Giugno 4th, 2016 Riccardo Fucile
IL PD SI PRESENTA CON LE SUE INSEGNE NELL’11,6% DEI CASI, FORZA ITALIA NEL 6,7%, IL M5S NEL 18,7%
Indebolita dall’antipolitica, mimetizzata in mille liste civiche e soffocata dalla crisi della militanza: ecco dov’è finita la Repubblica dei partiti.
Rintracciare un simbolo tradizionale nelle liste è ormai un’impresa, mentre il grafico degli ultimi vent’anni mostra l’impetuosa ascesa di contenitori cittadini che nascono e muoiono nello spazio di un’elezione.
Certo, il meccanismo elettorale per i comuni con meno di 15 mila abitanti rende le civiche “convenienti”.
Un tempo, però, anche le piccole forze erano radicate a tal punto che preferivano contarsi. E nelle grandi città c’era spazio solo per il logo di partito.
Siamo di fronte a un declino inesorabile? Basta comparare le comunali del 1997 con quelle del 2016: parlano i numeri.
RADDOPPIANO LE CIVICHE
Nel 1997 si votò ad aprile, poi ancora a novembre. In tutto 1418 comuni con 2117 liste civiche: 1,49 per ogni città .
Vent’anni dopo, amministrative del giugno 2016, si contano 3910 civiche in 1342 comuni: stavolta la media è 2,91. Il doppio.
NIENTE SIMBOLI IN 2 COMUNI SU 3
Molti di coloro che si recheranno domani alle urne non troveranno sulla scheda un simbolo di partito, perchè nel 65,2% delle città correranno solo liste civiche.
E nel 1997? Allora soltanto il 32,3% dei comuni si trovava in questa condizione.
Che è poi, secondo l’Antimafia, lo schema peggiore perchè rischia di favorire l’infiltrazione criminale nelle amministrazioni.
NIENTE M5S IN 8 COMUNI SU 10
Sarà che sbocciano ovunque liste cittadine, o forse è colpa di organizzazioni molto meno “militari” di un tempo, fatto sta che i partiti non presentano il proprio simbolo in moltissime realtà .
Il 5 giugno il Movimento cinque stelle correrà nel 18,7% dei comuni. Non ci sarà , insomma, in 8 città su 10.
POCO PD SULLE LISTE
Il logo del Pd è visibile solo nell’11,6% dei comuni, anche se in parecchie realtà è mimetizzato proprio nelle civiche.
FORZA ITALIA NON C’È PIÙ
Arranca ancora di più il partito di Silvio Berlusconi, che lancia liste solamente nel 6,7% delle città al voto: una vera e propria miseria.
CALABRIA, IN 20 ANNI IL BOOM
Il caso calabrese è emblematico. Nel 1997 i comuni in cui si potevano votare solo liste civiche erano il 42%. Nel 2016 la cifra è più che raddoppiata: 91,7%.
Significa che in nove città su dieci i simboli di partito sono letteralmente scomparsi.
LA CONTA DEL DECLINO
Non c’è solo la Calabria. I comuni “civici al 100%” sono passati dal 54,3 all’89% in Sardegna, dal 30,8 all’84,8% in Molise, dal 36,6 all’81,9% in Abruzzo.
E ancora, sempre nella parte alta della classifica: dal 40 al 79,6% in Liguria, dal 37 al 78,3% in Piemonte.
LA CAMPANIA TRIPLICA
Dal 1997 triplicano le civiche in Campania, passando dal 27,1% al 75%. E volano anche nel Lazio: dal 37,2% al 71,6%.
PIÙ MOVIMENTO AL SUD
I cinquestelle mostrano un buon radicamento nel Mezzogiorno. In Puglia lanciano il simbolo nel 52,5% delle città chiamate alle urne. E anche in Sicilia vanno forte: 51,7%.
Tanto grillismo anche in Umbria (36,4%), Toscana (34,6%), Veneto (30,5%) ed Emilia (28).
Quasi non si vedono, invece, in Calabria (5,9%), Molise (6,1%), Liguria (6,7%) e Sardegna (9%).
PD A TRAZIONE APPENNINICA
Sopra la propria media nazionale la presenza del simbolo dem in Toscana (19,2%), Umbria (18%) ed Emilia (18%).
Forte la presenza in Sicilia (41,4%) e Puglia (27,1%). Male invece Molise e Abruzzo: entrambe si fermano sotto il 5%.
GLI 0% DI FORZA ITALIA
La migliore performance di FI è in Umbria, dove presenta il logo nel 18,2% delle città .
Poi quasi nulla: 9,2% nel Lazio, 6,7% in Lombardia, 5,1% in Piemonte, 3,4% in Sicilia. Zero, nel senso di 0%, in Liguria e Basilicata.
Tommaso Ciriaco
(da “La Repubblica“)
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Giugno 4th, 2016 Riccardo Fucile
A ROMA TRIONFO O BATOSTA
Fedele a una scelta che gli ha fruttato – finora solo nei sondaggi – un consenso popolare crescente dopo la scoppola delle europee 2014, il movimento di Beppe Grillo ha aperto i suoi comizi con uno slogan efficace, “O-ne-stà , o-ne-stà ”, implicita accusa a tutti gli altri di essere disonesti (o corrotti, o criminali, o mafiosi).
Scelta ardita, oltre che discutibile, anche perchè comporta una inevitabile conseguenza: poichè solo i pentastellati sono “onesti” – anche quando i loro sindaci vengono indagati dalla magistratura – non possono allearsi con nessuno, foss’anche una lista civica di carabinieri in congedo.
