Giugno 26th, 2014 Riccardo Fucile
QUESTA MATTINA LA ROTTURA, GUIDATA DA MINZOLINI… CONTEMPORANEAMENTE 18 MEMBRI DELLA MAGGIORANZA AVANZANO ANALOGA PROPOSTA
C’è un nuovo fronte dissidente sulla strada delle riforme istituzionali. Trentacinque senatori hanno depositato un sub-emendamento che ripropone il Senato elettivo, pronti alla battaglia in aula e nella società contro il rischio di “deriva autoritaria” e di esproprio del diritto dei cittadini ad eleggere i proprio rappresentanti.
Diciotto sono esponenti della maggioranza (16 del Pd, più Mario Mauro ed Enrico Buemi), ma la fronda è composta anche da da Sel e da ex M5S.
“Il Senato della Repubblica — si legge — è eletto su base regionale, garantendo parità di genere, in concomitanza con la elezione dei Consigli regionali”.
E ancora: i 35 chiedono la riduzione del numero dei membri della Camera (con 315 deputati) e che il numero dei senatori sia pari a 100, a cui si dovranno aggiungere 6 senatori eletti all’estero.
La proposta è stata presentata in commissione Affari costituzionali per modificare gli emendamenti dei relatori, Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli. Stando ai numeri, le 18 firme potrebbero creare problemi durante il voto in aula del ddl costituzionale.
Il testo, infatti, in aula non potrebbe passare senza tutti i voti di Forza Italia.
Ma sul tema le acque sono molto agitate anche tra le file forziste.
Secondo quando riferiscono alcuni partecipanti alla riunione del gruppo azzurro di questa mattina a palazzo Madama, quasi i due terzi degli onorevoli forzisti preferirebbero un Senato elettivo e quindi diverso da quello del patto Renzi-Berlusconi.
I malumori, sempre secondo quanto si apprende, si sarebbero palesati proprio nel corso della riunione di questa mattina.
Un’incontro turbolento, raccontano, durante il quale Augusto Minzolini si è fatto portavoce di questa larga fetta di senatori che del nuovo Senato non vogliono proprio sentire parlare.
A tenere banco è l’eleggibilità dell’Aula di Palazzo Madama. La riunione, a cui hanno partecipato sia Denis Verdini, mediatore di Forza Italia per le riforme con il Pd, sia Giovanni Toti, consiglieri politico di Silvio Berlusconi, si è quindi chiusa prima che gli animi si accendessero ulteriormente.
La posizione ufficiale resta la stessa ed è quella di rimanere saldi al patto del Nazareno, una vera e propria strategia che mira a far esplodere i problemi interni al Pd. A convincere la fronda azzurra è stata la notizia dei 18 senatori Dem, facenti parte della maggioranza, che hanno firmato il subemendamento per il nuovo Senato elettivo.
Quattro senatori di Forza Italia hanno presentato sub-emendamenti con cui si ripropone il Senato elettivo, in dissenso quindi dall’indicazione del gruppo.
Un sub-emendamento è stato presentato congiuntamente da Luigi D’Ambrosio Lettieri e da Lucio Tarquinio.
Giacomo Caliendo e Augusto Minzolini hanno invece depositato ciascuno una propria proposta. Che ci sia maretta lo conferma anche la riunione dei capigruppo di Camera e Senato prevista per la prossima settimana alla presenza di Silvio Berlusconi.
“Con il presidente dei senatori di Forza Italia, Paolo Romani, convocheremo per la prossima settimana una riunione dei gruppi congiunti di Camera, Senato e Parlamento europeo, alla presenza del presidente Berlusconi — si legge in una nota del presidente dei deputati di Forza Italia, Renato Brunetta — la riunione è volta a delineare in maniera chiara e unitaria la posizione di Forza Italia sulle riforme, ai fini delle nostre decisioni di voto al Senato, prima in commissione e poi in Aula”.
La decisione , spiega Brunetta, giunge “a seguito delle numerose proposte emendative presentate”.
La conferma della maretta che agita il partito dell’ex premier è arrivata in mattinata da Paolo Romani: “Noi riteniamo di dover ribadire che il Patto del Nazareno prevede un’elezione di secondo grado”, ma “all’interno di tutti i gruppi, a maggior ragione nel nostro, ci sono molti senatori che vedrebbero meglio un’elezione diretta”, spiega il capogruppo FI al Senato.
Al momento le voci fuori dal coro sono quelle di Minzolini e Claudio Azzolini, che si sono riservati la possibilità di votare in aula per una elezione diretta della nuova Camera delle autonomie.
Anche Lucio Tarquinio e Sante Zuffada avrebbero espresso perplessità . “Sarà a mio avviso l’Aula a decidere. In commissione sarà difficile che venga contraddetto il patto”, aggiunge Romani.
”Quello che accadrà nelle prossime settimane per noi è la vita”, avrebbe detto Denis Verdini, responsabile dei rapporti con il Pd sulle riforme, per mettere in guardia i suoi.
In mattinata, in una conferenza stampa alla quale hanno preso parte Vannino Chiti, Falice Casson, Mario Mauro, Francesco Campanella e Loredana De Petris sono stati presentati altri emendamenti, per un numero complessivo di 14 proposte: si riferiscono agli emendamenti presentati dai relatori in Commissione Affari costituzionali del Senato, e saranno quindi votati in quella sede, dove la maggioranza non ha problemi a prescindere dall’accordo con Fi e Lega.
I problemi sorgerebbero invece in Aula, dove il governo Renzi ha ottenuto 169 voti al momento della fiducia. Se i 18 non votassero (su un emendamento poi sono 19) diventerebbero determinanti i voti degli altri partiti, come Fi e Lega e scenderebbero i margini per la maggioranza di due terzi necessaria a far promulgare la legge senza passare per il rischio del referendum: se infatti si sottraggono quei 18 voti ai 169 che hanno votato la fiducia, la non elettività del nuovo Senato ne avrebbe solo 151. “Siamo pronti a metterci di traverso“, ha annunciato Mauro.
