Giugno 27th, 2014 Riccardo Fucile
NOMINATO JUNKER CON L’OK ITALIANO… MA LE RIFORME TROVANO OSTACOLI ANCHE NEL PD
L’Agenda Strategica che segnerà il cammino dell’Unione Europea per i prossimi 5 anni ufficialmente soddisfa il governo italiano. Ma Matteo Renzi torna a casa dal Consiglio Europeo senza aver ottenuto riferimenti espliciti alla possibilità di escludere dal patto di stabilità due questioni cruciali: il cofinanziamento nazionale dei fondi Ue e il pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione.
Sono due voci di spesa che pesano moltissimo sul bilancio pubblico.
Per ottenere margini di manovra su questi due punti, l’Italia dovrà dimostrare di saperci fare su un campo altrettanto cruciale: le riforme.
E’ per questo che a Bruxelles il premier decide la linea dura con la minoranza del Pd che frena il cammino delle riforme costituzionali in Parlamento.
Ne va della credibilità del suo governo all’estero, specialmente nei confronti di Angela Merkel, che ancora una volta si conferma decisiva nei rapporti di forza dell’Ue.
Merkel
Di fatto, con la Merkel, che vede anche in mattinata prima del Consiglio Ue, Renzi non la spunta sui due punti chiave che lui stesso indica in conferenza stampa da Bruxelles.
“Sui pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione — dice il premier — la procedura Ue è giusta perchè bisogna pagare entro 30 giorni. Contemporaneamente però l’Italia fa una riforma strutturale per pagare e recuperare anche l’evasione: dall’8 giugno tutte le amministrazioni centrali hanno il dovere di lavorare sulla fatturazione elettronica. Però nel mezzo di vuole una soluzione tampone…”.
Il ragionamento è lo stesso sul cofinanziamento nazionale dei fondi Ue, cui gli Stati sono obbligati a contribuire. Renzi non mette in discussione la regola, ma a Bruxelles ha messo in chiaro che “se la procedura è bloccata perchè il Patto di stabilità e crescita mi blocca, allora il meccanismo è kafkiano”. Su questo il governo presenterà un pacchetto di proposte specifiche da settembre, nel cosiddetto programma per “i mille giorni di governo”.
Ma fino ad allora l’Italia dovrà dimostrare di saper andare avanti nel cammino riformatore.
E’ questo che ha ottenuto Renzi dalla Merkel: sì alla flessibilità del Patto di stabilità e crescita a condizione che l’Italia faccia le riforme. Ed è per questo che a Bruxelles il premier non ha gradito per niente gli attacchi della minoranza Pd sulle riforme costituzionali e nemmeno quel tentativo di Pierluigi Bersani di sostenere Enrico Letta alla presidenza del Consiglio Europeo, contro il parere del governo italiano.
Non è un caso che, prima della conferenza stampa di Renzi a Bruxelles, i suoi in Italia hanno messo subito in relazione le parole di Bersani con la posizione del gruppo Dem che si oppone alla riforma costituzionale del governo in Senato.
“Bersani come Chiti”, dicevano. E anche il premier da Bruxelles approfitta per inviare un messaggio, quasi un ultimatum, alla minoranza interna. Sebbene sia convinto che alla fine i dissensi rientreranno. “E’ sorprendente che tutte le volte che c’è da fare battaglia in Europa, c’è una parte del partito, ancorchè minoritaria, che apre discussioni che sembravano chiuse: mi riferisco alle riforme costituzionali…”.
“Ora è il momento di fare le cose in Italia — sottolinea Renzi – non chiediamo giustificazione all’Ue, siamo preparati a tutto, ma per primi dobbiamo fare le riforme che abbiamo promesso. Bisogna fare le riforme e inserire una marcia più rapida anche rispetto a quello che si sta verificando in queste settimane…”.
Perchè ciò che “cambierà per l’Italia dipende dal grado di forza e persuasione che metteremo in campo”.
L’Agenda Strategica, frutto della mediazione di Herman Van Rompuy e curata per l’Italia dal sottosegretario agli Affari Europei Sandro Gozi, apre la strada. Nel senso che, sottolinea il premier, “per la prima volta in un documento ufficiale c’è un esplicito riferimento al ‘best use’”, cioè uso pieno, “della flessibilità . Significa che parlare di crescita non è un optional ma un elemento costitutivo dell’Ue. Chi parla solo di patto di stabilità viola lo spirito del trattato”.
Però l’Italia resta in qualche modo ‘sorvegliata speciale’. Non che Renzi non se lo aspettasse. “Io rappresento il partito che ha avuto più voti in assoluto in Ue, il Pd tutto ha, tranne che preoccupazione di venire in questi consessi”. Ma questo non basta. Il premier sa che ora deve dimostrare a Merkel e gli altri partner di saper esercitare la forza elettorale conquistata alle europee su un terreno concreto.
Juncker
“La partita adesso è in Italia”, insiste Renzi che lega il sì italiano a Jean Claude Juncker presidente della Commissione Europea all’attuazione dell’Agenda Strategica. “Altrimenti non lo avremmo accettato a scatola chiusa”, anche perchè — e il premier ci tiene a sottolinearlo — Juncker non ha nulla a che spartire con il nuovo corso: “Sono l’unico che non conosce Juncker”, per dire che il lussemburghese effettivamente non è segnale di cambiamento, appartiene ad un’altra stagione: “Siede in Ue da 20 anni…”. Ma almeno, con la sua nomina, viene rispettato il principio democratico: “Juncker è il candidato alla presidenza della commissione indicato dal Ppe, il partito più votato alle elezioni…”.
Mogherini
Ma a Bruxelles Renzi non riesce nemmeno a ottenere decisioni anche informali sul resto del pacchetto delle nomine Ue.
Il Consiglio si occupa solo della designazione di Juncker. Gli altri ‘top jobs’ vengono toccati soltanto negli incontri bilaterali, nulla di ufficiale. Sarà un altro vertice europeo a metà luglio ad affrontare la questione.
