Giugno 5th, 2014 Riccardo Fucile
DOPO GALAN, TOCCA A MATTEOLI… MA LA PROCURA HA ALTRI ASSI NELLA MANICA CHE TIENE COPERTI
E ora la melma della laguna rischia di risucchiare non solo il “sistema” veneto, con i suoi squali affamati di soldi.
È l’onda che arriva a Roma a terrorizzare Silvio Berlusconi. Che con Galan pose la prima pietra del Mose nel 2003 quando uno era premier e l’altro venerato doge.
Pure Altero Matteoli, ex ministro dell’Ambiente e poi dei Trasporti, è indagato. Ed è solo l’inizio.
Questa è la paura dell’intero quartier berlusconiano: “È peggio dell’inchiesta del G8” dice chi ha dimestichezza con le carte.
Ed è peggio perchè si va oltre il sistema “gelatinoso”. Le parole del gip suonano come il presagio che siamo solo all’inizio: “Tutti hanno un prezzo e tutti hanno presentato il conto”.
La corruzione è “sistema”.
Una parte è già documentata da prove bancarie, riscontri, documenti raccolti dagli inquirenti. Ma è appunto una parte.
Ce n’è tutta un’altra tenuta “coperta”. Per chi conosce la materia sono molti, troppi, gli “omissis” negli interrogatori che lasciano pensare a nuovi filoni di indagine.
Che l’inchiesta sia peggio dell’Expo non è un giudizio solo di Cantone. Ma anche degli azzurri che contano.
Per questo tacciono, non dichiarano, evitano frontali con una procura che vivono come credibile grazie a Nordio e non politicizzata.
La vivono come la madre di tutte le inchieste. E allora eccola la grande paura: “Siamo solo all’inizio – trapela dal bunker – e non si sa dove va a finire”.
Si sa che arriva a Roma, nei palazzi del potere berlusconiano. Basta seguire i soldi, da una parte all’altra dell’Italia.
Mezzo milione, secondo i magistrati, è finito a Marco Milanese. È lui il pulsante che gli imprenditori del Consorzio Venezia Nuova hanno spinto nel 2010 per sboccare i finanziamenti del Cipe, quando il ministero era contrario.
È questo uno snodo cruciale. Perchè, di fronte al primo no del Tesoro, il presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati si attiva per trovare qualcuno che faccia cambiare idea.
Secondo le carte è Galan a portarlo da Gianni Letta, definito, nel corso di un interrogatorio del luglio 2013, “un riferimento molto importante per i nostri progetti”. Nello stesso interrogatorio Mazzacurati rivela che alcune volte Letta lo portò da Berlusconi che voleva sapere a che punto erano i progetti.
Anche la struttura tecnica del ministero di delle Infrastrutture e dei Trasporti e il gabinetto del ministro Matteoli sono informati.
Alla fine arriva a Milanese, grazie al fondatore della Mediobanca del Nord Est, Roberto Meneguzzo, anche lui tra gli arrestati.
Ed effettivamente quando si arriva a Milanese la questione si risolve. Il Cipe adotta la delibera sui finanziamenti alle opere prioritarie, tra cui il Mose. Intervento determinante.
Che consente a Milanese di incassare il suo compenso. Ma è solo l’inizio. Che rappresenta l’insediamento del sistema a Roma, nel cuore dei palazzi del potere berlusconiano.
Ma Milanese non è nè il ministro del Tesoro nè il presidente del Consiglio. E domanda che inquieta è questa: come fa a convincere il governo? Come opera il sistema a Roma?
Secondo quanto risulta all’Ansa, Milanese non è solo. Anche il ministro Matteoli sarebbe entrato nel gioco di dazioni di denaro, in cambio di favori, costruito dall’ex presidente del Consorzio, Giovanni Mazzacurati.
Il suo coinvolgimento non riguarderebbe direttamente le opere del Mose ma altri interventi di carattere ambientale eseguiti sempre dal Consorzio. Insomma, le acque torbide della laguna portano dritti al cuore del governo Berlusconi.
E poi ci sono i soldi di Galan. Per ora non è emerso che sarebbero serviti per finanziare Forza Italia e comunque l’attività politica del suo partito.
Ma nessuno ci mette la mano sul fuoco. “Siamo solo all’inizio”.
