Giugno 22nd, 2014 Riccardo Fucile
A GENOVA IRREGOLARITA’ NEL 52% DEI BONUS PER GLI ASILI NIDO E NEL 20% DI QUELLI PER LE SCUOLE DELL’INFANZIA
Errori nelle dichiarazioni Isee (l’Indicatore della Situazione Economica Equivalente, ovvero lo strumento per misurare la condizione economica delle famiglie) per percepire bonus, pur non avendone diritto, anche per gli asili nido.
Ai “furbetti” maximulte da migliaia di euro.
Nel 2013 sono stati circa 10mila i contribuenti che hanno ottenuto prestazioni agevolate indebitamente secondo le verifiche della Guardia di Finanza.
In 3.435 casi sono state rilevate vere e proprie frodi ai danni delle casse dello Stato e dei Comuni.
Secondo una ricerca dell’Associazione per la legalità e l’equità fiscale (Lef), presentata dal Cnel, nelle tasche degli evasori vanno circa 2 miliardi di euro di benefici ogni anno: circa il 20 per cento dei 10 miliardi distribuiti.
Diverse amministrazioni comunali segnalano l’aumento di casi che riguardano i cosiddetti “furbetti dell’Isee”: genitori separati per finta, che presentano un solo reddito, anche se vivono sotto lo stesso tetto, per poter poi pagare il minimo sulla retta di asili nido e famiglie che dichiarano redditi palesemente inferiori a quelli reali. Secondo gli enti locali sentiti dall’Adnkronos, in media, un terzo dei contributi erogati sono frutto di dichiarazioni false o comunque scorrette.
Emblematico è il caso di Genova dove, lo scorso anno, le verifiche del nucleo di Equità fiscale del Comune hanno rilevato irregolarità nelle dichiarazioni nel 52 per cento dei casi analizzati negli asili nido e nel 20 per cento di quelli delle scuole dell’infanzia.
Molti contribuenti hanno denunciato però — fa sapere l’Adnkronos – la pesantezza di multe che ritengono sproporzionate a fronte della loro sostanziale buona fede.
“Devo pagare 7mila euro per un errore del Caf, che non ha conteggiato tutte le voci di reddito che dovevano essere conteggiate. Io ho prodotto tutti i documenti che mi hanno chiesto e ora non non so come fare”, scrive un contribuente allegando il suo verbale da 6.978 euro.
Le Fiamme gialle agiscono in base a protocolli d’intesa stipulati con i singoli comuni ed effettua il monitoraggio dei beneficiari delle prestazioni, a carico del bilancio pubblico, erogate per gli asili nido.
E, in caso di violazione accertata, scatta la convocazione del contribuente e la conseguente multa.
Se le somme indebitamente percepite sono inferiori a 3.999,96 euro, si applica la sanzione amministrativa e non quella penale, che va da un minimo di 5.164 euro a un massimo di 25.822 euro.
In sostanza, si fa la differenza tra l’importo da versare e quello effettivamente versato e si moltiplica per tre. Quindi se si sono pagati mille euro in meno rispetto a quanto dovuto, la sanzione ammonta a tremila euro.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 22nd, 2014 Riccardo Fucile
L’AGENZIA PERDE LA CAUSA CON UN DIPENDENTE, MA INSISTE E RICORRE IN APPELLO
Pur di comminare una dubbia multa di 39 euro a un proprio dipendente l’Agenzia delle Entrate è disposta a spendere migliaia di euro di denaro pubblico.
Succede a Ferrara, dove un lavoratore si trova da anni a entrare e uscire dagli uffici giudiziari per la pervicacia della pubblica amministrazione cui appartiene.
Il suo ormai è diventato un caso nazionale, tanto da convincere i sindacati di riferimento a indire uno sciopero e a spingere i colleghi di mezza Italia a contribuire alle spese legali.
Tutto risale al 2009.
Il dipendente dell’ufficio territoriale di Ferrara, addetto alla tassazione degli atti pubblici, utilizza due procedure “semplificate”, “una prassi consolidata e autorizzata, non solo a lui e non solo a Ferrara, “con lo scopo di semplificare e far risparmiare tempo e denaro”, come spiega Maria Rosaria Di Ponte della Federazione lavoratori pubblici. Nulla di astruso.
Si tratta in sostanza dell’emissione di un avviso bonario, “un’assistenza all’utente al momento della liquidazione delle imposte. Uno strumento che, se usato con buon senso, è nell’ottica della digitalizzazione e della semplificazione amministrativa”. Accanto all’avviso bonario il dipendente, a fronte di un atto pubblico trasmesso in via telematica da un notaio, ha inviato via mail la liquidazione corretta, evitando così la notifica di un inutile e dispendioso avviso.
“Queste procedure — premettono i sindacati — sono adottate anche dagli altri colleghi che operano nello stesso settore e i superiori dell’Ufficio (capo team e direttore) le hanno da sempre autorizzate”.
Arriva un controllo dell’Audit, che ritiene improprio il comportamento del dipendente e fa una segnalazione all’ufficio disciplina.
Arriva la sanzione singola, nonostante la prassi sia seguita dall’intero ufficio: 39 euro. L’equivalente dello stipendio di due ore.
Pochi spiccioli, che però “gli precludono — aggiungono i sindacati — l’inserimento in graduatoria per il passaggio di fascia economica e l’impossibilità di partecipare a interpelli per ricoprire incarichi di responsabilità ”.
