Giugno 21st, 2016 Riccardo Fucile
ALLA RUSPA SI SONO SGONFIATE LE GOMME: “COSI’ NON SOLO SI FA FLOP AL CENTRO-SUD, MA PERDIAMO VOTI AL NORD”… BOSSI: “TUTTA COLPA DI SALVINI, NON HA UN PROGRAMMA, RACCATTA QUALCHE VOTO E POI SCAPPA”
Nella Lega, dopo la delusione per i risultati delle comunali, si sta riaprendo un’antica ferita, mai davvero suturata: la questione del Nord.
La sconfitta a Varese, più ancora che a Milano, e il flop nel centrosud, rimettono in discussione la linea lepenista e nazionale che il leader Matteo Salvini sta portando avanti da tre anni.
E venerdì 24, al consiglio federale convocato in via Bellerio, Salvini rischia di finire sul banco degli imputati.
E’ lo stesso leader, in un’intervista al quotidiano “Il dubbio”, a smussare quello che aveva scritto nel suo libro “Secondo Matteo”: “La menata delle primarie e della leadership non mi interessa”, spiega.
Una conversione a U rispetto a poche settimane fa, quando affermava che “la Lega oggi è il partito più forte della coalizione e quindi tocca a me l’onere e l’onore di guidare l’opposizione contro il Pd”.
“Dopo le comunali cambia tutto”, aveva annunciato, riferendosi alla necessità che fosse Berlusconi con Forza Italia a seguire il traino vincente della Lega.
I numeri delle urne dicono invece che ora Salvini è costretto a ripensare la linea, e a mettere da parte il sogno di fare il candidato premier.
Le comunali a Milano e Roma hanno tolto benzina al motore di Salvini: in un colpo solo sono sfiorite sia la possibilità di fare il botto nella Capitale accanto alla Meloni sia la supremazia su Forza Italia, visto che a Milano il Carroccio ha preso circa la metà dei voti, e Salvini è stato superato nelle preferenze dalla Gelmini.
La botta al ballottaggio a Varese è stato il colpo finale di una tornata elettorale pesantissima per la Lega lepenista.
Solo grazie al flop del Pd e al successo del M5s il tema è rimasto un po’ sotto tono sui mass media.
Ma ora dentro il partito la pax salviniana- garantita in questi anni dai voti in crescita- sembra in crisi. E torna in auge la vecchia questione mai sanata: aver abbandonato la vocazione federalista, quel “Prima il Nord” che era stato lo slogan dell’era di Maroni. Bossi è tornato all’attacco con più furore del solito: “Salvini ha tutta la colpa della sconfitta, ora vuole andare al Sud, ma non ho mai visto un programma, vuole solo raccattare un po’ di voti e scappare, è un’idea peregrina che non porta da nessuna parte”.
Bossi accusa anche sul sostegno ai grillini ai ballottaggi.
Fosse solo per l’anziano Senatur, l’altro Matteo potrebbe dormire sonni tranquilli.
A uscire allo scoperto è invece un giovane dirigente come Paolo Grimoldi, segretario della lega lombarda, e già sodale di Salvini al tempo dei giovani padani.
“Non è andata come pensavamo. Percentuali alla mano, non posso esimermi dall’ammettere una sconfitta. In tutto il Nord, salvo alcune eccezioni, la lista Lega Nord ha perso voti, anche laddove abbiamo vinto il sindaco, e questo denota un allontanamento di una parte del nostro elettorato storico, soprattutto a mio avviso quello composto da chi fa impresa o dal popolo delle partite Iva”, scrive in un lungo post su Facebook.
“Credo si debba tornare a essere un Movimento-Sindacato dei nostri territori: un movimento la cui priorità sono i nostri lavoratori e le nostre imprese, da aiutare con proposte concrete, percorribili e realizzabili! Torniamo ad affrontare le questioni irrisolte del Nord, che ancora attende risposte su maggiori forme di autonomia e di federalismo”.
Sotto il post compaiono decine di commenti di militanti che chiedono di tornare alle ragioni fondative della Lega: federalismo e Padania.
Venerdì al consiglio federale, anche Bossi porrà il tema con forza. E Maroni ha già detto di essere d’accordo con Grimoldi, come il suo potente assessore Gianni Fava: “Mi ritrovo nella sua analisi, rimane da valutare se il messaggio della Lega è stato sufficientemente forte”.
“Mi pare che ci sia uno spaesamento rispetto al progetto politico della Lega a livello nazionale”, avverte Gianluca Pini, vice capogruppo alla Camera.
Sul tavolo di via Bellerio ci sarà il tema di cosa fare del progetto sud che non decolla, della linea lepenista che non sfonda.
E ancora, a microfoni spenti, alcuni parlamentari accusano il cerchio magico intorno al segretario, “i consulenti economici che fanno proposte poco praticabili che non convincono i nostri elettori”.
E ancora, l’accusa sarà di “scarsa collegialità nelle decisioni”.
“Matteo decide tutto da solo con pochi intimi e occupa tutti gli spazi tv, ma questo schema ormai è logoro”.
I salviniani sono pronti a replicare con le preferenze prese da Maroni come capolista a Varese, solo 300. “Vorrei più verve e incisività nell’azione della Regione Lombardia”, dice Salvini, con una stoccata al governatore. A dividerli anche il giudizio sul futuro del centrodestra. Maroni loda il modello Parisi a Milano, Salvini lo ha già archiviato: “Modello perdente”.
Dice il governatore: “L’operazione di Parisi è stata convincente e può essere un investimento per il futuro, a prescindere dalle persone. Essere riusciti a tenere insieme tutta la coalizione che governa in Regione Lombardia non era facile nè scontato”.
Un tema, quello del futuro del centrodestra, che divide la Lega in modo molto pesante.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 21st, 2016 Riccardo Fucile
L’ASSESSORE DI PARMA: ” A NOI LO AVETE MENATO 4 ANNI PERCHE’ NON SIAMO RIUSCITI A BLOCCARLO E A ROMA NOMINATE LA MURARO?”
“L’inceneritore? Qui non lo faranno mai, dovranno passare sul cadavere di Pizzarotti” diceva Beppe Grillo a Parma esattamente 4 anni e un mese fa.
