cosiddetto “Ruby ter”, il processo-costola che vede coinvolte 45 persone, fra cui una trentina di olgettine.
Le ragazze del Bunga Bunga, in particolare, sono infatti sospettate di essere state corrotte da parte di Berlusconi e dei suoi avvocati per alleggerire la posizione dell’imputato nel processo principale.
Le indagini preliminari sul Ruby-ter, infatti, sono formalmente ancora in corso. E se i magistrati titolari del fascicolo, il procuratore aggiunto Pietro Forno e il pubblico ministero Luca Gaglio, dovessero riscontare che gli “aiuti economici” alle fanciulle del Bunga Bunga proseguono ancora oggi, per il leader di Forza Italia sarebbero guai seri.
Sarebbe accusato di reiterazione del reato, e per lui potrebbe scattare anche il congelamento dei conti correnti dai quali sono partiti questi versamenti.
Molte delle olgettine, in tutto una trentina, infatti, per loro stessa ammissione, non avrebbero solamente ricevuto un bonifico mensile di 2.500 euro per rimediare “ai danni d’immagine provocati dall’inchiesta” ma anche e soprattutto case, appartamenti, automobili, versamenti e gioielli. Come hanno confermato loro stesse — candidamente – davanti ai giudici. Tutte transazioni economiche comprovate dalle indagini.
Loro, però, spiegano che i generosi rubinetti della società “Dolcedrago srl” amministrata direttamente dal ragionier Giuseppe Spinelli, uomo di fiducia di Berlusconi, si sarebbero chiusi da un pezzo.
“Il mitico Spinaus? Non lo sentiamo più”, rispondono unanimi le olgettine. “Silvio ci aveva aiutato perchè per colpa di questa inchiesta non riuscivamo a trovare lavoro e tutti ci additavano come poco di buono”.
In effetti, molte delle papi-girls, il lavoro lo hanno perso per davvero.
Come la bionda Giovanna Rigato, ex concorrente del Grande Fratello, che fino a un anno fa era retribuita con un contratto annuale in casa Mediaset da 50mila euro all’anno per partecipare a trasmissioni e talk show.
Contratto che, oggi, è sfumato nel nulla. E così la procace veneta medita di trasferirsi all’estero: “Parlo tre lingue, se non salta fuori qualcosa qui in Italia sono pronta a lasciare il Paese”.
Più o meno quello che è accaduto ad Aris Espinosa, che lavorava nel corpo di ballo di molte trasmissioni del Biscione, di punto in bianco lasciata a casa, tanto da essere stata costretta a lanciare un appello: “Non mi fanno più lavorare, dovrò andarmene da qui”.
All’estero sono emigrate, anche, la 36enne Barbara Guerra, Barbara Faggioli, Alessandra Sorcinelli e la ex bad-girl Marysthell Polanco, ex valletta di Colorado Cafè nonchè presenza fissa ad Arcore, che è da poco diventata mamma per la seconda volta.
Anche per loro niente più ingaggi in televisione e pochissimi contatti con il mondo dello spettacolo.
La Guerra, in particolare, stava meditando di aprire una linea di intimo e costumi da bagno. E nel frattempo si fa fotografare su Twitter in pose sensuali nelle suite di lusso in giro per il mondo.
Dopo intere stagioni passate sulle copertine di tutti i rotocalchi, non vuole più far sapere nulla di sè neanche la “regina” del Bunga Bunga, Nicole Minetti, ex consigliere regionale lombardo.
Di sicuro, però, la bella Nicole non se la passa male: durante le indagini sul processo Ruby sono risultati a lei intestati, nel residence di Segrate, ben quattro appartamenti. Mentre nel 2011 la Banca d’Italia ha segnalato a suo favore pure un bonifico da 100 mila euro.
Oggi è proprietaria di un appartamento in via della Spiga.
Un’incognita è anche la vita di Iris Berardi, origini brasiliane e un’impressionante somiglianza fisica con Ruby Rubacuori. Pure lei, come la giovanissima marocchina, quando entrò nel circo di Arcore per la prima volta aveva solo 17 anni. Almeno, è il sospetto dei magistrati. Iris è una delle pochissime a non aver lasciato il residence di via Olgettina.
E lei, la protagonista assoluta Karima El Mahroug detta “Ruby Rubacuori”? Neomamma, dopo una lunga avventura in Messico dove meditava di aprire insieme al compagno Luca Risso uno stabilimento di pasta fresca, ora è ritornata mestamente a Genova.
