Giugno 9th, 2014 Riccardo Fucile
I VOTI SONO MANCATI NELLE ZONE PIU’ POPOLARI, COMPRESE SHANGAI E OVOSODO
Dimenticate Livorno, Livorno è un’altra cosa.
Dopo quasi un secolo anche gli ultimi detriti del Pci finiscono per rotolare giù nel nulla e la città del teatro San Marco, del collegio di Umberto Terracini padre della Costituzione e delle vittorie per 70 anni decide di fare la rivoluzione.
Mentre l’Italia va da tutt’altra parte, il Pd gonfia le urne nel nord est e Renzi non ha rivali nel cuore degli elettori, Livorno si incazza, dà barta ar tavolino e spacca tutto.
E’ stato un referendum sul Pd: sì, no. Ha vinto il no.
“Livorno è una città di gente dura, poco sentimentale” scrisse una volta Pasolini. E’ rimasta attaccata, anzi aggrappata per decenni a quella falce e a quel martello, diventati quercia, diventati non si sa cosa. Poi basta.
Livorno si sveglia nel Duemila inoltrato, dove le cose sono un po’ più complicate e la rassicurazione per cui “ci pensa il partito” non vale più, non basta più a nessuno.
Ora ci sono altre regole, altre lingue da parlare. Renzi a giudicare dai risultati elettorali l’ha capito, almeno per ora, e ha stravinto. A Livorno lo hanno capito da oggi, ma è troppo tardi: il nuovo sindaco è Filippo Nogarin, Movimento Cinque Stelle.
Dice: vabbè, i Cinque Stelle hanno vinto per gli elettori di destra. Invece no. Marco Ruggeri, il candidato sindaco del Pd che ha provato in tutti i modi a convincere che la sua sarebbe stata una ventata di freschezza, è stato abbandonato dai suoi stessi elettori. Alle Europee il Partito democratico a Livorno ha preso 45mila voti, cioè quasi il 53%, al ballottaggio il candidato sindaco non ha raggiunto la soglia dei 32mila.
I numeri fotografano un sentimento. Quello dei portuali di banchine semi-depresse, degli operai della componentistica auto alle prese con vertenze lunghe anni, dei commercianti che non trovano fiato.
Il Pd di Livorno è stato abbandonato proprio nella sua fetta di città , nei rioni con i circoli Arci e le bandiere, le case popolari, le mutande stese sui chiostri.
Proletariato e piccola borghesia non hanno voluto più questi dirigenti, non si è fidata più, si è stufata.
Magari non hanno votato il nuovo sindaco Filippo Nogarin, ma di sicuro ha preferito gli scogli di Calafuria e il riso freddo nella borsa frigo, come se laggiù in città si tenesse un referendum sulla caccia.
Si sono registrate affluenze molto basse in numerosi seggi delle zone “rosse” della città . A Shangai, per dirne una, dov’era nato e quasi subito morto il mito del calciatore milionario con il pugno chiuso: erano solo pochi anni fa ed è diventata già un’immagine sbruciacchiata.
I grillini hanno fatto il pieno nel quartiere Ovosodo, il cui vero nome è Benci Centro e Benci è il nome della scuola elementare dove da più tempo e con più energia si fa un lavoro di integrazione tra bambini di diverse comunità , in una città che si sta facendo grande.
Il dna non basta più, Livorno taglia il cordone ombelicale
Prima ancora degli errori dell’amministrazione uscente — di cui oggi ovviamente non si trova un solo sostenitore — il Pd a Livorno è stato abbattuto dai clichè, dalla retorica su se stessi, dalla convinzione che basta il dna, basta quel 21 gennaio 1921.
Da quel riflesso dello specchio che raccontava ancora una volta quegli scontri di piazza con i parà della Folgore o l’interruzione del comizio di Almirante in piazza Magenta.
Oppure che il mondo reale, gli umori, le opinioni fossero davvero tutte racchiuse in una cucina della festa che non si chiama più neanche dell’Unità o in una riunione nella sede di partito. “Non abbiamo saputo ascoltare la città ” si battono il petto ora nei circoli democratici.
Non è stato più sufficiente ripetersi la storia della culla del Pci, perchè quella è storia e i livornesi ne vanno fieri, ma la politica è fatta di negozi che chiudono e di cassaintegrazione e tasse da pagare.
Livorno si è persa: non ha ritrovato più, come da anni sostiene il direttore del Vernacoliere Mario Cardinali, i tempi delle “battaglie civili, della solidarietà e dell’amore del prossimo, del non arrendersi mai, nello sforzo di cambiare e migliorare, dell’entusiasmo, della voglia di combattere — ripete oggi al Corriere della Sera — Operai, impiegati, donne, uomini e ragazzi scendevano in piazza per difendere i diritti della gente e c’erano sindaci che li accompagnavano, li guidavano, davano impulso alle idee, davano spazio ai giovani”.
Il Pd di Livorno che non voleva il cambiamento di Renzi
Livorno era stata l’unica città a essere graziata dalla bufera di Renzi. Qui hanno continuato a votare sempre la vecchia guardia.
Alle primarie in massa scelsero Bersani. Nel cappotto congressuale di dicembre si intestardirono e scelsero di nuovo Cuperlo. Con la differenza che Cuperlo era una faccia quasi nuova al “grande pubblico”.
Qui, invece, in un paesone di 160mila abitanti, si conoscono tutti: si fa presto a passare per il “vecchio”. E infatti Nogarin ora parla già da sindaco, galvanizza i suoi concittadini con un ritratto più che calzante per conquistare anche chi non l’ha votato nè al primo turno nè al ballottaggio: “Vi abbraccio idealmente tutti — scrive su facebook — Siete bellissimi come siete: rivoluzionari, anarchici, artisti, irriverenti, insofferenti, ribelli, generosi, reazionari, goderecci, incazzosi e sempre, sempre, sempre un passo avanti a tutti”.
La mancanza di risposte. Rossi: “Pd contro se stesso”
Ora Ruggeri dice: “Perdere Livorno non è uno scherzo e qui, guardate, i grillini non c’entrano: questa campagna elettorale è stata Pd contro Pd e tutti gli altri, coalizzati, hanno voluto dare una spallata a un sistema che era diventato insopportabile. Io voglio bene a questo partito, non avrei messo il culo alla finestra”.