L’inceneritore si è fatto, Pizzarotti non è un cadavere ma un fantasma, sospeso senza appello e lasciato nel limbo dal MoVimento 5 stelle, e intanto a Roma la neo eletta sindaca Virginia Raggi promette in cima alla lista degli impegni di risolvere la questione rifiuti nella Capitale.
Per farlo ha già una donna, presentata nella sua giunta virtuale settimane fa e futura (a brevissimo) assessore all’Ambiente del Comune: Paola Muraro.
Ecco, se prima era stato l’inceneritore (ricordate Grillo che accussava Pizzarotti di non aver mantenuto le promesse?), oggi è Paola Muraro il nuovo oggetto del contendere tutto grillino che mette Parma contro Roma.
Le parole dell’assessore all’Ambiente di Parma sono chiarissime, uno sfogo al veleno: “Fatemi capire.. a noi l’avete menata 4 anni per non essere riusciti a spegnere l’inceneritore e poi mettete come assessore all’ambiente una convinta inceneritorista? Ma andate un po’ a cagare, va! Da Parma de core…”.
Un insulto per niente velato carico di rabbia nei confronti della nomina alla Muraro che Folli, ex presidente del comitato NO Inceneritore Parma, ha postato su Facebook a poche ore dalla elezione della Raggi.
Il motivo è legato alla figura della Muraro che secondo alcuni ambientalisti avrebbe visioni “inceneritoriste”.
Il curriculum della Muraro racconta la laurea in Scienze Agrarie a Bologna, i riconoscimenti nella “Disciplina e Gestione dei Rifiuti Solidi” e i 10 anni come consulente per l’Ama. Insomma, per Virginia Raggi è la donna giusta per “importare il modello San Francisco. Perchè per noi “Roma verso rifiuti zero” non è uno slogan, bensì un obiettivo ambizioso e raggiungibile” recita il programma M5s.
Ma uno dei massimi esperti di quel modello, ovvero Rossano Ercolini, insegnante elementare, fondatore del movimento Rifiuti zero e presidente di Zero Waste Europe, italiano che ha vinto il Goldman prize 2013 (il Nobel dell’ecologia) a San Francisco e sorta di guru per l’amministrazione parmigiana (con il quale anche Pizzarotti si è confrontato), in passato ha fortemente criticato la Muraro proprio per la sua posizione non netta nei confronti degli inceneritori.
Il fatto risale a due anni fa: siamo nel 2014 e in Rai va in onda il documentario TRASHED. La Muraro, allora presidente ATIA-ISWA Italia, invia una lettera indirizzata al direttore di Rai3 Vianello a Gubitosi e alla Tarantola.
Critica parte del film ricordando che “Le rilevazioni e studi di ISPRA (l’Istituto Superiore per la Protezione dell’Ambiente italiano) dimostrano che dall’anno 2000 nel nostro Paese le diossine prodotte dai termovalorizzatori sono inferiori allo 0,05% di quelle complessivamente emesse dalle diverse fonti (residenze, traffico, industrie, generazione elettrica…)”. Con altre affermazioni nel dettaglio esprime le proprie posizioni che appaiono decisamente meno trancianti rispetto alla famosa posizione M5s sugli inceneritori (“dovranno passare sul cadavere di Pizzarotti” cit.Grillo).
Poco dopo, sempre con una lettera inviata alla Rai, Ercolini polemizza apertamente con la Muraro tacciandola di essere un “difensore d’ufficio” della lobby dell’incenerimento.
Nella nuova polemica l’assessore parmigiano contrario alla neo nomina della giunta Raggi cita proprio Ercolini come riferimento.
Per l’assessore è in sostanza un “due pesi e due misure differenti” simili a quelli già utilizzati dal Movimento nel caso Pizzarotti, Movimento che ora eleggerebbe a paladina dell’ambiente romano, a suo dire, una “inceneritorista”
Stesse deduzioni di Massimo Piras, presidente di Zero Waste Lazio, che a poche ore dall’ascesa di Virginia Raggi in Campidoglio ha lanciato anche una petizione per chiedere che non sia Paola Muraro il nuovo assessore all’ambiente: “Una scelta sbagliata e ingiustificabile da qualunque punto di vista”.
Virginia Raggi però promette una Capitale verso i rifiuti zero e sembra pronta a tirare dritta sulla nomina del suo assessore.
(da “Huffingtonpost“)
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Giugno 21st, 2016 Riccardo Fucile
UN BAGNO DI REALTA’ CHE POTREBBE BRUCIARLE: NON SI PUO’ RASSICURARE TUTTI, OCCORRE SCONTENTARE QUALCUNO…E LE PREMESSE NON SONO DELLE MIGLIORI
Nessuno pretende che Roma e Torino, le capitali prese dalle «Pulzelle 5 Stelle», cambino così, con uno schiocco di dita, in poche ore, pochi giorni, poche settimane. Ma le aspettative sono tali, intorno alla mirabolante svolta, da imporre alle due ragazze-sindache un compito titanico: mostrare in fretta le loro capacità di governo. Molto in fretta.
La prima grana per Virginia Raggi e Chiara Appendino è infatti questa.
Per quanto abbiano studiato, abbiano le lauree giuste e si siano infarinate negli uffici municipali come consigliere, le due avrebbero bisogno di tempo per impadronirsi dei problemi, dei dossier, delle macchine comunali.
Così da incidere poi in profondità nelle cose che non vanno. Non basteranno pochi mesi o pochi anni per sanare, soprattutto in Campidoglio, piaghe finanziarie, amministrative, etiche, urbanistiche finite in cancrena.
Una missione da far tremare le vene e i polsi. Davanti alla quale ogni persona con la testa sul collo dovrebbe sentirsi inadeguata.
Fosse pure Winston Churchill: come può una persona sensata sentirsi all’altezza di governare Roma? Oggi?
Ma «fra Modesto non fu mai priore», dice un vecchio proverbio: l’ambizione è essenziale per accettare certe sfide. E dunque evviva la grinta, sotto questo profilo, d’una classe dirigente giovane e femminile decisa a lasciare il segno.
Purchè la Raggi (e così la Appendino, anche se eletta alla guida di una realtà storicamente amministrata meglio) abbia chiaro che nulla le sarà perdonato.
Certo, per qualche tempo gli avversari stessi saranno costretti ad accettare i legittimi lamenti sulla «pesantissima situazione ereditata».