“Ho cercato lavoro come cameriera ma nessuno mi voleva assumere”, ha dichiarato pochi giorni fa in un’intervista a Il Giornale, “ora forse ho trovato posto in un ristorante a Milano”. Eppure, stando ad alcune testimonianze, la giovanissima Ruby, coperta di gioielli, sarebbe stata vista pochi mesi fa negli Emirati Arabi mentre depositava un sostanziosissimo gruzzolo di denaro alla “National Bank of Abu Dhabi”.
Non tutte le papi-girls, però, sono state scaricate dal Cavaliere. Silvia Trevaini, giornalista professionista, anche lei indagata nel Ruby-ter, si tiene ben stretto il suo contratto a tempo indeterminato con Videonews, la testata di casa Mediaset che si occupa di programmi e approfondimento.
Durante il processo, la giovane cronista aveva spiegato ai giudici che oltre al proprio regolare stipendio da 3mila euro percepiva, anche, un bonus mensile di 2.500 euro per “i danni di immagine subiti”.
A lei, inoltre, oltre a macchine e a regalìe varie, nel corso degli anni sono state versati più di 800mila euro che le sono serviti per comprare prima un appartamento a Milano Due e poi un altro nel pieno centro di Milano. Oggi anche la bella Silvia ha dovuto rinunciare al bonus, tenendosi però casa e stipendio fisso.
Pur essendo stata una delle ragazze più “fortunate” della cerchia delle olgettine, c’è da giurare però che neppure lei abbia potuto mantenere ancora contatti con Silvio.
Così come è successo con tutte altre, estromesse dalla vita dell’ex premier in un’accuratissima operazione di presa di distanza.
“Berlusconi? Anche se volessi sentirlo non è più contattabile da noi ragazze”, rivela la Rigato all’Huffington Post, “non possiamo più avvicinarlo. Ci hanno espressamente detto che è bene mantenere le distanze con tutte le persone che sono state coinvolte nell’inchiesta giudiziaria, Lele Mora compreso”.
(da “Huffington Post”)
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Giugno 29th, 2014 Riccardo Fucile
I NOSTRI ANZIANI PAGANO PIÙ IMPOSTE RISPETTO A QUANDO LAVORAVANO…. PER OGNI ESERCIZIO CHE NASCE NE MUOIONO DUE
Pensionati supertassati e negozi che chiudono: questo il quadro a tinte fosche dell’Italia nei primi mesi del 2014, presentato da Confesercenti e Confcommercio
PENSIONI
L’Italia è il paese più longevo d’Europa, ma anche quello che tratta peggio i propri pensionati. Gli anziani, dopo una vita di contributi, pagano proporzionalmente più tasse di quando lavoravano.
“Un anziano che riceve un assegno mensile di 1500 euro lordi detrae 72 euro in meno rispetto a quanto fa, invece, un lavoratore dipendente con un reddito dello stesso importo”, ha spiegato il presidente Marco Venturi, durante la festa nazionale della Fipc (Federazione Italiana Pensionati del Commercio).
L’anomalia maggiore, però, è che il prelievo fiscale è tanto maggiore quanto più la pensione è bassa.
Le pensioni sotto i 1500 euro, infatti, possono detrarre 131 euro in meno dei lavoratori con lo stesso reddito.
Le pensioni, però, non vengono erose solo dalle tasse.
Nel 2014 i nonni italiani hanno perso 1419 euro di potere d’acquisto rispetto al 2008. “Sono oltre 118 euro al mese, sottratti a consumi e ai bilanci delle famiglie” ha specificato Venturi, secondo cui è sempre più indispensabile una riforma del sistema fiscale, che estenda anche ai pensionati il bonus fiscale, in modo da ammortizzare, almeno in parte, la perdita su base mensile.
EUROPA
Opposta la situazione nel resto d’Europa: sulla stessa pensione da 1500 euro, un nonno romano paga il doppio rispetto a un suo “collega” spagnolo, il triplo rispetto a un inglese e cento volte di più rispetto a un tedesco.
“Un pensionato italiano paga il circa 4000 euro l’anno di tasse, il 20,7% di quanto riceve dall’Imps — ha spiegato Venturi — in Germania quello stesso pensionato invece è tassato allo 0,2, pari a 39 euro annui”.
E il discorso non cambia nemmeno quando si considerano pensioni più basse: chi riceve circa 750 euro, -1,5 volte il trattamento minimo — è tassato al 9,17%.
La stessa pensione in Germania, Francia e Spagna sarebbe, invece, esentasse.
COMMERCIO
Nei primi cinque mesi dell’anno, per ogni nuovo negozio aperto due hanno chiuso.
I più colpiti sono stati bar e ristoranti, aumentano invece le licenze per il commercio ambulante
Unica per quanto magra consolazione è che il dato — fornito dall’Osservatorio sulla demografia delle imprese della Confcommercio — è comunque migliore rispetto a quello registrato nello stesso periodo nel 2013: 52.716 esercizi chiusi quest’anno, contro i 55.815 dell’anno scorso.