Il Pd — che negli ultimi anni aveva sostenuto il sindaco Cosimi a corrente alternata — ha infatti candidato Ruggeri dopo aver ricevuto una sfilza di no da figure esterne al partito con le quali si tentava di spazzare via i brutti ricordi e supplire a una crisi di classe dirigente: un professore di biorobotica del Sant’Anna, l’ex ad del Tirreno, forse anche Concita De Gregorio
Figurarsi: la città aveva già deciso. Aveva già fatto capire tutto al primo turno, quando il candidato del partito democratico aveva racimolato solo il 40% dei consensi: Ruggeri nel secondo turno non ha neanche preso i suoi, di voti. Ne ha persi oltre 2mila in 15 giorni. Punizione su punizione.
La risposta è tutta lì: nella mancanza di risposte. “Alla base — scriveva su facebook il presidente della Regione Enrico Rossi – c’è una crisi economica e occupazionale più grave che altrove e una risposta inadeguata da parte della vecchia classe dirigente di sinistra. Poi la politica ha fatto il resto. Tutti contro il Pd locale diventato il responsabile di tutti i problemi. E anche il Pd diviso e contro se stesso. Punto e a capo. In Comune va un grillino”.
Il Pd era sicuro di riuscire a sfangarla anche questa volta. “Di poco ma vinciamo” era il sussurro più ricorrente, in un’operazione di training autogeno che però non è stata sufficiente.
Era passato il ministro Giuliano Poletti, era passato anche il sottosegretario (renziano) Luca Lotti: il tempo di dire quella cosa su Orsoni che non è del Pd. Ma non c’è stato verso.
Ruggeri ha provato per settimane a convincere i livornesi che la sua squadra non aveva niente a che vedere con la giunta uscente: aveva presentato perfino tre assessori che parevano in pectore (il leader dei Virginiana Miller, l’ex campionessa del volley Cacciatori e una preside) e che invece resteranno a fare i rispettivi mestieri.
La vittoria di Nogarin (e della sinistra e della destra)
La sordità alla richiesta di cambiamento è stata solo rimandata.
Dove la rottamazione non è riuscita al segretario nazionale, è riuscita ai Cinque Stelle: il segretario comunale Jari De Filicaia annuncia le dimissioni, Ruggeri (consigliere regionale) pensa di lasciare la politica. Il sindaco Nogarin, un ingegnere aerospaziale, ha più che raddoppiato i suoi voti tra il primo e il secondo turno, da 16mila a quasi 36mila. Improbabile che anche solo un decimo di questi elettori conosca qualcosa del programma dei Cinque Stelle: forse sanno della battaglia contro il rigassificatore, sulle discariche, sul nuovo ospedale e poco altro.
“Ma meglio lui dei soliti” è stato il ragionamento. Difficile incrociare con scienza esatta i flussi elettorali, ma tanta parte di quelle preferenze nuove è arrivata da quella che per prima ha azzoppato il Partito democratico, la coalizione che faceva capo a Buongiorno Livorno, una lista di “sinistra-sinistra” che sulla parola d’ordine del cambiamento radicale aveva conteso l’accesso al ballottaggio allo stesso M5s (2% il distacco al primo turno).
Buongiorno Livorno, nel suo piccolo, l’aveva capito: in lista aveva solo cittadini (tutti della società civile) che non avevano mai fatto politica.
Quasi 14mila voti che hanno contribuito a recidere Livorno che da radici evidentemente erano diventate catene.
Certo, la vittoria di Nogarin avrà d’ora in poi tanti padri e tante madri: dalla sinistra radicale dicono che non c’entra niente la destra, i grillini dicono che non gliene frega niente del colore dei voti, a destra festeggiano e quello gli basta.
“E’ il giorno più bello della mia vita” ha detto Marcella Amadio, storica esponente della destra livornese (candidata di Fratelli d’Italia) che proprio per la vittoria dei Cinque Stelle perderà il proprio seggio.
Per inciso la destra scompare dal consiglio comunale: ci sarà solo l’esponente di Forza Italia.
Il direttore del Vernacoliere: “Un successo con basi popolari e per il bene comune”
Rompere con il passato, cambiare, ribaltare, ripartire. I verbi che si usano sono gli stessi delle Politiche 2013, ma un anno dopo.
Cardinali ci crede: “Speriamo nei giovani, perchè abbiano l’entusiasmo di rompere gli schemi, gli interessi di una casta sclerotizzata che non ha più niente da dire alla città ”. Cardinali riconosce nel successo del M5s “una base popolare, che ha cultura dell’autocoscienza, di voler fare per il bene comune. E questo desiderio di partecipazione popolare sono convinto che non potrà che far bene a questa città . La crisi ha rotto il giocattolo per tutti e ha fatto capire che cosa era diventata questa sinistra. La crisi ha portato alla rottura dell’immobilismo”. La “peste rossa” almeno qui, almeno per ora è stata debellata. E’ stato ancora una volta un urlo liberatorio come quel “Vai a casa” gridato da un’auto che passa davanti al Comune all’indirizzo del sindaco uscente e capro espiatorio entrante Alessandro Cosimi.
Un urlo liberatorio, ma con la politica nazionale pare non entrarci niente.
E il vescovo è già “grillino”: “Si batta per il lavoro e saremo con il sindaco”
La “rivoluzione” è tutta livornese: la scatoletta di sardine, Schulz, Di Battista, Berlinguer, le stampanti 3D, il reddito di cittadinanza e il fiscal compact qui non c’entrano niente. Non è stato un vaffanculo. E’ stato un “te lo vai in culo, dè”.
E il vento soffia già tanto forte che all’indomani del trionfo è il vescovo di Livorno, Simone Giusti, a dare il primo sostegno al sindaco: “Lei che sa progettare strutture ultraleggere, alleggerisca la burocrazia che asfissia questa città ; Lei che sa ideare imbarcazioni veloci, faccia correre e volare lo sviluppo del nostro territorio e il lavoro, soprattutto per tante famiglie che non sanno come andare avanti; sia certo che se perseguirà questi obiettivi non le mancherà il nostro appoggio”.