Da parte sua, il premier continua a puntare sulla titolare della Farnesina Federica Mogherini come Mrs Pesc, Alto rappresentante della politica estera dell’Unione. Però “la questione non è chiusa…”, dice, pur ammettendo che l’incarico dovrebbe andare a un socialista. Ma per il premier italiano non esistono altri candidati, benchè nella famiglia del Pse il nome di Massimo D’Alema giri molto. “Ma nessuno può o vuole imporre all’Italia un nome diverso da quello indicato dal governo”, assicurano i suoi. Renzi adotta una linea di cautela, a lui generalmente estranea. “Se ci chiedono di indicare un nome per la Commissione, ci prenderemo le nostre responsabilità . Ma non per mettere uno dei nostri contro i loro, bensì per vedere riconosciuta la nostra autorevolezza ai tavoli, per suggellare l’autorevolezza ottenuta dall’Italia”.
Tajani
Intanto, lunedì il consiglio dei ministri affronterà la questione della sostituzione di Antonio Tajani, commissario Ue all’Industria in scadenza.
Tre sono le possibilità , indica Renzi: “La prima è non nominare nessuno, essendo una carica che decade il 30 ottobre. La seconda è dare da subito il nome su cui si scommetterà nei prossimi cinque anni. Nel qual caso, si porrà la questione del portafoglio che il commissario può avere, portafoglio che può cambiare al cambio di presidente della Commissione”. Oppure c’è una terza via: quella di nominare “qualcuno che conosca Bruxelles e che abbia un profilo tecnico”.
In quest’ultimo caso, il nome che circola è quello di Ferdinando Nelli Feroci, fino all’anno scorso rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unione europea e attualmente a capo dello Istituto affari internazionali (Iai) e di Simest, società italiana per le imprese all’estero.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 27th, 2014 Riccardo Fucile
NEL 2009 UNA FOTO SOTTOBRACCIO A UN DEPUTATO DI HEZBOLLAH COSTO’ A D’ALEMA IL POSTO DA “MINISTRO DEGLI ESTERI” DELLA COMMISSIONE UE… ORA NESSUNO DICE NULLA SULLA FOTO DELLA MOGHERINA ACCANTO ALLO STORICO LEADER DELL’OLP
Se davvero il ministro Federica Mogherini riuscirà a diventare Alto rappresentante Ue per la Politica estera e la sicurezza, il pensiero non potrà non correre a Massimo D’Alema.
Cinque anni fa esatti in lizza per il ruolo di “mr. Pesc” (secondo la semplificazione giornalistica corrente) c’era infatti il lìder Maximo, anche lui fresco di una breve esperienza alla Farnesina. Eppure – nel gioco delle nazionalità e dei veti incrociati, all’interno dello stesso Pse – alla fine la spuntò la baronessa inglese Catherine Ashton, benchè sostanzialmente digiuna di politica estera.
A pesare, in quelle concitate giornate di novembre 2009, fu anche una foto risalente al Ferragosto di tre anni prima: gli scatti che ritraevano l’allora ministro degli Esteri del secondo governo Prodi sottobraccio al deputato di Hezbollah Hussein Haji Hassan, mentre si aggirava per le strade di Beirut bombardata da Israele.
L’European Jewish Congress non si pronunciò sull’eventuale nomina di D’Alema ma diverse comunità ebraiche (a cominciare da quella di Roma) alternarono perplessità a dure critiche. Mentre Yediot Ahronot, il giornale israeliano più diffuso, in un editoriale significativamente intitolato “Il dilemma di D’Alema” – in Italia ribattezzato ironicamente D’Alemmah da alcuni settori pro-Israele – definì come “problematica” per il governo di Tel Aviv una eventuale designazione.
Da una identica sorte cinque anni dopo sembra invece scampare la Mogherini, della quale – poco dopo il varo del governo Renzi – ha iniziato a circolare in rete una foto che la ritrae accanto al leader palestinese Yasser Arafat, risalente probabilmente agli anni della Seconda intifada in cui lavorava al dipartimento Esteri dei Ds (all’epoca settore di stretta osservanza dalemiana per le posizioni filo-arabe e terzomondiste di derivazione Pci).
Un amore di vecchia data, quello per il Medio oriente, che traspare anche nella tesi di laurea del ministro, dedicata al rapporto tra religione e politica nell’Islam e scritta durante l’Erasmus all’Institut de recherches et d’ètudes sur le monde arabe et musulman dell’università di Aix-en-Provence.
Proprio come il marito Matteo Rebesani , compagno di militanza politica e poi assistente di Walter Veltroni in Campidoglio, che lo volle a capo dell’Ufficio relazioni internazionali del comune di Roma.
E dove – grazie anche alla grandeur dell’allora sindaco – ebbe modo di spaziare dai diritti umani alla cooperazione fino ai summit coi premi Nobel e la visita del Dalai Lama
IN EUROPA?
Resta da vedere se appena pochi mesi dopo essere stata la più giovane ministro degli Esteri della Repubblica italiana (solo Galeazzo Ciano coi suoi 33 anni fece di meglio) la Mogherini, classe 1973, diventerà anche la responsabile della diplomazia europea.
Ruolo rivestito, per dieci anni esatti e prima dell’incolore Ashton, da una figura di peso come Javier Solana.
Per la sostituzione, secondo l’intenzione del premier di non alterare la rappresentanza di genere nella compagine ministeriale, il nome più gettonato è quello della dalemiana Marta Dassù, sottosegretario con Monti, vice ministro con Letta e di recente nominata dal governo nel cda di Finmeccanica.
Incarico in conflitto di interessi per le deleghe detenute alla Farnesina (a norma di legge dovrebbero passare 12 mesi) e che spiega come mai il suo nome circoli tanto insistentemente. In alternativa, ci sarebbe invece l’attuale titolare della Difesa Roberta Pinotti.