Il dipendente fa ricorso. Nel 2013 il tribunale del lavoro gli dà ragione e condanna l’Agenzia al pagamento di 5mila euro, una cifra che comprendeva il pagamento delle spese legali maggiorate del 50%, perchè secondo il giudice la causa era “immotivata e irragionevole”.
Ecco i primi cinquemila euro di soldi pubblici. Ma non bastano.
“Dopo una costosissima consultazione dell’Avvocatura dello Stato — si accalora Ilaria Menegatti della Funzione pubblica Cgil — l’Agenzia ha presentato ricorso in Appello: in ottobre si terrà la prima udienza”.
E questo nonostante un tentativo di conciliazione in prefettura. “Lo stesso direttore generale — prosegue la sindacalista —, che è cambiato dall’inizio di questa vicenda, ha riconosciuto che è una vicenda irrisoria. Eppure…”.
Eppure per quei 39 euro, comminati secondo un giudice in maniera immotivata e irragionevole, la macchina della burocrazia va avanti come uno schiacciasassi.
“Un caso emblematico — ammonisce Gallesini — del comportamento tenuto dai dirigenti nei confronti dei dipendenti pubblici, e in particolare di quelli dell’Agenzia”. “Che si impegnino così tante risorse pubbliche di fronte a un problema relativo è il contrario del buon senso, dell’efficacia, dell’efficienza e della proficuità con cui dovrebbe agire la pubblica amministrazione, come anche il dirigente ha riconosciuto — ha concluso Claudia Canella della Funzione pubblica Cisl —. Finora ci hanno lavorato su cinque dirigenti e tre avvocati, il tutto a spese dei contribuenti”.
Ce n’è abbastanza secondo i sindacati per proclamare uno sciopero a livello locale che si terrà lunedì 23.
Quel giorno si terranno assemblee dei lavoratori nelle altre Agenzie in Emilia-Romagna. Sempre a livello di solidarietà è stata lanciata una sottoscrizione in favore della ‘vittima del sistema’, per aiutarlo nelle spese legali.
La colletta è giunta a 1300 euro per il momento.
Ma sono già arrivate richieste di adesioni da ogni parte della Penisola.
Marco Zavagli
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Giugno 22nd, 2014 Riccardo Fucile
NESSUNO RECLAMA LA PATERNITA’ DELLA NORMA, FIGLIA DI MADRE IGNOTA
La norma che sembrava di tutti si scopre che è di nessuno.
L’immunità parlamentare per gli inquilini del nuovo Senato comincia a squagliarsi sotto il sole della prima domenica d’estate.
La proposta non ha più nè padri nè madri, a parte il caparbio Roberto Calderoli della Lega Nord.
Il tandem Finocchiaro-Calderoli non ha retto al fuoco delle polemiche provocate dal testo che ha infiammato il dibattito politico.
Il Pd si è spaccato e i 5 Stelle hanno assunto una posizione di netta chiusura indignata al grido: “È l’ennesimo favore alla casta”.
Ma non sono solo i grillini ad essere contrari.
I no alla Finocchiaro arrivano anche dal suo stesso partito. Da Sandra Zampa a Pippo Civati, passando da Massimo Mucchetti e da buona parte dei senatori.
Soprattutto da quelli contrari all’intero pacchetto Boschi e determinati a dare battaglia come già hanno fatto quando si sono autosospesi in polemica con la linea del governo e del Pd.
E si tratta di figure di spicco come Vannino Chiti e Felice Casson.
Il ministro Boschi, da una parte vuole gettare acqua in questo incendio, ma dall’altra, anche lei, prende le distanze: “Non è un’iniziativa del governo. È una proposta dei relatori. E comunque l’immunità non è un punto centrale”.
Ma allora chi sono i genitori di quella che è stata ribattezza la “norma scandalo” in virtù della quale i senatori del nuovo Senato non potranno essere ne’ intercettati ne’ arrestati senza il via libera di Palazzo Madama?
La relatrice Anna Finocchiaro non reputa se stessa, secondo quanto si apprende da ambienti dem, la promoter di questa iniziativa ad alta tensione.
E a chi parla di blitz della presidente della commissione Affari costituzionali, lei ricorda che la norma prima non c’era, poi con il lavoro della commissione è stato deciso di inserirla con l’accordo non solo nell’organo parlamentare ma anche dei partiti di riferimento.
Il testo originario non prevedeva l’immunità ma il ricorso a una sezione della Corte costituzionale nei casi di senatori indagati.
Dunque, la morale del discorso di Finocchiaro è: “Non ci stiamo al giochino dello scaricabarile”.
Roberto Calderoli, che a questo punto si sente lasciato solo, reagisce con una provocazione che a suo modo di vedere dovrebbe fare male al Pd e a tutti gli altri.
“Se suscita perplessità – dice l’esponente leghista – il fatto che deputati e senatori abbiano la medesima forma di immunità allora, come relatore, mi sento di fare una proposta e di verificare l’eventuale condivisione: togliamo l’immunità sia a deputati che a senatori. Tutti siano trattati come cittadini comuni”.
Allo scaricabarile partecipa anche Forza Italia, che frena sulla riforma del Senato, soprattutto se non avrà in cambio il tanto desiderato presidenzialismo.
Il capogruppo a Palazzo Madama, Paolo Romani, garantisce: “Noi non c’entriamo con la storia dell’immunità . Con Boschi non ne abbiamo parlato. E poi questa riforma del Senato a noi non sembra positiva e neppure l’immunità ” sulla quale comunque “bisogna chiedere a Finocchiaro e a Calderoli”.
