Giugno 27th, 2016 Riccardo Fucile
L’UNIVERSITA’: “NON SONO CHIARE LE CONSEGUENZE DEL VOTO INGLESE PER LA VOSTRA MOBILITA'”
Non c’è posto più adatto per valutare lo sconcerto della Generazione Erasmus di fronte alla Brexit, che l’Università di Siena, fondata nel 1240.
«Noi incoraggiamo gli studenti perchè colgano l’opportunità dell’Erasmus — dice il rettore Angelo Riccaboni — e abbiamo un interscambio speciale con la Gran Bretagna».
Ma al Graduation Day, 500 studenti, Carlo Cottarelli ospite d’onore, si avvertiva fra i ragazzi una profonda preoccupazione.
«La maggior parte degli studenti di Siena sceglie proprio il Regno Unito come sede di Erasmus, e gli inglesi vengono in massa: per loro Siena è un punto di riferimento, e Chiantishire nome quasi ufficiale».
«Quello che stiamo vivendo è destabilizzante dal nostro punto di vista», conferma Isabella Liso, laureata a Siena in Economia delle Istituzioni.
«Abbiamo avuto la fortuna di vivere l’Europa nella sua connotazione iniziale e piena, e siamo cresciuti come cittadini europei. Il culmine è la possibilità di studiare in altri Paesi e il Regno Unito era il posto più prestigioso. Ora cambiano le certezze, la percezione di Unione. L’inglese si potrà imparare ovunque ma cultura e formazione saranno monche di un pezzo importante d’Europa».
«Abbiamo ricevuto un’algida mail dall’ufficio Erasmus dell’università : l’Agenzia Nazionale – recita – non ci ha ancora dato notizia sulle ripercussioni che l’esito del Brexit avrà sulla mobilità 2016/17. Di colpo si mette in dubbio il sogno di tanti studenti», commenta Matteo Molinari, studente in Management & Governance (in inglese).
«La Brexit mina il senso di cittadinanza a una comunità più ampia di un Paese. Essere giovani europei vuol dire essere aperti, connessi, con una e marcia in più dei nonni. Capire le differenze, rispettare le diversità . Dato che oltre che a Cambridge ho studiato in America conosco le difficoltà del visto, dell’assicurazione sanitaria, dei costi che scoraggiano la mobilità ».
Allo stesso corso partecipa Alessandro Roscini: «Il Regno Unito è centrale per le opportunità di studio e lavoro. Sono tutti i miei coetanei penso che esperienze all’estero siano un requisito di formazione indispensabile. La Brexit mi spaventa: preclude la possibilità di assaporare un’esperienza che cambia la vita».
Francesca Bandini, dopo gli studi a Siena in Gran Bretagna ci si è trasferita: «Vanno richieste clausole favorevoli per chi vuole lavorare in Inghilterra. Il referendum non è stato il modo migliore per decidere su una questione così importante: in Inghilterra le elezioni hanno portato un’ondata di nazionalismo e xenofobia».
A Siena c’è anche una comunità di studenti inglesi trasferiti qui per l’intero periodo universitario.
Al primo anno di Scienze ambientali è iscritto Gianni Henson, quasi 20 anni: «Mi trovo bene qui e mi preoccupa qualsiasi turbamento a questa condizione. Avverto disagio: per l’economia e la democrazia inglese, scossa da queste richieste di nuovo referendum che non fanno altro che complicare un quadro già fosco. Spero che il mio Paese abbia la capacità di ritrovare unità , coerenza e forza».
L’Erasmus ha ricadute benefiche a lungo termine.
Marialuisa Di Simone, giornalista, ha vissuto nel 1997-98 con l’Erasmus a Swansea, una delle quattro sedi dell’Università del Galles. «Studiavo lingue, avevo una travolgente passione per la letteratura inglese dai Viaggi di Gulliver a Jane Eyre, così ho fatto il concorso per andare nel Regno Unito. E’ stata un’esperienza che mi ha aperto la mente. Ho seguito il corso Geoffrey Chauser, l’autore dei Canterbury Tales, e la mia tesina era la traduzione dal Middle English in inglese moderno. Un altro corso si chiamava British policy and european integration: il professore ci ripeteva che la maggioranza dei britannici ci sta proprio a disagio in Europa».
L’ateneo di Siena, come Cambridge e Oxford, ha un’attiva sezione “Alumni”, ex studenti.
La dirige Cinzia Angeli, dirigente P&G: «Il fatto che uno dei paesi della nostra Europa decida di fare un passo indietro è miope e anacronistico. Mentre qui a Siena si cerca di creare connessioni intergenerazionali ed internazionali, di ascoltare i millennial, condividere esperienze, in Gran Bretagna una minima maggioranza decide di chiudere frontiere e opportunità di scambio».
L’università senese per Londra è ancora di più: «Il British Council — dice il rettore Riccaboni – sceglie un’istituzione per ogni Paese a cui affidare il dialogo culturale ed economico. Per l’Italia è la Certosa di Pontignano, think-tank presieduto per l’Italia da Enrico Letta e per la Gran Bretagna da David Willetts, ex ministro dell’Università , che si riunisce ogni anno appunto nella Certosa, centro congressi dell’università ».