Vada come vada, il primo che probabilmente non vedrebbe di buon occhio questa scelta sarebbe Giorgio Napolitano, già poco convinto della decisione di affidarle gli Esteri.
Tanto che quando Renzi si presentò con la lista dei ministri al Quirinale, raccontano i rumors di Palazzo, il Capo dello Stato – poco convinto della scarsa esperienze internazionale della deputata Pd – avrebbe cercato senza successo di convincere il premier incaricato a depennare il nome della Mogherini e a confermare la Bonino.
E in effetti quello del ministro è un curriculum tutto interno al partito, che rispecchia il classico cursus honorum dei funzionari di una volta: la Sinistra giovanile negli anni universitari, il lavoro al dipartimento Esteri ai tempi della segreteria Fassino (prima come responsabile del rapporto coi movimenti poi come coordinatrice), l’ingresso nel Consiglio nazionale dei Ds, la direzione.
E infine, col Pd, l’approdo in segreteria con Walter Veltroni e Dario Franceschini nel ruolo di responsabile Istituzioni (agli Esteri c’era il suo attuale vice alla Farnesina, Lapo Pistelli).
Una carriera culminata nel 2008 con l’elezione a 35 anni a Montecitorio (nel dicembre 2010, tre giorni prima di partorire la seconda figlia, andò a votare la sfiducia al governo Berlusconi) e la presidenza della delegazione italiana all’Assemblea parlamentare della Nato
ABBASSO RENZI, VIVA RENZ
Anche lei, come Marianna Madia , è stata accusata di aver cambiato praticamente tutte le correnti, abitudine ricorrente nel Partito democratico e non da oggi: dalemiana, veltroniana, franceschiniana (ma dell’area Fassino), sostenitrice di Bersani e adesso di Renzi.
Non senza aver sparato sul Rottamatore al tempo in cui appoggiava il segretario emiliano, accusandolo addirittura di una preparazione da terza elementare: «Renzi ha bisogno di studiare un bel po’ di politica estera… non arriva alla sufficienza, temo».
Chi invece sembra aver avuto fiducia in lei fin da tempi non sospetti è proprio Renzi, che già nel 2009 – da presidente della Provincia di Firenze – in un colloquio con l’Espresso si augurava che all’interno del Partito democratico emergesse un outsider come «Debora Serracchiani, Maurizio Martina, Federica Mogherini o Giuseppe Civati, che mi piace da morire».
E se il giudizio su quest’ultimo ormai è probabilmente ribaltato, almeno su di lei il premier non pare aver cambiato idea.
Se poi riuscirà a convincere anche gli altri partner europei resta da vedere.
Paolo Fantauzzi
(da “L’Espresso”)
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Giugno 27th, 2014 Riccardo Fucile
NELLA PROPOSTA DI RIFORMA DELLA P,A, PRESENTATO DALLA MADIA RIMANE LA NORMA CHE EVITEREBBE A RENZI LA CONDANNA PER DANNO ERARIALE
L’articolo “salva Renzi” nella riforma Madia c’è ancora.
La norma è stata riscritta, ma non eliminata, come aveva garantito Palazzo Chigi pochi giorni fa
Il decreto legge pubblicato mercoledì in Gazzetta Ufficiale introduce una piccola modifica al Testo Unico degli Enti Locali del 2000
Il testo (articolo 11, comma 4) è sibillino: “Resta fermo il divieto di effettuazione di attività gestionale anche nel caso in cui nel contratto individuale di lavoro il trattamento economico, prescindendo dal titolo di studio, è parametrato a quello dirigenziale”
Proviamo a spiegare.
Mentre la prima parte dell’articolo (il “divieto di effettuazione di attività gestionale”) stabilisce un principio ovvio (lo staff delle segreterie di sindaci e presidenti, assunto a tempo determinato, non può svolgere compiti dirigenziali), la seconda parte estende quel divieto anche a quei contratti “parametrati a quelli dei dirigenti, prescindendo dal titolo di studio”.
Si ammette, in sostanza, che i componenti dello staff possano ricevere lo stesso trattamento economico dei dirigenti, senza tener conto dei loro curricula
Si tratta di una fattispecie molto simile a quella che tre anni fa è costata a Matteo Renzi una condanna in primo grado per danno erariale
Il 4 agosto 2011 la Corte dei Conti di Firenze ha giudicato l’attuale premier responsabile dell’assunzione irregolare di quattro persone nello staff della sua segreteria, quando era presidente della Provincia di Firenze (da 2004 al 2009).
I quattro sono stati assunti a chiamata diretta con un contratto di categoria D invece che C, nonostante non avessero mai ottenuto il titolo di studio (la laurea) necessario per essere inquadrati in quella fascia e con quello stipendio.
I giudici contabili fiorentini, quindi, hanno condannato in primo grado Renzi a risarcire lo Stato: la multa per l’attuale presidente del Consiglio è stata di poco meno di 15 mila euro, il 30 per cento della cifra complessiva (circa 50 mila euro) divisa con gli altri venti condannati
Ai tempi, Renzi si consolò sottolineando il forte sconto rispetto alle richieste della procura (che chiedeva un risarcimento superiore ai 2 milioni di euro), ma ricorse comunque in appello per ribaltare una sentenza considerata “fantasiosa e originale”
Quando arriverà il secondo grado di giudizio, però, la norma incriminata potrebbe non esserci più, visto che l’articolo 11 comma 4 del decreto legge Madia riconosce la possibilità di “trattamenti economici parametrati a quelli dirigenziali, prescindendo dal titolo di studio”
Già in una delle bozze precedenti della riforma della pubblica amministrazione era comparso un paragrafetto che (in modo ancora più esplicito) avrebbe reso lecite le assunzioni incriminate di Renzi
Si trattava dell’articolo 12 della riforma e stabiliva che “in ragione della temporaneità e del carattere fiduciario del rapporto di lavoro si prescinde nell’attribuzione degli incarichi dal possesso di specifici titoli di studio o professionali per l’accesso alle corrispondenti qualifiche ed aree di riferimento”
Lo staff del presidente del Consiglio aveva assicurato che si trattasse di “un errore” e che la norma sarebbe stata cancellata dal testo definitivo del decreto legge. Così è stato.