Durerà poco, però. Poi ogni ritardo nella soluzione di problemi annosi sarà addebitato al nuovo sindaco, alla nuova giunta, alla nuova maggioranza.
Di più: dopo averla invocata per anni e sperimentata solo in alcune realtà locali minori Virginia Raggi e Chiara Appendino hanno in pugno la possibilità di misurare, a dispetto di tutti gli scettici, la capacità del M5S di essere davvero forza di governo.
Un conto è strillare come Beppe Grillo che «bisogna ripulire l’Italia come fece Ercole con le stalle di Augia, enormi depositi di letame spazzati via da due fiumi deviati dall’eroe», un altro affrontare quotidianamente, tra una trattativa sindacale, un’epidemia influenzale dei pizzardoni e una improvvisa voragine per strada a Montesacro, i temi degli asili a Torre Spaccata, delle bare in giacenza a Prima Porta, della manutenzione delle Mura Aureliane, dello sfalcio dell’erba a Porta Maggiore, dei finti gladiatori con corazza di finto cuoio che importunano i turisti e via così, di rogna in rogna.
Per questo, dopo le esperienze fallimentari delle gestioni di destra e di sinistra in Campidoglio, col loro strascico di inchieste giudiziarie e risse politiche, una massa dei romani che prima avevano votato di qua e di là hanno scelto di investire massicciamente, al di là del curriculum contestato, su Virginia Raggi.
C’è già online («romafaschifo.com») chi scommette: «La mafietta romanella sarà capace di farla fuori in quattro e quattr’otto, sicuro. Sindacati famigliari, palazzinari, imboscati comunali, occupatori di professione, mutandari, cartellonari, antagonisti etc etc, faranno comunella in combutta col governo Nazionale e la Raggi sarà costretta ad abbandonare…».
Detto questo, chi esulta oggi per il voto a Roma e Torino deve essere il primo, per decenza, a non fare sconti alle due nuove amministrazioni.
E a pretendere davvero una svolta. Qualche dubbio, infatti, c’è.
Dice tutto l’autobus dell’Atac fotografato con la scritta luminosa «Welcome Raggi».
È vero che la candidata grillina ha fatto di tutto per rassicurare tutti, a partire dagli autisti della sgangherata e clientelare azienda dei trasporti definita «un fiore all’occhiello», ma queste rassicurazioni con le colpe addossate solo ai partiti saranno seguite o no da un repulisti reale, duro e se necessario impietoso?
E come può il programma ufficiale dedicare 677 parole alla casa senza mai nominare la parola «abusivi» se i libri dello stesso assessore nuovo Paolo Berdini parlano di almeno 84 borgate fuorilegge con centinaia di migliaia di stanze?
E si può promettere trasparenza per 2.096 parole (quasi il doppio della dichiarazione d’indipendenza americana) senza nominare mai la (cattiva) burocrazia?
E il «contrasto all’abusivismo turistico/ricettivo in ogni sua forma» sarà seguito sul serio da una guerra agli hotel illegali?
E che sarà del patrimonio di 42 mila immobili comunali affittati in moltissimi casi a 7,75 euro al mese?
A farla corta: dopo esser stata votata da tutti e avere rassicurato tutti, a partire dai soliti tassisti, sarà bene che Virginia Raggi si ricordi di Anatole France: «Non esistono governi popolari. Governare significa scontentare».
Lo farà ?
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera”)
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Giugno 21st, 2016 Riccardo Fucile
LA SUA ULTIMA OPERA PRESA D’ASSALTO A ISEO: “NON E’ UNA REALTA’ VIRTUALE, CI SONO VERO SOLE, PIOGGIA E VENTO”
Per due giorni ha solcato il lago di Iseo a bordo di un’imbarcazione aperta, con sopra un’altana.
Sembrava un ammiraglio che governasse le sue acque territoriali, mentre si godeva lo spettacolo di migliaia di persone plaudenti che scorrevano sulle passerelle del Floating Piers che collegano quattro punti del bacino (Sulzano, Monte Isola, l’isola di San Paolo e Sensole, fino al 3 luglio).
«Macchè ammiraglio! Corro da una postazione all’altra, devo essere al corrente di tutto, ogni giorno ci sono riunioni tecniche per capire il da farsi, e avere tutto sotto controllo», dice un infaticabile Christo che, in Italia, ha realizzato un’altra delle sue imprese artistiche (dopo Spoleto, Milano, Roma).
Lei parla sempre al plurale per non farci dimenticare Jeanne-Claude, la moglie scomparsa, l’altra metà del suo cervello.
«Questi progetti hanno segnato capitoli della nostra vita, tanto da ritornare a volte in certi luoghi. Nel 2007 andammo in Australia proprio dove avevamo realizzato la Wrapping Coast nel 1968-69».
Il lago di Iseo ha avuto la meglio sul Rio della Plata (un amico argentino, nel 1970, suggerì agli artisti di lavorare su quel fiume) e sulla Baia di Tokyo. The Floating Piers (uno dei 37 progetti nel limbo, ma accarezzato per decenni da Christo e Jeanne-Claude), ha generato un momento mediatico di carattere internazionale, seguito da webcam e postato all’infinito sui social.
Eppure lei non ha dimestichezza con questo mondo virtuale, The Floating Piers è un progetto altamente tecnologico ideato da un artista che non ha passione per la tecnologia.
«Non so guidare, non so far funzionare un computer, disegno con le dita! Sto nel mio studio 14-15 ore al giorno, ma da 50 anni faccio sempre le scale, non essendoci l’ascensore. Mi piace il movimento».
Davvero sorprendente che qui sul lago d’Iseo tutto sia stato deciso così rapidamente.
«Conosco molto bene la regione dei laghi lombardi, anche per esserci stato più volte con Jeanne-Claude, dopo averli rivisti tutti e aver fatto dei sopralluoghi, nel maggio 2014 ci siamo decisi: il posto ideale sarebbe stato Iseo. Volevamo un lago quieto, non come il Maggiore o quello di Como». Test segreti furono però eseguiti nella Germania del Nord, in un lago privato nella proprietà di un collezionista. Un successivo saggio tecnico, molto importante, di carattere ingegneristico, venne poi fatto sul Mar Nero, nel 2015. La geometria gioca un ruolo specifico in questa opera site-specific . I visitatori si fermano ad ammirare un angolo acuto all’incrocio di due passerelle (Monte Isola/Sensole). Il paesaggio entra nella visuale del «quadro».
