Giugno 4th, 2016 Riccardo Fucile
NEL COMUNE DELLA LOCRIDE ELEZIONI RINVIATE PER MANCANZA DI CANDIDATI: “SE CI PRESENTIAMO, DOPO DUE MESI CI ARRESTANO SENZA SAPERE PERCHE'”
Schiacciata dall’ombra dei clan, abbandonata dalla politica e dallo Stato, San Luca si prepara con disincanto al weekend che avrebbe potuto darle un sindaco.
Invece, per un altro anno ancora, sarà un commissario prefettizio a governare il piccolo paese conosciuto come la “mamma della ‘ndrangheta” e per le faide che ne hanno insanguinato le strade.
“Questo è il paese di Corrado Alvaro, non dei delinquenti”, dicono arrabbiati i vecchi in piazza. La mancanza di un’amministrazione eletta invece non fa arrabbiare nessuno. Si accetta come l’avvicendarsi delle stagioni.
Ma è da tre anni che le elementari regole della rappresentanza democratica sono sospese.
Nel maggio 2013, il Viminale ha decretato lo scioglimento per mafia dell’amministrazione, azzoppata dall’arresto dell’ultimo sindaco eletto, Sebastiano Giorgi.
Un tempo simbolo dell’antimafia, Giorgi è stato scoperto dalla Dda di Reggio Calabria in combutta con i clan del paese, cui consegnava appalti e lavori.
Non meno rovinosamente è tramontata la stella di Rosy Canale, un tempo volto del “Movimento delle donne di San Luca”, arrestata insieme al sindaco per truffa.
Da reggina, aveva deciso di stendere la propria ala protettrice sul paese, ramazzando finanziamenti per dare una prospettiva alle sue donne.
O almeno così diceva. In realtà – hanno scoperto i magistrati – quei soldi servivano solo a finanziare acquisti personali di Canale, che per questo è stata condannata a quattro anni di carcere.
Un processo cui il paese ha assistito con vago disinteresse, ma che fa ancora masticare amaro. “Non abbiamo bisogno di altre Rosy Canale, quella è venuta a San Luca solo per farsi pubblicità “, dicono i ragazzi in piazza. Ma nessuno di loro ha neanche immaginato di prendere sulle spalle i progetti promessi, per dare loro seguito. Allo stesso modo, il paese sembra rassegnato a lasciarsi amministrare.
Un anno fa, a commissariamento concluso, un’unica lista civica con a capo Giuseppe Trimboli ha provato a proporsi ai sanluchesi, ma in troppi l’hanno snobbata.
Sui 3.446 aventi diritto al voto, solo 1.485 cittadini si sono recati alle urne. Il quorum obbligatorio è stato mancato e il paese si è arreso al commissariamento. Oggi, la partita non si gioca neanche.
Mentre altrove si assestano le ultime stoccate di campagna elettorale, San Luca inganna il pomeriggio di un’estate che non vuole arrivare nella piazza principale del paese. Anziani e giovani se la dividono equamente, insieme ai due bar e alla sala slot che su di essa affacciano. Il circolo no, quello è solo dei ragazzi. E lì non si entra.
Di donne in giro neanche l’ombra. “Sono a casa, si riposano”, dice un ventiquattrenne che di politica non vuol sentire parlare: “Tanto qui chi si candida viene subito arrestato”.
Un’affermazione che a San Luca sembra quasi un dogma. “Volete sapere perchè non si fa una lista? – dice uno degli anziani seduti in piazza – Perchè ci fanno stare due mesi e poi ci sciolgono. Anzi, ci arrestano e non sappiamo neanche perchè”.
Tra le quattromila anime di San Luca, per i magistrati ci sono gli uomini di almeno tre fra i più potenti clan della Locride, senza contare la decina di famiglie di ‘ndrangheta che ruotano loro attorno.
I Nirta “La maggiore”, i Romeo “Staccu” e i Mammoliti hanno scritto di proprio pugno la storia della ‘ndragheta e continuano a determinarne il presente, nonostante arresti e faide ne abbiano nel tempo assottigliato i ranghi.
L’ultima tregua è stata firmata solo qualche anno fa, dopo la strage che il 15 agosto 2006 ha fatto scoprire alla Germania la ferocia della ‘ndrangheta. Ma di questo a San Luca non si parla.