Se la sfida anche qui è stata tra paura e speranza, i livornesi hanno dato la loro risposta.
Diego Pretini
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Giugno 9th, 2014 Riccardo Fucile
DALLA SALERNO-REGGIO AL PONTE SULLO STRETTO, TRA TEMPI INCERTI E COSTI ALTISSIMI
Che le cose non funzionino affatto come dovrebbero, lo sappiamo da mezzo secolo. Basta rileggere quello che disse in una intervista al Corriere negli anni Settanta Fedele Cova, uno dei progettisti dell’Autostrada del Sole.
«Il segno del cambiamento», ricordava, «si ebbe nel 1964. Prima mi avevano lasciato tranquillo, forse perchè non credevano nelle autostrade, forse perchè non si erano neppure accorti di quello che stava accadendo. Ma, nel ’64, con la fine dell’Autosole, cominciarono gli appetiti, le interferenze…».
Fu lì che si perse l’innocenza del dopoguerra. E che le opere pubbliche cominciarono a diventare la greppia per politici e affaristi.
Più che la loro utilità , interessavano i soldi che potevano far girare. Oppure il ritorno in termini di consenso politico.
Memorabile la vicenda del tracciato dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, i cui lavori iniziarono nel 1963, che con scarso rispetto della logica fu fatto inerpicare nel collegio elettorale del ministro dei Lavori pubblici, il socialista Giacomo Mancini.
Se si vuole trovare una spiegazione alla nostra cronica incapacità di costruire opere pubbliche in tempi umani e a costi civili, non si può che partire da qui.
L’Autostrada del Sole venne realizzata in poco più di otto anni, al ritmo di 94 chilometri l’anno con un costo medio, in euro attuali, di 4 milioni al chilometro.
Per la Salerno-Reggio Calabria, poco più che una semplice statale lunga 443 chilometri invece dei 794 dell’Autosole, di anni ne servirono 11, e il costo a chilometro era già salito a 5,5 milioni.
L’attuale rifacimento della stessa autostrada, iniziato nel 1997, potrà forse dirsi completato in vent’anni, a un costo chilometrico esattamente valutabile soltanto alla fine: ma certo non molto distante da un quintuplo di quello di quando l’arteria fu costruita.
Per non parlare della famosa variante di valico, il nuovo tratto appenninico dell’Autosole, del quale si parla da vent’anni e non è ancora percorribile.
Passando dalle strade alle ferrovie, la musica non cambia.
Un recente studio di Intesa Sanpaolo ha appurato che il costo medio di un chilometro di alta velocità made in Italy è triplo rispetto alla Spagna, alla Francia e al Giappone. Vari sono i motivi: non ultimo le compensazioni che vengono imposte dai Comuni attraversati dai binari.
Ma oltre al costo economico c’è da mettere nel conto anche la perdita di tempo: per realizzare l’alta velocità ferroviaria in Italia c’è voluto un ventennio.
Fatto sta che nel 2012 avevamo 876 chilometri di linee veloci, contro 2.125 della Francia e 3.230 della Spagna: e pensare che la prima tratta europea per i supertreni, la direttissima Roma-Firenze, era stata costruita proprio in Italia, all’inizio degli anni Settanta.
Tempi lungi, costi assurdi, procedure complicatissime che sembrano ideate apposta per favorire i ritardi e le spese faraoniche, ma anche la corruzione.
E una profondissima ipocrisia: regole minuziose e controlli accurati sulla carta, assenza di regole e assenza di controlli nella realtà .
Come sta a dimostrare proprio il caso del Mose. Dove per giunta gli incarichi di collaudo venivano assegnati, oltre che a manager come il presidente dell’Anas Pietro Ciucci e ad altri suoi colleghi esperti in strade, addirittura a persone prive di laurea come il geometra Gualtiero Cesarali
Non c’è opera pubblica la cui vicenda non sia scandita da varianti infinite, ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, arbitrati nei quali lo Stato finisce inevitabilmente per soccombere.
Senza che le uniche due necessarie certezze siamo mai certe: il tempo e il prezzo.
Il risultato è che mentre continuiamo a divorare il nostro meraviglioso paesaggio con brutta e inutile edilizia abitativa, non facciamo le opere pubbliche necessarie. E anche questo è un costo. Enorme.
Chi si è preso la briga di calcolare i costi del «non fare» ha stimato che la mancata costruzione di ferrovie e autostrade che hanno fatto scivolare l’Italia in fondo alla classifica dei Paesi europei per dotazione infrastrutturale ci abbia causato una perdita di 278 miliardi di euro.
A cui va aggiunta, ovviamente, la fattura delle opere pubbliche mai completate: record, anche questo, tutto italiano.
Ne sono state censite 395, con una punta di 150 nella sola Sicilia
Numeri e circostanze che alla vigilia del 2015, e con gli scandali delle tangenti dell’Expo e del Mose, ci mettono ancora di più di fronte a un interrogativo cruciale: l’Italia è in grado di realizzare opere pubbliche importanti?
È una domanda a cui dobbiamo dare una risposta, se vogliamo considerarci a pieno titolo un Paese sviluppato che fa parte dell’Unione Europea.
Ma qui, purtroppo, gli esempi lasciano poche speranze. Il ponte sullo Stretto di Messina, per esempio.
Un’infrastruttura controversa, sulla quale le opinioni nel Paese erano assolutamente discordi. Che però ha offerto al mondo uno spettacolo inverosimile.
Messa nel 2001 dal governo di Silvio Berlusconi in cima alla lista delle opere strategiche, cancellata con un colpo di spugna nel 2006 dal governo di Romano Prodi, riesumata nuovamente da Berlusconi nel 2008 e affossata dallo stesso governo del Cavaliere nel 2011.
Per essere poi definitivamente sepolta con uno stratagemma ideato dall’abbinata fra politica e burocrazia quando a Palazzo Chigi è arrivato Mario Monti.
Il tutto dopo aver fatto una gara internazionale e aver firmato otto anni fa un contratto miliardario con imprese italiane e internazionali.