Essendo l’unico partito che corre solo con il suo simbolo, quello di Grillo sarà anche il solo a dover confrontare il risultato di domani sera con quello delle ultime elezioni (le europee).
Se dunque il Movimento 5 Stelle scendesse in una grande città al di sotto delle percentuali ottenute due anni fa a Roma (24,9), a Milano (21,1), a Torino (23,8), a Napoli (26,5) o a Bologna (15,3) la narrazione della “rivoluzione dell’onestà ” si incepperebbe fastidiosamente.
La vera partita decisiva si gioca a Roma, dove Virginia Raggi è in cima a tutti i sondaggi, e ormai da un pezzo Grillo accarezza il sogno di ripetere nella capitale l’impresa che in Spagna è riuscita a Podemos – altro partito anti-sistema – con l’elezione dell’ex magistrato anti-corruzione Manuela Carmena a sindaco di Madrid. Sarà inevitabile aspettare i ballottaggi, che finora hanno sempre favorito il movimento, ma se alla fine le urne smentissero i pronostici, per i Cinquestelle sarebbe una batosta assai difficile da mandare giù, anche se molti pensano che il vero guaio per Grillo non sarebbe perdere il Campidoglio, ma conquistarlo (ed essere costretto a dimostrare di saper governare).
Sebastiano Messina
(da “La Repubblica”)
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Giugno 4th, 2016 Riccardo Fucile
POTREBBE ESSERE L’UNICO GRANDE VINCITORE DI QUESTE AMMINISTRATIVE, PRONTO A SFIDARE RENZI ALLE POLITICHE… GRANDE SINTONIA CON LE PULSIONI DEL POPOLO NAPOLETANO, CAPACE DI SVUOTARE L’ELETTORATO DEI GRILLINI, PRESTIGIATORE TALENTUOSO…..SI SPOSA MEGLIO CON LA BANDANA DELL’AGITATORE DI PROFESSIONE CHE CON LA FASCIA TRICOLORE
Traffico, immondizia, degrado: e molto di più. Ogni voto amministrativo, in un Paese poco pragmatico come il nostro, ha sempre – anche – un contenuto ulteriore, politico quando non ideologico.
E, se è pressochè dichiarata la partita di prospettiva nazionale che i Cinque Stelle sperano di giocare su Roma, è forse ancora più vistosa (benchè non del tutto esplicita) la scommessa di Luigi de Magistris su Napoli: e pone in questione il futuro della sinistra italiana, quella che oggi vede in Renzi il proprio babau.
Se i sondaggi non mentono troppo, il sindaco uscente pare abbia realizzato un vero incantesimo napoletano, convincendo i suoi concittadini di essere appena sceso da un pullman di zapatisti a Mergellina anzichè aver governato la terza città italiana per cinque anni filati con risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Salito sul palco della vittoria a giugno 2011 (« avimmo scassato !») con promesse irrealizzabili come una raccolta differenziata al 70 per cento, de Magistris era precipitato dal cuore dei napoletani in modo così verticale da riaprire ogni tipo di manovra su Palazzo San Giacomo ad appena metà mandato.
E’ probabile soffrisse il ruolo istituzionale (e la concretezza relativa) – il suo tratto tribunizio sposandosi assai meglio con la bandana arancione che con la fascia tricolore.
Forse la sua fortuna è stata, per paradosso, l’inciampo giudiziario di una condanna in primo grado per abuso d’ufficio (poi ribaltata dall’assoluzione in appello) che l’ha fatto incorrere – temporaneamente – negli strali della legge Severino e l’ha trasformato da primo cittadino in «sindaco di strada», da uomo delle istituzioni per forza in agitatore per vocazione e per sospensione ope legis .
Fuori da Palazzo San Giacomo il sindaco-non sindaco ha sparato su norme e magistrati (lui, ex magistrato), ritrovando la sua scapigliata ispirazione di guevarista del Vomero.
Ed è stato capace di sintonizzarsi – gli va dato atto – con le pulsioni più profonde d’una città dove la plebe non s’è mai trasformata compiutamente in popolo, dove la lotta sociale si fonde col sanfedismo da oltre due secoli.
Diffidando di quasi tutti (tranne che del fratello Claudio, suo uomo-ombra e «precario» con zero euro di reddito dichiarato), Giggino ha risalito la china e, guardandosi attorno, ha capito dove si trovasse lo spazio per crescere ancora.
Se a ottobre 2015, dopo l’assoluzione che l’ha restituito alla pienezza delle funzioni amministrative, aveva colpito un attento osservatore della politica napoletana come Marco Demarco per la sua pacatezza – «misura le parole, non insulta…» – nel volgere di qualche settimana ha rovesciato il copione.
Con un mantra a presa rapida: siamo accerchiati, noi napoletani soli contro tutti (ovvero: contro Regione, governo, Unione Europea).
E con l’idea di tenere assieme una coalizione che va da Sinistra italiana fino al Partito del Sud e ai neoborbonici, venata da suggestioni di secessionismo finanziario (vecchia fisima bossiana) e da pulsioni pre-unitarie cui ammiccano persino i centri sociali .
Il suo programma avventuroso – che include il reddito di cittadinanza alla faccia delle coperture d’un bilancio da anni sul crinale del default, raffiche di assunzioni e nuove case popolari a Scampia – si coniuga col richiamo continuo al Che e al subcomandante Marcos e a una «rivoluzione» partenopea ormai in marcia, con inviti reiterati alla «battaglia» (Dio non voglia che qualche anima semplice lo prenda alla lettera). Dunque è in campo un intero armamentario antagonista, tradottosi nella rottura con Renzi su Bagnoli (con toni incendiari cui sono seguiti scontri all’arrivo del premier) ed enfatizzato nell’ormai famoso show al Palapartenope («Renzi, devi avere paura, ti devi cag… sotto!») che ha spinto il candidato di centrodestra Gianni Lettieri a chiedere l’antidoping per Giggino .