L’iniziativa fa il paio con quella di Ncd che ieri ha presentato un sub-emendamento agli emendamenti dei relatori che rilancia l’elezione diretta del Senato. Lo ha riferito il capogruppo in Senato Maurizio Sacconi, che però assicura che Ncd non “intende frenare” il cammino delle riforme.
Tra i 14 emendamenti ve ne è uno che ripristina quasi il bicameralismo perfetto. Infatti attribuisce al Senato poteri legislativi non solo sulle riforme costituzionali (come fa anche il ddl del governo), ma anche su una serie di altre materie che potrebbero essere ampliate: rapporti con la Chiesa cattolica e le altre confessioni; la condizione giuridica dello straniero, le libertà personali; la libera manifestazione del pensiero; le garanzie processuali; la tutela della salute; diritti politici e sindacali; casi di incandidabilità , ineleggibilità e conflitto di interessi; norme sul referendum, il Consiglio di Stato, la Corte dei Conti, la magistratura ordinaria, il Csm; l’esercizio della giurisdizione; la Corte costituzionale.
Inoltre per tutte le altre leggi approvate solo dalla Camera, se il Senato chiederà modifiche con una determinata maggioranza, Montecitorio potrà respingere tale richiesta solo con una identica maggioranza (nel ddl del governo basta la maggioranza assoluta).
Torna sul banco anche il tema dell’immunità .
La soluzione proposta dal ddl del governo e quella dei relatori, su cui si è scatenata la polemica nei giorni scorsi, “è pasticciata”, ha detto il senatore del Pd Felice Casson. L’immunità “aveva un senso nel 1948, quando c’era un processo inquisitorio che era molto pericoloso”, ma dopo la riforma del 1983, con le tutele inserite, la situazione è cambiata e l’immunità può apparire “solo un privilegio”, spiega Casson.
I 35 senatori propongono quindi due soluzioni: o l’abrogazione sia per la Camera che per il Senato (mantenendo solo l’insindacabilità funzionale dell’espressione) oppure affidare a una sezione della Corte Costituzionale l’esame dell’eventuali appello da parte del Gip nel caso in cui la Camera di appartenenza neghi l’autorizzazione all’arresto.
Il Movimento 5 Stelle va oltre: “La materia va rivista e non solo per i Senatori, ma anche per i deputati — scrive Aldo Giannuli sul blog di Beppe Grillo — negli ultimi quaranta anni se ne è fatto un uso ignobile che ha coperto il sistematico latrocinio di una classe politica sempre più indecente”.
Intanto sulla riforma elettorale Forza Italia e Pd tirano dritto. Nonostante l’incontro tra Matteo Renzi con il M5S e le aperture registrate tra i due schieramenti, l’Italicum “è la base da cui si parte, ci si ferma e si arriva. Per noi c’è solo quello”, ha spiegato Romani al termine della riunione del gruppo azzurro a Palazzo Madama.
L’apertura sulle preferenze emersa ieri nell’incontro tra il premier e la delegazione dei 5 Stelle? “Non esiste, ma in realtà il Pd ne parla meno di noi”. Anche i dem paiono sulla stessa lunghezza d’onda. ”Per noi vale il testo dell’Italicum passato alla Camera e che ha un’adesione ampia, perchè ci stanno Forza Italia, Scelta civica, Ncd — ha detto in un’intervista a Repubblica Debora Serracchiani, vice-segretaria del Pd — quello è per noi il testo della legge elettorale”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 26th, 2014 Riccardo Fucile
L’IDEA DI CAMBIARE VERSANTE CIRCOLA TRA I TECNICI…UN MODO PER EVITARE DI COSTRUIRE UN CANTIERE-FORTINO A SUSA… MA TUTTO DIPENDE DA PARIGI
La parola d’ordine è: cambiare versante. Forse così la grande battaglia d’autunno non ci sarà .
Lo scontro atteso e temuto da molti all’apertura del cantiere del tunnel di base della Torino-Lione a ottobre-novembre, il momento della verità in cui tutti gli oppositori al progetto tenteranno l’ultima spallata a Susa, potrebbe svanire nel nulla.
Non perchè, improvvisamente, sia tornata la ragionevolezza. Ma perchè, più semplicemente, potrebbe non esserci il cantiere.
L’idea, che circola da qualche settimana tra i tecnici, dovrebbe essere discussa tra pochi giorni nella riunione della Conferenza intergovernativa italo-francese in programma a Chambery: scavare anche i 12 chilometri di galleria del versante italiano partendo dalla Francia.
In modo da poter rinviare per molto tempo il momento in cui si dovranno espropriare i terreni del futuro cantiere vicino a Susa, la cittadina che il 25 maggio ha fatto vincere per otto soli voti il sindaco No Tav Sandro Plano.
Cambiando il versante di attacco del lavoro delle talpe, il cantiere di Susa potrebbe aprirsi anche tra 4-5 anni mentre nel cuore della montagna le macchine lavorano indisturbate.
Nel frattempo, scavando dalla Francia, l’impatto dei lavori sulla valle potrebbe diminuire.
A sostenere l’idea del cambio di versante sarebbero anche gli esperti del ministero degli Interni.
In questo modo si eviterebbe di costruire una sorta di cantiere-fortino a Susa replicando in larga scala quanto è già accaduto per il cunicolo esplorativo di Chiomonte dove per tre anni la parte violenta del movimento No Tav ha dato l’assalto con vari mezzi a ruspe, talpe e addetti ai lavori.
Tecnicamente l’operazione sembra fattibile.
Dei 57 chilometri di galleria di base solo 12 sono sul lato italiano.
Le talpe francesi inizieranno tra qualche mese a scavare i primi 45 chilometri di loro competenza.