Uno scherzetto già costato ai contribuenti 350 milioni fra progetto e mantenimento in vita della società Stretto di Messina. E con le penali il conto potrebbe arrivare anche a un miliardo: senza che ci resti un solo mattone.
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera“)
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Giugno 9th, 2014 Riccardo Fucile
FORMAZIONE DELLA VOLONTA’ COLLETTIVA, PASSAGGIO DA MOVIMENTO A ISTITUZIONE, SUPERAMENTO DELLA DIMENSIONE CARISMATICA, IL “NE’ DESTRA NE’ SINISTRA”, “FORZA DI OPPOSIZIONE E DI GOVERNO”
La parabola del Movimento 5 Stelle è legata a un insieme di questioni che non riguardano solo questa forza politica, ma più in generale la politica contemporanea.
Le difficoltà attuali del M5S derivano dalla mancata risoluzione di cinque nodi strutturali.
Il primo interessa la formazione della volontà collettiva, cioè la capacità di assumere decisioni conciliando orientamenti diversi.
Il Movimento ha veicolato un’«ideologia partecipazionista», basata sull’idea che la crisi della rappresentanza sia superabile annullando ogni mediazione politica e sociale.
Il modello organizzativo sperimentato finora consiste nel tentativo di superare le tensioni presenti in ogni processo decisionale con l’eliminazione dei luoghi di discussione e decisione collettiva.
Questa eliminazione è stata parzialmente compensata dalla costante chiamata degli attivisti a partecipare a sondaggi e votazioni online su questioni non strategiche per il M5S. Non può funzionare.
Ciò che è escluso da una parte ritorna, più forte e complesso, dall’altra.
Il Movimento è attraversato da continue tensioni tra la sua dimensione decisionistico-aziendalista, gli eletti e i gruppi locali.
Grillo e Casaleggio attribuiscono queste tensioni a nemici sempre più diffusi e pervasivi (la stampa, gli infiltrati, i troll, ecc.). La mancata tematizzazione delle difficoltà oggettive legate alla decisione collettiva conduce sempre, necessariamente, al verticismo (e alla ricerca paranoica del nemico)
Il secondo problema riguarda il passaggio da movimento a istituzione.
Questa era la scommessa di questi mesi. Il M5S non ha saputo gestire la sua istituzionalizzazione. L’ha negata, simulando di essere «movimento» mentre si trasformava in partito.
Ha assegnato ai parlamentari una funzione meramente comunicativa, di «disvelatori» dei misfatti della casta e di veicolo del messaggio del Movimento.
Non ha permesso che svolgessero una funzione pienamente politica. Così, attualmente, il M5S non è nè un partito nè un movimento.
Il suo messaggio utopistico — i comuni cittadini si possono trasformare naturalmente e immediatamente in politici capaci — appare, dopo un anno di attività parlamentare, incrinato.
Il terzo problema è il mancato superamento della dimensione carismatica e di quella «eccezionalistica», cioè l’apparire come novità radicalmente estranea all’esistente.
Il carisma mediatico può inizialmente svolgere la funzione di facilitare l’unificazione di una galassia di soggetti privi di legami e di comunicare all’esterno un’immagine univoca, ma è in larga parte antitetico allo sviluppo e al radicamento sociale di una forza politica. Il M5S non riesce ad uscirne: da un lato, il suo consenso sarà sempre legato al nome del suo fondatore; dall’altro, Grillo ha una capacità di attrazione del consenso piuttosto limitata (è considerato inadatto al governo anche da una parte dei suoi elettori) e ostacola il pluralismo interno.
L’effetto novità , inoltre, si consuma velocemente.
Quarta questione: il «nè destra nè sinistra».
La politica non esiste senza distinzioni, divisioni e contrapposizioni. Non è possibile sostenere opzioni valoriali alternative tra loro, nè la società è composta da indistinti «cittadini».
Le ideologie, inoltre, non sono finite. Sono in crisi le ideologie di sinistra, e questa crisi è dovuta principalmente a due sconfitte storiche: quella del comunismo e quella del movimento dei lavoratori.
Le ideologie di destra (liberismo, razzismo, nazionalismo, autoritarismo), al contrario, stanno benissimo. Come tutte le ideologie, tendono a presentarsi come discorso anti-ideologico, come descrizione oggettiva e realistica della realtà .
Se non si sceglie uno specifico campo di appartenenza valoriale, nel tempo si inclina fatalmente verso le ideologie dominanti, proprio perchè sono dotate di maggior forza e rispecchiano i rapporti di forza tra i gruppi sociali.
È ciò che sta accadendo al M5S, come dimostra il suo avvicinamento alla destra liberista e nazionalista dell’Ukip.
Quinta contraddizione. È molto difficile riuscire a presentarsi al contempo come forza di opposizione anti-sistemica e come forza di governo.
La conciliazione tra questi due poli può avvenire solo se una classe dirigente autorevole ha già dimostrato di avere capacità di governo (per esempio a livello locale), se ha e se ha diffuso efficacemente un programma politico che appaia capace di affrontare i principali problemi di un paese, se ha stretto alleanze strategiche con soggetti sociali centrali.
Il M5S non ha finora costruito queste tre condizioni. Infine, il sistema politico a cui la «forza antisistema» si oppone deve aver completamente esaurito la sue capacità di ottenere consenso.
Questa condizione è stata momentaneamente aggirata dall’effetto-Renzi.
Queste cinque contraddizioni non riguardano solo il M5S.
Riguardano, in forme diverse, tutte le principali forze politiche attuali. In particolare, il Pd di Renzi.
Quest’ultimo si autorappresenta come antitesi alle forme consolidate della mediazione politica e sociale, ma deve costantemente mediare le proprie politiche con l’Ue e con gli attori economici che lo sostengono.
Ha inizialmente agito come una sorta di «movimento» di opposizione al ceto politico, ma è diventato istituzione e governo.
Si descrive come forza post-ideologica che supera la distinzione destra-sinistra, ma utilizza retoriche fortemente ideologizzate (competizione, decisionismo, ecc.).