E non si sa dove si va a finire.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 5th, 2014 Riccardo Fucile
MENTRE QUELLA DI CANTONE È ANCORA AL PALO, ECCO QUELLA SUGLI APPALTI (AVCP): SEGNALAZIONI TARDIVE E 300 DIPENDENTI RENDONO PIÙ EVIDENTE L’INEFFICACIA DEI CONTROLLI STATALI
Per scoprire che esiste, tra le tante Authority fiorite in Italia, anche l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (Avcp), abbiamo dovuto aspettare gli arresti della “cupola” dell’Expo che aveva messo le mani sui lavori per l’esposizione universale di Milano 2015.
Dopo che i buoi sono scappati, ecco arrivare l’ennesima Authority con un mirabolante dossier che racconta quanto il sistema degli appalti Expo funzioni male.
Mezzo miliardo di denaro pubblico è stato sottratto alle norme e ai controlli, denuncia l’Avcp, grazie a ben 82 disposizioni del codice degli appalti che sono state cancellate da quattro ordinanze della presidenza del Consiglio.
Perchè Expo va fatto in fretta, dunque bisogna abbassare le soglie dei controlli.
L’appalto per le architetture di servizio, per esempio, del valore di 55 milioni di euro, è finito alla Maltauro con il criterio dell’offerta più vantaggiosa.
Ora che sono finiti in carcere, tra gli altri, l’imprenditore Enrico Maltauro, i “mediatori” Gianstefano Frigerio e Primo Greganti e Angelo Paris, gran manager di Expo spa, l’Avcp ci spiega che la gara era anomala, perchè assegnava 35 punti per gli aspetti quantitativi, oggettivi, ma ben 65 punti per gli aspetti qualitativi, soggettivi, opinabili.
Così bastava avere i commissari amici e il gioco era fatto (“Ne abbiamo due su tre”, si dicono Frigerio e Greganti).
Il dossier passa poi in rassegna le gare Expo e segnala deroghe e anomalie.
Ben 72 appalti sono stati assegnati senza pubblicazione del bando.
Alcune gare sono state fatte con “procedura ristretta semplificata”, per cifre anche di molto superiori al milione e mezzo di euro che è il limite oltre il quale quella procedura non deve essere usata.
Domanda: ma la Avcp non poteva svegliarsi prima?
Non era suo compito vigilare sulle gare, prima che arrivasse Ilda Boccassini?
È da più di due anni che si susseguono le inchieste sugli appalti Expo. Sono sotto indagine la gara sulla “rimozione delle interferenze” (la pulizia dell’area), vinta da Cmc, e il grande appalto della “piastra” per di tutti gli impianti e padiglioni, base d’asta 272 milioni, conquistato dalla Mantovani con un’offerta di soli 165 milioni e un ribasso del 41 per cento (presidente della Mantovani è quel Piergiorgio Baita tornato agli onori delle cronache a causa degli arresti di ieri per lo scandalo Mose). Ben 34 aziende sono state “interdette” dai lavori per mancanza di requisiti antimafia. E l’Autorità che deve vigilare sui contratti pubblici dà segno della sua esistenza soltanto venerdì 30 maggio, quando invia il suo dossier a Raffaele Cantone, il magistrato posto da poco a capo di un’altro organismo, l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac).
Due giorni dopo, domenica 1° giugno, il dossier finisce sulle pagine di Repubblica. Quattro giorni dopo, il presidente dell’Avcp, Sergio Santoro, incontra Cantone, per avviare una “fruttuosa collaborazione”.
Ieri, Cantone incontra il presidente del Consiglio Matteo Renzi, proprio mentre le agenzie diffondono le notizie degli arresti per il Mose. Cantone: “Il sistema degli appalti è da ripensare, perchè ormai fa acqua da tutte le parti”
Cantonem con l’Anac, è appena arrivato sulla scena.
La Avcp è su piazza dal 2006. Santoro ne è presidente dal 2012. Prima è stato avvocato dello Stato, magistrato del Tar, consigliere di Stato, consigliere giuridico e capo di gabinetto in vari governi, consigliere del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi per la trasparenza.
Il perfetto super-burocrate. Ora è al vertice di un’Autorità composta da sette membri e ha a disposizione una struttura elefantiaca: 330 dipendenti, sei dirigenti, un segretario generale. Una sede prestigiosa in un palazzo in via di Ripetta, nel centro di Roma.
Di fronte a una tale corazzata, l’Autorità nazionale anticorruzione guidata da Cantone pare una barchetta: ci lavorano 26 persone.
A Cantone è stata affidato, personalmente da Renzi, il compito di sgominare il malaffare e ripulire l’Expo.