Al suo posto, però, è stato inserito il nuovo articolo trattato sopra, che interviene ancora sulla fattispecie che è costata al premier la condanna amministrativa in primo grado.
Rimane intatta, con la nuova formulazione, la possibilità di assumere dipendenti (nelle segreterie degli enti locali) con uno stipendio equiparato a quello dei dirigenti.
Rimane intatta, soprattutto, la possibilità di farlo “prescindendo dal titolo di studio”, come fece Renzi quando era presidente della provincia di Firenze.
Tommaso Rodano
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 27th, 2014 Riccardo Fucile
IL RELATORE LEGHISTA ROBERTO CALDEROLI, CARTE ALLA MANO, DIMOSTRA CHE IL MINISTRO PER LE RIFORME CONOSCEVA PERFETTAMENTE IL PROVVEDIMENTO LICENZIATO
Stringe la sigaretta accesa con la mano destra, con la sinistra ne tira una seconda dal pacchetto: “Calma, non manca il tempo”, dice Roberto Calderoli.
Tra un’ora e mezza la Commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama verrà inondata da emendamenti di qualsiasi estrazione e tipologia: 581, scalpitano i Cinque Stelle e i democratici di maggioranza e di Chiti&Mineo.
Il relatore Calderoli, che fa coppia e sponda con Anna Finocchiaro, deve sbrogliare esigenze politiche e pressioni governative e deve, soprattutto, osservare il destino di un’immunità — Costituzione, articolo 68 — applicata ai futuri senatori non eletti, delegazione di consiglieri regionali, sindaci e nominati: niente arresti, niente intercettazioni, niente perquisizioni. Come i colleghi di Montecitorio, i deputati.
Il paravento per i prossimi senatori resiste, ma ancora non s’è capito chi l’ha messo, chi l’ha voluto e chi, sornione, non lo vuole rimuovere: “Per me, chi deve finire in galera non deve aspettare”
Il leghista Calderoli, politico tattico e autore di “porcate” per sua stessa ammissione (la legge elettorale), non vuole passare per il vigile distratto o per il protettore di una nuova casta: “Io posso giurare, e adesso le prendo le prove, che giovedì 19 giugno — l’orologio segnava le 19:30 — dal ministero di Maria Elena Boschi, per la seconda e definitiva volta, ci arriva un documento con l’approvazione di quel contestato, e giustamente, articolo 68”.
Ma non l’avete chiesto voi, Calderoli & Finocchiaro?
“Noi ci siamo posti il problema. All’inizio, non ce n’era bisogno perchè Palazzo Madama diventava un guscio vuoto, adesso abbiamo ripristinato dei poteri legislativi, di controllo e di garanzia e abbiamo riformulato la domanda”.
Quale e come?
“Caro governo, cara ministro, l’immunità va estesa ai senatori? Noi pensavamo di coinvolgere la Consulta, un arbitro imparziale e competente”.
E invece?
“Non ci hanno seguito, non ci hanno risposto, anzi posso dire che lo stesso Pd ha compulsato la commissione per introdurre e confermare l’immunità ”
Il primo commento di Maria Elena Boschi bandiva le libere interpretazioni: “La proposta del governo non prevedeva l’immunità per i senatori, non per una facile risposta al giustizialismo, ma per una valutazione di merito: non ci sembrava giusto dare una tutela ad alcuni consiglieri regionali nominati senatori e non agli altri”. Calderoli, come risponde?
Il leghista scatta in piedi e va verso la scrivania ricoperta di faldoni e adornata da vignette che lo ritraggono ora a Pontida con la spada e ora con Berlusconi al guinzaglio: “Guardi qui, questo è il testo che ci è stato spedito dal ministero della Boschi. In rosso ci sono le ultime nostre modifiche. E come vede, le correzioni, che il dicastero fa in verde, non ci sono. Ecco, prendiamo un altro articolo a caso, il 55, e troviamo le puntualizzazioni in verde”.
Cosa vuol dire?
“La Boschi sapeva, poteva correggere subito, se riteneva. Di più: ha avuto due occasioni per farlo. E forse doveva anche coordinarsi meglio con la segreteria del Nazareno”.
E se la Boschi la smentisce, fa una brutta figura: ne è consapevole, Calderoli?
“Questo che le faccio vedere è il contenuto di una doppia email arrivata in commissione. Ci sono le tracce, e non si possono cancellare”
Il governo sostiene che l’immunità non è un capitolo dirimente, ma sarà eliminata?
“Vediamo, io non ci capisco più nulla, da Forza Italia a Nuovo Centro Destra, passando per il governo, tutti cambiano versione. Soltanto io e Anna stiamo seguendo le indicazioni iniziali”.
Ma voi leghisti non siete al governo.
“Appunto, vede come sono ridotti”.
Carlo Tecce
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 27th, 2014 Riccardo Fucile
IL FIGLIO DI IGNAZIO ENTRA NEL CDA DELLA SOCIETA’ CHE GESTISCE LO STADIO…E’ LA TERZA CARICA NELLE PARTECIPATE DEL MILAN
Una poltrona tira l’altra per Geronimo La Russa , chiamato dall’amica Barbara Berlusconi a sostenerla nella complicata convivenza con Adriano Galliani al vertice del Milan.
Nelle scorse settimane era stato reso noto che, nonostante la fede interista ereditata dal papà , l’ex ministro Ignazio (noto per il suo tifo molto acceso), Geronimo è entrato nel consiglio di amministrazione di due controllate del team rossonero, chiamate rispettivamente Milan Real Estate e Milan Entertainment.