Sbaglia Lettieri. Come sbaglieremmo noi nel derubricare a follia ciò che è metodo, e metodo di successo, in un Paese malato di alzheimer politico e sempre sedotto dai prestigiatori talentuosi.
Di fatto de Magistris assorbe l’elettorato grillino (infatti i Cinque Stelle gli oppongono un non-avversario che pare uscito dalla fantasia di Stefano Benni, l’ottimo ingegner Brambilla, monzese juventino sulle pendici vesuviane).
Ed eccita talmente le paure del Pd da spingere ieri la candidata Valeria Valente a spendere nove decimi del suo comizio di chiusura per parlar male di lui anzichè bene di se stessa.
Il modello Po demos è assai più vicino a Giggino che all’esangue traduzione dell’onesto Pippo Civati («Possibile»).
E il tesoretto della sinistra antirenziana, da Fassina a Roma ad Airaudo a Torino, calcolato attorno a un 7 per cento, potrebbe diventare ben più cospicuo se rimpinguato dal casatiello masaniellista in cottura nel rovente forno napoletano.
Qua e là , a mezza bocca, l’ha ammesso de Magistris, che gli piacerebbe sfidare Renzi alle politiche nel 2018, certo da campione della sinistra.
Vincesse adesso, e magari al primo turno, il grande sogno sarebbe a un passo: gli resterebbero solo da sfangare altri due anni di fastidiosa realtà alla guida della città più difficile d’Italia. In fondo, quisquilie.
Goffredo Buccini
(da “il Corriere della Sera”)
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Giugno 4th, 2016 Riccardo Fucile
PIU’ FACILE SCENDERE CHE SALIRE, SONO DIMINUITI I PIANI ALTI E SI ALLARGA IL GAP GENERAZIONALE
L’ ascensore sociale non sale più anche perchè sono diminuiti i piani alti. Il blocco della mobilità sociale è stato individuato da tempo come una delle principali manifestazioni della disuguaglianza italiana ed è anche arcinoto l’effetto che ha nell’allargare il gap generazionale.
Gli studiosi concordano che la causa prima dell’ascensore bloccato risieda nella malattia della bassa crescita che affligge da circa un ventennio l’economia italiana. L’ultimo rapporto Istat ci ha dato anche qualche elemento in più sottolineando lo stretto legame che intercorre tra mancata mobilità e disuguaglianza perchè un’economia stagnante tende a perpetuare le condizioni acquisite e quindi esalta il peso di quella che viene chiamata «ereditarietà economica».
La famiglia nella quale si nasce condiziona fortemente il successivo ciclo di studi e di lavoro e causa la «trasmissione intergenerazionale delle condizioni economiche» e l’Italia risulta tra i Paesi Ue più conservatori.
La rendita di posizione dei cittadini con status sociale di partenza elevato (genitore laureato e manager, casa di proprietà ) rispetto a quelli con status di partenza basso (casa in affitto e genitori con bassa istruzione) è più ridotta in Francia (37%) e in Danimarca (39%) mentre è molto forte nel Regno Unito (79%), Italia (63%) e Spagna (51%). E dove la rendita è più alta il merito conta meno.
Se questo, con gli ultimi aggiornamenti, è il quadro delle cose che sappiamo in materia di mobilità sociale i lavori di Antonio Schizzerotto, docente all’Università di Trento, ci permettono di andare oltre.
Sostiene il sociologo che nel nostro Paese nei primi 60 anni del Novecento le dimensioni della classe superiore – imprenditori, liberi professionisti, dirigenti e occupazioni intellettuali svolte alle dipendenze di terzi – sono rimaste molto contenute.
Successivamente e per altri 40 anni invece si sono espanse a ritmi sostenuti.
È solo nell’ultimo decennio che questa crescita si è arrestata ed è iniziata una discesa. L’ascensore non può arrivare ai piani alti perchè ce ne sono pochi o comunque meno rispetto alle aspettative dei potenziali passeggeri. Il risultato è che la mobilità ascendente dei nati tra il 1970 e il 1985 è stata di cinque punti più bassa rispetto ai loro fratelli maggiori nati tra il 1954 e il ’69 e la mobilità discendente è cresciuta di 7 punti.
Per arrivare a questi numeri gli studiosi lavorano a lungo su un’ampia serie di indagini campionarie e di conseguenza registrano spostamenti di lungo periodo, ma se potessimo immettere in questo schema i millennials è molto probabile che la forbice si allargherebbe ancora di più.
Le cause storiche della carenza di piani alti risalgono ad alcune peculiarità della nostra economia che pur avendo vissuto «un incisivo e lungo processo di industrializzazione» non è riuscito a dar vita a un numero sufficienti di medie e grandi imprese e ha vissuto una «terziarizzazione si è concentrata su settori marginali e poco innovativi».
Il risultato è quello che Schizzerotto definisce «un fenomeno di saturazione» dei posti disponibili nelle classi superiori e la riduzione delle chance di mobilità viene pagata interamente dalle nuove generazioni.
Non solo dai figli di operai ma anche dalla prole degli imprenditori, dei liberi professionisti, dei dirigenti e dei colletti bianchi.