Il più colpito è il Meridione, con 17mila imprese in meno.
Secondo l’Osservatorio, i dati confermano come non ci siano ancora segnali concreti di una vera ripresa, anche se “le imprese stanno riuscendo a contenere gli effetti della crisi, nonostante una domanda interna stagnante, l’elevata pressione fiscale e i mancati pagamenti dei debiti della p.a.”.
Giulia Merlo
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 29th, 2014 Riccardo Fucile
LA FIDANZATA DI SILVIO BERLUSCONI SI ERA GIA’ ESPRESSA A FAVORE DELLE UNIONI CIVILI, ESORTANDO IL CENTRODESTRA A FAR SUA LA BATTAGLIA PER I “DIRITTI DELLE COPPIE OMOSESSUALI”
“Francesca Pascale e Vittorio Feltri annunciano la loro iscrizione all’Arcigay poichè ne condividono le battaglie in favore dell’estensione massima dei diritti civili e della libertà ”.
L’annuncio è stato dato con una nota dalla segreteria di redazione de Il Giornale, nel giorno in cui in Italia si tiene l’Onda pride, la manifestazione che celebra la giornata dell’orgoglio gay, lesbico, bisessuale, trans, queer e intersessuale.
Un “gesto simbolico” per “affermare al massimo la necessità di estendere al massimo i diritti civili”. Vittorio Feltri spiega così all’Adnkronos la decisione di iscriversi, insieme a Francesca Pascale, all’Arcigay.
“Noi — rileva l’editorialista del Il Giornale — siamo per la libertà , senza discriminazioni, convinti che sia necessario superare i pregiudizi che generano equivoci, banalità , insulti noiosi e stupidi. Quando si tratta di trasformare i diritti in fatti concreti si trovano tutti in difficoltà . Renzi ha fatto tanti annunci e poi è finito in un sistema istituzionale che rende difficile qualsiasi iniziativa. Ogni volta che ci ha provato Berlusconi si è trovato il mondo addosso. Finchè si tratta di chiacchiere — dice — sono tutti d’accordo, quando è l’ora di trasformarle in fatti concreti si incontrano gli ostacoli”.
Per Feltri non è un problema l’iscrizione a un’organizzazione da sempre schierata a sinistra: “quando si tratta di diritti civili non esistono destra o sinistra. Il nostro — conclude — è un gesto simbolico, speriamo che contribuisca ad ottenere qualche risultato”.
Una notizia che segue l’intervista, rilasciata il 13 giugno al Corriere della Sera, in cui la fidanzata di Silvio Berlusconi aveva dichiarato il suo “sì” alle unioni civili.
“Cristo ha detto: ama il prossimo tuo come te stesso. Non ha insegnato a fare differenza tra gay ed etero“, aveva spiegato Francesca Pascale.
Che aveva esortato il centrodestra a fare la sua parte per difendere la libertà “di tante coppie omosessuali che vogliono vivere in pace”.
Da credente, aveva spiegato “ho rispetto per il matrimonio, soprattutto per quello cristiano: credo nella famiglia tradizionale, ma, da liberale, sono convinta che lo Stato debba rispettare le scelte e gli stili di vita di ciascuno. Questo significa che se due persone, per scelta o per necessità , non possono o non vogliono formare una famiglia, non per questo lo Stato può negare loro il diritto di vedersi riconosciuto il loro legame. Anzi, alla destra vorrei dire — e non appaia come una esortazione cinica – approfittiamone ora che c’è un Papa liberale, che ha mostrato significative aperture verso divorziati e omosessuali”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 29th, 2014 Riccardo Fucile
PER LA FLESSIBILITA’ C’E’ TEMPO, TORNA DI MODA IL RIGORE
La flessibilità sui conti magari arriverà , ma per ora regna il rigore: mentre il premier Matteo Renzi celebrava il presunto successo italiano di aver ottenuto la promessa di qualche margine di manovra in cambio di riforme, il Consiglio europeo approvava le raccomandazioni della Commissione all’Italia rendendole ancora più dure.
“Nel 2015 il Consiglio raccomanda all’Italia di garantire le esigenze di riduzione del debito così da rispettare l’obiettivo di medio termine”, cioè il pareggio di bilancio strutturale (deficit a zero dopo aver tolto dal calcolo le componenti dovute all’effetto della recessione).
E l’Italia deve “assicurare il progresso” verso il pareggio già nel 2014. Queste le pesanti indicazioni del documento rivelato ieri da Federico Fubini su Repubblica.