Finora era invece passata sottotraccia la terza nomina, quella nella MI-Stadio, ovvero la società partecipata al 50 per cento dal Milan e dai cugini dell’Inter per la gestione di San Siro, preso in affitto dal Comune di Milano con un canone di 8 milioni di euro l’anno.
La joint-venture fra le due squadre (presieduta da Roberto Ruozi, ex rettore dell’Università Bocconi e attuale presidente della finanziaria Palladio, il cui titolare Roberto Meneguzzo è stato di recente arrestato con l’accusa di aver fatto da intermediario per le tangenti del Mose) ha chiuso l’ultimo bilancio depositato, fermo al 30 giugno 2013, con un utile di 26.500 euro.
Deve però fare i conti con il ritardo nei lavori di riqualificazione della struttura, che sono indispensabili per la candidatura a ospitare la finale della Champions League 2016.
Entro due anni, infatti, lo stadio milanese dovrà essere in regola con gli standard europei e la Uefa ha già richiamato il Comune per il rallentamento del crono-programma degli interventi.
Il restyling da 60 milioni è cominciato nel 2012 e in parte viene scomputato dal canone di locazione.
La convenzione prevede infatti che le due società investano il 70 per cento dell’affitto annuale nei lavori di ristrutturazione, mentre il 30 restante viene regolarmente versato nelle casse cittadine.
Il Comune predica ottimismo ma l’Inter di Erick Thohir vuole una struttura di proprietà e, in casa Milan, anche Barbara sembra più concentrata a pensare al progetto di un nuovo stadio nell’area del post-Expo 2015, piuttosto che alla ristrutturazione straordinaria di San Siro.
A sostenerla in queste nuove sfide ha dunque chiamato La Russa junior, che di lavoro fa l’avvocato ma vanta capacità gestionali in campo sportivo.
Di recente ha postato sul suo profilo Facebook una foto d’archivio che lo immortala mentre riceve alla SDA Bocconi il diploma in Sport Management.
Basterà ?
Camilla Conti
(da “L’Espresso“)
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Giugno 27th, 2014 Riccardo Fucile
IL 18 LUGLIO POTREBBE ESSERCI LA SENTENZA DI APPELLO DEL PROCESSO E LA POSSIBILE CONFERMA DELLA CONDANNA A 7 ANNI… BERLUSCONI VUOLE LEGARE LE RIFORME ALLA SUA SALVEZZA GIUDIZIARIA
Denis Verdini glielo ripete come un mantra in questi giorni cupi: “Silvio stai tranquillo che Matteo manterrà i patti”.
Verdini è toscano, è senatore, è plurinquisito, è amicissimo del premier ed è la faccia impresentabile del patto del Nazareno.
Per un po’ di tempo è stato emarginato, anzi epurato dal cerchio magico, ma da quando si è staccato da Raffaele Fitto, l’anti-Toti con l’eterna faccia da bimbo che vuole le primarie, è ritornato con più frequenza alla corte di Silvio.
Il mantra di Verdini è una sorta di palliativo per l’umore nerissimo di Silvio Berlusconi. La svolta c’è stata la scorsa settimana dopo lo scontro in aula al processo napoletano a “Valterino” Lavitola, il faccendiere dei due mondi.
Il botta e risposta con il presidente del tribunale, culminato con quella frase che potrebbe costargli cara, “la magistratura è incontrollata, incontrollabile, irresponsabile e ha l’immunità piena” ha generato un’ossessione che sul lungo periodo potrebbe seriamente logorare il patto sottoscritto con Renzi sulle riforme: “Com’è possibile che un giorno faccio il condannato a Cesano Boscone e l’altro invece sono un padre della patria?”. Atroce dubbio che adesso si riverbera su un’altra scadenza fatidica: la sentenza d’Appello del processo Ruby, prevista per il 18 luglio e che potrebbe confermare la condanna a 7 anni di B. per concussione e prostituzione minorile.
L’ex Cavaliere non parla d’altro e fa riunioni su riunioni con il suo pool di avvocati: Franco Coppi e Filippo Dinacci e anche Niccolò Ghedini e Pietro Longo, che però non possono stare in aula per l’Appello essendo indagati nel cosiddetto Ruby ter per corruzione di testimoni.
L’obiettivo di Coppi, che nel suo prestigioso curriculum vanta esperienze e pubblicazioni nel campo dei reati sessuali, è arrivare all’assoluzione del suo assistito almeno per l’infamante reato di prostituzione minorile.
Ma Berlusconi, pur partecipando alla riunioni con flebilissimo ottimismo, alla fine è convinto che sarà condannato per la solita “persecuzione politica”.
Ed è qui che s’innesta il balletto sulle riforme, dall’Italicum al Senato.
Berlusconi vuol trasformare l’accordo del Nazareno (sempre che non l’abbia già fatto in quei famosi sette minuti segreti in cui rimase da solo con “Matteo”) in una polizza anti-Ruby, legando ancora una volta il suo destino giudiziario alla vicende politiche.
Per farlo è pronto a cavalcare i mal di pancia trasversali (compresi quelli di Forza Italia) sul Senato non elettivo.
Si ripeterebbe in pratica lo stesso schema che sia con la condanna per Mediaset sia con la successiva decadenza ha portato Forza Italia a lasciare l’allora governo Letta.
Questo nuovo processo di logoramento è di fatto iniziato e avrà un primo significativo test il 18 luglio (per la cronaca va aggiunto che prima ci sarà la sentenza Mediatrade su Pier Silvio B.) e a quel punto l’onere della prova su Berlusconi delinquente o padre della patria inizierà a essere scaricato sul premier e sul Quirinale.
Questo il percorso profetizzato nella corte berlusconiana: “Noi certamente il primo voto alle riforme da qui a una settimana lo daremo, poi dopo è tutto da vedere, il primo voto, da solo, non significa nulla”.
È il segnale che la partita delle riforme incrocerà l’ennesimo guaio giudiziario del Cavaliere. Senza dimenticare che un verdetto di colpevolezza in Appello potrebbe essere confermato dalla Cassazione entro la fine dell’anno.