Anche costoro oggi per rimanere nelle classi di origine fanno più fatica dei fratelli maggiori e dei padri quando anche loro avevano un’età compresa tra i 20-35 anni. Stiamo rischiando di entrare in un regime di mobilità discendente: l’ascensore scende invece di salire e a segnalare il danno sono soprattutto i figli degli impiegati direttivi e di concetto che, oltre a pagare il blocco, devono sopportare i costi derivanti dal venir meno delle protezioni dai pericoli di discesa sociale.
Se mettiamo sotto osservazione il sistema delle imprese, per capire a monte i fenomeni fin qui descritti, viene fuori che il primo fattore negativo risiede nella struttura delle piccole imprese focalizzate attorno alla figura del proprietario, senza un’adeguata articolazione dirigenziale e delle competenze.
Sono poche le Pmi che hanno almeno un dirigente.
Il secondo fattore rimanda alle dinamiche della globalizzazione e al fenomeno delle concentrazioni societarie.
Spiega Stefano Scabbio, amministratore delegato di Manpower: «Le fusioni che riguardano compagnie operanti nello stesso business comportano una riduzione da 4 a 1 delle posizioni per top e middle manager. Basta pensare al settore bancario per averne una conferma immediata. In Europa le cose vanno così e sono i processi di consolidamento a fare da padroni, in altre aree accanto alle concentrazioni si sviluppano anche nuove opportunità e business che non conoscevamo».
Aggiunge Max Fiani, partner di Kpmg, società che monitora il mercato delle acquisizioni: «Le aree professionali nelle quali si taglia sono finanza, amministrazione e controllo, si salvano il commerciale e la logistica. Ci sono stati anche di recente casi nell’industria del cemento e negli elettrodomestici che hanno portato a razionalizzare siti produttivi e headquarter».
E le riduzioni di posizioni pregiate è stimato tra il 20 e il 30%. C’è poi da tener presente che in caso di shopping di nostre imprese da parte di multinazionali c’è il rischio di spostamenti del quartier generale fuori dall’Italia e in questi casi è chiaro – fa notare Fiani – che avere lo stesso passaporto dell’azionista dà maggiori chance di conservare il posto.
Gli effetti di queste operazioni interessano a catena anche la filiera di fornitura dei servizi professionali che si accentra sulla casa madre. Tutti questi movimenti vanno nella stessa direzione perchè fanno diminuire le posizioni alte a disposizione dei giovani manager italiani.
Per completare il quadro occorre tenere presente che gli anni della Grande Crisi sono stati anche anni di profonde ristrutturazioni che hanno reso le organizzazioni aziendali più piatte.
Dal 2008 a fine 2014, secondo dati diffusi da Manageritalia, i dirigenti del settore privato italiano sono diminuiti del 5% a fronte però di un aumento consistente del numero dei quadri, incremento che almeno in parte copre un trend di mobilità discendente.
Commenta l’economista industriale Enzo Rullani: «Ci mancano le piramidi, abbiamo tante unità di base e poco ceto medio dirigenziale. O diventi imprenditore o hai poche chance di promozione perchè resti escluso da macchine organizzative rigide».
Ma tutto ciò avviene secondo Rullani nel lavoro esecutivo non in quello «generativo» reso possibile dall’Internet 4.0.
«Può partire una nuova mobilità sociale che non si basa più sulla cooptazione dall’alto ma sullo spirito di intraprendenza. Le organizzazioni avranno crescente bisogno di persone che sappiano risolvere i problemi e siano disposte a investire su di sè e a incorporare il rischio del fallimento».
Da qui può ripartire la meritocrazia, si tratta di vedere però quanti posti sarà capace di mettere in palio.
Dario Di Vico
(da “il Corriere della Sera”)
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Giugno 4th, 2016 Riccardo Fucile
IL POPULISMO “DEMOCRATICO” DI SANDERS UNICO IN GRADO DI BATTERE IL POPULISMO REAZIONARIO DI TRUMP… CHI PENSA CHE SANDERS SIA “SOCIALISTA” NON HA CAPITO NULLA
È molto probabile che Hillary Clinton ottenga la candidatura per il Partito democratico alle prossime elezioni presidenziali americane,ed è quindi molto probabile che batterà il candidato repubblicano Donald Trump, diventando così presidente degli Stati Uniti.
Ma come ha scritto qualche giorno fa il New York Times , nella corsa alla Casa Bianca di quest’anno l’impensabile sta diventando possibile.
E dunque le cose potrebbero forse andare altrimenti.
Potrebbe accadere che per varie ragioni – non ultima l’uso forse illegale della Clinton della propria mail personale per molte comunicazioni ufficiali – la sua popolarità , già non molto forte, cominci a vacillare; che la sua candidatura si mostri una candidatura sempre più debole, e che, come alcuni indizi già fanno intravedere, l’eventuale duello tra lei e Trump mostri di potersi risolvere a favore di quest’ultimo. In tal caso non è assurdo pensare che il Partito democratico possa allora decidere di puntaresul senatore Sanders, non casualmente rimasto finora in lizza.
Il fatto è che nella corsa presidenziale americana si sta delineando un fenomeno forse decisivo.
E cioè che mentre alcuni sondaggi già ora cominciano a non dar più la Clinton come vincitrice sicura in un duello con Trump, viceversa non sembrano esserci dubbi sul fatto che Sanders batterebbe di sicuro il candidato repubblicano.
In altre parole, sarebbe il populismo progressista, non già la sinistra democratica «per bene», la posizione davvero capace di sconfiggere il populismo reazionario
Per l’Europa si tratterebbe di una lezione importantissima.