Nelle sue raccomandazioni, a inizio giugno, la Commissione era stata chiara: il governo italiano non sta facendo la riduzione del debito da 4-5 miliardi nel 2014 promessa e ha deciso di rinviare il pareggio di bilancio dal 2015 al 2016.
Bruxelles non chiede nessuna manovra correttiva, per ora.
Se però in autunno non si dovessero materializzare i miracolosi impatti delle riforme sulla crescita, allora il governo dovrà intervenire già con la legge di Stabilità per ridurre debito e deficit
La situazione è questa: secondo Confindustria il Pil nel 2014 salirà dello 0,2 per cento invece che dello 0,8 indicato dal governo.
Stando così le cose bisognerebbe intervenire di sicuro, non si vede da dove possa arrivare questo impulso alla crescita nei prossimi due-tre mesi.
Si capisce a questo punto meglio l’esigenza di Renzi di ottenere qualche apertura dalla Commissione e da Berlino, il premier vuole dimostrare di essere sulla strada giusta delle riforme ed evitare che in autunno gli venga imposta la manovra per qualche zero virgola mancante: con i nuovi poteri dei regolamenti noti come two pack, la Commissione può anche bocciare la legge di Stabilità se non rispetta i numeri concordati.
C’è anche la possibilità che venga aperta una procedura di infrazione per debito eccessivo.
E tutto questo Renzi non può permetterselo perchè, in base a come andranno i negoziati col Parlamento sulle riforme, il premier potrebbe voler andare al voto nel 2015 ed è meglio non farlo mentre salgono le tasse o ci sono pesanti tagli di spesa (aggiuntivi a quelli sicuri per garantire gli 80 euro in busta paga anche l’anno prossimo e trovare i 32 miliardi di risparmi previsti dal commissario alla spending review Carlo Cotrarelli).
Stefano Feltri
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 29th, 2014 Riccardo Fucile
NONOSTANTE GLI ANNUNCI, DOMANI IN CONSIGLIO DEI MINISTRI SI DISCUTERANNO SOLO “LINEE GUIDA”… PER I PROVVEDIMENTI CI SI AFFIDERà€ A DISEGNI DI LEGGE NON ANCORA IN CALENDARIO
“Alla fine l’immunità resterà così come è prevista nel testo emendato dai relatori, Finocchiaro e Calderoli”, ragionava qualche giorno fa un senatore democratico che sta seguendo molto da vicino le riforme costituzionali.
Prevedendo che nessuna cancellazione dello “scudo” ci sarebbe stata.
Guardando ai fatti, sembra proprio che abbia ragione. Non solo il governo ha dato il suo assenso alla norma sull’immunità durante il vertice a Palazzo Chigi del 17 giugno, non solo il premier si è assunto in proprio la responsabilità di averla approvata.
Ma c’è un altro dato di fatto: venerdì è scaduto il termine in commissione Affari costituzionali per i sub emendamenti al testo consegnato da Finocchiaro & Calderoli.
E non ce n’è uno di iniziativa governativa e neanche degli stessi relatori che cancelli la norma in questione.
Domani inizia il voto in commissione Affari Costituzionali e i sub emendamenti che vogliono l’abrogazione dell’immunità sono firmati dai Cinque Stelle o dai “ribelli” Pd, in testa Vannino Chiti.
Anna Finocchiaro aveva annunciato che avrebbe presentato lei stessa una modifica per affidare alla Consulta la decisione (soluzione questa che ha fatto registrare perplessità sia dal Quirinale, che dalla stessa Consulta).
Ma, a conti fatti, ha preferito non fare niente e lasciare il cerino nelle mani del governo.
Che per ora ha lasciato tutto com’era. I renziani meglio informati sono certi che lo scudo non verrà tolto: potrebbe essere riformulato, prevedendo che valga per i membri della nuova Camera delle autonomie solo nell’esercizio delle loro funzioni da senatori e non da amministratori. Ma tutto sta a vedere come andrà il dibattito in Aula.
Perchè poi le riforme si accavallano, le esigenze si incrociano.
E quando si parla di giustizia il tema diventa incandescente. Domani in Consiglio dei ministri non ci sarà la riforma annunciata dal premier, già durante il discorso per la fiducia, per giugno, termine ribadito più volte nei mesi.
Alla fine dell’ultimo Cdm era stato il ministro Boschi ad annunciare che nel prossimo (quello di domani appunto) si sarebbe discussa la riforma.
Ma il dibattito si limiterà alle linee guida, che verranno illustrate ai ministri dal Guardasigilli, Andrea Orlando.