E l’ossimoro del delinquente padre della patria potrebbe rimettere in pista il tormentone della grazia, stavolta per concussione e prostituzione minorile.
In questo scenario, poi, non è detto che al Quirinale ci sarà ancora Napolitano. L’eventuale tormentone sulla nuova grazia potrebbe essere gestito da lui ma anche da un altro capo dello Stato.
Chissà .
Fabrizio d’Esposito
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Giugno 27th, 2014 Riccardo Fucile
LA DOPPIA FRONDA SULLE RIFORME, NEL PD ESCONO ALLO SCOPERTO 19 DISSIDENTI, ALLARME PREFERENZE
Forza Italia sulle riforme mette a repentaglio il patto del Nazareno. Il big bang matura nella riunione di gruppo a Palazzo Madama, che sfugge al controllo di Berlusconi.
La maggioranza dei senatori, 37 su 59, firma emendamenti per chiedere l’elezione diretta del Senato. L’esatto contrario di quanto prevede il pacchetto Renzi, pur blindato da Verdini e Romani.
Alla base c’è il panico da rielezione di molti parlamentari.
Ma ha funzionato da miccia l’incontro in streaming del premier coi Cinque stelle e quell’apertura alle preferenze nella legge elettorale che a parecchi forzisti proprio non va giù: «Se passano, facciamo saltare tutto » è la minaccia che nel centrodestra sta prendendo corpo.
Al Senato ma anche alla Camera, dove il capogruppo berlusconiano Brunetta chiama in gran segreto i colleghi nemici del “patto delle riforme” e con loro invoca e ottiene una riunione plenaria per la prossima settimana, alla presenza dell’ex Cavaliere.
All’assemblea del gruppo a Palazzo Madama invece ieri mattina Berlusconi non si è presentato. Verdini e Romani lo avevano raggiunto a Grazioli con Giovanni Toti e Maria Rosaria Rossi prima di chiamare a rapporto i senatori, rassicurandolo sulla tenuta.
E invece salta tutto.
Verdini e Romani puntano a chiudere in poche battute la riunione: «Dunque, la riforma va approvata così com’è, al più con qualche modifica, ma il patto deve reggere su tutto, altrimenti rischiamo di veder saltare anche l’Italicum », mette in guardia coi consueti metodi spicci il senatore toscano, gran tessitore dell’intesa.
Toti e la Rossi nemmeno parlano. Ma a quel punto si scatenano i senatori.
Parte Augusto Minzolini, e a seguire Razzi, Caliendo, Zuffada e altri ancora.
Tutti a favore del Senato elettivo e dunque intenzionati (con una quarantina di emendamenti) a stravolgere il testo del governo.
L’ex direttore del Tg1 è il più agguerrito, primo firmatario delle proposte di modifica. «Io non voto questa riforma. Non cadiamo nel tranello di Renzi – alza i toni – Lui minaccia il voto ma non può fare nulla, non andrebbe mai alle elezioni col “Consultellum”. I senatori devono essere eletti dal popolo».
Dopo, è un coro. Altri come Cinzia Bonfrisco stanno per intervenire per rincarare. Al punto che Verdini e Romani sono costretti a sospendere i lavori e rinviare tutto a martedì prossimo.
A Silvio Berlusconi toccherà presentarsi di persona per far rientrare i “ribelli”, se ne avrà ancora il potere e la forza.
È un leader dimezzato, fiaccato e in attesa di una nuova pesante sentenza. Già , proprio la sentenza Ruby in appello, che segue la condanna in primo grado a sette anni per prostituzione minorile.
A partire dal 18 luglio è atteso il pronunciamento del secondo grado di giudizio.
Ed è qui che l’ennesima vicenda giudiziaria di Berlusconi si intreccia con l’agenda delle riforme. Il Pd punta ad accelerare e non poco.
Da lunedì iniziano le votazioni in commissione sul testo Boschi. Il capogruppo Zanda e i dem vorrebbero chiudere nel giro di una settimana per approdare in aula il prima possibile per strappare il primo “ok” alla riforma proprio entro la data fatidica del 18.
«Fino a quel giorno, il capo forzista manterrà i toni bassi, dopo, tutto potrebbe succedere» è il tam tam nel Pd.
Sul Senato elettivo del resto cresce la fronda anche tra i democratici.
Ieri scadeva il termine per presentare i sub-emendamenti e 19 senatori pd, guidati da Chiti, Casson, Tocci hanno firmato proposte in favore dell’elezione diretta e del mantenimento a certe condizioni dell’immunità .
Con loro, anche il popolare Mario Mauro, i sette di Sel capeggiati da Loredana De Petris e i 14 fuoriusciti dal M5s.
L’ex ministro Mauro parla di «deriva autoritaria» nella strategia delle riforme. Come se non bastasse, è stato depositato un emendamento pd con una cinquantina di firme per ridurre il numero dei deputati.
Fibrillazioni che tuttavia al Nazareno vengono minimizzate. Che il premier sia intenzionato ad andare dritto per la sua strada lo si capisce dalla sortita del vicesegretario dem Lorenzo Guerini: «Il percorso procederà secondo la direzione e i tempi previsti».
Convinti che anche le mine interne a Forza Italia saranno disinnescate da qui a qualche giorno. In ogni caso, un conto sarà la partita con numeri più risicati – anche se ormai blindati dal Pd – che si giocherà da lunedì in commissione Affari costituzionali, altra cosa in aula.
Se pure il Carroccio e il M5s dovessero schierarsi con il “partito del Senato elettivo”, l’asticella si fermerebbe più o meno intorno ai 134 senatori.
Mentre la maggioranza pro-riforme è compresa in una forbice variabile tra i 163 e i 186.
Il premier resta convinto di poter andare anche oltre.
Non si raggiungeranno comunque i due terzi necessari per evitare il referendum confermativo, ma questo ormai Renzi lo ha messo nel conto.