La riunione 2016 è il 15 settembre: «La data è stata scelta per evitare la sovrapposizione con i congressi politici britannici d’autunno. Ma quest’anno tira aria di congressi straordinari».
(da “La Repubblica“)
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Giugno 27th, 2016 Riccardo Fucile
LE BALLE DI UNA ORGANIZZAZIONE AGRICOLA CHE NON DICE LA VERITA’
Si può essere pro o contro l’Europa. Si può amare l’integrazione o preferire di restare indipendenti e titolari della propria sovranità . Si può fare tutto, e ognuno è libero di pensarla come ritiene più giusto.
Una cosa non si deve fare. Soffiare sul fuoco e raccontare le cose diverse da quello che sono. Perchè così si gioca al massacro, non si ottiene nulla, si alimentano le crisi, si danneggiano gli altri e se stessi.
L’annuncio della Coldiretti
Stamane è stato pubblicato un comunicato di un’importante organizzazione agricola. Testuale: «La prima risposta alla Brexit viene dalla riduzione della taglia minima delle vongole pescabili in Italia che rappresenta una di quelle misure odiose che allontanano i cittadini e le imprese dall’Unione Europea».
E poi: «E’ atteso lunedì finalmente il parere positivo sul piano di Gestione delle vongole italiano con al suo interno la deroga di raccolta del mollusco-bivalvi con taglia minima abbassata da 25 millimetri fino a 22 millimetri, da inviare a Consiglio e Parlamento Europeo per l’approvazione entro i prossimi due mesi».
Di che cosa si tratta
La notizia è vera, del resto l’abbiamo scritta giorni fa sul nostro giornale. Il governo italiano è riuscito a spiegare alla Commissione europea che i vongolari hanno difficoltà a rispettare le regole, Bruxelles li ha ascoltati e gli è venuto incontro.
Così fanno le persone, e le istituzioni, adulte. Si parlano e cercano una soluzione.
La cornice è tuttavia falsa.
Non è la prima risposta del dopo Brexit, visto che la riunione è stata convocata con ampio anticipo rispetto al referendum.
E la misura “odiosa” si riferisce ad un atto con cui nel 2006 – per disciplinare la pesca delle vongole in modo da poterne garantire la sostenibilità e, quindi, la possibilità del settore di restare in vita – ha scelto come limite europeo quello vigente introdotto in Italia da un decreto del presidente Saragat a fine 1968.
In parole semplici, dieci anni fa l’Europa ha scelto per l’Italia la taglia che era già in vigore in Italia.
Poi, davanti alle spiegazioni arrivate da Roma, ha accettato di rivederla.
Come questo possa essere “odioso” e “allontanare i cittadini e le imprese dall’Ue” è un concetto di difficile comprensione che, a ogni effetto, contribuisce ad allontanare i cittadini da un’Ue che – c’è bisogno di ricordarlo? – ogni anno versa miliardi di euro nelle tasche degli agricoltori.
Così si alimentano i populismi. Si poteva dire “grazie Europa che ci hai ascoltato e ci hai liberato da un vincolo che gravava su di noi da quasi 40 anni”. Invece no.
Così si distrugge anche il bene che, fra tanti errori, i Ventotto hanno fatto insieme. Con quali vantaggi, è difficile immaginarlo.
Marco Zatterin
(da “La Stampa“)
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Giugno 27th, 2016 Riccardo Fucile
DIETRO AL TECNICISMO VI SONO TRE CORRENTI DI PENSIERO SU COME AFFRONTARE LA CRISI ISTITUZIONALE
«No negotiation before notification», ripetono con insistenza a Bruxelles.
Nessun negoziato prima della notifica da parte di Londra che avvierebbe formalmente l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, prevista dall’articolo 50 del Trattato di Lisbona.
È la posizione comune che Angela Merkel, Matteo Renzi e Francoise Hollande hanno espresso a Berlino, la posizione ufficiale dei Paesi fondatori dopo il voto sulla Brexit.
Come si può spiegare questa richiesta?
Nei giorni che seguono lo shock del voto britannico i vari leader europei si sono divisi principalmente in tre fazioni. L’Italia ha per ora una posizione intermedia.
Quelli del “dare tempo”
Sperano di trovare una soluzione intermedia, una mediazione tra il legittimo riconoscimento della volontà del popolo britannico e la concretezza delle possibili conseguenze negative di una Brexit. Sotto sotto, sperano che Londra sia in grado di trovare una soluzione interna e dunque evitare l’uscita vera e propria. Tra questi c’è sicuramente la Germania.
Quelli del “fuori subito”
Puntano a dare un segnale forte, come a dire che non è semplice andare via dall’Ue. Il loro obiettivo è anche quello di prevenire eventuali altre richieste di referendum in altri Paesi. Tra di loro ci sono per esempio francesi e belgi.
Quelli del “non lo faranno mai”
La terza fazione è un sottoinsieme delle prime due, e le contagia entrambe: hanno la diffusa sensazione che i britannici potrebbero non chiedere mai il divorzio, e per questo lasciano un po’ di spazio, un po’ di ossigeno a questa speranza.