La sua ascesa è interamente basata sul carisma mediatico, sulla novità e sull’eccezionalità .
Le stesse contraddizioni del M5S potrebbero quindi nel tempo riguardare anche Renzi.
Il consenso al suo partito e al suo governo si basano su tre pilastri: il sostegno delle èlite economiche; il sostegno dei media; la capacità di valorizzare i diffusi sentimenti antipolitici e la richiesta di rinnovamento.
Questi diversi elementi possono risultare difficili da conciliare.
La complessità e i tempi della politica potrebbero minare una delle fonti più importanti dell’effetto-Renzi, la serie novità -velocità -rinnovamento.
In secondo luogo, le politiche economiche necessarie ad avere il consenso dei ceti medio-bassi non sono compatibili con i vincoli europei e con gli interessi delle èlite economiche. Se, però, non saranno almeno parzialmente realizzate, crescerà il divario tra le speranze suscitate e l’azione di governo.
La durata della leadership renziana dipende anche da come riusciranno a organizzarsi i suoi avversari.
Il M5S potrebbe avere ancora un notevole spazio politico. Ma dovrebbe affrontare i cinque nodi di cui si è detto.
La reazione «fondamentalistica» alla sconfitta elettorale, invece, sembra condurlo nella direzione opposta.
Anche per questo, potrebbe crescere lo spazio della sinistra, soprattutto se sarà capace di darsi un profilo riconoscibile e di non generare sfiducia, in chi le ha appena consentito di raggiungere il 4%, sulla sua capacità di sostenere progetti di lungo periodo.
Loris Caruso
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Giugno 9th, 2014 Riccardo Fucile
“LE ACCUSE DI SEL FALSE E INGIUSTE, I CANDIDATI SONO DELLA LISTA TSIPRAS NON DI QUESTO O QUEL PARTITO”
Ormai ha deciso di andare in Europa ed è il momento, per Barbara Spinelli, di ragionare pacatamente su quel che è successo, su quell’incendio divampato dentro l’Assemblea dei Comitati territoriali della Lista Tsipras, sulle accuse di «unilateralismo» che ha ricevuto per la decisione di accettare, su pressione dello stesso Tsipras, il ruolo di europarlamentare, sulla rabbia di Sel che perde il suo “ambasciatore” a Strasburgo.
Ore difficili per chi non è abituato alla durezza dello scontro politico.
Ma Spinelli spera che la tormenta passi: «Vado in Europa in rappresentanza di tutti e spero di essere all’altezza. Se Sel pensa di aver perso quello che ritiene essere il “suo” candidato (Marco Furfaro, collegio Centro, ndr) è segno che c’è ancora strada da fare, che la Lista Tsipras deve perfezionarsi. Il candidato arrivato dopo di me al Centro, collegio che ho scelto perchè sono di Roma, non era candidato di Sel, ma della Lista; tale dovrebbe essere considerato dal suo partito».
Barbara Spinelli, partenza tormentata.
«Sì, tormentata. Inizialmente non intendevo andare in Europa, ma sono rimasta sorpresa dal numero di preferenze che ho preso e dalle forti spinte ad accettare il mandato».
Con che spirito affronta il suo primo incarico istituzionale?
«Con una grande speranza e la volontà di contribuire al cambiamento radicale dell’Europa, delle sue politiche. Urge un forte segno di discontinuità ».
I due partiti che hanno appoggiato la Lista, Sel e Rifondazione, sembrano in difficoltà . L’affermazione di Tsipras li fa diventare di colpo vecchi contenitori?
«Questo era – ed è ancora – il progetto: costruire un’aggregazione di sinistra più ampia, che includa le espressioni della società civile e i partiti che si riconoscono nel progetto. Certo non è un obiettivo che si realizzi subito, produce scossoni, tormenti».
Sel, orfana del suo candidato, ha avuto un rigurgito identitario.
«Perchè lo considera il “suo” candidato e non della Lista. Sel sta vivendo una profonda crisi. Non sa decidersi tra Tsipras e Schulz ma questo è un problema di Sel. Gli assestamenti, dolorosi, sono fisiologici. Ci vogliono saggezza e comprensione reciproca».
Il risentimento nei suoi confronti in queste ore è forte.
«Mi si accusa di essermi chiusa in una torre d’avorio, a Parigi, di aver deciso da sola. Di aver scelto fra Centro e Sud trattando i candidati arrivati dopo di me “come carne da macello”, così scrive Furfaro. È falso e ingiusto. Tra il voto e la decisione finale non c’è stato il vuoto ma un pieno: di contatti, di negoziati dei garanti con i partiti che esprimevano le candidature. Fallite le trattative, qualcuno doveva pur decidere. Su invito dei garanti l’ho fatto io».
Tsipras la vuole vicepresidente del Parlamento Europeo. Il cognome Spinelli è un valore aggiunto anche nei rapporti con il Pse. I suoi rapporti con Schulz?
«Non ho rapporti personali. La mia linea non è ostile al gruppo socialista ma alternativa alle politiche da esso fin qui sottoscritte. Se i socialisti smettono di inseguire le larghe intese, responsabili dell’austerità , se marcano una discontinuità , il dialogo sarà interessante ».
Altri dialoghi interessanti in Europa?
«Con i Verdi».
Lei ha sempre detto che c’erano dei punti di contatto anche tra la Lista Tsipras e 5Stelle. Adesso corteggiano Farage.
«Farrage è nazionalista, xenofobo, nuclearista. Cose lontane anni luce dai sette punti di Grillo sull’Europa. Vedremo se i suoi deputati accetteranno il diktat. I sette punti sono ancora là ».
Non la spaventa questo nuovo lavoro?
«Si, provo spavento e spero soprattutto di essere all’altezza. Il passaggio dall’osservazione all’azione non è poca cosa. Ma continuerò a scrivere».
La politica è un mestiere duro
«Anche la scrittura a volte lo è».
C’è un vento populista in Europa che fa paura.