Per il paese, la ‘ndrangheta non esiste. Solo alcuni – e a malincuore – ammettono “qui c’è la mafia, ma non è il paese della mafia”.
A parlare è Filippo Giorgi, sindacalista della Cgil, che con impegno e dedizione sta cercando di ritessere il filo di una tradizione antica, ormai quasi perduta. Un tempo a San Luca c’era la politica e c’era il sindacato.
Sono stati i lavoratori a tirare su con le proprie mani la camera del lavoro. Negli anni Settanta, quando la Locride era “l’Emilia rossa di Calabria” erano in tanti ad affollarne i locali, come la sede del vecchio Pci.
Adesso, quelle stanze ospitano il Partito democratico. “Ma è sempre chiuso, qui il partito non sta funzionando bene”, ammette Giorgi. “Sono bravi quelli, si presentano solo sotto elezioni. Tutti qua a chiedere voti, ma non hanno più neanche lavoro da dare”.
E a San Luca, il lavoro è merce rara e bene prezioso. “Qui erano quasi tutti erano forestali, qui ce n’erano quasi mille”, spiega Giorgi, ricordando come in molti casi quell’impiego pubblico passasse di padre in figlio, in omaggio a quel tacito accordo che per anni ha convertito la Forestale nel più grande ammortizzatore sociale della zona.
Poi anche quello ha dovuto fare i conti con i tagli, e San Luca e i paesi del comprensorio con la disoccupazione. E – di nuovo – con l’emigrazione. Come i loro nonni prima di loro, i giovani hanno ricominciato ad andare via in massa.
Chi resta, aspetta solo di avere la possibilità di scappare da un paese in cui non c’è un cinema, una biblioteca, una palestra, una pizzeria. Non c’è neanche un campetto in grado di ospitare la squadra di calcio, che prima di naufragare fra i debiti era riuscita ad aggiudicarsi la Coppa Calabria.
“Piano piano stiamo cercando di avviare dei progetti per coinvolgere le donne del paese, dare loro una prospettiva, uno sbocco, ma è un lavoro lento ed estremamente difficile”, dice Mimma Pacifici, segretaria della Cgil di Reggio Calabria- Locri. “San Luca – ammette – è un paese in cui bisogna procedere a piccoli passi”.
Irrigidito da diffidenza e forse troppi segreti, il paese, affamato di lavoro e progetti, si rassegna amaramente ad aspettare e a lasciarsi governare. “Questo commissario non è male”, finiscono per ammettere un po’ tutti. “Alcune cose, come la sistemazione dell’acquedotto, le sta facendo”. Al domani nessuno ci pensa, perchè – afferma un anziano in piazza – “qui ci sono genitori costretti a mantenere i figli. Qui non c’è lavoro, non c’è futuro, non c’è niente”.
E lo Stato che fa? “Qui lo Stato lo vediamo solo quando i carabinieri vengono ad arrestare qualcuno”.
Alessia Candito
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 4th, 2016 Riccardo Fucile
L’OMAGGIO A NINETTA BAGARELLA… I RAPPRESENTANTI DI POLIZIA E CARABINIERI HANNO LASCIATO IL CORTEO
Il confrate suona la campanella e la processione si ferma, proprio davanti a casa Riina, in via Scorsone 24,
nel cuore di Corleone.
Ninetta Bagarella, la moglie del capo del capi rinchiuso al 41 bis, è al balcone. Guarda soddisfatta la vara di San Giovanni Evangelista e sorride alle sue sorelle, Matilde e Manuela, che sono accanto a lei. Mentre la folla acclama il Santo.
L’ultima processione che ha attraversato Corleone è già diventata un caso.
Domenica pomeriggio, quell’inchino alla moglie di Salvatore Riina non è passato inosservato.
Il commissario di polizia e il maresciallo dei carabinieri, che erano poco distanti, hanno subito lasciato la processione. E hanno inviato una relazione alla procura distrettuale antimafia.
Perchè i Riina sono ancora un simbolo in Cosa nostra: nelle ultime intercettazioni dei carabinieri, i boss del paese invocavano addirittura la mediazione di donna Ninetta per risolvere vecchie controversie.