Da via Arenula la raccontano così: il ministro e il premier si sono sentiti giovedì mattina, prima della partenza di Renzi per il Consiglio Ue, e non avendo di fatto mai avuto il tempo di discutere a fondo hanno deciso che sarebbe stato necessario un ulteriore approfondimento, prima di entrare nel merito di provvedimenti molto delicati, magari rischiando dissensi dai titolari degli altri dicasteri.
Fino a quando? Non è chiaro. Ci sarà , di certo, un decreto che affronterà il sistema della giustizia civile per fare fronte all’arretrato pesantissimo rappresentato da milioni di cause.
I tecnici di Palazzo Chigi stanno decidendo quando vararlo: stanno valutando bene le questioni legate all’iter parlamentare. Tradotto: se si fa a inizio luglio si rischia di non riuscire a convertirlo entro i tempi a disposizione, ovvero fineagosto.
Quindi si potrebbe spostare in là , magari alla fine del mese.
E il resto? Sarà tutto affidato a disegni di legge, che saranno presentati in momenti successivi, anche qui difficilmente prevedibili.
Se si prende il caso Pa, il Cdm con “le linee guida” si è fatto il 30 aprile, quello con i provvedimenti (in bozza) il 13 giugno, e i decreti effettivi sono stati scritti solo dopo e firmati dal Quirinale martedì 24.
Se è per la riforma del Senato, il ddl costituzionale è stato approvato il 31 marzo, il voto in Commissione inizia domani, con un testo che è stato quasi riscritto.
A proposito di ddl, a Palazzo Chigi ne esiste già uno sull’autoriclaggio, predisposto dal ministero della Giustizia, e consegnato oltre un mese fa, al quale lo stesso dicastero ha ipotizzato di aggiungere alcune norme sul falso in bilancio.
Ma, a meno di sorprese dell’ultimo secondo, domani non verrà tirato fuori.
I tempi si dilatano. E a occhio e croce l’iter parlamentare dei provvedimenti in questione non comincerà che dopo l’estate.
Il metodo Renzi — ormai s’è capito — è quello di spingere l’annuncio oltre l’ostacolo. Però trattandosi di materia incandescente come la giustizia ogni sospetto è lecito. Anche perchè il governo ha chiesto in Senato un rinvio della legge sull’anticorruzione proprio in attesa dei provvedimenti di fine giugno. Che non ci saranno.
Tra le voci che si rincorrono a Palazzo Madama ce n’è una insistente secondo la quale Forza Italia starebbe facendo pressione perchè l’accertamento del falso in bilancio abbia il via solo su querela di parte (come adesso), e non diventi automatico.
Renzi ha bisogno dei voti di Forza Italia per portare a casa le riforme costituzionali, tanto più la fronda di Palazzo Madama si allarga. E l’“ombra” dello scambio si allunga soprattutto quando trattativa su alcuni temi e temporeggiamento su altri vanno di pari passo.
Ieri il presidente del Consiglio ha annunciato che questa settimana è “decisiva” e quindi vedrà tutti: Pd, Forza Italia e Cinque Stelle.
“Le polemiche non devono frenarci, neanche quelle interne”, ha detto ai fedelissimi.
I suoi lavorano ad allargare la maggioranza, ma le falle restano.
Wanda Marra
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 29th, 2014 Riccardo Fucile
MA NON ERA STATO RENZI A PROMETTERE MENO TASSE?
La reggia di Arcore, residenza del Cavaliere, paga: per le ville, categoria catastale A8, il Comune ha stabilito che, oltre all’Imu (4 per mille, con una detrazione di 200 euro), c’è da versare anche la Tasi del 2,8, per un totale del 6,8 per mille.
A Capalbio, il buen retiro di tanta gauche, zero Tasi sia per le prime che per le seconde case, le quali però sono colpite da un’Imu ben più salata del 10 per mille.
In due topos dei ricchi e famosi come la Costa Smeralda (Comune di Arzachena) e Capri, pericolo scampato: nella località sarda niente Tasi, e Imu ferma; in quella campana non si è deciso, mentre ad Anacapri sì alla Tasi, pagata non sulle prime case dei residenti, bensì solo su quelle di villeggiatura.
E che sarà successo alla tenuta di Massimo D’Alema nelle campagne di Terni? Anche lì, niente Tasi, e solo l’Imu, che è al 9 per mille se “La Madeleine” (che formalmente appartiene ai figli) viene intesa come seconda casa, ma scende a zero se intesa come attività agricola.
Stranezze della nuova tassa sui servizi “indivisibili” dei Comuni, che al suo primo anno di applicazione sta già dipingendo il territorio nazionale con i mille colori del vestito di Arlecchino e scivolando nella commedia dell’arte.