A Finocchiaro stanno chiedendo spiegazioni dentro il suo partito. E non solo a lei ma anche al governo.
Tra i tanti, ad esempio Mucchetti va all’attacco così rivolgendosi alla Boschi: “Caro ministro, hai ricavato dal ddl Chiti il numero dei senatori, hai aumentato le competenze del nuovo Senato. Bene. Ma perchè poi ti perdi via e lasci ai relatori Finocchiaro e Calderoli la responsabilità dell’immunità per sindaci e consiglieri regionali che faranno anche i senatori?”
La bufera immunità viene ritenuta molto pericolosa sia dal governo sia dal Pd.
Il vicesegretario Lorenzo Guerini, cioè Renzi, cerca di spegnere le polemiche per paura che l’intero pacchetto della riforma salti.
L’immunità per i senatori “è la proposta dei relatori, la ratio credo sia quella di equiparare le guarentigie dei senatori a quelle dei deputati”, tuttavia nel dibattito parlamentare si approfondirà la questione.
“Non è comunque questo l’elemento su cui ruota la riforma e la sua tenuta”, sottolinea Guerini, per il quale: “Bisogna andare avanti, siamo all’ultimo miglio”. Che sembra però essere travagliato come i precedenti.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 22nd, 2014 Riccardo Fucile
IL SENATORE PD, FAVOREVOLE AL DDL CHITI, ATTACCA LA BOSCHI
“Cara Boschi, ma perchè fai così?”. Massimo Mucchetti, senatore Pd e presidente della commissione Industria del Senato, in un post sul suo blog si rivolge al ministro e critica la sua scelta di lasciare “ai relatori Finocchiaro e Calderoli la responsabilità dell’immunità per sindaci e consiglieri regionali che faranno anche i senatori”.
Una brillante idea, sottolinea Mucchetti, che “combinazione”, arriva “dopo l’ennesimo incontro con il senatore Verdini“, senatore di Forza Italia tra i principali interlocutori per le riforme costituzionali.
L’immunità per i senatori, abolita nel testo proposto dal governo, è stata riproposta tra i 20 emendamenti depositati venerdì e frutto dell’accordo tra Pd, Forza Italia e Lega Nord.
Emendamenti che hanno spaccato il Partito democratico e rispetto ai quali il ministro Boschi prende le distanze, lascia intendere un possibile cambiamento, ma senza condannare a priori il provvedimento.
“Potresti portare al premier la maggioranza dei due terzi abbondante del Senato accelerando il corso della riforma — prosegue nel blog Mucchetti -, e invece sguaini lo spadone e obblighi tutti alle quattro letture, e cioè a tirare in lungo fino alla primavera del 2015. Non ti capisco”.
Il senatore, insieme ad altri 20 colleghi del Pd, si era unito a Vannino Chiti, che aveva presentato un ddl alternativo rispetto a quello approvato dal governo per la riforma del Senato, proponendo anche il dialogo con il Movimento 5 Stelle.
Un testo che prevedeva, fra l’altro, l’elezione diretta, su collegi regionali, dei futuri 106 senatori oltre che un taglio consistente ai seggi della Camera.
“Hai ricavato dal ddl Chiti il numero dei senatori, — scrive ancora Mucchetti online — hai aumentato le competenze del nuovo Senato. Bene”.
E a quel punto chiede perchè Boschi lasci aperta la strada (“perchè poi ti perdi via?”) all’idea” dell’immunità proposta da Calderoli e Finocchiaro.
“Se ci credi come ci crede Panebianco, difendila; sennò — osserva- hai un problema con la relatrice Pd, Anna Finocchiaro, visto che il relatore leghista Roberto Calderoli è pronto ad abolirla anche per i deputati. E poi — aggiunge — perchè non entri nel merito della questione della elettività del Senato e ti limiti a ricordare le riunioni (ne rammento di assai superficiali) e i costituzionalisti (questi mai indicati con nome e cognome…) per chiudere la bocca a chi non la pensa come te? ”.
Mucchetti contesta duramente la possibilità dell’immunità nella riforma di Palazzo Madama.
“Mi sbaglierò — continua — ma se aumenti le competenze del Senato, avrai bisogno di senatori autorevoli. Credi davvero che il migliaio di consiglieri regionali, per la metà eletti nelle liste Pd e in quelle fiancheggiatrici, costituisca una platea di eleggibili e, al tempo stesso, una fonte di legittimità sufficienti? Non sarebbe meglio lasciar scegliere i senatori ai cittadini tra tutti i cittadini senza intermediari che oggi sono in larga parte indagati dalla magistratura? E poi — insiste — mi spieghi perchè il numero dei deputati non possa essere tagliato come si deve? E infine credi sia equilibrato un sistema democratico dove le istituzioni di garanzia, dalla presidenza della Repubblica in giù, siano in mano al partito che prende il 41% e al suo leader, che tale diventa con meno di 3 milioni di voti alle primarie? Che piramide del potere stiamo costruendo? ”.