Le persone devono essere indirizzate per scoprire nuove prospettive della vita?
«Il progetto è disegnato secondo linee direttrici obbligate e questo è stato molto importante per contrastare la forma organica dell’isola. È interamente basato sul camminare (non solo sull’acqua ma anche sulla terraferma, nelle stradine di Monte Isola). Lungo le passerelle si produce un vero flusso energetico. Ed è un progetto molto fisico, non è come il nastro mobile degli aeroporti. Questi Piers fanno fare chilometri sull’acqua dove, oltretutto, diventa difficile misurare lo spazio. La gente ha come l’impressione che si tratti di una spiaggia. Come avrà notato, la passerella (molleggiata) non finisce ad angolo retto, i bordi sono leggermente inclinati verso l’acqua, difatti, lì il tessuto è sempre bagnato e diventa arancio scuro. La gente cammina però sempre entro la parte asciutta, ha paura di bagnarsi i piedi proprio come al mare… Il risultato di Floating Piers è che le persone si comportano in modo molto naturale».
Lei è riuscito a scollare la massa dallo schermo della tv e del computer facendola camminare, puntando al coinvolgimento dei sensi.
«Volevo agire sul desiderio e sulla curiosità delle persone. Qui non si è persi dentro una realtà virtuale, c’è vero sole, vero umido, vera pioggia, vero vento, non c’è la riproduzione di un’immagine appiattita».
Alcuni critici hanno subito bollato la sua opera, trattandola da fiera di paese.
«Non faccio questi interventi site-specific per essere popolare. Questa è arte non necessaria, che spesso importuna gli amanti dell’arte che preferiscono luoghi asettici o protettivi come le gallerie o i musei. Floating Piers ha tutto il carattere di un progetto urbano, ma non uso la tecnica per affascinare, ma solo perchè necessaria all’opera. Abbiamo costruito qualcosa di semplice, ma per farlo siamo ricorsi a ingegneri che rendessero facile ciò che era molto difficile. Prendiamo in prestito uno spazio, creando un disturbo gentile e intrecciando la vita delle persone all’opera d’arte».
Francesca Pini
(da “il Corriere della Sera”)
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Giugno 21st, 2016 Riccardo Fucile
L’EX ROCCAFORTE DI ANDREOTTI E DELLA DESTRA ORA E’ GOVERNATA DA “LATINA BENE COMUNE”… IL NUOVO SINDACO COLETTA: “SIAMO TRASVERSALI, NON DI CENTROSINISTRA”
Cardiologo, ex calciatore professionista quando il Pescara era in serie B, Damiano Coletta è il nuovo sindaco di Latina, la seconda città più popolosa del Lazio dopo Roma, famosa come una delle più nere — fu fondata Littoria dal duce — e anche delle più mafiose dell’intera penisola.
Una città di mezzo, lambita dall’inchiesta Mafia capitale e più ancora, negli anni recenti, dominata dagli intrecci tra il potente clan stanziale dei Di Silvo, imparentato con i Casamonica, e le cosche calabresi e campane — i Casalesi in particolare — , che hanno ripetutamente tentato di infiltrare e conquistare i traffici leciti e illeciti dell’Agro Pontino, fino a lambire l’area sud di Roma, come ha scoperto l’inchiesta «Don’t touch» ora arrivata quasi al suo epilogo.
Damiano Coletta ieri, appena uscito trionfante dal ballottaggio con il candidato di Fdi Nicola Calandrini, ha voluto soprattutto ringraziare, nome per nome, il prefetto, il questore, i comandanti dei carabinieri e della guardia di finanza.
Il suo risultato «bulgaro» (75 % dei consensi al secondo turno )- ha sottolineato in conferenza stampa — è «storico», «rivoluzionario», nel senso che segnala una volontà di riscatto della comunità , «l’inizio di una bonifica di Latina, il suo uscire dalla buca, dal tunnel, in cui era finta tra malapolitica e mala-amministrazione».
Lui si definisce «solo l’ostetrico di questo bambino che è nato» e ci tiene a precisare che la sua lista denominata «Latina bene comune» non è di centrosinistra, anche se ha ottenuto l’endorsement al secondo turno dal candidato Pd Enrico Forte.
Al neosindaco ha però fatto più piacere l’appoggio finale dello scrittore «fascio-comunista» Antonio Pennacchi
«Siamo trasversali, che non vuol dire qualunquisti — spiega — ma radicati nella comunità senza avere legami con i partiti, così abbiamo battuto la rassegnazione dei cittadini che percepivano un’ineluttabilità dell’occupazione dello spazio pubblico da parte della macrocriminalità ».
Rapporti con i partiti non ne vorrebbe nemmeno ora che è alle prese con la formazione della sua giunta e può permetterselo visto che con oltre il 75 percento la sua maggioranza di venti consiglieri (uno in più, sottratto al Pd) è largamente autosufficiente.
«Sceglierò gli assessori — promette il neosindaco — sulla base di un profilo di competenza, non abbiamo nessuna cambiale da pagare».
Il suo movimento dai colori giallo-verdi «Rinascita civile» è nato dalla triste fine della squadra locale, il Latina-calcio, e ha preso fiato con la grande manifestazione nazionale di Libera — oltre 100 mila giovani contro le mafie, per la lotta alle povertà e al degrado sociale — che si svolse in città il 21 marzo di tre anni fa.
E anche se Coletta ora spiega al telefono che quella fu sì una manifestazione importante dal punto di vista dell’immaginario, ma senza enfatizzarne il significato, nei suoi discorsi e comizi di campagna elettorale hanno continuato a risuonare parole come «comunità », «legalità », «asili e servizi sociali», «pulizia dei comportamenti quotidiani oltre che intesa come decoro urbano», «diritto alla casa per chi lavora — sottinteso anche di immigrati e rom — paga i contributi e manda i figli a scuola».
A Latina il meetup cinquestelle non ha ottenuto il visto del direttorio, quindi non ha potuto presentare la lista con il simbolo.
«Organizzativamente non siamo dissimili- dice Coletta- anche il nostro statuto ci vieta apparentamenti».