Perchè le differenze non sono soltanto tra chi l’ha deliberata (circa un quarto dei Comuni) e chi no in tempo per il primo appuntamento di giugno, ma anche tra i sindaci che la applicano e quelli che vi hanno rinunciato, tra chi la mette solo sulla prima casa (la Tasi è nata per rimpiazzare l’Imu cancellata) e chi la spalma sulla prima ma anche sulla seconda casa, oppure la carica tutta sui non residenti.
C’è poi chi ha deciso di farne uno strumento di welfare, a volte con l’effetto di accentuare enormi disparità di trattamento tra famiglie a pochi metri di distanza l’una dall’altra, divise dal confine esile del territorio comunale.
Qualche esempio? Sesto San Giovanni mette l’aliquota Tasi al 3,3, ma per i suoi disoccupati la sconta del 70 per cento. San Canzian d’Isonzo promette la riduzione del 98 per cento a chi ha meno di 8.931 euro di reddito. Sasso Marconi concede le detrazioni solo ai cittadini in grado di risolvere il seguente rompicapo: «Sconto di 20 euro per ogni figlio minorenne dopo il primo inserito in nuclei famigliari formati da minimo tre persone con almeno due figli minori».
A Isili, in Sardegna, è prevista una tabella con 70 detrazioni diverse a seconda del reddito. Livorno decide per una Tasi secca al 2,5 per mille per tutti, con il risultato che pagherà anche chi l’anno scorso non pagava l’Imu.
A Firenze nessun versamento per la seconda casa fino a ottobre, e per la prima rinvio a fine anno.
A Venezia, con un bel 3,3 per mille di Tasi, si paga a luglio, come a Roma (al 2,5 per mille). Milano (2,5 per mille sulla prima casa e lo 0,8 sulla seconda) ha scelto di venire incontro a chi dà in affitto: abbuona la quota Tasi dell’inquilino se è inferiore ai 12 euro e di fatto riduce del 10 per cento la Tasi ai proprietari nel 60 per cento dei casi.
Insomma, una babele. Che ha messo a dura prova i cittadini, costretti a chiedere soccorso a Caf e commercialisti per dipanare istruzioni complicate come mai, storditi da detrazioni variabili in base a rendita catastale, reddito, numero dei figli in un mix da settimana enigmistica.
«Semplificate, standardizzate, evitate delibere chilometriche piene di “visto che…”», implora Franco Galvanini della Consulta dei Caf, in preallarme per la mole di delibere pazze che deve ancora arrivare.
La rabbia potrebbe deflagrare a ottobre, quando scadrà il turno per le amministrazioni ritardatarie, cioè per la maggioranza dei cittadini, e sarà la prima stazione di una dolorosa via crucis tributaria: Tasi (prima rata per seimila Comuni) appunto a ottobre, poi tassa sui rifiuti a novembre (secondo acconto per tutti), infine a dicembre ancora Tasi (seconda rata per tutti), più Imu (seconda rata).
Un filotto che renderà nero l’autunno delle famiglie, ma che potrebbe guastarlo anche al governo.
Per Matteo Renzi sarà il primo esame sul terreno minato delle tasse sulla casa.
Certo, ha dalla sua l’Europa, che benedice la stretta del fisco sul mattone, ma deve guardarsi da un potenziale effetto boomerang: il bonus degli 80 euro, che politicamente gli è valso l’ondata montante di consenso, potrebbe essere divorato dagli appuntamenti con l’erario, e rovesciare l’umore del Paese, così come degli alleati.
«Un pasticcio, un errore, un favore fatto a Forza Italia», all’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco ancora non va giù la decisione di cancellare l’Imu sulla prima casa, presa dal governo Letta.
Un pedaggio reso al centro-destra, con l’obiettivo politico di rendere più agevole la gestazione dell’Ncd di Angelino Alfano.
«La Tasi è stata presentata come una service tax per finanziare i servizi indivisibili forniti dai comuni», dice l’economista Alberto Zanardi, «ma di fatto è proprio una patrimoniale». In effetti l’illusione ha giocato in pieno: esentati dall’Imu, ritassati con la Tasi, che ha la stessa base imponibile, cioè il valore della casa. Ma sull’effetto finale della nuova tassa le sorprese non sono poche.
Secondo la fotografia d’insieme scattata dal Tesoro, i proprietari di prima casa che — al netto della quota trasferita allo Stato centrale — finanziavano la propria amministrazione con un’Imu di 3,8 miliardi, pagheranno ora ai Comuni una Tasi di 1,7 miliardi; i proprietari di seconde case su cui gravavano 12 miliardi di Imu, ora ne pagheranno più o meno lo stesso, 11,9, a cui si aggiunge però un assegno di 2 miliardi di nuova Tasi.
Se quest’ultima categoria di proprietari immobiliari viene dunque penalizzata, non è detto che tutti i proprietari della sola casa di abitazione pagheranno di meno. Anzi.