«Più che impaurente lo trovo uno stimolo, per i veri europeisti. Inquietante è che vengano definiti populisti, in blocco, tutti gli elettori che rifiutano le attuali politiche europee. Non si può pensare che esistano da una parte i filo-europei, peraltro responsabili della crisi, e dall’altra una massa di antieuropeisti. L’Europa nasce solo se c’è un agorà con spazio per conflitti e alternative. L’Europa solidale e federale che immagino non la fanno solo i governi. Nasce dalla base e dovrà avere una Costituzione il cui incipit sia: “Noi, cittadini d’Europa” ».
I primi tre punti dell’agenda Spinelli?
«Appoggio a un New Deal per l’occupazione; lotta contro l’intollerabile segretezza delle trattative di partenariato commerciale tra Usa ed Europa; conferenza sul debito che preveda condoni per i Paesi in difficoltà ».
Andando in Europa sente il peso di chiamarsi Spinelli, figlia di Altiero?
«Mio padre scrisse il Manifesto di Ventotene dentro una guerra che divideva l’Europa. La crisi di oggi è una specie di guerra, anche se non armata. E come allora, serve una “rivoluzione europeista”».
Alessandra Longo
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Giugno 9th, 2014 Riccardo Fucile
RIPARTE LO SCONTRO INTERNO DOPO I RISULTATI DELLE AMMINISTRATIVE
Seempre più teso il clima dentro Forza Italia dopo i risultati dei ballottaggi delle elezioni amministrative.
La sconfitta di Alessandro Cattaneo a Pavia, uomo che Berlusconi avrebbe voluto come reclutatore di volti nuovi per i forzisti, è destinata a creare nuovi malumori in seno al partito.
Le vittorie a Padova, Perugia e Potenza, dove però in due casi su tre i candidati non sono di Forza Italia, non sembrano placare il duello interno, che vede ancora in prima linea Raffaele Fitto e Mara Carfagna.
L’ex ministro della Pari opportunità non usa giri di parole: “E’ necessario affrontare, con coraggio, un percorso di rifondazione del nostro partito che sia in grado di dare nuova linfa al nostro rapporto con i cittadini. Questo non è il momento di difendere il potere, ma il momento di ricordarsi che in una democrazia rappresentativa questo potere ci è concesso dal popolo. E va utilizzato per il popolo” afferma Mara Carfagna nell’ultimo editoriale di Thinknews, il quotidiano online che dirige.
Sulla stessa linea della Carfagna interviene Raffaele Fitto, recordman di preferenze alle europee.
In un tweet Fitto annuncia la cancellazione di una sua manifestazione a Napoli prevista per il 13 giugno, dopo che il coordinatore regionale Domenico De Siano aveva fissato un appuntamento per lo stesso giorno, sempre nella città partenopea, con la presenza di Giovanni Toti.
“Lavoro per unire”, spiega Fitto, che sul suo blog afferma di aver appreso dai giornali della manifestazione convocata da De Siano. “Devo dire che ci vuole una certa fantasia, da parte del gruppo dirigente campano e non solo, per organizzare a Napoli una manifestazione post-europee, omettendo di invitare il capolista nonchè il candidato più votato” aggiunge Fitto, che, per evitare “di alimentare una gara sterile di bandiere e presenze”, annuncia la cancellazione della sua manifestazione.
L’intervento di Fitto, subito ritwittato da Mara Carfagna, è destinato ad alimentare nuove polemiche in Forza Italia, dove in mattinata anche Renata Polverini, altra esponente critica verso la dirigenza azzurra, ad Ominibus su La7, è tornata sul dibattito interno: “Si deve provare ad animare la democrazia anche in Forza Italia” ha spiegato l’ex presidente della regione Lazio
Il ballottaggio alle amministrative è anche lo spunto per una riflessione del consigliere politico di Forza Italia Giovanni Toti, che non nasconde la delusione per il risultato dei ballottaggi al nord, molto negativo per il centrodestra.
“Per Forza Italia esiste una questione settentrionale, bisogna intervenire sullo sviluppo e sulla questione morale che hanno inciso profondamente” ha affermato Toti presente all’assemblea generale di Assolombarda.
Secondo Toti sul voto “hanno inciso gli scandali di Expo e Mose che non hanno coinvolto solo noi”.
“L’elettorato”, ha sottolineato, “ci ha dato un segnale chiaro e non è andato a votare: dobbiamo correre ai ripari e correre rapidamente”.
Secondo Michaela Biancofiore i problemi di Forza Italia si risolvono ripartendo da Berlusconi: “Ripartiamo da lui e da questa certezza per ridisegnare linea politica, fare emergere energie fresche e nuove dai territori, riconquistare quel consenso che non è passato ad altri ma è rimasto a casa in attesa del rilancio della nostra rivoluzione liberale”.
Il futuro del centrodestra è stato l’oggetto di un intervento del governatore leghista della Lombardia Roberto Maroni: “Bisogna convincere i nostri ad andare a votare e la sfida è di rinnovare il centrodestra”.
Maroni non esclude la necessità di un cambiamento della leadership della coalizione, ma specifica: “Prima bisogna far capire che siamo rinnovati”
(da “La Repubblica“)
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Giugno 9th, 2014 Riccardo Fucile
I TRE NOMI IN CODICE; BIANCO, NERO-BIANCO E NERO… E TRA I BENEFICIATI SPUNTANO ALTRI DUE DEPUTATI PD
«Tanto finanziavamo ufficialmente, tanto finanziavamo in nero» dichiara Baita, il primo degli amministratori della Mantovani finito in carcere per lo scandalo Mose.
Ma il manuale cromatico dell’imperfetto tangentista prevedeva anche le sfumature.
«Talvolta il bianco e il nero insieme». Tradotto: denaro proveniente da fatture gonfiate e fondi neri, ma che veniva regolarmente registrato dai comitati elettorali
C’è anche questo nelle 700 e passa pagine dell’ordinanza di custodia cautelare del gip Alberto Scaramuzza, che ha spedito in carcere la cupola veneziana.
La spiegazione, passaggio dopo passaggio, di come il Consorzio di Mazzacurati decideva di finanziare i politici ritenuti «amici», o anche solo «utili».
Chi, quanto e in quale modalità .