Il senatore democratico, inoltre, specifica che “nessuno vuole fermare le riforme”, ma insiste sull’opportunità di un Senato elettivo. “Se ti convincessi che un Senato eletto dal popolo (come quello americano) è meglio di un’imitazione del Bundesrat (fatalmente distorta non essendo l’Italia una repubblica federale) avresti l’unanimità o quasi del Senato. Alla Camera l’iter diventerebbe una passeggiata e, prima della fine del semestre italiano alla Ue, avresti la riforma costituzionale approvata. E dopo potresti sottoporre a referendum confermativo quella che comunque sarebbe una riforma costituzionale approvata dal Parlamento del Porcellum“.
E conclude invitando Boschi al dialogo e con un affondo nei confronti di Denis Verdini.
“So bene di non contare nulla — dice — Non ho milioni di voti alle spalle, e nemmeno crac di banche di credito cooperativo come un certo tuo conterraneo — puntualizza riferendosi al rinvio a giudizio del senatore di Forza Italia chiesto dai pm di Firenze -. Eppure, due chiacchiere, finito il lavoro, farebbero bene. Sarebbero le prime… Il galateo impone a chi scrive di invitarti a prendere un caffè. Ma la persona potente sei tu e dunque lascio a te l’iniziativa. Del resto — conclude Mucchetti — secondo il Vangelo, è il buon pastore ad andare in cerca della pecorella smarrita… ”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 22nd, 2014 Riccardo Fucile
JAGGER: “CHE POSTO MERAVIGLIOSO IL CIRCO MASSIMO”
“Ladies and gentlemen, the Rolling Stones!”.
L’oscurità avvolge ormai il Circo Massimo quando l’enorme palco si illumina e Keith Richards irrompe in scena con un ruggito della sua Fender, il riff di Jumpin’ Jack Flash, seguito da Mick Jagger, Ron Wood, Charlie Watts e tutti gli altri musicisti della tour band.
L’urlo liberatorio dei 70mila è il segnale: l’attesa è finita, la celebrazione del mito ha inizio.
Il mito delle pietre rotolanti del rock’n’roll, il mito di una città , Roma, che quando non fa la stupida sa rendere ogni istante unico ammantandolo col profumo della sua storia millenaria.
Ne sono consci anche gli Stones, che marchiano questo appuntamento del 14 On Fire Tour con una locandina apposita, la loro linguaccia sulla riproduzione dell’antico Circo Massimo.
Dove correvano le bighe e stasera scorre solo rock’n’roll. E’ il Rock’n’Roll Circus. L’atmosfera è magnifica, come il colpo d’occhio di quel tappeto umano disteso davanti ai Rolling Stones.
“Ciao Roma, ciao Italia!” urla Mick Jagger. E la band cavalca l’entusiasmo tenendo alto il ritmo con Let’s Spend The Night Togetheter.
Ancora Mick: “Che bello stare a Roma di nuovo! Che posto meraviglioso il Circo Massimo!”.
E via con It’s Only Rock And Roll (But I Like It).
Jagger getta via la giacca dorata e resta in maglia e pantale nero. Tumbling Dice apre un languido dialogo tra le chitarre di Richards e Wood.
A seguire gli Stones danno dignità a un brano magnifico, tratto da quello che resta il loro ultimo album in studio, A Bigger Bang: la romanticissima Streets Of Love.
Poi Doom & Gloom, l’inedito che impreziosiva l’ultima raccolta GRRRR.
E, a richiesta del pubblico dei social network, solo per Roma, Respectable.
“Che pubblico fantastico”. Mick Jagger continua a incitare i 70 mila del Circo Massimo parlando in italiano. “L’Italia vincerà la Coppa del Mondo, eh? In bocca al lupo per martedì. Penso che la partita finirà 2-1 per Italia”, dice ancora il cantante sul palco.
La Bocca della Verità con la linguaccia-simbolo della loro band. Questa la foto pubblicata qualche ora fa dai Rolling Stones sul loro profilo ufficiale Facebook, poco prima di salire sul palco del Circo Massimo
Inoltre sulla pagina Twitter la band ha pubblicato alcune delle richieste di brani arrivate sempre tramite social network.
Si tratta di “Sweet Virginia”, “If you can’t rock me”, “Respectable”, “Ain’t too proud to beg”, “Loving cup”, “When the whip comes down”.
Tra questi sei canzoni i fan hanno votato sui social network della band e ha vinto “Respectable”, suonata solo per il pubblico romano
Quando Mick Jagger percorre saltellando la lunga passerella che si incunea in profondità tra il pubblico, la folla è come percorsa da un brivido animale che viaggia sottopelle.
Il soffio vitale di chi per mesi, dal giorno in cui è scattata la prevendita del concerto, è stato solo un numero, un conto corrente bancario, un codice, una ricevuta, un pagante. Che pur di esserci, qui, stasera, per un concerto probabilmente irripetibile, si è piegato anche al bagarinaggio online versando cifre di molte volte superiori agli 80 euro fissati in origine come prezzo base del biglietto.
Il suo elisir sono sere così, quando Roma torna a esibirle come gioielli, lasciandosi scorrere addosso anche le polemiche (70mila paganti per gli Stones, quando vere e proprie maree umane sommersero il Circo Massimo per eventi gratuiti come il Live8, i Genesis e persino i festeggiamenti per l’Italia mondiale del 2006).
Ora quei numeri sono un puzzle pulsante di teste, braccia, corpi sudati e impolverati dal calpestio, punteggiato da t-shirt e bandane marchiate da quella linguaccia, sfumata l’originaria irriverenza, oggi simbolo di una passione.
Ci sono i reduci dei ’60 e i duri e puri dei ’70, con le loro memorie di concerti degli Stones vissuti nella guerriglia dei palasport.