Le macchine cominceranno a lavorare da tre diversi punti: lo sbocco del grande tunnel sul versante francese a Saint Jean de Maurienne e i punti di incrocio tra il tracciato del supertunnel e le tre gallerie di servizio francesi a 8 (Saint Martin la Porte), 17 (La Praz) e 29 (Modane) chilometri dall’ingresso transalpino.
Proprio dalla galleria di servizio di Modane, quella più vicina al confine, potrebbero partire le talpe che scavano verso l’Italia e che potrebbero sbucare 28 chilometri più a est a Susa, 16 ancora in territorio francese e 12 in Italia.
L’idea non è poi tanto originale. È la stessa scelta compiuta tre anni fa dalla Sitaf, la società a maggioranza pubblica guidata dal gruppo Gavio che nella stessa montagna sta raddoppiando il tunnel autostradale del Frejus (nell’indifferenza degli ambientalisti). Sitaf avrebbe dovuto scavare la sua parte di tunnel partendo dal versante italiano ma ha preferito pagare le società francesi che scavavano sul loro versante in modo che proseguissero il lavoro fino a sbucare in Italia.
Il vertice di Chambery potrebbe adottare la soluzione del cambio di versante o comunque decidere di studiarla nei dettagli.
Nel frattempo sarà necessario definire aspetti burocratici e sostanziali. Perchè al momento l’insidia principale per il futuro del progetto non viene dai No Tav ma dal governo francese. Che, a differenza di quello italiano, non ha ancora messo a bilancio i 2,2 miliardi di euro necessari a pagare la quota di Parigi nell’opera.
E senza quei soldi non arriverebbero nemmeno i 3 miliardi che l’Ue dovrebbe essere disposta a mettere per finanziare il supertunnel.
I francesi hanno tempo fino a febbraio prossimo per trovare i soldi.
“La Francia onorerà i suoi impegni”, aveva garantito con orgoglio un mese fa il presidente francese di Ltf, la società che ha progettato l’opera, Hubert Dumesnil.
Ma senza i bonifici l’orgoglio vale poco. Anche se è abbastanza difficile che Parigi venga meno agli accordi dopo aver trascorso anni a lasciar intendere che era l’Italia ad essere in ritardo sulla tabella di marcia.
È un fatto che oggi i francesi sembrano avere più problemi dell’Italia nel rispetto dei parametri finanziari europei.
E dunque qualche problema in più del passato a trovare le risorse. Anche se, a differenza di quanto accade in Italia, la legge francese consente di trovare anno per anno solo le risorse necessarie all’avanzamento dei cantieri senza accantonare in una sola volta l’intera somma.
Paolo Griseri
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Giugno 26th, 2014 Riccardo Fucile
IL GRUPPO AL PARLAMENTO EUROPEO SAREBBE STATO L’OCCASIONE PER PASSARE DALLE CHIACCHIERE ALLA REALTA’
È un vero peccato che Marine Le Pen e Matteo Salvini non riescano a fare gruppo al parlamento europeo.
Sarebbe stata l’occasione per passare dalle chiacchiere alla realtà , dalla propaganda alla politica, dall’irresponsabilità alla responsabilità .
Certo potranno intervenire nelle commissioni e nell’aula di Strasburgo, dire le peggio cose contro l’euro, invadere l’asettico quartiere europeo di Bruxelles con vacche e allevatori del Limousin o della bergamasca e rovesciare il latte all’ingresso del palazzo di Justus Lipsius dove si riunisce il Consiglio europeo.
Potranno cioè continuare a fare quello che hanno fatto finora. Tuttavia l’involucro di un «gruppo» parlamentare avrebbe conferito loro un’etichetta istituzionale consentendogli di uscire dalla marginalità : dal folklore alla rappresentanza. Avrebbe dato un altro peso alle loro proposte, per quanto surreali e persino eversive rispetto ai pilastri dell’Ue.
Ed è un peccato che questo non accada perchè queste forze della cosiddetta anti-politica crescono e prosperano in quella terra di nessuno dove le parole possono anche non incontrarsi mai con i fatti ma galleggiare in una realtà virtuale dove tutto è possibile: uscire dall’euro, chiudere le frontiere, sparare sui barconi degli immigrati…
Per ogni grande e drammatico problema hanno una soluzione semplice costruita sul senso comune, buona per talk show e comizi, ma che non arriva mai alla verifica con i fatti nel difficile mestiere di confrontarsi con gli altri per governare la realtà attraverso il gioco democratico.
Matteo Salvini ha resuscitato un partito che sembrava in agonia dopo il tramonto di Bossi e della sua famiglia (ieri la procura di Milano ha chiesto il processo per truffa del vecchio capo del Carroccio e dei figli) con una linea tutta d’attacco e di opposizione, come se la Lega non fosse mai stata al governo, non avesse mai avuto un sindaco di Milano, non fosse tuttora alla guida della Lombardia, del Veneto e di importanti città del Nord.
Il Front National, invece, solo da questa primavera è al potere in qualche città della provincia francese.
Il sistema elettorale maggioritario a doppio turno aveva creato intorno al partito di Jean-Marie Le Pen un cordone sanitario invalicabile.
Soltanto Franà§ois Mitterrand aveva sfidato questo tabù della Quinta repubblica aprendo al proporzionale nelle elezioni parlamentari del 1986.
Il risultato fu che una rumorosa pattuglia di 35 parlamentari frontisti sbarcò all’Assemblèe nationale con esiti grotteschi ed irrilevanti che alle successive elezioni anticipate — richiuso il varco proporzionale dal machiavellico presidente, non solo per questo soprannominato «florentin» — si tradussero in un solo parlamentare rieletto. Oggi sono due.
Il fenomeno Front è cresciuto e si è dilatato dentro questa esclusione e grazie ad essa.