E, intanto, si davano un gran da fare per inviare un po’ di soldi a Salvuccio Riina, il figlio del capo di Cosa nostra che dopo otto anni di carcere ha deciso di trasferirsi a Padova e scrivere (a modo suo) un libro sulla famiglia.
Adesso, c’è un’indagine su quella processione. E i primi accertamenti hanno già portato a un risultato: è emerso che uno dei membri della confraternita di San Giovanni è cugino di secondo grado della Bagarella, si chiama Leoluca Grizzaffi.
Il parroco di Santa Maria, padre Domenico Mancuso, è amareggiato: “Ho ribadito alle forze dell’ordine che non è mia usanza sostare davanti ai potenti o pseudo potenti – dice – quella non era una sosta prestabilita, è accaduto. Mi rendo conto che ci voleva più prudenza”.
Il sacerdote ha già convocato i confrati. “Tutti insieme abbiamo stabilito che la processione di San Giovanni non passerà mai più da via Scorsone”.
Parole ancora più dure arrivano dal vescovo di Monreale, monsignor Michele Pennisi: “Su episodi come questi non transigo. Ho già nominato una commissione d’inchiesta, sono in attesa di una relazione. Intanto, ho proposto al questore di Palermo di stilare un protocollo d’intesa, per prevenire altri episodi: propongo che d’ora in poi anche le soste delle processioni siano concordate con le forze dell’ordine, per evitare spiacevoli sorprese”.
Nei mesi scorsi, monsignor Pennisi aveva anche imposto alla confraternite di inserire nello statuto una clausola: “Nessun pregiudicato per mafia può far parte delle nostre associazioni”.
Ma Leoluca Grizzaffi è un perfetto incensurato. Eppure, attorno a quel cognome c’è grande attenzione da parte della procura e delle forze dell’ordine.
Un altro Grizzaffi, Giovanni, ancora per qualche mese in carcere, viene citato come fosse il messia nelle ultime intercettazioni: l’uomo forte che Cosa nostra aspetta per ritornare ai fasti di un tempo.
I boss cercano di riorganizzarsi. Nei mesi scorsi, è emerso che erano in contatto addirittura con il fratello del sindaco, Lea Savona.
Il prefetto di Palermo, Antonella De Miro, ha inviato gli ispettori al Comune.
Salvo Palazzolo
(da “La Repubblica”“)
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Giugno 4th, 2016 Riccardo Fucile
GRAZIE CAMPIONE PER NON AVER MAI ACCETTATO LA CONVENIENZA, LE REGOLE COMUNI E IL TORNACONTO PERSONALE
Muhammad Alì se ne è andato, leggero come sempre, a 74 anni, colpito da una malattia respiratoria complicata dal morbo di Parkinson.
Altri, meglio di me, racconteranno la sua grandezza di pugile, che cominciò nel 1960, alle Olimpiadi di Roma, con la medaglia d’oro nei pesi mediomassimi.
Io voglio, semplicemente, narrare dell’uomo che rappresentò, per la mia generazione, un esempio di coraggio e di lotta.
Rinunciò al suo nome di nascita Cassius Clay (“Perchè è da schiavo”), si convertì all’Islam e pagò con il carcere, all’inizio della sua luminosa gloria, per aver rifiutato, nel 1967, di partire per la “Sporca Guerra” del Vietnam.
Fu uno dei paladini del movimento per la liberazione degli afroamericani: non più catene, ma solo diritti. Come i bianchi, come tutti gli altri.
Non abbassò mai la testa: sul ring, come nella vita.
Anche il morbo di Parkinson non fermò la sua generosità , il suo battersi per gli altri, per gli emarginati, i deboli, gli indifesi.
Lo ricordiamo ad Atlanta, quando ultimo tedoforo, diede il via ai Giochi del 1996: il tremore delle mani non tolse nulla alla sua grandezza, alla sua nobiltà .
Lui era ancora lì a offrirsi, senza maschere, senza timori, alla gente.
Nudo, vero, autentico.
Fu, per i ragazzi come me, noi che sognavamo la rivoluzione e un futuro migliore, un esempio da seguire. Un mito.
L’America di Obama deve molto a questo atleta, che danzava sul quadrato e sui sogni di libertà di milioni e milioni di persone.