Un impegno da far tremare i polsi, specialmente se non accompagnato da strumenti e poteri adeguati. Con il rischio che il magistrato con alle spalle una grande esperienza antimafia sia trasformato in un’icona da esibire, in un parafulmine per deresponsabilizzare chi i controlli non li ha mai fatti e non li sa fare.
Ora la palla passa al governo, che deve trasformare l’icona in un organismo efficiente e produttivo.
Domani, al consiglio dei ministri, dovrebbe avviarsi la messa a punto di un decreto legge per dare a Cantone i poteri necessari (quando?).
Ci sono ancora gare Expo per almeno 120 milioni.
Ci sono richieste di ristrutturazione dei contratti da parte delle aziende che hanno vinto le gare con forti ribassi e ora chiedono più soldi.
Ci sono gli allestimenti da affidare (a Fiera Milano? E con quali garanzie per i subappalti?).
Ci sono norme da varare per regolare le assunzioni.
Ci sono i soldi che devono arrivare dal governo: 130 milioni per trasporti e sicurezza, 60 per rimpiazzare la Provincia di Milano che non ha pagato la sua quota
E c’è da risolvere il problema Maltauro: non si può togliere all’azienda gli appalti già aggiudicati, ma forse si può bloccarle gli utili, nel momento in cui si provasse che ha vinto le gare in modo fraudolento.
La parola ora passa al governo.
Gianni Barbacetto
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Giugno 5th, 2014 Riccardo Fucile
PER I DELITTI CHE PREVEDONO PENE FINO A 5 ANNI ESCLUSI CARCERE, DOMICILIARI E SERVIZI SOCIALI
Venghino signori, venghino. Corrotti ed evasori, frodatori e pirati informatici, danneggiatori e bancarottieri: le belle sorprese non mancano mai per la banda dei “diversamente onesti”, colletti bianchi in testa che, ancora una volta, incassano l’assist del legislatore.
Un regalo non da poco, perchè chi commetterà certi tipi di reato, per quanto gravi (anche delitti che prevedono la reclusione fino a 5 anni), potrà evitare sia il carcere, sia i domiciliari, sia i servizi sociali, sia addirittura la macchia sulla fedina penale.
In sostanza, non verrà proprio punito.
La legge delega è la numero 67 dello scorso 28 aprile ed è già stata approvata dalla Camera.
A leggere bene, nascosto tra i classici sconti di pena, c’è il dono più apprezzato, che farà felice chi, per dirne una, ama creare discariche abusive.
Secondo il testo, sarà infatti da “escludere la punibilità di condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria” e anche, notate bene, quelle che prevedono “pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni”.
Solo che cinque anni non sono pochi.
Questa novità , come ricostruisce l’avvocato penalista Federico Penco, riguarda infatti la maggioranza dei reati ambientali e informatici, buona parte dei reati societari e alcuni reati tributari (ma anche, per dire, chi istiga alla pedofilia).
Si prevedono poi concitate riunioni di condominio: munitevi di chiavi appuntite, perchè rigare l’automobile del vostro vicino di casa potrebbe diventare di fatto lecito (e chi pensa che questa sia istigazione a delinquere, si dia pace: essendo un reato punibile da uno a cinque anni, anche questo rientra nel lungo elenco di quelli che verrebbero “perdonati”).
Il processo potrebbe dunque saltare in toto: ci si fermerà un passo prima, per valutare la sussistenza di due soli fattori, cioè la “particolare tenuità dell’offesa” e la “non abitualità del comportamento”.
Poi starà al giudice decidere se procedere o, nella logica di svuotare le carceri (e le case-domiciliari, e le strutture alla Cesano Boscone dove si sconta l’affidamento in prova), fare finta che non sia successo nulla.
Certo, alcuni vincoli reggono. Nel caso dei delitti contro l’ambiente, per esempio, il tizio che vuole farla franca deve volontariamente “rimuovere il pericolo ovvero eliminare il danno da lui stesso provocato, prima che sia esercitata l’azione penale”. Ma, se proprio non vuole, e dunque non può appellarsi alla particolare “tenuità ” del reato, non si disperi.
Perchè la modifica principale contenuta nella legge delega è ancor più generosa: “Per i delitti per i quali è prevista la pena della reclusione tra i tre e i cinque anni — recita l’articolo — il giudice può applicare la reclusione domiciliare”.