E c’è pure una lista dei presunti beneficiari, nella quale oltre ai nomi già noti del sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, dell’europarlamentare di Forza Italia Lia Sartori e dell’ex vicepresidente del consiglio regionale Giampietro Marchese, si aggiungono quelli di due deputati veneti del Partito democratico, Delia Murer e Andrea Martella, rieletti alle politiche del 2013.
Anche loro avrebbero avuto finanziamenti per sostenere la campagna elettorale dalle ditte che lavoravano al Mose, ma «in bianco», specificano i pm che seguono l’indagine. Dunque leciti e registrati.
Accettati però quando già il Consorzio Venezia Nuova era “chiacchierato”, portato sotto i riflettori dall’arresto di Baita nel febbraio di un anno fa, proprio nei giorni del voto.
Per Orsoni, Marchese e la Sartori la cupola aveva deciso invece di attivare i doppi binari, il “nero” e il “nero-bianco”.
«Gli ho portato a casa sua, personalmente, 400-500mila euro», ha raccontato Mazzacurati ai pm. Denaro liquido di cui, secondo il gip, il sindaco di Venezia «conosceva la provenienza illecita».
Erano il risultato di fatture gonfiate col metodo del “Fondo Neri”, che, per ironia del destino, è il cognome del funzionario del Consorzio ideatore del sistema tangentizio.
Addetto alla “raccolta” dalle aziende consorziate che stavano nella partita era il “compagno Pio”, Pio Salvioli, l’uomo che «durante i suoi giri» prendeva denaro dalle coop rosse per girarlo a politici del Pdl (Renato Chisso, l’assessore regionale veneto, riceverà così 150 mila euro).
Ma le somme in uscita dai bilanci delle ditte dovevano essere comunque giustificate.
Come? Ci pensava Luciano Neri. Produceva fatture taroccate per prestazioni tecniche fittizie o anticipi sulle riserve sovradimensionate. Contratti e istanze «predisposte da Neri, depositario della contabilità », scrive il gip. Sulle fatture false, quindi le aziende pagavano un surplus di tasse. «Mettiamola così, maresciallo – mette a verbale Savioli – il nero ha un suo costo, ecco».
Il sindaco di Venezia ai domiciliari, nella sua dichiarazione spontanea durante l’interrogatorio di garanzia, ha respinto ogni accusa. «Mai preso un euro in nero da Mazzacurati, gli unici sono i 150mila rendicontati dal mio commercialista che seguiva il comitato elettorale».
Arrivati però sul binario “nero-bianco”, cioè alzati con sovrafatturazioni e poi rendicontati
Ritorniamo alla ricostruzione di Baita così come la consegna lui stesso ai pubblici ministeri nell’interrogatorio del 17 settembre: «Il Consorzio non voleva assolutamente che i soci finanziassero direttamente in nero dei politici che avrebbero potuto rappresentare degli interessi collaterali ». Dunque non era ammessa, nella cupola del Mose, alcuna iniziativa autonoma. La scelta su chi far piovere denaro «veniva presa durante le riunioni del consiglio direttivo».
Tutti insieme, senza lasciare traccia nei verbali delle riunioni.
È Mazzacurati, il “capo supremo” che stabilisce come ripartire i fondi, «limitandosi poi a rassicurare i consorziati, a decisione avvenuta e contributo consegnato, che il loro politico di riferimento (rappresentanti del Pdl nel caso della Mantovani e Fincost, rappresentanti del Pd per le coop Condotte e Co. Ve. Co.) è stato adeguatamente remunerato ».
Anche per Marchese, il candidato Pd alle regionali del Veneto del 2010, i soldi transitarono sui binari “nero”, e il “nerobianco”.
Gli vengono versati 58 mila euro, «somma iscritta regolarmente in bilancio come finanziamento elettorale», ma risultato del solito giro di fatture false dell’ingegner Neri.
Il quale, per l’occasione, crea un contratto ad hoc con la Selc, a cui il Consorzio ha affidato uno studio per la salvaguardia di Venezia e della Laguna.
L’operazione è inesistente, ma quei 54 mila finiscono al comitato di Marchese.
Non solo, però. Sostiene Mazzacurati: «A lui abbiamo dato in contati anche circa mezzo milione di euro in otto anni». Il cosiddetto binario “nero”.
Fabio Tonacci e Francesco Viviano
(da “La Repubblica“)
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Giugno 9th, 2014 Riccardo Fucile
BAITA: “IL PATRIARCATO FECE UNA SCELTA DI CAMPO E ANCHE NOI DECIDEMMO DI SCARICARE BRUNETTA”
I 450mila euro che il supremo tessitore Giovanni Mazzacurati sostiene di aver dato al sindaco (in uscita) di Venezia, Giorgio Orsoni, avrebbero alimentato il voto cattolico alla vigilia delle elezioni amministrative del 2010.
Gli investigatori stanno trovando le prime conferme a questa pista giudiziaria. Orsoni, agli arresti domiciliari nella sua casa veneziana “alla fermata del vaporetto di San Silvestro”, nega di aver ricevuto i 450 mila euro in nero, ammette solo i finanziamenti registrati (110 mila).
Alle parole dell’accusatore Mazzacurati si sono aggiunte nel tempo, però, due conferme: la testimonianza a verbale di Piergiorgio Baita, già amministratore della Mantovani spa, capofila del Conzorzio Venezia Nuova guidato proprio da Mazzacurati, e quella di Federico Sutto, uno dei due cassieri del consorzio.
La finanza, che ha certificato undici incontri tra Orsoni e l’ingegner Mazzacurati, di cui otto a casa del sindaco con passaggi di denaro in tre-quattro occasioni, ora sta verificando la consistenza del filone “finanziamenti Mose girati alla chiesa cattolica veneziana”
L’ipotesi, abbiamo visto, è che all’inizio del 2010 l’avvocato Orsoni avesse bisogno di denaro per condurre la sua campagna elettorale in salita: era sfavorito di fronte all’avversario pdl, il ministro Renato Brunetta.
In alcune intercettazioni si ascolta Orsoni chiedere ai sostenitori potenti di far presto, vuole più soldi di quelli che – centomila euro –gli vengono prospettati.