Casadio e Lopapa
(da “La Repubblica“)
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Giugno 27th, 2014 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE DI “BLU PER L’ITALIA”: “SPIRITO DI SERVIZIO, PASSIONE, LAVORO SUL TERRITORIO E ONESTA'” SONO LE BASI PER CREARE “LA DESTRA CHE NON C’E'”
Intercettiamo Francesco Macrì, ex assessore di centrodestra al comune di Arezzo e presidente nazionale di “Blu per l’Italia” mentre è in partenza per Roma per partecipare all’appuntamento “La destra che non c’e'”, promosso a Gianfranco Fini.
Anche lei in partenza o meglio dire pronto alla “ripartenza” della destra?
Sicuramente alla ripartenza politica, ma per farlo dobbiamo avere chiari gli scenari di riferimento, quello economico-sociale e quello politico.
Bene, partiamo dal primo allora…
La verità è che nonostante il clima del “tutti pazzi per Renzi”, l’Italia sta vivendo la crisi più pesante dal dopoguerra. La crisi finanziaria ci è piombata addosso da fuori ma è stata la debolezza tutta italiana a renderla così disastrosa. Sarà pur vero che globalizzazione, l’Europa, il sistema dell’euro sono tutti elementi esterni che hanno influito pesantemente sulla nostra economia ma è certamente assodato che i problemi italiani sono stati prodotti in Italia, dalla nostra classe dirigente. Non solo la politica, anche la burocrazia, la corruzione pubblica e privata, le consorterie, le mafie e persino la cattiva coscienza di tanti italiani, sono le grandi cause del declino.
Un quadro disastroso che fa da cornice al declino?
Certamente. Sette anni di grave recessione, disoccupazione alle stelle, debito pubblico oltre il 130%, interessi da pagare sul debito di circa 80 mld annui, imprese che chiudono a ritmi inauditi, investimenti impossibili, blocco del credito bancario, domanda interna in declino inarrestabile, sofferenze bancarie da capogiro e si potrebbe continuare a lungo…
Passiamo allo scenario politico?
Con l’affermazione per riflesso condizionato di Renzi la situazione politica italiana sembra essersi congelata. Il governo dei miracolati ha avuto il suggello elettorale delle europee e tutti salgono, molto italianamente, sul carro del vincitore. Però, le tanto sbandierate riforme, per ora, sono ancora in garage e sono espressione chiara di un enorme pressappochismo e in qualche caso di assoluta improvvisazione.
Non è tutto oro quello che Renzi fa luccicare, intende?
Le riforme del lavoro e della P.A. sono guazzabugli e appaiono come provvedimenti di manutenzione e non come pulizia sostanziale della farragine di cui l’Italia è affetta. Aveva promesso di tutto entro maggio ed adesso siamo a chiedere 1000 giorni…
Beh c’è sempre una opposizione in Parlamento …
I Cinquestelle, dopo la sconfitta, hanno imboccato la via della normalizzazione, il Sistema è vivo e vegeto e il suo potere è garantito proprio da Renzi e dal fallimento della coraggiosa ma vuota rivoluzione stellata.
E a destra che succede?
I grandi equivoci stanno tutti sul versante destro dello scenario. C’è chi fa da stampella al governo in maniera esplicita e chi gioca la partita sotto mentite spoglie in una sorta di tiremmolla che nasconde l’evidente inconsistenza e i disagi prodotti dall’assenza di un disegno politico alternativo. Poi altre strane opzioni fanno capolino, come le ipotesi di alleanze organiche fra istanze politiche che dovrebbero stare agli antipodi (FdI e Lega) . Insomma: a destra è evidente il casino, il caravanserraglio e soprattutto le diffuse incompatibilità .
Che spazi intravede allora per una nuova destra?
Non ci sono spazi geografici da conquistare ma spazi ideali e milioni di elettori ai quali dovremo guardare. Occorre riconsiderare e ricostruire il significato e il valore convenzionale del termine, non bastano i simboli che l’hanno rappresentata per 15 anni, dobbiamo ricostruire una nuova identità , una nuova cultura di destra..
Oltre Berlusconi?
Ad oggi tutto ruota ancora intorno alla figura declinante ma ancora pesante di Berlusconi e dall’affannarsi dei satelliti. Il futuro prossimo non può che essere una federazione di grandi e piccoli gruppi che dovranno ritrovare un comune senso politico dello “stare insieme”.
Ha un percorso da suggerire per arrivare alla meta?
Prima dovremo trovare metodi innovativi ed originali per contare nella competizione delle idee. Il nostro compito di oggi è prepolitico e organizzativo. Occorre dimenticare qualsiasi stereotipo della “vecchia politica”: abbandonare definitivamente il dibattito sul passato, la retorica dei programmi, delle organizzazioni gerarchiche, dell’accreditamento verso le èlite, i richiami dottrinari e le ideologie.
Qualcosa la conserviamo?
Certo, soltanto le migliori virtù: passione civile, spirito di servizio, onestà . Le condizione per organizzare un nuovo movimento politico è dire la verità sul nostro presente e guardare unicamente al domani. Oggi non siamo ancora nulla se non passione inespressa, volontà e impegno civile. Adesso serve comprendere l’epoca e rispondere ad essa con le peculiarità ideali ed operative che essa stessa richiede. Bisogna ripartire dalle persone, favorire la partecipazione, l’inclusione; usare la trasparenza e la connessione fra persone e fra persone e le idee.
Molti a destra reclamano criteri meritocratici…
La tanto sbandierata meritocrazia deve diventare una colonna irrinunciabile della nostra futura azione politica: dovrà essere l’esito naturale di una nuova capacità di costruire dal basso il nostro progetto, dalla periferia verso il centro, basata su successi concreti ottenuti sul territorio. Chi ha maggiori responsabilità dovrà essere di supporto a chi sta in basso, non più il contrario. Dovremmo concretamente costruire sul territorio una vasta rete di interesse intorno alle esigenze pratiche di una politica di prossimità .