Da tempo i suoi sistemi politici e i suoi partiti tradizionali sono squassati dai venti di tempesta di una spinta antioligarchico-populistica carica di volontà di riaffermazione nazionale: una spinta che finora è stata puntualmente sequestrata da formazioni di destra, intrise di umori xenofobi e autoritari.
Incanalata in un simile alveo questa spinta costituisce una vera minaccia per la democrazia dei nostri Paesi.
Ma proprio perchè le cose stanno così, l’esempio americano potrebbe indicare quella che forse è la sola via d’uscita da una situazione che invece oggi, qui in Europa, vede le forze democratiche paralizzate, incapaci di trovare idee ed energie per una controffensiva, e perciò destinate inevitabilmente prima o poi, se il quadro resta quello attuale, a una sconfitta rovinosa
La via d’uscita è per l’appunto quella incarnata dal senatore Sanders: il populismo democratico.
A un populismo di destra opporre un populismo di sinistra pronto naturalmente – come farebbe senz’altro per primo Sanders, se mai dovesse essere lui il candidato democratico – a rinunciare al «socialismo» e a stipulare preliminarmente un compromesso con alcuni settori chiave del mondo della produzione e degli affari.
È la via che a suo tempo prese Roosevelt per uscire dalla crisi del ’29: per esempio non esitando a ricorrere con spregiudicatezza all’appello al popolo contro il formalismo giuridico della Corte Suprema che sbarrava il passo al suo programma audacemente riformatore.
È la medesima via indicata all’inizio del Novecento da Max Weber, quando vedeva la salvezza delle democrazie nel futuro burrascoso che si annunciava solo nel potere conferito a un «Cesare democratico»
Ma che cosa vuol dire quest’espressione? Che significa in concreto un populismo democratico?
Molte cose: dallo stare dalla parte del «piccolo uomo» (il piccolo produttore, il piccolo risparmiatore, il consumatore, il popolo minuto) contro il Big Business; dalla parte della produzione contro le rendite finanziarie; dalla parte dei bisogni e dei diritti dei più contro gli interessi dei pochi smascherando questi interessi e i loro abituali camuffamenti; stare dalla parte dell’espansione contro la deflazione e l’austerità ; stare dalla parte della politica contro l’economia, favorendo la possibilità istituzionale di decisioni non contrattate e non compromissorie (come invece vorrebbe il parlamentarismo dei bravi democratici «per bene»)
Populismo democratico significa tutto questo ma in più qualcos’altro, che però – si badi – è un ingrediente essenziale per qualificarne la diversità rispetto a quello reazionario.
Significa innanzi tutto un «discorso» diverso. E cioè un’alta «retorica» sui principi della comunità , sul suo destino, sul suo vivere insieme per adempiere un fine inclusivo, per raggiungere un traguardo positivo che alla fine riguarda tutti (anche le oligarchie nemiche).
Significa la capacità di richiamarsi credibilmente agli ideali, di costruire un’immagine all’insegna del disinteresse personale, suggerendo l’idea di un impegno politico al servizio di una speranza collettiva da opporre alla paura del declino e del declassamento sociale.
Ecco quanto il Cesare democratico dovrebbe mostrarsi in grado di fare e specialmente di esprimere: grazie alla parola e al gesto simbolico.
Rivolgendosi al cuore anzichè alla pancia, come invece è spinto a fare il suo omologo reazionario.
Il primo è un profeta ragionevole che addita la salvezza, il secondo uno stregone che evoca i demoni sancendo tutti i tabù
L’Europa però non sembra capace di produrre alcuna figura di Cesare democratico.
È la riprova del venir meno nelle sue èlite e nelle sue culture politiche egemoni di ogni autentico sfondo ideale, della loro assoluta incapacità di rispondere alla drammatica novità dei tempi, di mantenere un rapporto vero con il sentire profondo delle proprie società .
È la conferma altresì di una selezione ai posti di maggiore responsabilità che da tempo si attua dappertutto pressochè esclusivamente sulla base di meccanismi di tipo sostanzialmente burocratico.
In realtà nessun luogo come oggi l’Europa continentale a ovest dell’Elba ha conosciuto una simile eclisse dello Stato nazionale e di conseguenza del «politico» costringendosi, come attualmente è costretta, a confidare per il suo futuro sui tribunali e sulle finanze, sulle banche e sulle «direttive» di Bruxelles: sotto la guida trascinante dell’avvocato Jean—Claude Juncker.
Ernesto Galli della Loggia
(da “il Corriere della Sera“)
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Giugno 4th, 2016 Riccardo Fucile
“L’IRONIA E’ GIA’ NEI FATTI, IO NON FACCIO CHE REGISTRARLI”
Diego Bianchi è alla scrivania. Felpa nera, t-shirt con un Beethoven pop stampato, jeans. Se ne sta seduto davanti al computer a preparare i reportage che andranno in onda nello speciale “Gazebo” post elettorale lunedì su Rai Tre in prima serata, ospite d’eccezione Roberto Saviano.
Quasi quattro ore di riprese solo a Napoli. «Ne ricaverò sette minuti», dice.
È indaffarato, perchè è lui che taglia, monta, sceglie le musiche. Giovedì porterà “Zoro Live” all’Auditorium Parco della Musica per la Repubblica delle Idee (Cavea, ore 22).
Gli studi romani di Gazebo, hanno l’atmosfera del posto di frontiera, anche se sono a Prati, quartiere di avvocati.
Quattro stanze spoglie, tavoli da lavoro, porte che sbattono, gente che va e viene: sembra una casa di universitari, solo che alle pareti al posto dei poster ci sono i murales di Makkox.