C’è chi aveva vent’anni quando Jagger cantava avvolto nel tricolore nell’estate mundial del 1982.
Sono diventati padri, madri, nonni, stasera sono fianco a fianco con figli e nipoti, giovani e meno giovani di ogni età , in una ideale catena umana che attraversa gli oltre 50 anni di storia dei Rolling Stones fino a giungere a questo momento.
Time is on my side cantava una volta l’imberbe Mick.
Nessun patto col diavolo, il tempo è trascorso anche per gli Stones e i megaschermi danno ancor più risalto alle mille pieghe che segnano i loro volti.
Ma gli Stones hanno nella musica il loro ritratto di Dorian Gray. E decine di migliaia di persone sono qui stasera a dimostrarlo, a condividere quella musica non con nostalgia ma con gioia.
Anche Roma ha le sue rughe, quelle rovine immanenti e silenziose, schegge di una gioventù splendida e orgogliosa, semisepolte dal quotidiano assedio della modernità .
Ed è bello credere che alla fine tanta gioia, incorniciata in tanta bellezza, si sia insinuata anche sotto la scorza dura di Mick Jagger, Keith Richards, Ron Wood e Charlie Watts, fino a scalfire le loro maschere di rocker vissuti pericolosamente.
Per riesumare quel briciolo di candore capace di rendere diversa e speciale, anche per gli Stones, questa tappa del 14 On Fire tour.
Paolo Gallori
(da “La Repubblica”)
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Giugno 22nd, 2014 Riccardo Fucile
ROMANI: “NOI CONTRARI, CON LA BOSCHI NON NE ABBIAMO PARLATO, CHOEDETE A FINOCCHIARO E CALDEROLI”
Forza Italia cade dalle nuvole. Tutti la accusano, soprattutto da sinistra, di essere l’autrice della norma che prevede l’immunità per gli inquilini del nuovo Senato ma il partito di Berlusconi garantisce di non avere la maternità di questa iniziativa che sta spaccando il Pd e contro la quale da più parti si insorge gridando “volete come al solito difendere la casta”.
Il capogruppo dei senatori azzurri, Paolo Romani, annuncia invece, parlando con l’Huffington post: “Noi non c’entriamo. E io non ne ho mai parlato”.
Forza Italia dunque si sfila. “È una norma messa dai due relatori Roberto Calderoli (Lega Nord) e da Anna Finocchiaro (Pd) senza dire niente a nessuno”, dice lapidario. Dunque nel recente incontro con il ministro Boschi non ne avete parlato? “Assolutamente, no. Mai fatto cenno all’immunità dei senatori”.
Anzi, “è un discorso che non ci appassiona. Noi abbiamo un’idea non positiva di questo Senato formato dai sindaci e dai rappresentanti regionali, se in più diamo loro l’immunità parlamentare, proprio non ci siamo”, attacca il rappresentante di Forza Italia che con Boschi ha in mano il dossier riforme.
“La responsabilità andatela a cercare altrove. Chiedete a Finocchiaro e Calderoli, sono loro ad aver deciso”.
“Abbiamo detto che potremmo accettare una mediazione sul Senato, ma ribadisco che non siamo d’accordo sul fatto che dei sindaci, che sono stati eletti per fare i sindaci e dunque hanno un potere amministrativo, abbiano anche l’immunità parlamentare. Dunque – conclude Romani – se devono avere le stesse guarentigie dei deputati e degli attuali senatori, diciamo no”.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 22nd, 2014 Riccardo Fucile
DA SEMPRE I MAFIOSI HANNO CERCATO DI APPARIRE DEVOTI CATTOLICI
“Gli uomini della ‘ndrangheta non sono in comunione con Dio, sono scomunicati”. Le parole di papa Francesco fanno entrare la Chiesa in una nuova era.
Le ha pronunciato in Calabria non a Roma.
Le ha pronunciate sapendo che sarebbero arrivate forti e chiare.
È andato a confortare i parenti di Cocò il bambino di tre anni ucciso con un colpo in testa e bruciato a Cassano allo Ionio. Un bambino ucciso è la prova oggettiva e definitiva della menzogna “d’onore” dei mafiosi.
Bergoglio, ricordando questo bambino massacrato, non ha avuto bisogno di dimostrare con altre parole la barbarie del potere criminale.
Ha annullato con un gesto la menzogna con cui la ‘ndrangheta si autocelebra come società d’onore e di difesa di deboli, poveri, e come distributrice di giustizia, lavoro e pace sociale.
Qualcuno potrebbe credere che sia naturale e scontato per la Chiesa ricordare un bambino ammazzato e bruciato, e denunciare i colpevoli. Ma purtroppo non è così.
Ecco cosa disse il parroco di Cassano, don Silvio Renne, qualche tempo fa in un’intervista a Niccolò Zancan: «Ancora Cocò? È una storia chiusa. Abbiamo fatto il funerale. Io non sono un investigatore. Non spetta a me dire chi è stato. E poi è ancora tutto da dimostrare se c’entra la droga o la ‘ndrangheta…».
Per Papa Francesco non è storia chiusa e non teme di dire che i colpevoli sono i mafiosi.
Tenere fuori dalla cristianità gli affiliati, dichiararlo in Calabria è atto di coraggio, non è scelta retorica, non è disquisizione teologica.
La scomunica è parola smarrita nel tempo, pena del diritto canonico che ha perduto il senso drammatico e spesso persecutorio che ha avuto dal IV secolo sino alla fine dello Stato della Chiesa.