Se finora a evitare la galera erano di fatto i condannati fino a tre anni, e poi fino a quattro con le ultime “svuotacarceri”, l’asticella si alza ancora più, fino a cinque, nel nome di un’emergenza-celle ormai perenne (anche se molti penitenziari, nuovi o vecchi come l’Asinara, continuano a restare inutilizzati ).
E i regali non finiscono qui: anche per i reati puniti fino a quattro anni, l’imputato potrà chiedere la sospensione del processo con la “messa alla prova”.
Ancora una volta, basta risarcire il danno o eliminare le conseguenze pericolose del reato non solo per evitare la reclusione, ma addirittura perchè il giudice dichiari l’estinzione del reato stesso.
“Anche se la norma non è ancora entrata ufficialmente in vigore — racconta Mauro Lissia, giornalista — in Sardegna sta già interferendo con alcuni processi, tra cui uno per lottizzazione abusiva con 45 imputati, che è stato sospeso per vedere se è applicabile, al posto della reclusione, la messa in prova”.
Massimiliano Ravenna, avvocato difensore proprio in quel processo, conferma che il Tribunale di Cagliari la scorsa settimana si è riservato di verificare l’applicabilità delle nuove norme: “Ci sono molte lacune — spiega Ravenna — ma la legge è promettente. Ho fatto già sospendere anche un altro processo, a Chia, in cui il mio cliente è accusato di dichiarazione fraudolenta e uso di fatture per operazioni inesistenti”.
Buone notizie infine per chi, inaccontentabile, volesse rendersi direttamente irreperibile: verrà eliminato l’istituto della contumacia.
“Si prevede che a fronte dell’assenza dell’imputato, il giudice debba rinviare l’udienza e disporre che l’avviso sia notificato all’imputato personalmente a opera della polizia giudiziaria; quando la notificazione non risulta possibile, e sempre che non debba essere pronunciata sentenza di non luogo a procedere, il giudice dispone con ordinanza la sospensione del processo nei confronti dell’imputato assente”.
L’estate è alle porte e il Natale pure.
Beatrice Borromeo
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 5th, 2014 Riccardo Fucile
IL CANDIDATO SINDACO DEL CENTRODESTRA DI PAOLA CHIUDE LA CAMPAGNA ELETTORALE PER IL BALLOTTAGGIO CON L’ESIBIZIONE DEL FIGLIO DI SAVINUCCIO, IL PIU’ IMPORTANTE BOSS DELLA CITTA’
L’appuntamento per i fans è alle 19 in piazza Europa, nel quartiere San Paolo di Bari, vicino alla chiesa di San Gabriele,
E’ lì dove il candidato sindaco del centrodestra Domenico Di Paola chiuderà la campagna elettorale per il ballottaggio di domenica.
Tommy Parisi, figlio del più importante boss della città , Savinuccio, si esibirà – “ingresso libero” – nell’ambito della manifestazione che vedrà la partecipazione dei big dello schieramento.
A sostenere Di Paola, ci saranno anche Raffaele Fitto e Gianni Alemanno, Francesco Shittulli, Giorgia Meloni e Filippo Melchiorre.
L’annuncio del concerto è stata data dal cantante sulla sua pagina Facebook, invitando i suoi ammiratori a raggiungerlo numerosi
Tommy Parisi, nome d’arte di Tommaso Parisi, è figlio del boss barese del quartiere Japigia Savino Parisi, detto «Savinuccio».
Il pregiudicato, a capo dell’omonimo clan, era stato arrestato il primo dicembre 2009 e, dall’aprile 2011 era stato trasferito dal penitenziario di Tolmezzo, in provincia di Udine, a quello di massima sicurezza di Novara, per essere sottoposto al regime del carcere duro.
Prima di quell’arresto era tornato in libertà il 2 marzo del 2009 dopo 22 mesi di reclusione scontati perchè, nonostante l’obbligo di soggiorno a Bari, fu sorpreso dai carabinieri mentre assisteva, con personaggi legati alla Sacra corona unita, ad una corsa clandestina di cavalli nell’ippodromo in disuso di Monteroni di Lecce.
Prima ancora era stato scarcerato il 29 aprile 2007, dopo aver trascorso circa 13 anni di detenzione in carcere, scontando una condanna definitiva per associazione finalizzata al traffico di droga.
Ultimo, in ordine di tempo, il blitz Domino del dicembre 2009 in cui vennero arrestate 83 persone con le accuse di associazione mafiosa, tentativo di omicidio, traffico internazionale di droga, usura, turbativa d’asta e riciclaggio.