Cambiò il pugilato, con quel suo stile che rifiutava la violenza per la violenza, ballava, parlava, rideva. Era la meraviglia e l’arte.
Era il campione delle sfide impossibili. Davvero “una farfalla”.
Lo raccontò alla perfezione David Remnick, direttore del settimanale “New Yorker”, definendolo “Il re del mondo”.
Grazie campione, grazie per non aver mai accettato la convenienza, le regole comuni, un facile tornaconto personale.
Ti ricorderemo, splendido e orgoglioso, su quell’immenso ring che si chiama giustizia, tolleranza e verità .
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 4th, 2016 Riccardo Fucile
MUHAMMAD ALI E’ STATO IL PIU’ GRANDE SPORTIVO DEL SECOLO SCORSO: “I CAMPIONI NON SI FANNO NELLE PALESTRE, MA CON QUELLO CHE HANNO NEL PROFONDO: UN DESIDERIO, UN SOGNO, UNA VISIONE
Sarebbe troppo facile affermare che Muhammad Alì ha perso il match più difficile della carriera, quello con il
morbo di Parkinson, di cui soffriva da oltre 30 anni e che all’ospedale di Phoenix, dove era stato ricoverato due giorni fa per problemi respiratori, ha posto fine alla sua straordinaria esistenza all’età di 74 anni.
Certo, ormai da tanto tempo le sue parole non erano i proiettili lanciati nelle sue grandi battaglie, sul ring e per i diritti civili, ma l’intensità dello sguardo era rimasta sempre la stessa nonostante quel velo calato impietoso.
Alì ha battuto anche la malattia, usando le sue idee di libertà e giustizia per danzare come una farfalla e pungere come un’ape.
Quel morbo maledetto irriso già ad Atlanta nel 1996, quando accese la torcia olimpica.
Non combatteva da 15 anni, ma forse quella sera fu il round più bello della vita: Parkinson messo alle corde da quel coraggio di mostrarsi malato, dalla fragilità avvolta in un commovente tremolio per un uomo che aveva avuto il mondo in pugno. Da quella notte in Georgia sono passati tanti anni, tra una finta, un jab e una provocazione.
Quel Parkinson che non gli impedì l’ultimo saluto al più acerrimo rivale, Joe Frazier, l’uomo che Alì in una leggendaria trilogia di sfide ha sofferto più di tutti.
Si stavano tanto antipatici. Frazier lo spedì al tappeto al Madison Square Garden di New York nel 1971: un gancio sinistro perfetto, bello e intenso come un raggio di luce nella notte.
Alì si prese la rivincita due anni dopo. Poi ci fu Manila 1975, il match più brutale di sempre. Alì si divertiva a prendere a pugni un pupazzetto che raffigurava un gorilla per sbeffeggiare smokin’ Joe, sul ring i due quasi si uccisero, lasciarono lì una parte del fisico e dell’anima.
Alì vinse, ma riconobbe che se l’avversario non avesse abbandonato alla fine del quattordicesimo round, forse lui stesso non si sarebbe ripresentato sul ring.
E poi ancora, in flash che si sovrappongono non tenendo conto del tempo, Alì alle Olimpiadi di Londra: gli occhi nascosti dietro grandi occhiali neri, non più di un cenno di saluto.
Eppure è stato l’unico in tutti i Giochi a tenere testa come popolarità ad Elisabetta II che dava spettacolo con l’ultimo 007. Alì ha dato ragione al Jack London, che non ha potuto conoscerlo eppure è come se lo avesse conosciuto quando affermò: “Preferirei di gran lunga essere campione del mondo dei pesi massimi — cosa impossibile — che re d’Inghilterra o presidente degli Stati Uniti o kaiser di Germania”.
Tante cose che fanno capire come sia riduttivo parlare del Muhammad Alì pugile. Joe Louis o, scendendo dai massimi ai medi, Ray Sugar Robinson forse sono stati complessivamente superiori sul ring, resta comunque questione di opinioni…
Ma Ali è stato il più grande sportivo di tutti i tempi. Mai una banalità , ma un continuo bersagliare il perbenismo di una certa America, conservatrice ed incapace di accettare che il campione del mondo dei pesi massimi rifiutasse di ‘onorare’ la patria nella follia del Vietnam. ‘
‘Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro…”. Non una frase ad effetto, ma una coraggiosa scelta di coscienza che gli costò il ritiro della licenza e la perdita del titolo negli seconda parte degli anni sessanta. Già negro.