Perchè la previsione del Tesoro si basa sull’assunto che tutti utilizzeranno l’aliquota standard dell’1 per mille, mentre nella realtà questo non sta accadendo.
Nei duemila Comuni che hanno già deliberato, le aliquote si assestano piuttosto sui valori massimi del 2,5 per mille o addirittura del 3,3, consentito per quest’anno grazie all’addizionale dello 0,8 aggiunta in corsa dal governo (sempre Letta) dopo essersi accorto che i conti non tornavano.
L’Anci, che associa i Comuni, fa infatti tutt’altro calcolo: la prima casa produrrà una Tasi di 4, 2 miliardi, altro che gli 1,7 stimati dal Tesoro, e addirittura più dell’Imu orginale.
Come è possibile questo risultato?
Intanto non ci sono più isole felici: la no tax area, che prima riguardava le rendite catastali sotto i 370 euro e le famiglie con un figlio (grazie alla detrazione fissa di 200 euro e 50 per figlio), e salvava dall’Imu il 30 percento delle prime case, ora non esiste più.
Le detrazioni c’è chi le accorda — e con criteri assai diversi — e chi no. Il fatto è che oggi i Comuni si trovano di fronte a una doppia tagliola: primo, la Tasi ha aliquote inferiori a quelle per l’Imu prima casa, e quindi se si vuole incassare lo stesso bisogna andarci piano con gli sconti; secondo, scaricare tutto il gettito sulle seconde case spesso non è possibile, perchè il livello di tassazione esistente è già quasi al massimo.
Stando ai dati dell’Anci, per circa 6.200 comuni (dove vive la metà della popolazione) non sarà necessario spremere i propri cittadini: con un’aggiunta dell’un per mille sia sulle prime case che sulle seconde, sarà possibile recuperare l’introito dell’Imu cancellata.
Ma è tutt’altra musica per un’altra fetta consistente di comuni, tra i quali ci sono tutte le grandi città .
Per circa 1.600 municipi, stima l’Anci, impresa sarà più complicata perchè hanno già spinto al massimo l’aliquota Imu sulle seconde case, e per questo non possono caricarle più di tanto, ma devono invece utilizzare la Tasi massima sulla prima casa, evitando di largheggiare con le detrazioni.
E in questo gruppo c’è un sottogruppo di circa 300 comuni davvero nei guai. Il motivo è semplice: con l’Imu ci sono andati giù pesanti, applicando le aliquote top (oltre il 5 e oltre il 10 per mille per prima e seconda casa) e ora non riusciranno a replicare lo stesso gettito.
Chi sono? Tutte le città capoluogo oltre i 250 mila abitanti: Roma e Milano, ma anche Torino, Genova, Catania, Napoli, Torino, Bologna, Verona, Brescia, Parma, Perugia, Ravenna, Reggio Emilia.
Infine c’è un gruppo di circa 300 comuni (sotto i 156 mila abitanti), che si erano abituati ad un gettito elevato dell’Imu prima casa (oltre il 5 per mille), e che avrebbero la possibilità di torchiare le seconde case (perchè sono sotto il 9,6 per mille), ma non hanno abbastanza seconde residenze nel proprio territorio per rifarsi. Tra loro ci sono Andria, Avellino, Caltanissetta, Livorno, Terni, Vigevano, Gallarate.
Per chi non riesce a incassare quanto prendeva con l’Imu, quest’anno c’è il salvagente del Fondo da 625 milioni messo a disposizione dal Tesoro per tappare i buchi.
Ma nel 2015? «Abbiamo ridotto la pressione fiscale sulla casa riportandola al livello del 2012», spiega l’assessore al Bilancio di Milano, Francesca Balzani, «e ciò ha prodotto una perdita di gettito di 100 milioni. Quest’anno attingeremo al Fondo, ma in futuro porremo il tema di trattenere anche la quota Imu che trasferiamo allo Stato: è una questione di trasparenza con i cittadini».
Si profila dunque una nuova partita, nell’eterno cantiere delle tasse sulla casa. In cui non mancano i costruttori: per le case invendute erano riusciti a farsi cancellare l’Imu, ma ora vengono colpiti dalla Tasi.
E non ci vogliono stare.
Paola Pilati
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Giugno 29th, 2014 Riccardo Fucile
HA GUADAGNATO CENTO MILIONI, LAVORA ANCHE PER I DITTATORI
Un vecchio amico come Robert Harris lo ha ripudiato. «Non lo riconosco più».