Ma oggi diventa invece il gesto più fortemente simbolico possibile per estromettere dalla cristianità le organizzazioni mafiose, per tagliare i legami che tante volte hanno stretto con le parrocchie locali.
Le parole del Papa tuonano come dichiarazione finale, e denunciano senza scampo la menzogna dei mafiosi che si autoproclamano cattolici e fedelissimi alla Chiesa di Roma.
Anche Giovanni Paolo II aveva pronunciato – il 9 maggio del 1993 ad Agrigento – un attacco durissimo alla mafia: «Convertitevi, verrà il giudizio di Dio».
Due mesi dopo i corleonesi misero una bomba a San Giovanni in Laterano.
Ma poi l’impegno antimafia dei vertici ecclesiastici sembrò affievolirsi delegando tutto ai preti definiti di “frontiera” o di “strada” a seconda della moda giornalistica.
Ora, invece, se la Chiesa vuole essere conseguente e non ripetere gli errori del passato, deve far seguire a questa scomunica una serie di comportamenti fondamentali, come il rifiuto delle donazioni dei mafiosi; l’allontanamento dopo accertamenti e condanne dei preti considerati conniventi; la creazione di una commissione antimafia in seno alla Chiesa che possa vagliare indipendentemente dalle autorità di polizia il rapporto, l’estensione della scomunica ai politici, imprenditori che si considerano cattolici e che hanno relazioni con le organizzazioni criminali.
La scomunica è un’arma potente perchè nella logica abnorme della narrazione mafiosa il legame con la religione è fondante: c’è tutta una ritualità distorta che regola la cultura delle cosche. L’affiliazione alla ‘ndrangheta avviene attraverso la «santina», l’effigie di un santo su carta, con una preghiera.
San Michele Arcangelo è il santo che protegge le ‘ndrine: sulla sua figura si fa colare il sangue dell’affiliato nel rito dell’iniziazione.
La dirigenza gerarchica massima della ndrangheta è definita “santa” al cui interno un grado superiore si chiama “vangelo”
Il potere è considerato un ordine provvidenziale: anche uccidere diventa un atto giusto e necessario, che Dio perdonerà , se la vittima mette a rischio la tranquillità , la pace, la sicurezza della “famiglia”.
La Madonna viene vista come la mediatrice tra l’uomo costretto al peccato e suo figlio Gesù che attraverso di lei comprende che quell’effrazione è stata fatta a fin di bene, in un mondo di peccati ed ingiustizie.
I sacramenti stessi sono usati per consolidare i legami mafiosi. In passato, quando nasceva un maschio, il giorno del battesimo gli veniva messo accanto un coltello e una chiave: se il bambino toccava il coltello era destinato all’“onore” se toccava la chiave a diventare sbirro.
Ovviamente la chiave veniva sempre messa distante.
Tra i motivi che portarono alla morte di don Peppino Diana ci fu la sua acerrima lotta ai clan che volevano sfruttare i sacramenti come viatici alla cultura camorrista.
La ‘ndrangheta è struttura completamente permeata dalla cultura cattolica.
A Polsi il 2 settembre al santuario della Madonna in Aspromonte i capi si riunivano mischiandosi ai fedeli per dare nuove investiture e costruire alleanze, siglare patti.
Non a caso l’”albero della scienza” metafora della struttura ndranghetista si trova proprio vicino al santuario.
Le storie di intreccio tra chiesa e ‘ndrangheta sono moltissime.
Le chiese sono state usate come territorio di negoziato fra i clan: durante una messa nel 1987 la vedova del capo assoluto degli “arcoti” Paolo De Stefano, ammazzato dal “nano feroce” Antonino Imerti, chiese la fine di una delle faide più cruenti della storia criminale internazionale. Ci sono stati sacerdoti accusati di complicità : come Don Nuccio Cannizzaro, parroco di Condera accusato dall’antimafia di falsa testimonianza a difesa del sistema ndranghetista dei Crucitti e Lo Giudice. O don Salvatore Santaguida prete di Vibo Valentina accusato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Nel 2009 la famiglia Condello è persino riuscita ad ottenere la lettura delle parole di felicitazione di Benedetto XVI trasmesse nella cattedrale di Reggio Calabria da don Roberto Lodetti, parroco di Archi, agli sposi Caterina Condello e Daniele Ionetti: la prima, figlia di Pasquale; il secondo, il figlio di Alfredo Ionetti, ritenuto il tesoriere della cosca.
La prassi vuole che quando gli sposi desiderano ricevere un telegramma o una pergamena del Papa, ne facciano richiesta al parroco o ad un prete di loro conoscenza, il quale trasmette la richiesta all’ufficio matrimoni della Curia.
Desta scandalo il via libera dato dalla Curia reggina per le nozze in cattedrale di due rampolli di una potentissima ‘ndrina calabrese. Difficile credere che non si sia prestata attenzione ai cognomi dei due sposi. Anche perchè Caterina Condello e Daniele Ionetti sono cugini di primo grado e il diritto canonico (art. 1091) consente un matrimonio tra consanguinei solo con motivata dispensa richiesta dal parroco e sottoscritta dal vescovo
La chiesa che ha portato il Papa a pronunciare queste parole non è solo la chiesa dei martiri, ma la chiesa di tutti quei preti che in territori difficilissimi e tormentati rappresentano l’unica via possibile al diritto, l’unica strada alla dignità laddove lo stato spesso è solo manette e sequestri di beni, dove non c’è alternativa tra emigrare o vivere nella totale disoccupazione.