(da “La Repubblica“)
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Giugno 5th, 2014 Riccardo Fucile
COINVOLTO NON PER IL MOSE, MA PER ALTRI INTERVENTI DI CARATTERE AMBIENTALE ESEGUITI DAL CONSORZIO VENEZIA NUOVA
Un altro nome eccellente figura tra il centanaio di indagati nella nuova inchiesta sugli appalti del Mose, la grande opera a difesa di Venezia da alte maree e allagamenti.
Si tratta di Altero Matteoli, ex ministro dell’Ambiente e successivamente ministro ai Trasporti.
Lo si apprende da fonti della Procura di Venezia, che ha indagato Matteoli nell’ambito del maxi procedimento che ieri ha portato agli arresti 35 persone, tra cui il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni che, secondo fonti del Comune, è stato sospeso dall’incarico, assunto per il momento dal vicesindaco Sandro Simionato.
Matteoli, secondo indiscrezioni, sarebbe entrato nel gioco di dazioni di denaro, in cambio di favori, costruito da Giovanni Mazzacurati, ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, concessionario del ministero delle Infrastrutture per la realizzazione dell’opera, accusato di aver condizionato l’assegnazione dei lavori con la creazione di fondi neri da destinare al finanziamento illecito.
Il coinvolgimento di Matteoli non riguarda però le opere del Mose, ma altri interventi di carattere ambientale eseguiti sempre dal Consorzio.
Matteoli ha sempre smentito un suo coinvolgimento nella vicenda.
I provvedimenti della Procura veneziana hanno portato in carcere 25 persone, 10 ai domiciliari.
Gli interrogatori inizieranno tra oggi e domani.
Dalle oltre 700 pagine dell’ordinanza di arresto firmata dal gip di Venezia Alberto Scaramuzza emerge l’affresco di un sistema illecito che per anni avrebbe visto imprenditori pagare ‘stipendi’ a politici e autorità incaricate di vigilare sulla correttezza dei lavori, per ottenere in cambio favori o per evitare controlli.
(da “La Repubblica“)
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Giugno 5th, 2014 Riccardo Fucile
E PARLA DEI FINANZIAMENTI AL PARTITO
“Sono stato io a scegliere di andarmene dal Pds perchè già da allora era iniziata la linea dei complotti, avevo visto il partito dei 101 che ha fatto fuori Prodi ultimamente dalla Presidenza della Repubblica. D’Alema era maestro dell’organizzazione di questi gruppi di apparato“.
Lo rivela a “Lo schiaffo” (Class TV) Achille Occhetto, che ripercorre gli anni passati della sinistra italiana, dalla svolta della Bolognina alla gioiosa macchina da guerra fino alla sconfitta elettorale del 1994.
E spiega: “Quei gruppi si misero contro di me non tanto per la prima quanto per la seconda Bolognina, quando ci furono alcuni pochi casi che lambirono anche noi a Milano e io chiesi scusa agli italiani. Dissi che ci voleva un partito che non dipendesse più da finanziamenti esterni e che il rapporto con le cooperative doveva cambiare. Ma in Emilia mi ritrovai in isolamento totale, c’era un sistema di potere intorno a me: cominciarono a pensare che ero pericoloso perchè io volevo semplicemente attuare la politica di Enrico Berlinguer“.
Occhetto aggiunge: “Me ne sono andato perchè la maggioranza stava in un’altra direzione. Non è un caso che i miei successori scrissero libri e articoli in cui elogiavano Craxi, considerandolo moderno, e denigravano Berlinguer, considerandolo quasi un fratacchione moralista. Solo oggi, in occasione della celebrazione della sua morte, vedo lacrime di coccodrillo”.
E conclude: “Prima di dare le mie dimissioni, fummo costretti a licenziare una parte notevole dell’apparato perchè non avevamo più soldi. Dopo che sono andato via, i soldi sono di nuovo tornati“
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 5th, 2014 Riccardo Fucile
LA PARTE SEGRETA DELL’INDAGINE PORTA IN INDONESIA… IL COMMERCIALISTA: “O FA IL COLPO GOBBO O NON E’ DA LUI”
La parte segreta dell’indagine sul Mose che ha portato a 35 arresti tra cui il sindaco di Venezia è quella che porta in Indonesia.
Nell’ordinanza di arresto si fa riferimento agli affari indonesiani di Giancarlo Galan e della moglie nel settore del gas.
Un affare di dimensioni enormi che però non è contestato all’ex ministro.