Rachele Gonnelli
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Giugno 21st, 2016 Riccardo Fucile
LO SCHEMA DESTRA-SINISTRA NON REGGE PIU’…E AI BALLOTTAGGI VINCE IL M5S
Nei prossimi giorni leggeremo bei reportage sulla mitologia di Latina, nata Littoria il 18 dicembre del 1932, cinque mesi e diciotto giorni dopo la posa della prima pietra. Leggeremo dell’evocativa architettura razionalista e, forse, della stampa internazionale che esaltava il miracolo di rapidità ed efficienza del fascismo. Ripasseremo l’epica della bonifica dell’Agro Pontino e si cercheranno le ragioni della caduta di un santuario della destra italiana: sempre governata dai conservatori della Democrazia cristiana e nella Seconda repubblica dal Movimento sociale, da An, dal Popolo delle libertà , e ora finita nelle mani di liste civiche scelte al ballottaggio dallo sproposito del settantacinque per cento dei votanti.
Bisognerà poi occuparsi di Varese, la città di Umberto Bossi e di Roberto Maroni, persa dalla Lega dopo ventitrè anni di dominio, e passata – sebbene di pochi voti – al Partito democratico. Che, distrutto a Roma e soprattutto a Torino – città governata a sinistra (o dal centrosinistra) dal 1970, quando il sindaco Giovanni Porcellana era appoggiato da democristiani, liberali e socialdemocratici – adesso comanda in tutti e dodici e capoluoghi lombardi, cioè il giardino di casa di leghismo e berlusconismo. Non c’è più una casamatta che resista.
C’è Bologna, andata a sinistra ma soltanto dopo il ballottaggio, ed è meglio non dimenticare che gli ossessivi schemi mentali della nostra politica erano già saltati il 30 giugno del 1999, con la conquista di Palazzo d’Accursio da parte di Giorgio Guazzaloca, indipendente appoggiato da Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini.
La questione è persino ripetitiva.
Milano resta a sinistra e lo choc dei berlusconiani si era già consumato la volta precedente, con l’affermazione di Giuliano Pisapia. Ora lo choc è tutto romano per l’arrivo dei barbari, un sequel dello choc dell’aprile 2008, giorno di primavera alla fine del quale i tassisti fecero corteo e saluto di clacson attorno al Campidoglio: il nuovo sindaco, subito ribattezzato podestà con umorismo non privo di pigrizia, era Gianni Alemanno: cosa mai più vista dai tempi del Duce.
Siccome i riferimenti novecenteschi continuano a essere suggestivi, oltre che presi molto seriamente, verrà sottolineata la fine del dominio Pd a Sesto Fiorentino, e giustamente si ricorderà che era chiamata la Stalingrado d’Italia: e cioè il luogo della resistenza massima al fascismo, soprattutto a fascismo morto.
Quantomeno Sesto è andata a liste della sinistra ancora più a sinistra.
Fra l’altro sui giornali e sui social network si leggono le esultanze dei forzisti per periferiche affermazioni in Toscana: a Grosseto (periferica fino a un certo punto), a Montevarchi, a Cascina, «strappate alla sinistra», scrive Deborah Bergamini del declinante cerchio magico del declinante Berlusconi.
Dunque, che senso trovare all’andamento della storia se la sinistra perde anche Savona, che è nella Liguria non più rossa perchè governata da Giovanni Toti, ex direttore di Studio Aperto?
Quasi trent’anni fa, Umberto Bossi dava della Lega una definizione che poi è stata ripresa – che coincidenza – da Beppe Grillo per il suo Movimento: «Non sta a destra nè a sinistra, sta sopra».
In quei tempi, a cavallo fra la fine della Prima e l’inizio della Seconda repubblica, uno degli slogan era «fascisti o comunisti, purchè leghisti».
Gli obblighi di schieramento posti dal bipolarismo hanno poi imposto alla Lega di scegliere la destra, ma già allora si intuiva – e se ne è discusso per i restanti due decenni – la crisi della dialettica destra-sinistra, diventata presto stucchevole con le accuse incrociate di stalinismo e mussolinismo (incredibilmente rispuntate anche in quest’ultima campagna elettorale).
E per due decenni abbiamo raccontato la caduta di questo santuario o di quell’altro e continuiamo ancora oggi che la dialettica nuova è piuttosto evidente non soltanto in Italia ma in tutta Europa: la partita, altra ovvietà ripetuta allo sfinimento, si gioca fra chi si fida delle istituzioni e chi non si fida più.
Eppure a sinistra e soprattutto a destra, dove non c’è stata competizione con i cinque stelle, si esulta alle sconfitte dell’avversario.
Il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta, è felice di aver individuato «un avviso di sfratto» per Matteo Renzi che sarà notificato con la disfatta al referendum grazie alla «forza» dei grillini.
Quel poco che resta del duello destra-sinistra si consuma per far perdere il vecchio nemico e si finisce col far vincere il nemico nuovo, il Movimento cinque stelle.
Che, come la Lega di una volta, non si sente nè di qui nè da là , e non ha nemmeno l’impiccio del bipolarismo.
Mattia Feltri
(da “La Stampa”)
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Giugno 21st, 2016 Riccardo Fucile
TORINO, DA PIAZZA DELLA FALCHERA A BORGO VITTORIA LE VOCI DI CHI HA VOLTATO LE SPALLE AL PD
Al bar Quadrifoglio, nella piazza della Falchera, Jessica e Donatella festeggiano: «Adesso cheabbiamo votato la grillina, speriamo che cambi e ci diano l’alloggio». Lunedì pomeriggio, la città discute dell’esito del ballottaggio.
Ma a Jessica e a Fabio il risultato del voto interessa poco: «Noi non facciamo politica. Quelle sono cose che piacciono a voi giornalisti che scrivete per i ricchi. A noi interessa avere una casa. La scorsa settimana Fassino ha mandato i vigili a sgomberarci e noi abbiamo votato per Appendino».
Un semplice rapporto di causa-effetto. Nelle case popolari occupate la rabbia monta: «Vede quell’alloggio con le serrande abbassate al terzo piano sopra la tenda blu? L’avevamo occupato. Ci hanno cacciati con la forza. Hanno messo i vigili a dormire dentro per 3 giorni. Li pagavano 72 euro a notte. Adesso sono andati via e l’alloggio è vuoto. Perchè non darcelo?».
Difficile sovrapporre a tutto questo la vecchia mappa sociale di Torino.