Come diceva lui, con il nome da negro, Cassius Clay, si rivelò al mondo vincendo l’oro a Roma alle Olimpiadi del 1960.
La leggenda narra della medaglia gettata in un fiume dopo che un camierere bianco si era rifiutato di servirlo. Poi si convertì all’Islam e per tutti fu Muhammad Alì.
Quando nel 1964 conquistò il titolo mondiale contro Sonny Liston finì subito nell’occhio del ciclone. Quel giovane spaccone così linguacciuto che abbatte un picchiatore brutale, anche nella rivincita ed in un solo round. Era la notte del colpo che nessuno vide e che a distanza di oltre 50 anni fa ancora discutere.
‘I campioni non si fanno nelle palestre. I campioni si fanno con qualcosa che hanno nel loro profondo: un desiderio, un sogno, una visione”.
Una visione portata fuori dalle sedici corde per riaffermare il principio indissolubile della pace. Alì è stato uno dei pochi personaggi di fronte ai quali è impossibile restare indifferenti.
Per chi ama il pugilato è stata la sveglia nel cuore della notte -questioni di fuso orario – per assistere ai suoi capolavori. Ma anche coloro ai quali del pugilato non frega nulla, hanno parlato di lui.
Chi lo venerava, chi non vedeva l’ora che qualcuno gli desse una lezione per quel suo modo linguacciuto di indispettire gli avversari.
Perseverante ed ossessivo quando si trattava di raggiungere i propri obbiettivi. ”I want Holmes, I want Holmes”, ripeteva ossessivamente in preparazione al match più impossibile.
Sapeva di non potercela fare, ormai trentottenne e debilitato nel fisico, ma voleva il più giovane e forte rivale, quel Larry Holmes che in una straordinaria manifestazione di rispetto e affetto gli risparmiò una punizione pesantissima prima dell’inevitabile conclusione al decimo round.
Uomo da show a trecentosessanta gradi. Lo fu anche nel 1974 nello Zaire, allora si chiamava così la Repubblica Democratica del Congo.
George Foreman, gigante texano di potenza disumana soggiogato dalla personalità del rivale: campione ridimensionato a sfidante, nero trasformato in amico dei bianchi, indesiderato inquilino dell’Africa Nera.
Foreman arrivò a Kinshasa come un pugile che voleva conservare il proprio titolo, Ali come il liberatore di un intero continente.
Foreman scese dall’aereo con Dago, il suo pastore tedesco, e gli africani ripensarono a quei cani utilizzati durante la tirannia di re Leopoldo per terrorizzarli.
Alì fu invece riconosciuto come il fratello nero, e tutti lo accolsero da re, la sua macchina solcava le strade polverose, e tra le nuvole i volti dei piccoli neri lanciavano il loro grido di implorazione. ”Ali boma ye”, ”Ali uccidilo”.
”George faceva male, ogni suo colpo qualche danno lo provocava sempre, ti spaccava un muscolo, ti incrinava qualche osso”.
Ma lui seppe sopportare stoicamente, per otto round, poi zittì i detrattori, tornando a pungere come un ape e danzare come una farfalla, e per Foreman non ci fu scampo.
I più giovani, ma anche chi lo ricorda bene, vadano a vedersi – facilissimo da trovare su internet – il match di Kinshasa.
Otto round, non un semplice incontro di pugilato, ma una vera e propria autobiografia di un mito.
C’erano proprio George Foreman e Larry Holmes, nell’ultima occasione ufficiale alla quale Alì era intervenuto, o scorso ottobre nella sua città natale, Louisville nel Kentucky, in occasione del tributo di ‘Sports Illustrated’ nei suoi confronti.
La sua morte è avvenuta quando in Italia era quasi l’alba. Tanti anni fa era il momento di andare al lavoro, o a scuola, o rimettersi a letto dopo aver assistito ai suoi match. Alì è morto, immortale Alì.
(da “La Repubblica”)
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