Ai tempi della abortita convenzione per la Costituzione europea, fu il britannico Sir John Kerry a imporre l’articolo 50 contro la volontà della maggioranza.
Il tedesco Elmar Brok, oggi presidente della commissione Esteri del Parlamento europeo, lo osteggiò a lungo. Vistosi sconfitto, si concentrò a rendere il divorzio dall’Ue «più complesso possibile».
(da “La Stampa”)
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Giugno 27th, 2016 Riccardo Fucile
CNR: “LE SLOT COSTRUITE PER CREARE DIPENDENZA”
Il gioco d’azzardo è l’eroina del nuovo millennio. O forse è anche peggio. Perchè negli Anni 70 l’eroina rovinava i ragazzi, mentre l’azzardo avvelena anche gli anziani».
La Casa del Giovane, a Pavia, è un’oasi di civiltà a due passi dalla stazione, dove chi ha perduto il senso di sè si rivolge allo psicologo Simone Feder e ai suoi collaboratori per tornare ad avere una vita decente. E spesso, Feder, una vita decente gliela restituisce. «Ci vogliono anni di lavoro».
La Casa è lì dal 1963 e aiuta persone con ogni genere di dipendenza, ma nell’ultimo decennio si è occupata soprattutto di un’emergenza che non esisteva e che lo Stato ha coltivato, protetto e accudito con rara costanza: gli zombie delle macchinette, dei gratta e vinci, delle lotterie istantanee.
Un esercito in crescita di «azzardopatici» bisognosi di cura e capaci di distruggere interi nuclei familiari. «Abbiamo calcolato che per ogni persona schiava del gioco ce ne sono altre sette – tra genitori, fratelli, figli, o amici – costrette a soffrire con lui o con lei», dice Feder. Un’epidemia funzionale al sistema.
Il business
L’azzardo legale produce un giro d’affari da ottantotto miliardi di euro e lo scorso anno ha portato nelle casse del Tesoro 8,8 miliardi.
Un’entrata garantita dai gesti compulsivi di milioni di italiani (900mila dei quali clinicamente malati), che nel 2015 hanno versato 25 miliardi in slot machine, 22 miliardi in videolottery, 1 miliardo in scommesse virtuali, 1,5 miliardi nelle sale Bingo, 12,5 miliardi in «giochi di carte non a torneo» (in gran parte poker on line) e 7 miliardi al Lotto.
Il ventaglio delle offerte è illimitato, la speranza della vincita facile la più antica delle esche, resa paradossalmente ancora più irresistibile dalla straniante certezza – fissata dalla legge – che su cento euro investiti, una slot machine te ne restituirà settanta e una videolottery ottanta. Non uno di più.
Una scommessa a perdere in cui ogni giocatore ha la certezza di vedere sparire dal 20 al 30% del proprio capitale, ma in definitiva molto di più, presumibilmente tutto, perchè quando la slot restituisce un po’ di monete, nessuno si alza, ringrazia e se ne va.
Quegli euro ritrovati vengono immediatamente fatti ingoiare a delle macchinette in cui il brivido di una giocata dura dai due ai quattro secondi. Il nulla. «Un giocatore non vuole vincere, ha solo bisogno di restare nel flusso del gioco».
Schiavi della dopamina
Sono processi dissociativi che le concessionarie pubbliche dei giochi conoscono bene e sanno come alimentare.
Per esempio la maggior parte delle 418.210 slot machine e delle 52.349 videolottery è sistemata in angoli bui, in sale senza finestre, dove il senso del tempo non esiste.
E se non esiste il tempo non esiste neppure la vita reale. Lucine, campanelli, fumetti fosforescenti, sfingi, odalische, tintinnare di monete, oscurità , solitudine.
«Un sacco di gente ha voglia di scappare dalla vita reale e se non ci fosse uno spazio interno disponibile, la dipendenza non si creerebbe, ma quello che lo Stato consente di fare con il gioco d’azzardo, contando sulla fragilità di centinaia di migliaia di persone, è orribile», dice lo psichiatra Federico Tonioni, esperto di dipendenze del Policlinico Gemelli di Roma.
La mappatura
Una ricerca del Cnr presentata a Bergamo ha mappato l’algoritmo della dopamina (il neurotrasmettitore che produce il desiderio), ritrovando una sequenza identica a quella «attivata dall’attuale gioco d’azzardo basato sulla gratificazione ad altissima frequenza alternata alla frustrazione», dice Maurizio Fiasco, sociologo che da oltre vent’anni si occupa di gioco d’azzardo legale e illegale.
«Fino a pochi anni fa la popolazione dei giocatori patologici cercava la grande vincita, quella che ti cambia l’esistenza e si differenziava in maniera netta dalla popolazione dei giocatori non patologici. Oggi chiunque partecipi al gioco conosce un’esperienza di piccola vincita e quella gratificazione minore ha la meglio sui momenti, molto più numerosi, di frustrazione e incertezza che scatenano l’impulso di riprovare. Il sistema è costruito con una pressione sull’apparato neurologico tale da indurre dipendenza. E’ un disastro nazionale rispetto al quale la sensibilità politica è prossima allo zero».