In Calabria don Giovanni Ladiana e don Giacomo Panizza sono tra gli esempio di chiesa che si fa prassi di resistenza, non semplice simbolo antimafia, ma creazione di una via possibile al diritto al conforto, alla condivisione, al futuro.
Questa scomunica è solo l’inizio di un percorso che potrà risultare epocale.
Roberto Saviano
(da “La Repubblica”)
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Giugno 22nd, 2014 Riccardo Fucile
IL 69% DEGLI ITALIANI GIUDICA POSITIVAMENTE IL PREMIER: IN DETTAGLIO IL 90% DI CHI VOTA PD, L’80% DEI CENTRISTI, IL 72% DI CHI VOTA FORZA ITALIA, IL 59% DEI GRILLINI E IL 60% DEGLI ASTENSIONISTI
Dopo i fatidici cento giorni dall’insediamento di un nuovo governo solitamente viene misurato il giudizio dei cittadini sul suo operato.
L’opinione pubblica è molto divisa in proposito.
I giudizi positivi prevalgono su quelli negativi riguardo alla riduzione della burocrazia e della spesa pubblica (53% contro 45%), al contenimento dei costi della politica (51% contro 45%) nonchè alle riforme costituzionali e alla nuova legge elettorale, sia pure di poco (49% contro 45%).
Al contrario prevalgono i giudizi negativi relativamente al contrasto della disoccupazione (i critici sono il 55%, mentre il 42% apprezza quanto realizzato finora) e alla diminuzione della pressione fiscale (58% negativi contro 40% positivi).
Tra gli elettori del Pd, com’era lecito attendersi, le opinioni sono nettamente più favorevoli, con l’eccezione della riduzione delle tasse che vede una polarizzazione dei giudizi.
Prevale il segno negativo invece tra gli elettori di Forza Italia e, più marcatamente, del M5s.
Nel complesso il 37% degli italiani ritiene che il governo abbia mantenuto del tutto o in larga misura gli impegni assunti, il 45% pensa che abbia rispettato le promesse solo in minima parte e il 17% è del parere che non le abbia rispettate per nulla.
Eppure l’apprezzamento dell’operato di Matteo Renzi si mantiene su livelli molto elevati e trasversali: il 69% esprime un giudizio molto o abbastanza positivo.
Il premier è apprezzato da oltre il 90% degli elettori del Pd, da quattro quinti di quelli centristi (80%), da circa tre quarti di quelli di FI (72%) e perfino dalla maggioranza assoluta dei grillini (59%) e degli astensionisti (60%).
Come si spiega questa contraddizione tra l’elevato gradimento del premier e i giudizi non del tutto positivi, quando non esplicitamente critici, nei confronti dell’azione del governo?
Da tempo, infatti, i cittadini sono sempre più critici e disillusi, pragmatici, impazienti di verificare i fatti e severi nel giudicare i risultati dell’esecutivo.
Eppure non fanno venir meno il sostegno a Renzi.
Ricondurre tutto alla sua conclamata capacità di comunicare appare riduttivo, anche se il linguaggio spigliato e la battuta pronta lo aiutano molto e lo fanno apparire diverso dai politici più paludati e tradizionali, accentuando la distanza tra vecchio e nuovo.
Ma la comunicazione non è tutto e la sua efficacia non dipende solo da «come» comunicare, ma da «cosa» comunicare.
In tal senso Renzi appare dotato di una non comune capacità di sintonizzarsi con il Paese, «fiutando l’aria», cogliendo il comune sentire, individuando i temi e i toni a cui i cittadini sono più sensibili.
A ciò si aggiunge la grande determinazione e l’assunzione in prima persona della responsabilità del cambiamento.
Non a caso una delle sue espressioni più riuscite è «metterci la faccia».
Un ultimo aspetto, non meno importante, riguarda il tipo di relazione che Renzi ha instaurato con i cittadini: è una relazione immediata, cioè non mediata, diretta.
Abitualmente quando si utilizza il termine «disintermediazione» si fa riferimento agli atteggiamenti svalutativi espressi da molti cittadini nei confronti dei partiti, delle istituzioni di rappresentanza e di molti dei corpi intermedi della società che, pertanto, appaiono screditati e «delegittimati». Vengono messi in discussione «dal basso».
In realtà Renzi sembra adottare lo stesso atteggiamento ma calato «dall’alto».
Emblematico risulta in tal senso il discorso pronunciato al Senato nel giorno dell’insediamento del governo, quando si ha avuto la netta impressione che quanto stava dicendo fosse rivolto non tanto ai senatori in aula ma ai cittadini; e quando mette in soffitta la concertazione e risulta disinteressato al coinvolgimento dei sindacati o delle associazioni imprenditoriali nei processi decisionali mostra di privilegiare la relazione diretta con gli elettori ed è solito utilizzare un’altra espressione-simbolo a fronte del comprensibile risentimento degli esclusi: «se ne faranno una ragione».
La forte empatia con i cittadini sembra metterlo al riparo da possibili rischi di impopolarità .
Se le riforme procedono a rilento e il Paese fatica a cambiare, se il Pil stenta a crescere e la disoccupazione a calare, secondo i suoi sostenitori la responsabilità è della burocrazia, di chi si oppone per difendere i propri privilegi o della «palude» rappresentata dalla vecchia politica.Ed è largamente diffusa la convinzione apocalittica che Renzi rappresenti l’ultima spiaggia per l’Italia e un suo eventuale fallimento determinerebbe il fallimento del Paese.