Il sistema elettorale aveva costruito una dittatura bipolare destra-sinistra, gollisti e socialisti che si alternavano al potere e il partito di Le Pen è così diventato un’alternativa di sistema, l’unica. Dopo l’exploit di Jean-Marie arrivato nel 2002 al ballottaggio con Chirac avendo superato al primo turno il socialista Jospin, la figlia Marine ha compiuto il miracolo di trasformare la greve eredità paterna di un’estrema destra eversiva e nostalgica in un partito apparentemente post-ideologico arraffando molti consensi popolari un tempo di sinistra.
Il retaggio tuttavia rimane.
Se Salvini dichiara — ieri a Repubblica — che pur di fare gruppo a Strasburgo avrebbe anche imbarcato i neonazisti greci di Alba Dorata, Madame Le Pen non se lo può permettere, dal momento che nell’aneddotica paterna è rimasta scolpita l’indimenticabile sentenza secondo cui le camere a gas naziste sono «un dettaglio della storia».
Il parricidio era dunque d’obbligo e apparentemente si è consumato dopo le mirabolanti elezioni europee, quando il Front con il 25 per cento è diventato il primo partito di Francia.
Non è bastato. Il cordone sanitario resiste.
L’inglese Nigel Farage alleato di Grillo riesce a comporre il suo gruppo ma non vuol sentire parlare di alleanze con il Front. E non pesa solo il passato. La simpatia per Vladimir Putin espressa da Marine Le Pen persino con una visita al Cremlino nei giorni caldi della crisi ucraina, non ha aiutato la signora a trovare alleati tra i baltici o negli ex paesi satelliti di Mosca, pur non avari di euroscettici.
Quel sentimento antisistema che ha dominato la campagna elettorale europea rischia dunque di rimanere uno stato d’animo o un rancore sordo che si stempera nell’indistinto politico del gruppo dei non iscritti, da dove le voci di Matteo Salvini e di Marine Le Pen — quando presenti, che non capita sempre — conserveranno forse il carisma di oppositori radicali, godranno dei vantaggi di questa posizione di rendita, produrranno slogan e colore.
Ma — per fortuna — non potranno mantenere la promessa di far fallire l’euro e l’Unione europea.
Cesare Martinetti
(da “La Stampa”)
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Giugno 26th, 2014 Riccardo Fucile
“RIPENSARE I CONFINI DELLA P.A. PERCHE’ SONO STATI CONCEPITI IN UN CONTESTO ECONOMICO E SOCIALE DIVERSO”
Ridisegnare e ripensare i confini della Pubblica amministrazione, comprese le modalità di prestazione dei servizi alla collettività , dalla salute all’istruzione. E’ la sollecitazione che arriva dalla Corte dei Conti, secondo cui in materia di spending review “non si tratta solo di eliminare gli sprechi ma di affrontare il tema del ‘perimetro’ pubblico”.
In pratica, procedendo per semplificazione, nelle parole del Presidente di coordinamento delle Sezioni riunite in sede di controllo, Enrica Laterza, si legge un invito a riflettere sull’opportunità di avere una mano pubblica così ‘dispiegata’ nei settori della vita economica e sociale del Paese.
Anche perchè arrivano parole d’allarme nei confronti della macchina pubblica, nell’intervento successivo del procuratore generale Salvatore Nottola: “La corruzione può attecchire dovunque: nessun organismo e nessuna istituzione possono ritenersene indenni” e “nessuna istituzione che abbia competenze pubbliche può ritenersi scevra di responsabilità di fronte al suo dilagare”.
Expo 2015 con i suoi recenti scandali è “un caso emblematico” di deroghe a norme e controlli, “smantellati in virtù dell’urgenza, che hanno di fatto favorito la corruzione.
Tornando alla Pubblica amministrazione, quello richiesto dalla Corte “è un impegno che può essere affrontato solo alla luce di una chiara strategia di governo della spesa e di selezione dei terreni su cui è chiamato ad incidere l’intervento pubblico”, si legge infatti nella sua relazione sul giudizio di parificazione del rendiconto generale dello Stato.
“Un ridisegno, quindi, frutto di una forte volontà politica e di un profilo ben definito di quello che deve essere il sistema pubblico dei prossimi decenni. Non si tratta solo di eliminare gli sprechi e di riorganizzare le modalità di produzione e di accesso ai servizi. Occorre affrontare direttamente il tema della sostenibilità futura di un sistema di prestazioni di servizi alla collettività (dalla salute e l’istruzione alle imprese e all’ambiente) originariamente concepito in un contesto economico, sociale e demografico più favorevole”, prosegue Laterza.
Nella Pa in particolare, per Laterza bisogna avere “la capacità di ripensare l’organizzazione stessa delle funzioni pubbliche, attraverso l’effettiva attivazione di estesi meccanismi di mobilità e il concreto approntamento di moderni sistemi di incentivazione della produttività “.
Quanto al quadro economico e ai conti pubblici, i magistrati contabili spiegano che è necessaria “una redistribuzione del carico tributario intesa a favorire i fattori produttivi, redditi da lavoro e impresa”.
Nel rendiconto dello Stato si parla di una “operazione decisiva anche nell’ottica della ripresa dell’economia, che è improprio subordinare a recuperi di gettito (da evasione, erosione, da mancata riscossione) sempre richiamati ma che si rivelano largamente incerti nei tempi e nelle dimensioni”.
Ancora Laterza ha sottolineato come sia necessario “il sostegno alla crescita, orientando le leve di bilancio verso obiettivi che superino il solo rigore, ma restando entro profili compatibili con i vincoli posti dall’appartenenza all’Europa e soprattutto, con l’urgenza di riassorbire l’eccesso di debito altrimenti a carico delle generazioni future”.