Zoro — ma lui, a 47 anni, preferisce essere chiamato Diego, che poi è il nome vero nascosto dietro la maschera — è disegnato su una parete: guarda il Colosseo. L’intervista inizia fissando il computer dove scorrono comizi e gente per strada.
Si può raccontare la politica con umorismo?
«Mi limito ad osservare. L’ironia è nei fatti, da parte mia non faccio che registrarli. Il pericolo è che i politici davanti alla telecamera assumano un atteggiamento performativo, cerco di evitarlo».
Quanto conta il montaggio per ottenere l’effetto satirico?
«Taglio molto ma non abuso del montaggio. Una volta ho mostrato Bertolaso durante un comizio. Era solo sul palco che fissava il nulla. Ho lasciato che l’immagine parlasse da sè, aggiungendo come colonna sonora Segnali di vita di Battiato (la canticchia: Segnali di vita nei cortili e nelle case all’imbrunire…, ndr)»
In realtà basta la faccia di Zoro sparata nella telecamera a creare uno straniamento comico
«La verità è che ho un occhio da Prima Repubblica, classico. Mi sono formato in altri anni, quando la politica non era questa. È il corto circuito tra il mio sguardo e il linguaggio politico di adesso che fa ridere. La mia formazione è stata in famiglia, nel quartiere. Alle elementari frequentavo la sezione del Pci di San Giovanni a Porta Metronia, dove erano iscritti i miei genitori. Lì ho poi ambientato il film “Arance e martello ».
Liceo classico, una laurea in scienze politiche. Come è nato Zoro?
«Sono figlio unico, da piccolo a casa giocavo a subbuteo da solo. Mi sdoppiavo, mi triplicavo… Zoro, il mio alter ego, ha origine lì, in quei giochi infantili. Ma non ero triste( ride, ndr). Poi un giorno ho acceso la telecamera e ho iniziato a parlare del mio essere di sinistra, di questa cosa chiamata Pci, poi Pds, infine Pd. Così ho messo in scena il racconto della mia militanza nel primo video su YouTube di Tolleranza Zoro. Prima curavo i contenuti del portale Excite».
Con chi si è laureato?
«Alla Sapienza con Domenico Fisichella, diventato poi ministro dei Beni culturali del governo Berlusconi. Con una tesi sulla Rete di Orlando e la Lega».
Il pensiero critico è un modo per fare politica?
«Mia nonna diceva che la politica si fa pure al bagno. Per quanto mi riguarda sono stato un militante. Certo però non credo nella causa di un partito quanto nella causa del racconto della realtà ».
Un racconto che ha tanti registri. I reportage dai campi profughi di Idomeni, Lesbo, Calais sono tutt’altro che ironici.
«Cerco di trattare con leggerezza una materia pesantissima. Ho sempre avuto interesse per il sociale. Ora il grande tema è l’immigrazione, in studio lunedì ci sarà Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa. Siamo entrati nella jungle di Calais, comprato le calosce, camminato nel fango, ci siamo ritrovati nel mezzo di una guerriglia tra poliziotti e comunità curda, dormito in una tenda. Lavoriamo così, al pubblico mostriamo tutto ciò che ci capita».
Non è che si era stancato delle storie del Palazzo?
«Un po’, ero stanco delle beghe dei partiti, sentivo il bisogno di andare in giro per il mondo».
Un ricordo incancellabile.
«Al confine serbo-ungherese, dove arrivavano pullman pieni di serbi. Non riesco a dimenticare una madre strappata alla figlia. A che serve aggiungere commenti? Fare politica è anche questo: far vedere che cosa accade davvero ».
Raffaella De Santis
(da “La Repubblica”)
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Giugno 4th, 2016 Riccardo Fucile
NESSUNA REAZIONE AGLI SCANDALI DELLE AZIENDE PUBBLICHE LE CUI RISORSE PRENDONO STRADE STRAVAGANTI, TRA SOCIETA’ IN GRECIA E ACCORDI CON LA RUSSIA
Dice molto, nel rush finale della competizione elettorale per i più grandi Comuni italiani, l’assenza pressochè generale di reazioni agli scandali e ai disservizi di alcune grandi aziende municipalizzate.
Ma dice di più, in una campagna che si sta spegnendo nella generale mancanza di idee, la presenza di un tabù.
La parola «privatizzazione» risulta pressochè irrintracciabile nei programmi elettorali dei principali candidati. Che anzi si sperticano nel difendere la proprietà pubblica delle aziende che erogano, spesso male, i servizi pubblici ai cittadini.
Lo fa perfino chi si ispira alla tradizione liberale: curioso, no?
Se poi qualcuno di loro sfiora il tema, premette che l’azienda «va prima risanata». Subito investito dalla sassaiola scagliata dai suoi competitori.
Peggio ancora per chi azzarda di far assorbire una società comunale tecnicamente fallita qual è la romana Atac non da un privato ma da un altro soggetto pubblico come le Ferrovie dello Stato. Il che avrebbe almeno il senso di farle cambiare padrone, visti i bei risultati a cui l’ha portata quello attuale. Ma non se ne parla.
La cautela potrebbe essere giustificata da una debolezza, tanto umana quanto però indicativa del modesto spessore politico dei candidati: la paura di perdere voti.
Le municipalizzate sono serbatoi di consenso. Sono più di 300 mila i posti di lavoro garantiti dalle ottomila società locali. Le partecipate di Roma Capitale hanno a libro paga 37 mila persone.
La sola Atac ne conta 11.871,e non è da meno la milanese Atm, con più di 9 mila, sia pure con una qualità del servizio assai diversa
I numeri dei potenziali elettori sono tuttavia la parte meno appetitosa della torta.