Il 19 luglio 2013 all’aeroporto di Tessera è stato fermato il commercialista di Galan, Paolo Venuti, di ritorno da un viaggio in Indonesia con la moglie Alessandra.
Tra le carte trovate in suo possesso c’era documentazione relativa alla società Thema Italia Spa che secondo gli investigatori sarebbe intestata ad altri ma riferibile anche ai coniugi Venuti.
Dal bilancio del 2012 risulta che la Thema Italia Spa, con sede nello studio padovano del commercialista di Galan, controlla il 40 della Ans Indonesia e il 50 per cento della Insar Indonesia.
Sempre dal bilancio si scopre che “il gruppo Isar Gas nel 2012 ha venduto … per un fatturato complessivo di 126,5 milioni di dollari con un Ebit (cioè utile prima delle tasse) di 12,6 milioni di dollari “portando Isar Gas a diventare il secondo gruppo indonesiano nella distribuzione del gas”, scrive il presidente della Thema Italia che nel 2012 era anche il socio al 55 per cento: Roberto Bonetto, estraneo all’entourage del politico e a tutti gli affari contestati.
Gli investigatori scrivono che la famiglia del commercialista di Galan, Paolo Venuti, possiede però obbligazioni della Thema per un valore superiore a un milione di euro tramite un mandato fiduciario alla Sirefid dietro il cui schermo si intravede la moglie di Venuti.
La società fiduciaria Sirefid, notano gli investigatori con malizia, è la stessa usata dai coniugi Galan per altre operazioni.
Dopo la notifica degli accertamenti bancari a ottobre 2013, però, le obbligazioni della Thema sono state rimborsate ai Venuti e il milione di euro è finito in Croazia. Ovviamente su un conto corrente fiduciario ma intestato a un’altra società : la Unione Fiduciaria Spa.
Agli atti c’è un’intercettazione nella quale la moglie di Venuti, Alessandra Farina dice al marito: “Cosa dici tu di questi affari della Sandra (la moglie di Galan, ndr) che sembra che stia diventando miliardaria?” e poi ancora: “Non è la Sandra ma è Giancarlo a cui viene riconosciuto assolutamente un ruolo perchè la Sandra, Scaroni…”.
Poi Venuti spiega alla moglie che il gas, in Italia, arriva al gassificatore di Porto Tolle e poi i due parlano di affari da miliardi sognati dalla moglie di Galan.
Il commercialista dice: “O fai il colpo gobbo o non è da loro”.
La moglie chiosa: “cosa vuol dire, che chiudono tutto e vanno alle Bahamas?”.
Marco Lillo
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 5th, 2014 Riccardo Fucile
PER IL MOSE CI SONO VOLUTI NOVE VOLTE I TEMPI DEL COLOSSALE PONTE SUL DONGHAI
«Votatelo, pesatelo, se sbaglia impiccatelo», diceva un antico adagio veneziano.
Certo, se anche le accuse contro Giorgio Orsoni, Giancarlo Galan e gli altri politici e affaristi coinvolti nell’inchiesta trovassero conferma nei processi e nelle sentenze, nessuno pretende corda e sapone.
Il quadro di corruzione disegnato dai giudici, però, è così vasto da imporre finalmente una guerra vera, non a chiacchiere, contro la mazzetta
L’«affare» del Mose è esemplare. Perchè c’è dentro tutto.
C’è dentro lo spaccio dell’«emergenza», dei lavori da fare a tutti i costi in tempi così drammaticamente rapidi da non consentire percorsi lineari nei progetti, nella scelta degli esecutori, nelle gare d’appalto, nelle commesse.
Risultato: di fretta in fretta sono passati 31 anni, nove volte di più di quelli bastati alla Cina per fare il ponte di Donghai, che coi suoi 32 chilometri a 8 corsie sul mare collega Shanghai alle isole Yangshan
C’è dentro l’idea della scorciatoia per aggirare (non cambiare: aggirare) le regole troppo complicate con la creazione d’un concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova che, dopo tre decenni passati senza lo straccio di una concorrenza e dopo essere stato così pesantemente coinvolto negli scandali coi suoi massimi dirigenti, giura oggi d’essere estraneo alle brutte cose e pretende di presentarsi come una verginella al primo appuntamento.
C’è dentro quel rapporto insano tra la cattiva politica e il cattivo business così stretto da chiudere ogni spazio ai controlli veri sui costi, sui materiali, sugli uomini, sui tempi.