Quando la piramide dei quartieri, dal centro alla periferia, riproduceva oltre i cancelli le stesse gerarchie della grande fabbrica fordista, con i capi in mezzo e gli operai nei capannoni più lontani.
Che cosa resta dei borghi operai, quelli che un tempo votavano Pci e oggi hanno voltato le spalle a Piero Fassino?
Nella giornata di domenica, nelle due circoscrizioni che comprendono le zone di Borgo Vittoria, Vallette, Barriera di Milano, Chiara Appendino, la brava ragazza bocconiana, ha preso 56.536 voti.
Piero Fassino, che per anni ha guidato da questo quartiere la federazione del Pci di via Chiesa della Salute, ha racimolato 31.914 voti, 24mila in meno della sua avversaria. Un mare.
Per la sinistra torinese l’antico Borgo Vittoria, chiamato così per celebrare la vittoria sui francesi nel 1706, è diventato improvvisamente Borgo Sconfitta. Per quale motivo? Perchè Fassino è stato punito?
«Nessuno lo ha punito, è solo che la gente ha deciso di cambiare », sostiene Gino Possetti, 77 anni, anziano militante del Pci, 26 anni trascorsi dietro il bancone della torrefazione «Chicco d’oro», cuore del quartiere.
Possetti ha ereditato una lunga militanza di famiglia: «Mio zio – ricorda con orgoglio – aveva ospitato in casa il braccio destro di Giovanni Pesce, comandante partigiano. Io ero piccolo. Il partigiano girava per casa e mi diceva in dialetto indicando la mitraglietta: ‘Cit tucla nen’, bambino non toccarla che spara. Ecco io sono cresciuto così».
E che cosa ha votato alle elezioni per il sindaco? «Al primo turno ho votato per Fassino. Non che lo conosca benissmo. L’ho incontrato qui una volta sola. Ma mi sembrava che avesse governato bene».
E al secondo turno? «Lì ho cambiato, ho votato per la ragazza». Perchè cambiare in corsa? «Mah non so. Questi dei 5 Stelle venivano sempre al mercato, parlavano con la gente. Mi sono detto: perchè non dare una possibilità a questa ragazza? È giovane, è vivace, sembra che abbia voglia di fare».
I dati dicono che le due circoscrizioni della batosta del centrosinistra sono le uniche dove gli accessi ai servizi sociali sono più di 2.000 all’anno.
Gli sfratti esecutivi nel 2011 erano stati 3.473 in tutta al città e di questi più del 90 per cento è stato per morosità .
Quando Piero Fassino include «gli effetti della crisi» tra le cause della sconfitta fa riferimento a una situazione sociale che si è sfarinata progressivamente, divaricando le condizioni di vita tra centro e periferia.
I dati dei servizi sociali torinesi dicono che la forbice si è allargata molto negli ultimi cinque anni. Quando Chiara Appendino fa riferimento alle «due città da ricucire », si riferisce, in fondo, alla stessa situazione.
La Falchera non è il bronx ma è un posto dove Antonella ha scelto di impegnare la fede al monte di pietà : «L’ho sostituita con una finta, comperata a un euro su un sito internet».
Dove Donatella e i suoi amici del bar Quadrifoglio montano le penne in casa: «Arriva un signore, il mediatore. Ci porta gli scatoloni con le parti delle biro. Se ne monti 10mila ti dà quaranta euro. 8 lire l’una, conta ancora in lire. Io e i miei ci roviniamo le mani e lavoriamo tutta la notte »
Che cosa è rimasto delle barriere torinesi? Marco Novello si considera un miracolato: «La sera dello spoglio per le comunali sono andato a dormire con la certezza di aver perso. Nella nostra circoscrizione aveva vinto l’Appendino. La mattina dopo, quando è stato scrutinato il voto per il quartiere, sono diventato presidente di circoscrizione. Ho preso 3.000 voti in più della coalizione di Fassino. La gente vota chi considera più vicino ».
Anche gli operai? «Gli operai? Gli operai sono pochissimi. I vecchi borghi sono popolati da pensionati, giovani precari e disoccupati. Tutta gente che è unita dalla rabbia. Se la prende con la sinistra perchè ci identifica con il potere. In certi seggi delle Vallette Appendino ha superato il 70 per cento. L’hanno votata tutti, giovani e vecchi».
Così la sinistra ha perso nell’ultima roccaforte del Novecento.
Ogni gruppo sociale ha smesso da tempo di essere classe generale per diventare fortino che si difende disperatamente: «La sconfitta di Fassino – dice lo storico Giuseppe Berta – segnala che lo schema non funziona più nemmeno a Torino. E nasce dal ritardo con cui la sinistra ha deciso di abbandonare quello schema. Perchè anche nella società torinese il fordismo è morto da decenni. Ora tutti, ma proprio tutti, sono costretti a prenderne atto ».
Paolo Griseri
(da “La Repubblica“)
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Giugno 21st, 2016 Riccardo Fucile
IL VOTO NON HA PIU’ GEOGRAFIA: OLTRE UN TERZO DELLE AMMINISTRAZIONI LOCALI HA CAMBIATO COLORE
Queste elezioni amministrative segnano, indubbiamente, una svolta. Annunciata da qualche tempo, ma oggi evidente. E irreversibile. La riassumerei in questo modo: in Italia il voto non ha più una geografia.
In altri termini: ha perduto le sue radici. E, quindi, i suoi legami con la storia, la società , le identità che gli garantivano senso e continuità .
D’altronde, fino a pochi anni fa, la geografia elettorale in Italia riproduceva in larga misura il profilo emerso nel dopoguerra.
Dove gli orientamenti di voto, in alcune zone, si riproponevano sempre uguali, nel corso del tempo.
Nonostante il mutamento del clima politico e degli stessi partiti. Alcuni dei quali, scomparsi. In fondo, nel 1994, Silvio Berlusconi aveva “fondato” Forza Italia sull’anti-comunismo. Recuperando le fratture sociali e territoriali del passato.
Questa geografia era stata ridisegnata, profondamente, dall’irruzione del M5s, alle elezioni del 2013.
Matteo Renzi ne aveva seguito le tracce, alle elezioni europee del 2014. Il suo Pd aveva sfondato il muro del 40%, affermandosi, a sua volta, in tutte – o quasi – le aree del Paese.