Il gioco può essere un semplice e più che legittimo svago, ma anche diventare un’idea fissa, distruttiva.
È la differenza tra chi beve un bicchiere di vino e chi si scola una bottiglia.
«Un mio paziente ogni sabato entrava in tabaccheria e comprava mille gratta e vinci e tre stecche di sigarette. Poi si chiudeva in cantina e per due giorni non usciva. Grattava e fumava, fumava e grattava. Il giocatore patologico viene invaso da una sorta di pensiero magico che lo spinge ossessivamente a pensare ai numeri, da quelli delle targhe a quelli scritti su un menù. Vive di rituali e di coincidenze, cancellando il resto», dice Tonioni.
E Feder racconta di avere scoperto la devastazione del gioco d’azzardo grazie a un ragazzino che ha accompagnato il nonno da lui. «Pensavo fosse l’anziano a portare il bambino. Era il contrario. Sono centinaia gli anziani che bruciano le pensioni».
La politica
Il gioco d’azzardo è vietato ai minori – e ci mancherebbe – ma davvero un essere umano adulto ha il diritto di mettere a rischio la propria esistenza e quella della propria famiglia?
In un Paese come il nostro che stampa un quinto dei gratta e vinci del pianeta il dibattito è aperto, ma bisognerebbe arricchirlo tenendo presente che negli Stati Uniti, terra di casinò e di liberismo senza freni, i meccanismi di controllo sono molto più penetranti e il sistema sanitario per evitare il collasso ritiene necessario insistere su quattro punti chiave: ridurre gli spazi in cui si gioca, vietare la pubblicità , tenere i biglietti della lotteria in luoghi non visibili e predisporre kit di gioco che chiariscano senza ambiguità quali sono i rischi di dipendenza. Perfetto.
E da noi?
Dopo tre lustri in cui i governi di sinistra e di destra hanno moltiplicato giochi e concessioni, l’esecutivo Renzi ha cercato di mettere un piccolo argine al disastro, trasferendo al ministero della Sanità l’osservatorio sul gioco d’azzardo, versando per la prima volta 50 milioni di euro da destinare alla prevenzione, prevedendo entro il 2019 una riduzione del 30% delle slot e introducendo il divieto di pubblicità del gioco sulle reti generaliste (i primi nove canali del telecomando) dalle 7 alle 22.
«Interventi significativi ma non sufficienti», secondo Matteo Iori, presidente del Coordinamento Nazionale Gruppi per Giocatori d’Azzardo che, assieme a Lorenzo Basso, deputato del Pd, sostiene la necessità di inserire subito l’azzardo all’interno dei Livelli Essenziali di Assistenza e di imporre il divieto totale della pubblicità . Non solo in tv, ma anche su Internet, inesauribile vivaio per giocatori di nuova generazione.
La battaglia
«Il gioco non va impedito, ma neanche agevolato, e soprattutto va circoscritto a luoghi limitati».
Basso ha portato la battaglia contro il gioco d’azzardo dalla sua Liguria al Parlamento trovando il consenso del M5S e l’opposizione di alcuni colleghi di partito e della maggioranza di Ncd e di Forza Italia.
«La pubblicità è la prima colonna del sistema che vogliamo abbattere, sul modello di quanto è avvenuto col tabacco», dice, non riuscendo a nascondere i dubbi anche sui Monopoli, incaricati di gestire gli aspetti tecnici dei giochi e accusati di non limitarsi alla supervisione del sistema, ma di essere uno strumento promozionale dello stesso, come testimonia un intervento davanti al Parlamento del 2014 in cui i Monopoli invitano i legislatori a non impedire il fumo e l’alcol nelle sale perchè «è di facile intuizione che la pratica di alcune attività è suscettibile di essere fortemente disturbata da condizionamenti della condotta propria del soggetto». Dunque il governo vuole davvero limitare l’azzardo, oppure no?
Pier Paolo Baretta, sottosegretario all’Economia con delega ai Giochi considerato non ostile alle 13 concessionarie nazionali, garantisce che il governo la sua scelta l’ha fatta.
«Lo Stato aveva esagerato nella legalizzazione dell’offerta e adesso sta intervenendo, ma non dobbiamo sottovalutare il fatto che se non ci fosse l’azzardo legale prospererebbe quello criminale».
E il ruolo dei Monopoli che si stanno occupando della riorganizzazione tecnica dei giochi?
«I Monopoli fanno quello che decide il governo. La responsabilità è nostra».
La criminalità
Ma è certo che la presenza del gioco legale riduca quello illegale? I numeri sembrerebbero dire il contrario. E anche la relazione annuale della Direzione Nazionale Antimafia.
Testualmente: «La Procura sottolinea il rinnovato interesse di Cosa Nostra per la gestione dei giochi, sia di natura legale che di natura illegale per garantire la continuità della vita dell’organizzazione».
E a proposito della Camorra si legge: «L’attività preminente del clan dei casalesi è il controllo delle slot in tutti i locali ed è la base attraverso cui vengono pagati gli stipendi ai numerosissimi affiliati detenuti ed effettuate attività di reimpiego dei capitali» Analoghe le valutazioni sulla ‘ndrangheta. La malavita il gioco d’azzardo legale lo usa due volte: per fare soldi e per lavarli.