Nessuna ricetta precostituita quindi…
Dai problemi del territorio e dallo sforzo di risolverli si potrà produrre una nuova classe di giovani politici genuinamente ispirati dallo spirito di servizio. Pensare, al contrario, di avere le ricette calate dall’alto sarebbe un grave errore .
La sua associazione “Blu per l’Italia” era “nata per unire”: che esperienza ne ha tratto?
L’associazione era nata per ristabilire il primato della sincera e disinteressata volontà politica rivolta a tutti coloro che si richiamano ai valori della libertà , della legalità e dell’amore per la nazione e per l’Europa (quell’Europa che purtroppo ancora non c’è). Credo che lo spirito con cui nacque la nostra associazione e la piattaforma web che abbiamo realizzato (che adesso è in stand by), possa essere utile per cominciare ad aggregare le persone in comitati territoriali: la mettiamo a disposizione del nuovo progetto. Insieme a Libera Destra che immagino più come Tink Tank può rappresentare una buona base di partenza.
Perchè proprio con Gianfranco Fini?
Fini è stato l’uomo che più di tutti mi ha fatto amare la politica e mi ha dato indirettamente l’opportunità di vivere una bellissima stagione politica di amministratore nel mio territorio. Oggi vuole tendere una mano ad un’altra generazione che desidera coniugare saggezza ed esperienza con l’energia e la creatività tipica dei più giovani
Un progetto necessario?
Gianfranco vuole stimolare idee che muovano dal basso, dai giovani, dalla pratica politica quotidiana. Senza dirci quello che bisogna fare ma spronandoci verso l’invenzione e la scoperta di un nuovo protagonismo politico. Io sono solo uno tra quelli pronto a raccogliere questa sfida.
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Giugno 27th, 2014 Riccardo Fucile
IPOTESI RIMPASTO CON PIU’ POLTRONE AGLI UOMINI DI RENZI… IN USCITA LUPI E GIANNINI, PROMOZIONI PER LOTTO E RAGGI
È già febbre da rimpasto.
La sola ipotesi di nomina dell’attuale ministro degli Esteri, Federica Mogherini, ad Alto rappresentante della politica estera e sicurezza dell’Unione europea ha messo in fibrillazione i palazzi della politica.
Le cancellerie europee non sembrano opporre alcuna resistenza sul nome dell’attuale titolare della Farnesina. Ma perplessità perdurano in Italia.
Basta ascoltare la neo deputata europea Alessia Mosca per avere un’idea: «È proprio sul ruolo in sè che nutro qualche dubbio – spiega una delle cinque capolista del Pd alla tornata di un mese fa – il governo italiano può far valere sul piano delle trattative un risultato elettorale eccezionale e credo che, in una prospettiva strategica, forse sarebbe stato meglio puntare ad altri dossier, penso all’industria o al commercio».
Proprio mentre si va delineando l’intesa, per l’Italia spunta un’altra posizione di primo piano che potrebbe occupare: il presidente del Consiglio europeo, per il quale si fa il nome di Enrico Letta. L’ex presidente del Consiglio, infatti, è molto apprezzato dalle cancellerie europee, in particolare da Hollande e Cameron.
Si vedrà . Al momento le uniche certezze sembrano essere quelle di Jean Claude Juncker alla guida della Commissione europea e Martin Schulz al timone del Parlamento continentale.
Per il resto, la trattativa si sta complicando non poco.
E Renzi? Al momento non si sbilancia. È sempre più concentrato sui contenuti dell’intesa che va delineandosi. Ma le scelte che farà rischiano di avere un impatto anche sul governo nazionale. Un impatto enorme.
Ed è per questo che Nuovo Centrodestra e Scelta Civica (e in parte minore anche l’Udc) temono e tremano per le prossime mosse perchè sanno che se si va verso un rimpasto è assai probabile che per loro si profili un ridimensionamento.
Se Mogherini dovesse prendere l’aereo per Bruxelles è chiaro che ci sarà da nominare un nuovo ministro degli Esteri.
Renzi potrebbe fare un’operazione chirurgica nominando seccamente un ministro, magari Lapo Pistelli (attuale viceministro) oppure Marta Dassù che è stata vice. Oppure potrebbe sfruttare la situazione per rimettere mano alla squadra di governo. Una ipotesi che si sta facendo largo sarebbe quella di spostare Angelino Alfano dal ministero dell’Interno a capo della diplomazia.
E, a quel punto, di dare una rinfrescata anche agli altri dicasteri. Da settimana si parla di un’uscita di Maurizio Lupi, che ha lavorato molto bene alle Infrastrutture ma sembra tentato dall’assumere un ruolo più politico nella riorganizzazione del centrodestra.
A Lavori pubblici-Trasporti potrebbe andare un fedelissimo di Renzi, Luca Lotti, che ha appena chiuso come sottosegretario all’editoria la delicata partita del fondo straordinario.
Altra poltrona in discussione è quella del Miur, sigla che sta per ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
Attualmente la titolare è Stefania Giannini in rappresentanza di Scelta Civica che però nel frattempo quasi non esiste più e dunque non è chiaro chi rappresenti avendo ottenuto anche uno scarso risultato elettorale.
Al Miur è possibile una promozione di un altro uomo stretto del premier, Roberto Reggi, ora sottosegretario all’Istruzione.
Resterebbe da decidere il nuovo ministro dell’Interno, nel caso in cui Alfano traslocasse alla Farnesina.
Ma il processo che sembra essersi avviato è una sempre maggiore «renzizzazione» del governo. L’esecutivo infatti è nato da un accordo di coalizione ma dopo l’oltre 40% ottenuto dal premier alle scorse Europee quell’accordo e quegli equilibri sembrano appartenere a un’altra era geologica.
Matteo lo sa, come anche ha capito che se vuole davvero cambiare verso al Paese può farlo solo con una squadra di assoluta fiducia.
Fabrizio dell’Orefice
(da “il Tempo”)
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