Così le Italie politiche si erano confuse. Zone rosse, bianche, verdi, azzurre: tutte scolorite.
Ebbene, queste elezioni amplificano queste tendenze. Infatti, se osserviamo il risultato dei 143 Comuni maggiori, risulta chiara l’impossibilità di individuare una chiave di lettura.
Se non l’inutilità delle chiavi di lettura che utilizziamo per analizzare e interpretare il voto. Oltre un terzo delle amministrazioni – cioè, circa 50 – ha, infatti, cambiato colore.
Nello specifico, i governi di centro-sinistra dopo il voto si sono ridotti alla metà : 45, mentre prima erano 90.
Il centro-destra ha mantenuto e anzi allargato un poco il numero delle città amministrate.
Mentre il M5s è arrivato al ballottaggio in 20 Comuni e li ha conquistati praticamente tutti. Cioè, 19.
Tra questi, Roma e Torino sono quelli che fanno più notizia. Comprensibilmente. Però il M5s si è affermato in tutte le aree. In particolare nel Mezzogiorno.
A Roma e a Torino, peraltro, le sue candidate hanno intercettato il voto dei giovani, dei professionisti, dei tecnici. Ma anche dei disoccupati. In altri termini: la domanda di futuro e la delusione del presente.
Colpisce, soprattutto, il cambiamento che ha coinvolto le regioni dell’Italia centrale. Tradizionalmente di sinistra. Tradizionalmente le più stabili. Dove, però, oltre metà dei Comuni di centrosinistra hanno cambiato colore.
Ciò conferma la non-chiave di lettura suggerita in precedenza. Sottolineata dal risultato del non-partito per definizione. Il M5s. Che fra il primo e il secondo turno ha allargato i suoi consensi da 650 mila a più di 1 milione e 100 mila voti. Cioè, di oltre il 70%.
Un segno della sua capacità di intercettare elettori “diversi”. Che provengono da partiti e da aree “diverse”. Ma soprattutto da “destra”, quando si tratta di opporsi ai governi di centrosinistra.
Com’è avvenuto, in modo appariscente, a Roma e Torino, dove, nei ballottaggi, le candidate del M5s hanno allargato in misura molto ampia i loro consensi elettorali.
Per questo penso che il significato di questo voto vada oltre i contesti locali. Riflette una tendenza consolidata, che Matteo Renzi ha contribuito a rafforzare.
Non tanto perchè abbia personalizzato il voto amministrativo, anche se in qualche misura ciò è avvenuto. Ma perchè ha accentuato il distacco fra politica e territorio. Enfatizzando la personalizzazione e la mediatizzazione. Il Pd, trasformato in PdR.
E la campagna elettorale condizionata dal dibattito sul referendum “costituzionale”. Pardon, “personale”. Su Renzi medesimo.
Così i sindaci e le città hanno perduto significato, importanza. E le elezioni amministrative sono divenute un’arena dove si giocano altre partite, con altri protagonisti.
Dove il M5s, più di altri soggetti politici, è in grado di affermarsi. Nel passato, invece, il suo rendimento elettorale risultava molto superiore nelle scadenze nazionali, quando poteva riprodurre il disagio e la protesta.
Mentre nelle elezioni amministrative non riusciva a ottenere risultati analoghi, in quanto non disponeva di figure credibili, come soggetti di governo. In ambito locale. Oggi, evidentemente, non è più così.
Perchè il M5s è presente, ormai da anni, sul territorio. E ha raccolto, intorno a sè, militanti e attivisti.
Tuttavia, più degli altri attori politici, è in grado di canalizzare la “domanda di cambiamento”. Meglio ancora: i sentimenti e i risentimenti “in tempi di cambiamento”. Come quelli che stiamo attraversando.
Così questo voto rappresenta, al tempo stesso, una risposta e un segnale.
Una risposta al dis-orientamento che ha investito molte zone del Paese. E, soprattutto, le aree urbane e metropolitane. In particolare: le periferie.
Dove la “politica” ha perduto senso e radici. Ma anche un segnale, a modo suo, fragoroso, quanto il silenzio degli astenuti.
Rammenta, infatti, che la “messa è finita”. Le fedeltà si sono perdute.
Liquefatte. Come i partiti. Non per nulla ne ha beneficiato un non-partito liquido come il M5s.
Così, ogni scadenza elettorale diviene – e diverrà – un passaggio senza destinazioni precise. Senza mappe e senza bussole che permettano ai cittadini e agli elettori di orientarsi. E agli analisti, come me, di interpretarne – e prevederne – i percorsi.
Le ragioni. Le destinazioni.
(da “La Repubblica”)
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Giugno 21st, 2016 Riccardo Fucile
LO STUDIO SUI RISULTATI, LE CAUSE DELLA SCONFITTA DEL PD
Milano vinta da Sala per 19mila voti, Napoli che riconferma De Magistris mobilitando però solo il 37% degli elettori.
L’affluenza a questo giro di amministrative è ancora protagonista assoluta delle scelte degli italiani, insieme all’imposizione dei Cinque Stelle.
Le analisi dei flussi diranno presto dove sono andati i voti ma alcune riflessioni si impongono, soprattutto guardando a ottobre.
“In questi risultati iniziano a intravvedersi i segni dei tanti errori commessi dal PD e da Renzi che rischiano di materializzarsi in modo definitivo tra quattro mesi”.
A sostenerlo, con una assertività quasi inusuale, è il direttore dell’Istituto Bruno Leoni Alberto Mingardi che accetta volentieri una chiacchierata di ordine politologico sui risultati delle amministrative: cause, effetti e riflessi sul prossimo futuro.
Partiamo dall’affluenza, il partito dell’astesione è maggioritario
Su questo pesano molti fattori ma sicuramente quella che era era nata come un furbizia si è ritorta contro il furbo, cioè il governo. La data delle elezioni non è stata certo scelta per favore la partecipazione elettorale: abbiamo votato al primo turno nel ponte del due giugno, il ballottaggio scavalla verso una parte del mese in cui molti italiani hanno ben altro per la testa. Non è un bel regalo neppure per i nuovi sindaci: faranno molta fatica perchè la loro legittimazione è stata molto parziale. Poi è stata una campagna elettorale relativamente povera, fatta sui social media-tv e non con grandi mobilitazioni che colpissero grandemente la fantasia della gente. Per non parlare dei programmi.