(da “La Repubblica“)
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Giugno 26th, 2014 Riccardo Fucile
NELLA MAGGIORANZA DEI CASI SI PAGANO PREMI DA 500 EURO, IL DOPPIO RISPETTO ALLA MEDIA CONTINENTALE… A CINQUE GRUPPI ASSICURATIVI VA IL 70% DEL MERCATO
Solo cinque assicurati su cento pagano una Rc auto paragonabile, come tariffe, al premio medio europeo, pari a 250 euro.
Tutti gli altri, in media, pagano un premio di 500 euro, che pure rappresenta un calo del 3,8% nel primo trimestre dell’anno.
Lo ha detto il presidente dell’Ivass, Salvatore Rossi, nel suo intervento all’assemblea annuale dell’Istituto.
Il dato emerge da un’indagine campionaria trimestrale sui premi effettivi Rc auto (Iper), in cui si evidenzia anche che nel mercato non c’è concorrenza: i primi cinque gruppi assicurativi detengono il 70% del mercato.
Rossi ha sottolineato anche la condizioni di chi ha avuto incidente “in passato, che può arrivare a pagare il triplo di chi non ne ha avuti”.
“E’ da notare – ha commentato Rossi – che nel settore del credito le prime cinque banche detengono invece meno della metà della raccolta”.
L’indagine, che è stata fatta su un campione di 2 milioni di targhe, è stata avviata dall’Authority per “risolvere il formidabile deficit di informazioni che connota i prezzi effettivi che si formano sul mercato e le frodi perpetrate ai danni delle compagnie”.
Proprio per la lotta alle frodi, “principale presupposto di una stabile riduzione dei prezzi”, l’Ivass ha avviato il progetto Aia, interconnettendo finora cinque banche dati dalla Motorizzazione Civile all’Ania”.
Nel complesso, per Rossi “il problema dei prezzi delle polizze Rc auto, dopo tanti anni, si è attenuato ma non risolto”.
Al di là dell’andamento dei prezzi, la relazione mette anche in luce gli effetti della crisi sulle macchine: spostarsi in auto costa e il suo utilizzo si riduce per effetto della recessione, e così cala anche il numero di sinistri Rc Auto (-30% in ultimi 4 anni). Nelle considerazioni sul 2013, Rossi spiega che “non era il modo in cui bisognava arrivarci ma intanto registriamo meno morti e feriti e non possiamo che rallegrarcene”.
Sale invece il costo medio totale di ciascun sinistro da 3900 a 4700 euro per i maggiori accantonamenti.
Diminuiscono anche i reclami dei consumatori nel settore assicurativo: “Una importante fonte di orientamento della vigilanza – ha detto Rossi – continua a essere rappresentata dai reclami dei consumatori. Nel 2013 sono stati 27mila, in flessione del 15% sull’anno prima”.
Dall’avvio dell’attività dell’Ivass, un anno e mezzo fa, “sono state portate a termine 26 ispezioni, di cui 9 presso grandi imprese, e altre 4 sono in corso”.
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Giugno 26th, 2014 Riccardo Fucile
ESEGUITI OLTRE 31.000… POCHI I SOLDI STANZIATI NEL FONDO, SERVE PROGRAMMAZIONE
Un vero e proprio «bollettino di guerra ».
Così il sindacato degli inquilini della Cgil, il Sunia, definisce il boom degli sfratti per morosità registrati nel 2013, lanciando l’allarme e spronando il governo a un intervento immediato e risolutivo
I numeri diffusi dal Ministero degli Interni, del resto, lasciando davvero poco spazio all’ottimismo.
L’anno scorso, infatti, sono stati emessi ben 73.385 sfratti, in crescita dell’8 per cento rispetto al 2012, quando se ne contavano 67.790.
Del totale, le ingiunzioni per morosità rappresentano l’89% del totale, in assoluto 65.302, contro i 60.244 di due anni fa.
Questo significa che quasi nove inquilini su dieci hanno ricevuto l’avviso perchè morosi, ovvero «perchè non potevano più permettersi di saldare l’affitto», aggiunge Laura Mariani, responsabile delle Politiche per la casa della Cgil nazionale
SOFFRONO TUTTI I TERRITOR
Oltre agli sfratti notificati, crescono anche le richieste di esecuzione con l’ufficiale giudiziario che dalle 120.903 del 2012 passano a quasi 130mila (+6,7 per cento), e quelli effettivamente eseguiti, che nel 2013 sono stati 31.399 (+12 per cento rispetto ai 27.695 dell’anno precedente)
Nessun territorio sembra essere risparmiato.
“Ben 22 province hanno incrementi degli sfratti per morosità di oltre il 20% – si legge nel comunicato di Sunia e Cgil -, tra gli aumenti più consistenti delle città capoluogo si segnalano Napoli (+22%), Catania (+26%) e La Spezia (+43%)».
In termini assoluti è Roma, di gran lunga, la città con il maggior numero di sfratti per morosità : sono 7.042, in aumento del 14% rispetto ai 6.191 dell’anno precedente. Seguono poi Milano e Napoli. Anche a Bologna la situazione non è rosa: dall’inizio dell’anno, spiega il sindacato felsineo, sono già stati eseguiti ben 900 sfratti, e l’emergenza abitativa riguarda intere famiglie, che si trovano da un giorno all’altro senza un tetto dove stare, con gli assistenti sociali che non sempre riescono a trovare una soluzione adeguata, anche se temporanea. Non è un caso che le occupazioni e i momenti di protesta, anche molto dura, si moltiplichino in molte città italiane, in primis nella Capitale
Cosa fare di fronte a una marea montante, anzi a uno tsunami che rischia di travolgere le vite di migliaia di persone?
Innanzitutto accelerare sui provvedimenti promessi dal governo. «Non sono state ancora ripartite a livello regionale le risorse per il fondo per la morosità incolpevole prevista dal decreto messo a punto dal ministro Maurizio Lupi (nel maggio scorso è divenuto legge, ndr), che pure per la prima volta riconosce questa condizione come una fattispecie con caratteristiche proprie», ricorda Mariani.