Su questo giornale il presidente del Pd Matteo Orfini ha detto che «l’Atac è sempre stata la cassaforte di un partito trasversale».
Un partito dove non c’è destra nè sinistra, perchè gli interessi affaristici del gruppo di riferimento, quando non sono affari personali, sono l’obiettivo.
Davanti al quale la politica e le idee passano in secondo piano. Per averne la conferma basta rileggere certe testimonianze rese in tribunale da alcuni imputati al processo per Mafia Capitale, secondo cui le risorse per certe fondazioni politiche arrivavano proprio dalle aziende di servizi pubblici. Che sono diventate, quasi ovunque, il cuore del potere locale
In risposta alla privatizzazione delle grandi società di Stato, Regioni, Province e Comuni hanno moltiplicato le proprie partecipazioni a ritmi tali, e con intrecci tali, da far girare la testa al più smaliziato fra i Gordon Gekko.
Oggi gestiscono 28.096 pacchetti azionari, per più di 8 mila aziende pubbliche.
Ed è lì, sia pure in misura diversa da caso a caso, che «il rapporto incestuoso fra politica, sindacato e mondo delle imprese» (sono sempre parole di Orfini) ha prodotto le sue peggiori incrostazioni, favorito dalla penombra della periferia.
Senza trascurare la complicità , altrettanto incestuosa, di certi dirigenti e funzionari: tecnici all’apparenza, emanazione della politica nella sostanza.
Boiardi in sedicesimi. Proprio lì, dove la luce dei riflettori filtra con difficoltà , ci sono i soldi veri, perchè le aziende possono essere anche scassate e i servizi erogati di pessima qualità , ma di quattrini ne girano valanghe.
Parliamo di 115 miliardi l’anno. Tanti denari significa tanti appalti e tanto lavoro anche per l’universo privato che si accalca intorno, con modalità per le quali la rendicontazione sociale è spesso assente
Lì cresce un sistema che fra gli intrecci azionari a cui accennavamo e certi collegamenti personali è diventato il tessuto connettivo di un apparato di potere con ramificazioni senza precedenti.
Il recente disastro dei lungarni fiorentini ha fatto scoprire a molti che Publiacqua, la società che gestisce gli impianti idrici di Firenze, è per il 40 per cento di proprietà della romana Acea, società quotata in Borsa di cui è importante azionista Francesco Gaetano Caltagirone, che sta costruendo la metro C nella capitale con un’impresa, la Vianini, a sua volta piccola azionista di Publiacqua.
Dalla stessa Acea proviene l’attuale amministratore delegato di Publiacqua, incidentalmente consorte di un ex assessore dell’ex sindaco di Roma Ignazio Marino.
E quando dall’Acea è arrivato a Firenze, il suo predecessore si è trasferito al timone dell’Acea. Mentre alla presidenza della società fiorentina c’era l’attuale sottosegretario alle Infrastrutture Erasmo D’Angelis, considerato fedelissimo di Matteo Renzi, e il consiglio di amministrazione ha registrato anche il passaggio della responsabile del ministero delle Riforme, Maria Elena Boschi. Ma questo è solo un esempio.
Affrancate da ogni controllo centrale, nel mondo delle municipalizzate le risorse pubbliche prendono le strade più stravaganti: chi apre società in Spagna e Grecia, chi fa accordi con la Russia, chi va a raccogliere la spazzatura in Senegal e chi distribuisce l’acqua in Honduras. Qualche anno fa la Corte dei conti calcolò che i posti apicali nelle imprese locali, fra consiglieri, sindaci e dirigenti, raggiungevano lo sbalorditivo numero di 38 mila.
Un parco poltrone sufficientemente vasto per pagare debiti elettorali, soddisfare le richieste clientelari, accontentare amici e famigli.
Ciò contribuisce a spiegare perchè non solo nessuno vuole privatizzare, ma nemmeno pensa a dismettere le tantissime scatole inutili.
Prova ne sia il fatto che la legge con cui già dal dicembre 2014 si imponeva agli enti locali di predisporre piani di riordino delle partecipate per sfoltire la giungla, due mesi dopo la sua scadenza era stata rispettata da appena 3.570 delle 8.186 amministrazioni sottoposte all’obbligo. Le altre 4.616 facevano: marameo!
L’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli predicò al vento la riduzione delle partecipate pubbliche da 8 mila a mille.
Ora Marianna Madia garantisce che la riforma della pubblica amministrazione le taglierà drasticamente. Ma se la dovrà vedere con il partito dei sindaci.
Vecchi e, temiamo, anche nuovi.
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)
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Giugno 4th, 2016 Riccardo Fucile
“SE QUESTO E’ IL FLUSSO SERVIREBBE UN HOTSPOT IN OGNI PORTO”… “SONO FOTO DI UNA GUERRA, VANNO MOSTRATE”
“Mi sembrano le foto scattate dopo un duro combattimento durante una guerra. Sono incredibili”.
Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr, agenzia dell’Onu che si occupa di rifugiati, fa fatica a togliere lo sguardo dallo schermo dell’Ipad.
Oggi è a Trento al Festival dell’Economia per partecipare a un panel con Federico Soda, direttore dell’ufficio di coordinamento per il mediterraneo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, proprio sull’emergenza migranti.
Ma al panel purtroppo ci arriverà con negli occhi le terribili immagini dei corpi che il mare ha restituito alla terra, lì stesi sulle spiagge libiche, come se stessero dormendo dopo una lunga traversata.