Il giornalista che scrisse «The Ghost», il libro fra realtà e finzione che narra la storia di un premier britannico chiamato a rispondere di crimini di guerra (poi divenuto film di Roman Polanski, «L’uomo nell’ombra»), era un fedele «partigiano» di Tony Blair. Il sodalizio si è rotto da tempo
Qualche giorno fa, sul Guardian , Robert Harris ha scaricato addosso all’ex leader britannico nuovo veleno: «È un narcisista con il complesso del Messia e ha commesso un peccato mortale voltando le spalle alla politica per cui si è battuto per abbracciare la causa dei ricchi».
Può essere che fra i due vi sia qualche questione personale rimasta in sospeso ma le parole di Robert Harris riassumono il pensiero di molti laburisti
Il problema non è soltanto che Tony Blair appoggiò Bush nella guerra in Iraq, passando sopra la maggioranza pacifista del partito: un capo di partito e di governo ha il diritto, assumendosene poi la responsabilità , di decidere per propria intima convinzione che i despoti vadano eliminati con la forza, congelando le diplomazie.
Il problema è anche che Tony Blair ha costruito un piccolo impero economico che si alimenta di ricche consulenze a governi che democratici non sono, a banche d’investimento, a fondi sovrani.
Dov’è finito il Blair di una volta?
È destino che i grandi leader spacchino le platee. Il coraggio di prendere posizione, che piaccia o non piaccia, si paga a caro prezzo.
A Tony Blair questa virtù non è mai mancata. Anzi. Ma oggi le critiche più pesanti che gli arrivano sono di altra natura e riguardano quei milioni di sterline che entrano nella fondazione, la «Tony Blair Associates», e nelle società a essa collegate.
Tutto alla luce del sole. Fin troppo.
Perchè con sicura baldanza (e se la può permettere) Tony Blair gira il mondo dando consulenze agli arabi, ai palestinesi, alle potenze asiatiche, alle capitali europee.
Gli affari vanno a gonfie vele, a tal punto che ha deciso di aprire un ufficio ad Abu Dhabi per rafforzare il suo ruolo nel Medio Oriente.
«C’è una chimica speciale e particolare fra Tony e lo sceicco Mohammed bin Zayed», ha spiegato un collaboratore di Blair. I due condividono una forte opposizione all’islamismo integralista. Ma condividono pure le poltrone in uno degli scrigni del piccolo Stato, il Mubadala, ovvero uno dei fondi d’investimento controllati dall’emirato.
Abu Dhabi è l’ultimo capitolo della saga. A cavallo fra politica e affari, Tony Blair si destreggia con indiscutibile cinismo.
La lista ufficiale dei contratti è di tutto rispetto. Il Financial Times ha scoperchiato l’altarino dei due milioni e mezzo di sterline annui versati dalla banca d’affari JP Morgan.
Poi ci sono le collaborazioni con il governo brasiliano, con i governi africani (Ruanda, Liberia, Sierra Leone), con gli esecutivi di Albania e Romania, con il dittatore kazako Nazarbaev, con la Mongolia, con il Kuwait, con gli Emirati Arabi Uniti.
L’uomo che fu l’architetto del nuovo laburismo è un consigliere fidato per le riforme politiche ed economiche, per gli investimenti, per i megacontratti petroliferi.
Una rete capillare di lavori e commissioni.
L’esperienza, l’intelligenza, l’abilità dell’ex premier laburista si acquistano a peso d’oro. Chi ha provato a fare i conti in casa Blair sostiene che le entrate sfiorino i 100 milioni di sterline.
Sparare a zero contro Tony Blair è diventato uno sport nazionale nel Regno Unito. Non c’è riconoscenza. È però sicuro che dal 2007 (l’addio a Downing Street) a oggi le sue finanze si siano gonfiate. Non è una colpa.
Quanti prima lo vedevano come un condottiero invincibile, forse ne invidiano la scaltrezza e non tollerano il «tradimento».
Ma, al di là delle polemiche sul tesoro accumulato, il vero punto debole di Tony Blair è il conflitto d’interessi.
Lui ha ricevuto il mandato dal «Quartetto» (Unione Europea, Russia, Nazioni Unite, Stati Uniti) di mediatore in Medio Oriente.
Delicato incarico politico e diplomatico. La domanda è semplice: può il consulente di una delle parti in causa (i governi arabi) essere equidistante leader capace di comporre il conflitto più lungo della storia?
C’è chi spinge per il «licenziamento» di Tony Blair da quel ruolo affidatogli dal «Quartetto». Frettolose suggestioni. Ma Tony Blair dovrà scegliere.
O fa il lobbista-consulente privato. O resta una risorsa per la diplomazia e la politica internazionale.
L’ambiguità è il virus dell’ultimo Tony Blair.
Fabio Cavaler
(da “il Corriere della Sera”)
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