I vincitori
Così perdono i giocatori, perde il servizio sanitario nazionale (chiamato a pagare costi stimati in oltre sei miliardi) e perde l’economia reale perchè se i soldi del gioco (tassato mediamente al 10%) finissero in beni e servizi classici (tassati al 22%) ne guadagnerebbero sia gli operatori economici che il Tesoro.
Però vincono le 13 concessionarie nazionali dello Stato, i gestori delle Sale Bingo e parte dei 4 mila baristi e concessionari locali. A meno che non debbano fare i conti con le organizzazioni criminali.
È il caso di Gianni Alessio Bariletti, ex titolare di una società – la Bp Holding – capace di fatturare con il gioco on line 8 milioni di euro al mese e pronto a sviluppare una piattaforma in grado di utilizzare moneta elettronica. Pulito, regolare, illusorio. «Prima mi hanno pestato perchè non pagavo il pizzo, poi inventandosi delle scuse mi hanno staccato dalla rete, quindi i Monopoli mi hanno revocato la concessione. Ho fatto ricorso, ho vinto e me l’hanno ridata. Peccato che a quel punto dei signori ai quali era impossibile dire di no mi abbiano costretto a vendere la società in cambio di niente. Mi è venuta in mente una frase del Padrino: ero convinto che quando sali in alto la puzza sparisse. E invece diventa sempre più forte».
Ora Bariletti ha cambiato mestiere e il suo avvocato, Gabriele Magno, sta facendo causa allo Stato per il danno prodotto dalla sospensione della concessione. «Abbiamo chiesto 120 milioni».
Storia di Marco
Alla Casa del Giovane di Pavia, l’ultimo a guardare negli occhi Simone Feder è stato Marco, 19 anni e una bellezza fresca incapace di offuscare la sua infelicità .
Gli ha detto: «Non ce la faccio più». Ha cominciato a giocare a 12 anni in un bar. Non ha mai smesso. «Per procurarmi i soldi ho cominciato a spacciare. Ho capito di avere superato il limite pochi giorni fa. Avevo un debito di 450 euro con una persona pericolosa. Stavo andando a ridarglieli ma sono passato di fronte a una Sala Bingo e non ho resistito. Ho perso tutto. E non sapendo come fare ho rubato un motorino. L’ho smontato e ho rivenduto i pezzi».
Si porta addosso una angoscia non controllata che gli esce dagli occhi. «Perchè lo faccio? Per vincere soldi facili. Solo che la macchinetta mi fa gli scherzi».
Simone lo accompagna alla porta dove una bambina, forse la sorella di Marco, gli dice: «Ma se il gioco fa male, perchè è legale?».
Feder le accarezza la testa, non lo capisce neanche lui perchè lo Stato consenta di rendere centinaia di migliaia di persone emotivamente disabili .
«Non lo so piccola. Ma un modo per chiederlo al governo lo troviamo».
Andrea Malaguti
(da “La Stampa”)
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Giugno 27th, 2016 Riccardo Fucile
CONCENTRATI SU SE STESSI E SENZA OBIETTIVI CONDIVISI
Italia, popolo di poeti, artisti, eroi, santi, pensatori, scienziati, navigatori e trasmigratori: queste qualità — enunciate da Mussolini all’epoca delle conquiste coloniali — sono rimaste nella rappresentazione sociale, oltre che impresse nel marmo del Palazzo della civiltà italiana all’Eur.
Altri, prima e dopo, hanno messo in luce ulteriori aspetti, ora positivi, ora negativi che hanno provato a descrivere gli italiani.
Al di là delle valutazioni, l’aspetto di rilievo è legato all’edificazione di un immaginario collettivo in cui potersi riconoscere e identificare.
Costruire la rappresentazione di una collettività , piuttosto che di un territorio o di un prodotto, assume oggi un aspetto qualificante.
Per affermare un’idea, un progetto, per indicare una direzione da seguire, è necessario dotarsi di un orizzonte comune, di significati condivisi.
È sufficiente rinviare a quanto impegno dedicano le imprese per imporre il brand dei propri prodotti per comprendere come la costruzione di un’identità sia un obiettivo economico-strategico.
Ma è altrettanto strategico dal punto di vista politico e sociale. In una realtà complessa come la nostra è fondamentale offrire elementi di definizione.
A maggior ragione se consideriamo la storia del nostro Paese, in cui municipalismi e localismi hanno rappresentato il tratto fondativo. In cui i particolarismi sociali e il corporativismo contrassegnano ancora ampi settori.
CAMBIARE LE REGOLE
Basti pensare a cosa accade quando si cerca di cambiare le regole — aprendo al mercato — settori dell’economia: dai farmacisti, ai taxisti, passando per gli ordini professionali, tutti pronti a salire sulle barricate pur di conservare i cosiddetti diritti acquisiti.
Come ci descriviamo, quali sono i tratti che definiscono i nostri concittadini — e dunque noi stessi — è l’oggetto del sondaggio realizzato da Community Media Research, in collaborazione con Intesa Sanpaolo, per «La Stampa».