Al di là del fatto che i 266 milioni da qui al 2020 «sono una cifra ancora insufficiente per affrontare un disagio di questa portata », rimarca la sindacalista, bisogna fare presto, «perchè in questo periodo gli sfratti non aspettano e vanno avanti. E, come si vede, sono aumentati»
Ma c’è anche la necessità che «lo Stato ritrovi la sua funzione di programmazione – continua Mariani -, e per farlo deve lanciare un piano pluriennale di edilizia davvero sociale, a canoni sostenibili e che punti sul recupero di aree ed edifici dismessi senza ulteriore consumo di suolo. E che, inoltre, abbia stanziamenti certi e prolungati nel tempo e sia chiara e trasparente»
Cgil e Sunia chiedono anche all’esecutivo guidato dal premier Matteo Renzi «una revisione della legge sulle locazioni che punti, attraverso contrattazione collettiva e leva fiscale, ad abbassare il livello degli affitti provati e ad aumentare l’offerta», oltre a una dotazione finanziaria «certa e programmata per permettere sostegno diretto agli inquilini in difficoltà ».
Al momento, il Fondo per il sostegno all’affitto, già ripartito, è di 200 milioni di euro fino nel biennio 2014-2015.
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Giugno 26th, 2014 Riccardo Fucile
SVOLTA FRANCESE, INTERROGATI 14 EX SOLDATI, PRIME AMMISSIONI
La Francia ha deciso a sorpresa di collaborare all’inchiesta sulla strage di Ustica.
E alcuni ex militari dell’Armèe de l’air hanno ammesso per la prima volta davanti ai magistrati italiani che il 27 giugno 1980 i caccia della base di Solenzara in Corsica, sospettati di essere direttamente coinvolti nell’abbattimento del DC9 Itavia, volarono fino a tarda sera.
Viene così smentita la versione che Parigi ha accreditato per 34 anni, secondo cui la base chiuse alle 17.
Cioè, quattro ore prima che l’aereo civile italiano con 81 persone a bordo esplodesse nel cielo di Ustica.
La svolta è clamorosa, anche se non ancora decisiva. E non può essere stata presa senza un’autorizzazione politica al più alto livello, forse dello stesso presidente Hollande.
Le prime ammissioni sbugiardano infatti la posizione ufficiale tenuta per tutti questi anni nei confronti dei governi italiani, alle cui richieste Parigi aveva sempre risposto con una certa irritazione.
Ma ora qualcosa starebbe cambiando perchè, a quanto risulta, questa improvvisa e inaspettata disponibilità sarebbe frutto di una più ampia volontà di alzare il velo sul ruolo svolto dalle forze armate francesi in una delle stagioni più calde del Mediterraneo.
Sono quattordici gli ex militari della base di Solenzara che sono stati ascoltati in Francia dal procuratore aggiunto della Repubblica di Roma Maria Monteleone e dal sostituto Erminio Amelio. E si tratta solo di un primo round.
I magistrati francesi hanno concesso ai colleghi italiani una seconda tornata di interrogatori e si sono impegnati a fornire tutta la documentazione in possesso della Difesa sui movimenti delle unità aeree e navali nel Tirreno, finora negata o consegnata parzialmente.
Le richieste di rogatoria trasmesse a Parigi hanno avuto un iter lungo e complesso. Inizialmente le autorità francesi avevano sostenuto di non essere in grado di rintracciare gli ex militari della base di Solenzara, identificati per nome e cognome. Risposta risibile, che confermava la linea di chiusura che per 34 anni aveva segnato lo stallo nella richiesta alla Francia di collaborare all’inchiesta fornendo una spiegazione sul ruolo dei caccia della base di Solenzara in quella tragica sera.
Risibile soprattutto se confrontata con i dati oggettivi in mano ai magistrati:
– i tabulati del radar della difesa aerea di Poggio Ballone, che mostravano le tracce di almeno due caccia francesi in volo verso il cielo di Ustica, in un orario assolutamente compatibile con lo scenario di guerra aerea nel quale il DC9 è stato poi abbattuto;
– la testimonianza del generale dei carabinieri Antonio Bozzo, braccio destro del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che la sera del 27 giugno 1980 si trovava in vacanza a Solenzara e vide i caccia francesi decollare dalla base fin dopo la mezzanotte;
– la conferma fornita dalla Nato al giudice istruttore Rosario Priore sul fatto che quelle tracce corriospondessereo a dei caccia, senza però un’identificazione della nazionalità poichè nel 1980 la Francia era parte dell’alleanza ma non del dispositivo militare.
Alla vigilia del trentaquattresimo anniversario della strage, l’inchiesta sta dunque facendo dei cruciali passi in avanti.
Ma non è solo la Francia ad avere aperto uno spiraglio insperato verso la ricerca della verità .
La Nato ha fornito ai magistrati italiani nuovi dettagli che confermano lo scenario di guerra nel quale il DC9 Itavia sarebbe stato abbattuto per errore, quasi certamente in uno scontro tra uno o due Mig libici che si nascondevano vicino all’aereo civile e uno o più caccia alleati.
La Nato avrebbe anche identificato come americano l’aereo radar Awacs che incrociava sull’isola d’Elba al momento della strage, avendo la piena capacità di “vedere” tutto ciò che accadeva nel cielo tra Ponza e Ustica.
Ma c’è anche una portaerei, anche questa individuata dalla Nato nel mare di Ustica, che incredibilmente sfugge ancora all’identificazione.
La videro (e lo hanno confermato a verbale) piloti e assistenti di volo di alcuni aerei civili sulla stessa rotta del DC9 Itavia poco prima della strage. E le tracce dei suoi caccia ed elicotteri in azione sono visibili nei tracciati radar sopravvissuti a manipolazioni e distruzioni.