È stato lo stesso Baita, in altre occasioni, a raccontare come i dirigenti del Consorzio per costruire il Mose fossero inizialmente orientati sul candidato più affine, Brunetta appunto. «Quando abbiamo saputo che il Patriarcato aveva fatto una scelta di campo, quella di Orsoni, abbiamo cambiato linea ».
Il contante girato da Mazzacurati al sindaco aveva ottenuto il suo effetto spostando “voti cattolici” verso il centrosinistra
Nelle carte di procura c’è un altro passaggio che lega il Consorzio Venezia Nuova alla curia locale ed è il sequestro degli appunti dei pagamenti realizzati fino all’11 ottobre 2001 dal Consorzio veneto cooperativo (socio, appunto, del grande Cnv).
Quelle consegne in contante erano state segnate su un foglio poi nascosto nell’abitazione dei genitori di una dipendente del Coveco.
La lista sequestrata segnalava, tra molti politici locali, anche la Fondazione Marcianum. Centomila euro, per loro: “quota annuale”.
La fondazione è un polo pedagogico e accademico fortemente voluto e quindi fondato nel 2004 a Venezia, sestiere Dorsoduro, dall’allora patriarca Angelo Scola, oggi arcivescovo di Milano. Istituto di studi religiosi, liceo classico, facoltà San Pio X, biblioteca.
Una struttura costosa, la fondazione. Che da sempre ha stretti rapporti con le istituzioni del territorio.
Tra i quattro soci fondatori del polo cattolico c’è, non a caso, il Consorzio Venezia Nuova che, per missione, non ha quella di tirare su biblioteche cattoliche.
Presidente del Marcianum viene nominato Giovanni Mazzacurati, lo stratega del Mose che sarà arrestato nel luglio 2013.
Nel consiglio della fondazione entrano Romeo Chiarotto, il padrone della Mantovani Spa, e lo stesso sindaco Orsoni, cattolico di sinistra i cui rapporti con Scola sono tenuti dal capo di gabinetto Marco Agostini.
Sostenitore della fondazione tra i primi, si fa avanti la Regione Veneto. Il suo presidente, Giancarlo Galan, nel 2004 dirotta 50 milioni alla curia di Venezia prelevandoli dai fondi della legge speciale: servono a ristrutturare il seminario patriarcale alla Salute (foresteria per 70 persone, sale multimediali), il palazzo patriarcale, restaurare la basilica della Salute (accanto al Marcianum). Nella comunità diocesana e in città quel finanziamento fa discutere.
Lo scorso 19 luglio, subito dopo l’arresto di Mazzacurati, il nucleo tributario è andato alla sede della Fondazione Marcianum e ha sequestrato i documenti che certificavano i finanziamenti del Consorzio Venezia Nuova all’ente ecclesiale e i finanziamenti (tra i 10 e i 50 mila euro a testa) di molte società del Cvn: Mantovani, Coedmar, Lmd, la Hmr dell’attuale neodirettore Hermes Redi.
«Un’azione normale», là definì l’amministratore Marco Agostini, l’uomo di Scola, l’uomo di Orsoni. Era solo l’inizio della caccia ai fondi neri elettorali.
Corrado Zunino
(da “La Repubblica“)
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Giugno 9th, 2014 Riccardo Fucile
LA GIORNALISTA TV SI PRESENTA COSI’ AI FESTEGGIAMENTI DEL MARITO NEOSINDACO
“Per me è una grande novità : non so come sarà . È una grande emozione per quello che è successo e sono molto felice per lui. Adesso la nostra vita cambierà sicuramente”.
Sono queste le prime parole pronunciate dalla nuova first lady di Bergamo, la giornalista e conduttrice tv Cristina Parodi, moglie del neosindaco Giorgio Gori, giunta in municipio in nottata per festeggiare il marito assieme a centinaia di supporter.
Un ruolo che la Parodi ha preso subito sul serio.
Durante i festeggiamenti per l’elezione del marito, infatti, la gironalista ha sfoggiato lo stesso vestito che Michelle Obama ha indossato per la vittoria di Barack, al suo secondo mandato.
Ma non è tutto.
Anche negli atteggiamenti e nelle espressioni, Cristina imita la sua “collega” d’oltreoceano: solo coincidenze?
Fatto sta che la somiglianza non è sfuggita al blog “Non leggerlo” e a tutti gli utenti che hanno cominciato a commentare il combo fra le due.
Jorge posta addirittura il link dove poter acquistare l’abito: “Per vestirsi da Cristina Parodi basta andare su Asos. Non costa nemmeno tanto”, commenta.
(da “Huffingtonpost“)
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Giugno 9th, 2014 Riccardo Fucile
RENATO NATALE, IMPEGNATO NELL’ASSOCIAZIONE LIBERA, ERA SNDACO VENTI ANNA FA QUANDO FU UCCISO PEPPINO DIANA
Renato Franco Natale torna a guidare il comune di Casal di Principe all’insegna della lotta alla camorra a 20 anni dalla morte di don Peppino Diana.
Da anni impegnato contro la criminalità organizzata, con il sostegno di alcune liste civiche, ha ottenuto al ballottaggio il 68% delle preferenze. Sconfitta la coalizione di Enricomaria Natale fermo al 32%.
Il neo sindaco è componente di Libera, l’associazione impegnata nel recupero dei beni confiscati alle mafie.
Fu eletto sindaco già nel 1993, ma la sua amministrazione fu interrotta bruscamente poco dopo l’uccisione nel marzo del 1994 di don Peppino Diana, il religioso che aveva sfidato apertamente la camorra e che fu ammazzato con cinque colpi di pistola nella sacrestia della Chiesa prima della celebrazione della messa. Aveva 36 anni.
Il ricordo di don Peppino è centrale nella denuncia di Roberto Saviano, prima in Gomorra e poi in diversi interventi dello scrittore, tesi a difendere la memoria di don Peppino che la camorra aveva cercato di infangare.a casal
Stanotte a Casal di Pruncipe fuochi artificiali e caroselli di auto con il neo sindaco che ai microfoni lancia la sua sfida: “Camorristi da oggi andate affanculo”.
(da “la Repubblica“)
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