Basti ricordare l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: «La scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento…».
Sono passati quasi vent’anni, da quella scadenza: ci saranno anche stati degli intoppi, ma cosa succederebbe, in Germania o in Olanda, se lo Stato si sentisse preso per i fondelli sui tempi in modo così sfacciato?
E cosa direbbero i leghisti da tre lustri al governo del Veneto se un cantiere interminabile come quello del Mose fosse ancora aperto dopo tanti anni a Reggio Calabria o a Napoli?
C’è dentro il disprezzo per i pareri discordanti e più ancora, alla faccia del chiacchiericcio federalista, per le opinioni del Comune, tagliato fuori da decisioni prese altrove: «Sinistra e destra, sul Mose, erano d’accordo, e io sono rimasto inascoltato», ha accusato più volte, negli anni, Massimo Cacciari.
Ieri l’ha ripetuto: «Le procedure erano tali che da sindaco io non potevo toccare palla». Una linea verticistica che la Serenissima non avrebbe accettato mai.
Al punto di pretendere, se c’erano di mezzo opere idrauliche, che oltre a quello degli ingegneri si sentisse il parere di «otto pescadori» e cioè «due da S. Nicolò, uno da Sant’Agnese, uno da Muran, due da Buran e due da Chiozza».
E poi c’è dentro, in questa brutta storia, il continuo rincaro delle spese, la peste bubbonica delle nostre opere pubbliche: doveva costare un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose.
E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto che ne basteranno sei
C’è dentro la blandizia verso i possibili «amici» e insieme l’insofferenza arrogante verso ogni critica, come nel caso della stupefacente querela per «accanimento mediatico» (avevano dato battaglia sui giornali) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di avere criticato il costosissimo progetto delle paratie mobili, la gallina dalle uova d’oro del consorzio.
C’è dentro la ripartizione di incredibili privilegi, come ad esempio, per citare le Fiamme Gialle, «il compenso di un milione di euro riconosciuto nel 2009» all’allora presidente Giovanni Mazzacurati «a titolo di “una tantum”, nonchè i periodici rimborsi spese privi di giustificazione contabile», per non dire delle case affittate in California, delle consulenze distribuite ad amici e parenti o della liquidazione finale di 7 milioni di euro incassata dopo l’arresto: l’equivalente di trentuno anni di stipendio del presidente della Repubblica.
Una buonuscita stratosferica, per un uomo finito in manette
E tutti soldi pubblici. Sia chiaro.
Tutti soldi privatamente gestiti come in una combriccola di società private ma tirati fuori dalle tasche degli italiani. Per amore di Venezia. Per salvare Venezia dall’acqua alta dovuta non solo ai capricci della Natura e del Fato ma anche a interventi come la cosiddetta «sussidenza», cioè lo sprofondamento del suolo dovuta al pompaggio dell’acqua dolce nel sottosuolo o la creazione del canale dei petroli, un canyon lungo 14 chilometri, largo 200 metri e profondo fino a 17, scavato nel ventre di una laguna delicata la cui profondità media era di 110 centimetri.
E torniamo al rispetto per l’acqua, la terra, le barene della Serenissima Repubblica.
«Tre condition de homeni ruinano la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li Particulari», cioè i proprietari, scriveva nel ‘500 il Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino.
Scordava gli affaristi dell’appalto facile. Quelli della spartizione fra sodali.
Che non guardano alla destra o alla sinistra ma al business. O, per dirla alla veneta, ai «schei». Montagne di «schei».
Certo è che quest’ultima ondata di arresti colpisce i cittadini italiani, proprio mentre mostravano di voler credere in un riscatto e in una nuova speranza, come una frustata in faccia.
E dimostra che, nella scia dei moniti di papa Francesco che batte e ribatte contro il «pane sporco» del «dio tangente», è indispensabile una svolta vera. Nei fatti.
L’Expo 2015, i restauri a Pompei, il G8 alla Maddalena e poi all’Aquila, i primi interventi e poi la ricostruzione in Abruzzo, i Mondiali di nuoto, il Mose…
Non c’è Grande Evento, da anni, che non sia infettato dalla corruzione. E dopo ogni arresto, lagne su lagne. E tutti a chiedersi come sia possibile, come mai non cambi mai niente, perchè proprio qui e bla bla bla…
Poi, passata la tempesta di sabbia, appena si posa la polvere, le leggi che parevano ur-gen-tis-si-me vengono rinviate dal lunedì al martedì, poi alla settimana dopo, poi al mese seguente, poi all’autunno e da lì all’estate successiva…
Eppure è tutto chiaro: per vent’anni, come denunciano don Luigi Ciotti, Piercamillo Davigo e tanti altri, ogni sforzo della cattiva politica (troppo comodo dare tutta la colpa ai berlusconiani) è stato dedicato a smontare le leggi che c’erano e a buttare bastoni tra le ruote dei giudici.