I magistrati della Procura di Roma hanno interrogato in questi giorni anche due ex piloti militari italiani — Giovanni Bergamini e Alberto Moretti — che il 27 giugno 1980 erano in volo ma rientrarono alla base di Grosseto prima dell’esplosione.
Quella sera erano in volo anche altri due piloti — Ivo Nutarelli e Mario Naldini — che secondo la ricostruzione formalizzata ai magistrati dagli specialisti della Nato, incrociarono il DC9 quasi certamente vedendo il Mig o i Mig libici nella sua “ombra radar” e poi segnalarono l’allarme massimo volando triangolarmente sulla base e premendo anche il pulsante del microfono per tre volte senza parlare, come prescritto dal manuale.
Purtroppo sono entrambi morti nell’incidente delle Frecce Tricolori a Ramstein nel 1988, su cui molti sospetti si sono addensati.
Ma il colonnello Moretti, che nelle ore successive all’incidente che fece una strage (67 morti tra il pubblico oltre a Nutarelli, Naldini e al capitano Alessio) assunse il comando delle Frecce tricolori e partecipò all’inchiesta, afferma con decisione che si trattò di un “tragico errore di manovra” di Ivo Nutarelli e liquida ogni ipotesi di sabotaggio legata alla strage di Ustica come “una bufala”.
Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha incontrato una settimana fa i magistrati Monteleone e Amelio per una messa a punto di tutte le rogatorie internazionali in piedi.
Molti i paesi a cui l’Italia si è rivolta (oltre alla Francia, anche Stati Uniti, Belgio, Germania) e in alcuni casi inspiegabili le risposte ricevute. Come quella del Belgio, che aveva due caccia sulla base di Solenzara, ma a 34 anni di distanza ha affermato di non voler dire nulla sulla vicenda per “motivi di sicurezza nazionale”.
C’è poi il capitolo a parte che riguarda la Libia.
L’archivio dei servizi segreti di Gheddafi (con le carte su Ustica) sembra sia finito nelle mani dell’MI6 britannico. E l’ex braccio destro del colonnello, Abdel Salam Jalloud, che ora vive a Roma sotto la protezione dei nostri servizi si è paradossalmente rifiutato non solo di rispondere alle domande dei magistrati ma anche di firmare il verbale del mancato interrogatorio.
E’ la storia infinita di Ustica. A cui solo il sostanziale appoggio del governo ai magistrati può imprimere una svolta decisiva.
Adesso, chiedono i familiari delle vittime attraverso la presidente dell’Associazione, Daria Bonfietti, serve un gesto politico sul piano internazionale.
Un gesto deciso, per mettere nell’angolo chi sa e non ha ancora parlato.
Andrea Purgatori
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 26th, 2014 Riccardo Fucile
MOLTI PARLAMENTARI EUROPEI, FINO AL 2009, HANNO ADERITO AL FONDO CHE OPERA IN LUSSEMBURGO…. TRA GLI ITALIANI PANNELLA, BORGHEZIO, BERTINOTTI, BOSSI, MAURO E ALBERTINI
Tassazione ai minimi, opacità e sede in Lussemburgo.
Non stiamo parlando dell’ennesima multinazionale che aggira legalmente il fisco, ma del fondo pensione complementare dei parlamentari europei.
Dal 1994 al 2009, eurodeputati di tutte le formazioni politiche e nazionalità hanno aderito a un piano pensionistico legale, ma assai discutibile.
Nella lista (tenuta segreta per anni, ma rivelata dal giornalista tedesco Hans-Martin Tillack e da successive inchieste giornalistiche riprese da Open Europe), ci sono anche molti italiani: dal leader radicale Marco Pannella a quello leghista Umberto Bossi, passando per l’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini e il segretario di Rifondazione Comunista Fausto Bertinotti.
Nonostante il fondo volontario nasca nel 1989 su iniziativa di alcuni europarlamentari e dal 2009 i nuovi eurodeputati non possano più aderirvi, in questi giorni è tornato di attualità in Spagna, dove sta provocando un terremoto politico nella sinistra radicale.
Questo perchè tra privilegi insensati, investimenti scellerati e buchi di bilancio, il fondo continua a creare danni.
Pur trattandosi di uno strumento volontario, i contributi che fino al 2009 lo alimentavano erano pagati per i due terzi dal Parlamento europeo e solo per il restante 33 per cento dagli eurodeputati.
Inoltre, il trattamento percepito era ed è troppo generoso , tanto che, stando a quanto scritto da tutta la stampa britannica, ha creato un buco di 233 milioni di euro nel bilancio dell’Europarlamento che verrà tappato attingendo al bilancio comunitario.
La gestione avviene attraverso una Sicav, sigla dietro cui spesso si celano capitali in cerca di alti rendimenti e poche tasse.
Anche l’impiego delle riserve desta qualche perplessità : secondo il think tank inglese Open Europe, 131 milioni di euro sono andati in fumo perchè investiti in strumenti finanziari proposti dal broker-truffatore Bernard Madoff. Buco che dovrebbe essere ripianato dalla Ue.
Martedì scorso, lo scandalo è riscoppiato in Spagna grazie al quotidiano indipendente Info-Libre, e ha già provocato dimissioni eccellenti.
Il partito più colpito è la formazione di sinistra radicale Izquierda Unida, nel cui programma elettorale figurava l’abolizione delle Sicav.
Il suo leader in Europa, Willy Meyer, aveva però aderito al fondo dieci anni fa.
Dopo avere provato a giustificarsi spiegando di “non essersi reso conto delle sue implicazioni”, è stato costretto dalla base a rassegnare le proprie dimissioni. L’imbarazzo maggiore è però del Partito Socialista, già orfano della sua cupola, dimessasi all’indomani delle elezioni del 25 maggio, e coinvolto in questo nuovo scandalo a partire dalla sua capolista alle europee, Elena Valenciano.