In prima battuta, emerge un profilo il cui tratto prevalente che ci accomuna mette l’accento sulla dimensione individualistica e familiare.
Prevale il «particulare», la chiusura alla sfera personale e degli interessi specifici. Come se facessimo fatica a guardare oltre il nostro perimetro visuale.
Non riuscendo a identificare una progettualità più ampia o quello che potremmo definire un «bene comune» che oltrepassi i nostri mondi vitali.
Nella rilevazione lo diciamo degli altri, ma non è errato pensare si tratti di una proiezione di quanto viviamo soggettivamente.
Questi esiti tendono a confermare lo stereotipo che caratterizza l’immagine media degli italiani e solo paradossalmente cozza contro i gesti di apertura e gli slanci di solidarietà che, invece, osserviamo quando accadono avvenimenti particolari, come nel caso dei migranti, piuttosto che dei disastri climatici o del volontariato.
Che ci sono, frutto di un capitale sociale e valoriale fondamentale per la tenuta del Paese. E che paradossalmente ci meraviglia possano esserci, quando invece dovrebbero essere la normalità .
IL FRUTTO DEL FAI-DA-TE
La questione è che tali gesti non s’inseriscono (ancora) in progettualità condivise, perchè si fondano sullo slancio individuale, di piccole comunità organizzate sui territori o nei mondi associativi. In fondo, è il frutto del fai-da-te, dei micro-progetti che si costruiscono per affrontare i problemi che emergono di volta in volta.
Dunque, proprio per questi motivi, ci rappresentiamo individualisti (32,4%), attenti solo agli interessi familiari (25,2%), ma anche lavoratori (22,0%), capaci di fare e di impegno.
C’è però un secondo elemento: la diversità di percezione su scala territoriale. La dimensione particolaristica conosce un’accentuazione via via che scendiamo dal Nord al Sud, dove non manca un riconoscimento al fatto che lì sia maggiore la propensione a ricercare vantaggi per sè, ricorrendo a favoritismi.
Così, non solo disponiamo di un immaginario collettivo poco collettivo e molto familistico-comunitario, ma troviamo una diversificazione che rende ancor più complicato identificare una rappresentazione comune.
Sommando le caratteristiche assegnate sulla base dell’importanza, rileviamo come prevalga una rappresentazione negativa verso i concittadini: poco più della metà (52,7%) attribuisce solo aspetti sfavorevoli, in particolare fra i residenti nel Mezzogiorno (72,8%).
A questi si contrappongono quanti mettono in luce non solo aspetti negativi, ma positivi (32,4%) e chi vede esclusivamente tratti positivi (14,9%), in particolare fra chi vive nel Nord.
Dunque, rimarremo familisti e particolaristi? Le latenze culturali non si possono eliminare con tratto di penna, ma richiedono un tempo lungo.
Soprattutto, progettualità e politiche che abbiano una visione. Dotate di un’idea e di valori che siano condivisi e che valorizzino le diversità e le peculiarità .
Nella consapevolezza che solo in una progettualità comune esiste uno spazio per il bene individuale e familiare.
Daniele Marini
(da “La Stampa”)
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Giugno 27th, 2016 Riccardo Fucile
DENARO PUBBLICO PER EFFETTUARE RILEVAZIONI D’OPINIONE SUL GRADIMENTO DELLA SUA GIUNTA… MA SE LA PAGHI CON I SOLDI SUOI E DEI SUOI COMPAGNI DI MERENDE
Un sondaggio dopo l’altro. Per capire cosa pensano i liguri della Giunta regionale e del suo presidente.
Giovanni Toti è politico di provata fede berlusconiana e come il suo maestro crede fermamente alla rilevazioni di opinoni, anche fuori dal periodo elettorale.
Con una differenza sostanziale: Silvio i sondaggi se li paga di tasca sua, Toti li mette in conto al bilancio regionale.
La Regione Liguria infatti ha stanziato 97.000 euro per affidare a un sondaggista una rilevazione ogni due mesi per un anno per “accertare le opinioni e l’atteggiamento dei cittadini liguri riguardo al presidente e alla giunta regionale”.
La somma sarà ascritta alla voce di bilancio relativa a “spese per le pubbliche relazioni e per le divulgazioni delle attività regionali”.
Ma, come sottolineano le opposizioni, questo capitolo di bilancio prevede opere di divulgazione delle attività della Regione, non un test di “gradimento” del Presidente.
Nessuno vieta a Toti di chiedere cosa pensano di lui i liguri, ma o lo faccia di persona scendendo in strada tra i comuni mortali o li affidi a un sondaggista ma a sue spese.
Non è solo questione di buon senso, ma di “decoro urbano”.
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Giugno 27th, 2016 Riccardo Fucile
PARAGONATA ALLA THATCHER PER IL SUO CARATTERE DURO, NICOLA VUOLE PORTARE EDIMBURGO FUORI DAL REGNO: LA BATTAGLIA DELLA VITA
Non fatevi ingannare dal sorriso, perchè questa signora bon ton, in tailleur, con i capelli a caschetto immobili anche al vento delle cime tempestose di Holyrood, Nicola Sturgeon, il primo ministro che vuole portare la Scozia fuori dalla Gran Bretagna, e nel frattempo impedire che il Regno Unito ne esca, è una tipa tosta.