Se il premier incarna l’idea di cambiamento è probabile che la luna di miele con i cittadini sia destinata a durare a lungo, anche in presenza di risultati più modesti di quelli auspicati.
Nando Pagnoncelli
(da “il Corriere della Sera“)
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Giugno 22nd, 2014 Riccardo Fucile
MALUMORI PER L’INTESA SULLA RIFORMA DEL SENATO
«Siamo come una squadra abituata a giocare per lo scudetto che ora si ritrova a lottare per la salvezza. Siamo disorientati, non sappiamo come comportarci, non riusciamo a organizzare un’opposizione seria». È lo sfogo amaro di un deputato di Forza Italia.
Non l’unico che, in questi giorni di travolgente epopea renziana, proprio non riesce a rassegnarsi a consegnare al presidente del Consiglio la significativa vittoria sulla riforma del Senato.
Per il partito di Berlusconi il momento è tra i più complicati.
C’è chi individua «l’inizio della fine» nell’uscita dal governo Letta e nello strappo con Alfano. «Ha fatto male a entrambi – attacca una parlamentare azzurra -. A noi perchè non abbiamo più avuto l’arma del ricatto nei confronti del governo. A loro perchè alle Europee sono praticamente morti».
Fatto sta che da quel momento l’unica arma che Forza Italia ha avuto per continuare a influire sul dibattito politico è stato l’accordo sulle riforme.
Accordo che, però, da tempo mostra le conseguenze negative. Se si molla tutto si rischia l’accusa di «sabotatori del cambiamento».
Se invece il patto tiene, si consegna a Renzi la patente del riformatore. Con il rischio concreto che per l’ex sindaco di Firenze si apra una lunga stagione di governo. Addirittura oltre la scandenza della legislatura nel 2018.
E così i mal di pancia si moltiplicano e filtrano all’esterno.
«L’annunciato accordo sulla riforma del Senato – afferma l’ex tesoriere del Pdl Maurizio Bianconi – riveste il peso di pietra miliare, sulla legittimazione all’esistenza di Forza Italia come partito di opposizione».
«Forza Italia – continua – purtroppo ha commesso l’errore più grande, autoevirandosi, regalando nei secoli ai nostri storici avversari uno strumento micidiale (il senato «rosso», ndr), passando per alleati di fatto di Renzi e dei suoi, regalandogli un successo politico che non merita». «Io non ci sto, e spero di essere in buona compagnia» conclude Bianconi.
Che siano in tanti quelli pronti a non votare la riforma è in realtà tutto da vedere.
L’impressione è che alla fine, pur turandosi il naso, il partito sosterrà compatto l’accordo tra Berlusconi e Renzi. «Al massimo con Bianconi ci sarà Minzolini» spiega un senatore azzurro. Eppure il malcontento è molto più esteso. E nessuno prova a nasconderlo.
Per il capogruppo al Senato Paolo Romani «non c’è ancora nessun accordo sulle riforme, siamo solo alla proposta dei relatori, ci sono molti nodi da sciogliere».
Più o meno la stessa posizione espressa dall’omologo alla Camera Renato Brunetta.
E c’è chi critica nel dettaglio la bozza messa appunto da Boschi, Finocchiaro e Calderoli: «Le cose pessime non ci sono più ma è difficile fare i salti di gioia» spiega il senatore Lucio Malan, «nella mia Costituzione ideale, i senatori dovrebbero sempre essere elettivi».
Per il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri, «la necessità di un accordo ampio porta logicamente a compromessi. Ma si sta definendo una soluzione davvero asfittica. Sarebbe meglio fare un salto nel futuro con uno scambio di alto livello. Aboliamo del tutto il Senato e approviamo il presidenzialismo».
Peccato che da quell’orecchio Matteo Renzi non voglia sentirci. E Silvio Berlusconi non abbia posto l’elezione diretta del Capo dello Stato come condizione «sine qua non» per il sì forzista alle riforme.
Si va avanti così, a rimorchio del premier. Certo, c’è chi si sforza di vedere il bicchiere mezzo pieno: «I dettagli non sono cosi dirimenti e non sono tali per bloccare o per mandare su un binario morto una riforma epocale che Berlusconi e tutta Forza Italia hanno sempre voluto» spiega Daniela Santanchè.
E Mario Mantovani rincara la dose: «Si tratta di un passo avanti importante – dice l’esponente lombardo – così da avere istituzioni capaci di assumere decisioni in tempi più rapidi e dando voce alle istanze territoriali. Speriamo ora di poter concretamente avviare quel processo di riforma in senso federale del nostro Paese da sempre richiesto da Forza Italia e dal presidente Silvio Berlusconi».
Ma la linea dominante resta critica nei confronti della nuova formulazione del Senato.
«C’è ancora la pesante sovrapposizione con gli enti locali – denuncia un senatore – e da quel punto di vista i Democratici sono molto più radicati di noi. Senza contare i cinque senatori di nomina presidenziale. Sarà un caso, ma da vent’anni al Quirinale c’è sempre gente di sinistra. Rischiamo di ritrovarci monchi anche il giorno in cui torneremo a vincere le Politiche».
Di questo passo, rischia di essere un giorno molto lontano.
Carlantonio Solimene
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