No, parliamone
Beh, con l’eccezione di Milano da ambo le parti, nella maggioranza dei casi i programmi erano opuscoli o collezioni di slide. Per curiosità , ora che se ne può parlare senza essere fraintesi, andate sul sito di Lettieri: è una collezione di slide, quello di De Magistris erano sette pagine in tutto. Giusto una collezione di intenzioni appiccicaticce solo perchè la legge ti obbliga a depositare un programma. Ecco, i contenuti a questo ballottaggio spesso non si sono proprio visti, in favore di una polarizzazione forte con o contro il governo.
Dove ci porta questa disaffezione?
E’ evidente che si è rotto un certo equilibrio che faceva perno sul territorio e sulle strutture di partito. Ma, se mi è consentito, chi ha perso ha commesso anche degli errori specifici che non sono legati a queste dinamiche generali. Penso a Renzi e al suo rappresentare sempre l’alternativa da sè come impercorribile. E’ evidente che il Pd guidato da lui sia rimasto spiazzato dall’avanzata dei Cinque Stelle. Ma molto lo si deve a una sottovalutazione che non è tanto delle loro potenzialità , che sono evidenti, quanto dell’effetto collaterale di una rappresentazione estremista che identifica l’abisso con la propria alternativa. Renzi continua a dire “o me o Salvini e i Cinque Stelle”, o me o i populisti. La sonora lezione che arriva dai ballottaggi per lui è che agli italiani non piace stare con la pistola alla tempia. Non obbediscono a qualcuno che chiama al non voto a prescindere, in antitesi, e soprattutto vogliono provare. In questo sono molto più adulti di quanto li vogliano i partiti.
Dove è andata la partecipazione?
La destra, diciamocelo, non l’ha mai avuta. Forza Italia è un partito liquido che coincide con una persona e il Pd di Renzi non è diverso, l’ha persa per strada. A Milano ha avuto capacità di mobilitazione però credo che abbia davvero commesso molti errori di valutazione. E mi fa un po’ specie che proprio Renzi abbia sottovalutato la potenza della rottamazione. Che per altro potrebbe provare presto sulla sua stessa pelle, tra una manciata di mesi.
In effetti molti pensano sia l’antipasto per il referendun di ottobre
Su questo ho un’opinione radicatissima. Il referendum di ottobre è perso per Renzi, nella situazione attuale. Non riesco a capire come facciano a non accorgersi. Se lei stima una partecipazione del 60% alla consultazione di ottobre, significa 30 milioni di voti. Se prende il referendum Trivelle sono andati in 15 milioni. La stragrande maggioranza ha votato contro le trivelle e sono quelli sicuramente contro la riforma costituzionale. Ma anche quelli che hanno votato a favore delle Trivelle sono sostanzialmente la vecchia area industrialista di quello che era il Pci. Ed è tutta gente che fa naturalmente parte del fronte del no.
E dunque?
Ora, uno non può pensare di farcela. La sinistra solo una volta ha preso 15 milioni di voti, con L’ulivo. E c’era dentro tutto, da Dini a Bertinotti. E dall’all’altra una destra divisa. Come si fa a pensare che lui riesca a portare a casa più di 15 milioni sulla riforma costituzionale? L’ottimismo sparso in questi mesi era surreale, dopo le amministrative vien da dire che davvero quando si è al governo perdere lucidità è molto facile. Il referendum, a mio avviso, non passerà neppure con la mobilitazione di tutto il governo o con l’annunciata battaglia quartiere per quartiere.
Perchè è tanto sicuro?
La verità ? Il tema della riforma è arcano, complesso. Interessa una quota minima di persone che per altro hanno opinioni estremamente radicate e sono dalla parte del no. L’elettore d’opinione che cambia idea va bene se capisce la riforma del Senato, ma non è una cosa alla quale si applichi o appassioni. Se fosse “aboliamo il Senato” sarebbe anche facile, ma con la sostituzione di quello delle regioni anche questo argomento fa meno presa. Ecco perchè il referendum potrebbe essere il colpo mortale per Renzi. Salvo sorprese, s’intende.
Cosa intende, scusi. Cosa si aspetta che faccia ora Renzi?
Credo che se vuol avere qualche chance deve inventarsi una cosa straordinaria che coinvolga ampi strati dell’elettorato, fuori dalla legge elettorale. Una misura del governo che accenda i cuori delle persone, chesso’ io: una riforma delle pensioni, una grande riforma fiscale. Qualcosa che accenda l’entusiasmo delle persone e gli consenta di riproporre l’alternativa dicendo: guardate, se non votate per me al referendum questa cosa qui non la posso fare. E siamo ancora al ricatto. Magari non è “normativamente” bella, ma almeno c’è qualcosa come contropartita. Non semplicemente “non puoi votare per i cattivi”.
Altrimenti?
Se non gioca una carta che mobilita ampi strati dell’elettorato deve fare una partita di palazzo che non può prescindere da una legge elettorale che è criticata da tutti tranne che da lui. Per altro in una situazione pericolosa, perchè mettiamo che vinca il no, ci troviamo con due leggi elettorali diverse per Camera e Senato che non è il massimo per andare ad elezioni.
E quindi, la cambierà ?
Qui c’è un paradosso interessante con cui il Pd dovrà fare presto i conti. La riforma elettorale porta la firma di Renzi, questo referendum no. Renzi ha chiuso un lavoro che era già in fieri. Quindi si gioca il tutto per tutto su una riforma costituzionale che ha portato a compimento ma che era cominciata prima e che doveva essere una riforma molto più condivisa di quelle che l’hanno preceduta, cosa che non è. E se la gioca con tutto il gruppo del centro destra del Paese che non è più quello di dieci anni fa, ma è una quota di elettori che potrebbe fare la differenza o non votare, perchè con una maggiore astensione si abbassa l’asticella. E se la gioca contro il centrodestra, per salvare un Italicum che sembra fatto apposta per i Cinque Stelle. Non a caso tutti i ballottaggi che ha fatto il Pd contro M5S li ha persi. E avendo questo record di sconfitte ai ballottaggi contro i Cinque Stelle fa di tutto per difendere una legge elettorale che lo penalizza. Da questo punto di vista Renzi e il Pd sembrano a un punto cieco.
Thomas Mackinson
(da “il Fatto Quotidiano”)
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