Il sacro fuoco della politica, Mrs Sturgeon lo ha ereditato dalla madre Jane (anche lei nel Nsp), ma un ruolo importante nella sua formazione lo ha giocato anche Margareth Thatcher, tanto che spesso i suoi concittadini rispolverano per lei l’appellativo di «Iron Lady», lady di ferro – ma anche, per la verità , di «Nippie sweetie», dolcezza pungente.
«Ero una bambina ai tempi della Thatcher – ha raccontato Nicola Sturgeon in un’intervista alla Bbc – l’economia non andava molto bene, c’era un sacco di gente intorno a me che cercava un modo per sopravvivere in un futuro di disoccupazione e tutto questo mi ha instillato un forte senso di giustizia sociale e la convinzione che fosse sbagliato per la Scozia essere guidata da un governo conservatore che non aveva neppure eletto».
LEALTà€ E RIGIDITà€
Nata a Irvine 46 anni fa, Nicola Sturgeon si è laureata in legge all’Università di Glasgow. Ma ha esercitato la professione di solicitor solo per qualche anno.
Il suo sogno è sempre stato la politica. Aveva 16 anni quando si è iscritta al partito indipendentista, presentandosi alla porta della sezione della sua città .
Ventinove anni quando fu eletta al Parlamento scozzese, per poi diventare ministro ombra del Snp per l’istruzione, la salute e la giustizia.
Nel 2004 annunciò che si sarebbe candidata alla leadership del Snp dopo le dimissioni di John Swinney, ma prevalse Alex Salmond, che la nominò sua vice. Lei non ha mai cercato di fargli le scarpe. È la lealtà una delle sue doti, come la rigidità uno dei suoi difetti.
UN PIZZICO DI VANITà€
Sposata con Peter Murrell, leader del suo partito, non ha figli, anche se ha chiarito che «Non è stato un sacrificio fatto per la carriera, certe cose possono succedere e non succedere nella vita, mi ritengo comunque molto fortunata. Vivo una vita comunque completa».
L’impegno in politica non le ha tolto la vanità e da quando è diventata la star dei dibattiti televisivi è dimagrita, grazie alla dieta consigliata dalla cantante Beyoncè.
I completi diventano sempre più sgargianti, e brillano nei dibattiti tv come il suo eloquio, che mette ko i rivali politici.
LA BATTAGLIA DELLA VITA
La sua immagine da perfetta padrona di casa però inganna, è lei stessa infatti ad ammettere di non saper cucinare («sono senza speranza, per fortuna che c’è mio marito») e di rilassarsi nella sua casa di Glasgow guardando «House of Cards», la fiction sulle trame del potere alla Casa Bianca, che la allena a districarsi tra le trame di Westminster.
A chi la accusa di essere una rampante, lei risponde che sì, è «ambiziosa» se questo significa far raggiungere «il successo al suo partito».
E grazie alla sua caparbietà ha tolto voti ai laburisti, ma anche ai tory.
Quando le hanno chiesto chi preferiva tra il premier Cameron e il leader dell’opposizione Ed Miliband ha risposto con ironia: «Miliband è leggermente più attraente».
Ma non fidatevi, l’unica cosa che la attrae è la causa indipendentista e quella femminile.
L’obiettivo da raggiungere subito, dice «è quello della parità di salario tra uomo e donna».
Una vita dedicata alla causa indipendentista, una carriera che non ha avuto incertezze. È stata il braccio destro di Alex Salmond, e ha preso il suo posto dopo la sconfitta al referendum del 2014, voltando pagina, come è solita fare.
Si chiude una strada e se ne apre un’altra. E la nuova strategia è stata quella di acquisire potere, conquistando seggi a Westminster, nelle elezioni del 2015, mossa necessaria per spingere Cameron ad accelerare la devoluzione della Scozia e che oggi torna utile per fermare la Brexit.
La sua nuova missione, la battaglia della vita.
Maria Corbi
(da “la Stampa”)
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Giugno 27th, 2016 Riccardo Fucile
INSULTI E AGGRESSIONI ANCHE AI POLACCHI: LA FECCIA RAZZISTA RINGALLUZZITA DAL VOTO BREXIT ORA INVOCA PURE HITLER
«Io parlo polacco, tu quale super potere hai?». Jacek viene da un paesino vicino a Varsavia e vive a Londra da qualche anno.
Indossa una maglietta nera, la scritta gialla con la frase che tradisce l’orgoglio per le origini. È uno dei 600 mila sbarcati nel Regno Unito negli ultimi dieci anni.
I polacchi oltre Manica erano 95 mila nel 2004, poi la via londinese è diventata facile e fruttuosa. Da qualche tempo però anche molto rischiosa.
Sta appoggiato a una ringhiera di fronte all’ufficio culturale polacco ad Hammersmith, zona occidentale della capitale britannica e guarda i muri dell’edificio sul quale sono stati disegnati graffiti e scritti con la vernice insulti contro i polacchi, definiti «parassiti».