La sua ritrosia è controbilanciata dal Partito Popolare, che in una nota ha dichiarato , apertamente, che così fan tutti
Così facevano in tanti anche in Italia: ben 50 eurodeputati su 78 (il dato si riferisce alla legislatura terminata nel 2009, l’unica per cui è disponibile la lista completa).
Il fondo pensionistico integrativo con zero tasse e finanziato dall’Europarlamento faceva gola a molti: tra gli altri, il forzista Jas Gawronsky, l’ex finiana (oggi Ncd) Roberta Angelilli, il leader no global Vittorio Agnoletto, i leghisti Mario Borghezio e Francesco Speroni, Nello Musumeci de La Destra, Marco Rizzo dei Comunisti Italiani, Pier Antonio Panzeri del Pd, la leader verde Monica Frassoni, l’ex ministro in quota Cl Mario Mauro e perfino il radicale Marco Cappato.
Contattati per spiegare perchè abbiano aderito al piano, ognuno si giustifica come può. Borghezio ci mette un po’ a capire: “Intende la pensione normale?”, poi quando mette a fuoco il problema ammette di avere fatto “un’interrogazione o forse delle dichiarazioni contro quel fondo, ma quando ho aderito non sapevo di cosa si trattasse”.
La Angelilli non si sente chiamata in causa perchè “ancora non percepisco la pensione, chissà cosa succede tra quindici anni”.
Agnoletto chiede mezz’ora di tempo per verificare i documenti e poi stacca il telefono, mentre Cappato spiega che “dopo l’eurodeputato ho fatto il volontario per tre anni senza percepire una lira”, poi promette una battaglia “per riformare questo meccanismo che non conoscevo” ma, quando gli si fa notare che basterebbe lasciare individualmente il fondo contrattacca: “Quello serve solo a fare bella figura”. Bruxelles, in un comunicato, giustifica l’affiliazione del fondo in Lussemburgo in quanto lì ha sede legale la Segreteria Generale dell’Europarlamento.
Le prestazioni ottenute devono essere poi dichiarate nei Paesi d’origine e sottoposte al regime fiscale corrispondente, una volta ritirato il succulento premio pensionistico, al compimento del 63 anni di età .
Le Sicav, Società di investimento a capitale variabile, sono strumenti di gestione di patrimoni e risparmi introdotti anche in Italia dal decreto legislativo 84/1992, come attuazione di una direttiva europea, su imitazione di prodotti finanziari già esistenti proprio in Lussemburgo, campione di sotterfugi per chi è alla ricerca di molta discrezionalità e scarsa imposizione.
Al di là delle precisazioni di Bruxelles resta il fatto che nel Granducato questi prodotti versano solo lo 0,01% annuale sul valore netto degli attivi, oltre ad essere esenti da ogni imposta societaria.
Alessio Schiesari e Leonardo Vilei
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 26th, 2014 Riccardo Fucile
SI VOTAVA L’ESPULSIONE DI UN GRUPPO DI ISCRITTI… LA CONSIGLIERA COMUNALE NOFERI: “SCHEDE GIA’ COMPILATE, METODI DEGNI DEI PERIODI PIU’ BUI DELLA DEMOCRAZIA”
Una rissa sfiorata, cinque volanti della polizia che piombano al circolo Andrea Del Sarto.
Parole grosse in strada, tensione e urla fino a notte fonda, tanto da far affacciare i residenti alle finestre infuriati.
Finisce così il “processo” ai dissidenti grillini.
L’assemblea convocata ieri sera alle 21 al solito circolo di via Manara, a Firenze, per discutere l’espulsione o la sospensione di un gruppo di attivisti e militanti, tra cui due ex portavoce dei Cinquestelle fiorentini “rei” di aver firmato, o comunque apertamente sostenuto, una lettera indirizzata al capogruppo alla Camera Luigi Di Maio e proprio a lui consegnata già nei mesi scorsi, prima del voto, solo che all’insaputa del resto dell’assemblea dei grillini fiorentini.
Ieri sera distribuita ai partecipanti all’assemblea una vera e propria lista di proscrizione in cui venivano indicati nome e cognome dei militanti e accanto tre opzioni: l’ espulsione, sospensione per un anno o due anni.
Circostanza che ha sollevato una mezza rivolta, tanto più che nelle urne c’erano schede già votate.
Così almeno sostiene una delle consigliere comunali Cinquestelle, la capogruppo Silvia Noferi che parla di “spettacolo indegno”. .”Metodi degni dei periodi più bui della democrazia”, dice la consigliera grillina, “Una scatola chiusa dai soliti noti prima dell’inizio dell’assemblea, schede di richiesta espulsione di attivisti storici a voto segreto. Votazione in corso durante la discussione. Non si sa quante schede già compilate fossero dentro la scatola. Una gran parte di attivisti tra cui la sottoscritta si è rifiutata di votare in quanto mancanti le più elementari norme di garanzia. La votazione è irregolare. Chi ha organizzato questo spettacolo indecoroso è da espulsione altro che chi ha scritto una lettera di dissenso”.
Quella inviata dai militanti a Di Maio, più che una lettera, era un j’accuse, duro anzi durissimo, in cui si segnalavano carenze di trasparenza all’interno del Movimento, si denunciava il fatto che un gruppetto di 4 persone gestiva da mesi la comunità grillina in contatto con lo Staff di Beppe Grillo (“Ma non esistono tracce scritte di questi rapporti”, si dice), che i candidati nella lista delle amministrative erano per lo più sconosciuti al gruppo storico dei militanti e che i metodi con cui era stata scelta la candidata sindaco, Miriam Amato, erano parecchio discutibili.
“La pagina più nera del Movimento 5 Stelle a Firenze – ha scritto Andrea Vannini, una delle persone finite sotto accusa – ho assistito a ciò che non avrei mai pensato”.
Ernesto Ferrara e Gerardo Adinolfi
(da “La Repubblica”)
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