Pochi numeri: nel decennio dopo la stagione di Mani Pulite, 1996-2006, secondo l’Alto Commissariato, le condanne per corruzione precipitarono dell’83,9%, quelle per concussione del 90,4%, quelle per abuso d’ufficio del 96,5%.
Come mai? Perchè l’Italia è più pulita? Magari!
L’abbiamo scritto ma vale la pena di ripeterlo: dice il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pènal curato dall’Universita di Losanna, che nelle nostre carceri solo 156 detenuti, lo 0,4% del totale, sono lì per reati economici e fiscali, tra cui la corruzione e la concussione.
Una percentuale ridicola. Dieci volte più bassa rispetto alla media europea del 4,1%.
È una coincidenza se la Germania, il Paese di traino del Continente, ha le galere più affollate di «colletti bianchi»?
Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno?
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera”)
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Giugno 5th, 2014 Riccardo Fucile
GRILLO TEME, IN CASO DI VOTO CONTRARIO SUL WEB, DI RIMANERE ISOLATO E CONTATTA PERSINO I CONSERVATORI INGLESI
Dopo aver bastonato i Verdi per giorni, Beppe Grillo chiede ufficialmente un incontro agli ambientalisti europei.
La novità , però, è che gli ecologisti si accorgono del bluff e respingono al mittente la proposta: «Abbiamo dei dubbi, l’offerta di dialogo di Grillo è reale oppure una semplice copertura di una decisione ormai presa?».
Tutti hanno capito, insomma, che il Movimento viaggia spedito verso l’accordo con l’Ukip. E preferiscono non sprecare tempo.
Il patto con gli euroscettici britannici sarà sancito dal voto degli attivisti il prossimo 12 giungo con un referendum on line.
La proposta di un faccia a faccia con i Verdi arriva di buon mattino sul blog.
Tocca a Messora, in un post, riferire di aver cercato un contatto con il leader no global e ambientalista Josè Bovè.
Per questo, a sera, recapita alla segretaria generale del gruppo verde Vula Tsetsi la richiesta formale di un incontro.
Nel frattempo, però, i grillini sondano anche i Conservatori inglesi guidati dai tories di David Cameron.
I Verdi, però, non ci stanno. Divisi al loro interno sul “caso Beppe”, fanno il punto in un’accesa riunione a Bruxelles.
La delegazione tedesca è contraria e minaccia strappi, mentre gli ecologisti francesi premono per un accordo.
Non a caso Bovè confida al Fatto quotidiano : «L’incontro si tenga in streaming». A sera, comunque, arriva il brusco stop.
In casa pentastellata, intanto, si prepara un’autentica rivoluzione. È ormai quasi certo il reset dello staff della comunicazione della Camera e l’annuncio dei nuovi responsabili.
Solo un faccia a faccia tra Nicola Biondo e Gianroberto Casaleggio, previsto già oggi a Milano alla presenza dei capigruppo, può modificare i piani del quartier generale.
Al Senato, intanto, Claudio Messora lascia la poltrona di capo comunicazione, traslocando a Bruxelles per seguire i neo eletti.
Per i deputati, intanto, è il giorno dell’ennesima seduta di autocoscienza.
Disertato da mezzo gruppo parlamentare, il summit di Montecitorio segna l’ennesimo conflitto interno al Movimento.
I dissidenti storici, preso coraggio dopo lo shock elettorale, osano addirittura esplicitare il “problema Casaleggio”: «È lui che dipende da noi – chiedono all’unisono – o siamo noi che dipendiamo da lui per la comunicazione?».
La domanda sembra retorica. A un certo punto si affaccia pure Silvia Virgulti, la “tv coach” che criticò il cappellino di Casaleggio a In mezz’ora.
Non c’è Biondo, invece. Anche i moderati, esasperati da mesi di cerchio magico, mettono nero su bianco le proposte per cambiare radicalmente rotta.
«Smettiamola di salire sui tetti e di occupare i banchi del governo», si scaldano.
Lo scontro continua.
Tommaso Ciriaco
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