La polizia pattuglia la zona e ha aperto un’inchiesta contro ignoti.
Ma la tensione da tempo è palpabile. Appena due giorni fa, nella zona orientale della città , alcuni musulmani e immigrati dell’Est Europa sono stati aggrediti da bande suprematiste inglesi.
«È il clima post Brexit che non volevamo», dice la Baronessa ed ex ministro Sayeeda Warsi che una settimana fa aveva lasciato la campagna del Leave poichè diventata «razzista e odiosa».
Gli episodi di intolleranza sono aumentati nei giorni dopo il referendum.
Una lavoratrice musulmana, nata in Galles, è stata apostrofata in strada e invitata a «fare le valigie»; nel Cambridgeshire è partita una campagna d’odio via posta contro la comunità polacca.
E volantini sui «polacchi parassiti» sono stati recapitati anche a una scuola elementare.
La retorica incendiaria contro i migranti di Nigel Farage amplificata dal poster con le immagini di migliaia di profughi in coda in Slovenia con la scritta «punto di rottura» è ancora un punto di riferimento per alcune – non così minoritarie – frange della società .
La percezione che siano gli «altri», gli «stranieri» a sottrarre il lavoro agli inglesi, ad abbassare i salari, a congestionare i servizi pubblici ha alla fine ha pesato sul voto: il tema immigrazione è stato il secondo motivo a indirizzare le scelte degli elettori, sia conservatori sia laburisti.
Soprattutto nelle zone rurali, nel Sud e nel Nord del Paese, fra le classi meno agiate. Farage proprio ieri ha ricordato che quelle zone – molte sono feudi laburisti – sono ora nel mirino dello Ukip.
Se c’è una protesta visibile contro i migranti, talvolta violenta ma comunque molto rumorosa, c’è ne è una che corre sul Web, si nutre di adepti su Twitter, Facebook e sguazza nei video su YouTube.
L’intelligence britannica monitora molti gruppi.
Ieri il «Sunday Times» ne ha fatto una radiografia. L’estrema destra (suprematista, razzista, isolazionista, anti-migranti) fa proseliti e ha un seguito crescente.
Materiale estremista è disponibile ovunque sulla Rete. Un gruppo come National Action, quello che è nato per «celebrare» la morte della deputata Jo Cox, ha appena sessanta adepti, ma i suoi video su YouTube hanno quasi 2800 adepti.
Pochi, nel mare del Web, molti, spiegano gli esperti dell’antiterrorismo, se si considera che la visibilità il gruppo la sta avendo solo da poco tempo.
Proclamano una «White Jihad», una guerra santa bianca, che significa rendere omogenea e aderente «ai valori tradizionali inglesi» questa terra che oggi invece ospita persone provenienti da ogni angolo del mondo ed è un crogiolo di culture.
«I rifugiati non sono i benvenuti» si legge in uno dei loro proclami che va di pari passo alla proclamazione che «Hitler aveva ragione, i rifugiati devono tornare a casa».
Sabato a Newcastle, città nel Nord-Est, vivace, gli estremisti hanno manifestato dinanzi alla stazione centrale scandendo slogan contro i migranti.
Negli ultimi tempi è nata un’altra associazione, NorthWest Infidels, derivata dalla English Defense League, che vorrebbe «l’impiccagione di Corbyn» e ha nell’islam il nemico dichiarato.
Così come Britain First, l’associazione che ha invocato il killer di Jo Cox.
A proposito dell’aggressore, Thomas Mair, proprio NorthWest Infidels ha rilanciato un messaggio nel quale invita i suoi a continuare la difesa dell’Inghilterra «dall’invasione dei profughi affinchè il sacrificio di Thomas Mair non sia stato invano».
Alberto Simoni
(da “La Repubblica”)
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Giugno 27th, 2016 Riccardo Fucile
AVREBBERO IMPOSTO IL CAMBIO LA FIGLIA MARINA, CONFALONIERI, LETTA E GHEDINI
Licenziato il cerchio magico di Berlusconi. “Via Mariarosaria Rossi, Deborah Bergamini e Alessia Ardesi” scrive oggi La Repubblica descrivendo “il terremoto nel mondo berlusconiano”.
Al loro posto uomini fedeli all’azienda.
Ecco alcuni passaggi da Repubblica:
Via Mariarosaria Rossi, Deborah Bergamini e Alessia Ardesi, dentro uomini azienda e fedelissimi del vecchio corso. Così ha stabilito il board che ha in mano l’impero dell’ex Cavaliere, i provvedimenti formali nei prossimi giorni.
Una mossa studiata da Fedele Confalonieri e Marina Berlusconi, Gianni Letta e Nicolò Ghedini, per sottrarre il leader all’abbraccio soffocante dei pretoriani di Arcore, in vista dell’uscita del “patriarca” dal San Raffaele, slittata intanto tra il 10 e il 14 luglio.
La Rossi sarà sostituita con un uomo di Mediaset, la Bergamini probabilmente da Valentino Valentini scrive sempre Repubblica.
(da “Huffingtonpost”)
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