Foto che testimoniamo l’ennesimo naufragio di questi giorni. Lo sguardo è pieno di compassione, ma allo stesso tempo tradisce l’amarezza di una visione quotidiana mista a impotenza.
“Sono foto che vediamo oramai da anni: noi spesso ci interroghiamo sull’opportunità di farle vedere. Da una parte se non si fanno vedere le persone non prendono coscienza, dall’altra c’è però il rischio di assuefazione. Ma alla fine io credo che vadano mostrate: è bene che vengano pubblicate perchè queste cose accadono veramente, è come se noi morissimo su quelle barche, e come se noi morissimo su quelle spiagge”.
Trova un nesso con questa foto e quello del piccolo Aylan? Sembra quasi che da allora non sia cambiato nulla.
“Dopo Aylan sono morti centinaia e centinaia di bambini. La situazione è certamente peggiorata: quest’anno siamo a già oltre 2.500 morti fra adulti e minori, nello stesso periodo l’anno scorso eravamo arrivati a 1.800, quindi sono già 700 in più. E’ un continuo, è una corsa contro il tempo. Queste morti sono l’effetto di problemi che non sono risolti a monte: servono soluzioni, ma il problema è che sono complesse e soprattutto dovrebbero essere messe in pratica in tempi brevissimi. Purtroppo i tempi della politica non sono così veloci”.
La politica, appunto. Per il cardinale Angelo Scola l’Onu e l’Unione europea hanno fallito. Serve un piano Marshall a guida italiana. Cosa ne pensa?
“Sono d’accordo sulla parte propositiva dell’intervista di Scola, sono d’accordo sul piano Marshall, cioè un progetto mondiale per individuare soluzioni a una crisi che è mondiale”.
Come potrebbe svilupparsi questo piano?
“Dovrebbe agire su tre livelli. Prima di tutto dovrebbe aprire degli spazi umanitari per i Paesi in guerra, come la Siria, dove ci sono città e villaggi rimasti esclusi dagli aiuti. E ovviamente in parallelo individuare percorsi di risoluzione dei conflitti. Poi, in seconda battuta, bisogna aiutare i Paesi vicini a quelli in guerra, come Kenya, Niger, Libano, Giordania e via dicendo. Il terzo pilastro è aprire vie legali, regolari, per alcuni di questi rifugiati per portarli via da questi Paesi: penso alle riunificazioni familiari. Solo 70mila persone dei 60 milioni di rifugiati vengono portati in luoghi sicuri”.
Sta parlando dei corridoi umanitari?
“Sì in Italia vengono chiamati così”.
E’ d’accordo con la parte propositiva dell’intervista di Scola, ma che pensa della forte critica a Onu e Ue?
“Sono d’accordo, ma i due piani sono distinti”.
Partiamo dall’Onu, allora…
“Al Consiglio di sicurezza siedono i leader delle potenze mondiali, che non riescono a portare la pace nei Paesi in guerra. La maggior parte dei conflitti sono interni, quindi servirebbe una maggiore capacità di negoziazione da parte della comunità internazionale. I rifugiati di oggi, infatti, sono il risultato di conflitti che si sono continuati a moltiplicare come ad esempio in Afghanistan, dove il 2/3 del Paese è insicuro. Ma anche la Siria e la Libia sono delle polveriere, dove la pericolosità della situazione non impatta solo sull’Europa ma anche sui Paesi vicini come il Niger e il Mali. La comunità internazionale non è riuscita assolutamente a trovare una soluzione e questo è un problema”.
Invece l’Europa
“Il piano europeo non sta funzionando. Sui ricollocamenti c’è un’eccessiva lentezza burocratica da parte dei Paesi che dovrebbero accogliere i rifugiati. Oggi c’è questa buona notizia che la Francia accoglierà 400 siriani al mese: se questo meccanismo avesse funzionato da subito, con i 126mila ricollocamenti previsti, si sarebbe evitato il caos che c’è stato in Grecia”.
Ma l’Europa accusa l’Italia di non aver creato sufficienti hotspot…
“L’Italia si è conquistata un certo rispetto a livello europeo in questi anni. Ci sono le spinte di alcuni Paesi ad alzare la tensione, ma le istituzioni europee sanno benissimo qual è l’impegno italiano. Poi che significa hotspot? Hotspot non è luogo fisico, ma una procedura, un meccanismo di identificazione dei rifugiati”.
Oggi il Viminale ha promesso l’apertura di tre nuovi hotspot, in Puglia, Sardegna e Calabria.
“Erano già previsti e ora verranno aperti. Più in generale c’è bisogno di avere queste procedure d’identificazione subito, lì dove ci sono gli sbarchi. Se questo flusso di migranti si mantiene ai livelli di questi giorni allora servirebbe un hotspot in ogni porto dove arrivano i barconi”.
Anche perchè ultimamente ad aggravare il problema è l’arrivo di tanti bambini e ragazzi
“Quest’anno abbiamo registrato un aumento del 170% degli sbarchi di minori rispetto allo scorso anno. Spesso finiscono nei centri di accoglienza insieme agli adulti, ma ciò non va bene: bisognerebbe aumentare i posti dedicati esclusivamente a loro. Siamo preoccupati dalla presenza di così tanti minori: gli altri anni costituivano il 10% degli arrivi, qui siamo arrivati ben oltre. Moltissimi sono eritrei, egiziani, anche molto piccoli, 11-12 anni. Ciò fa pensare al fatto che dietro ci sia una rete criminale di sfruttamento”.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 4th, 2016 Riccardo Fucile
I QUESITI VERTONO SU SCUOLA, INCENERITORI, TRIVELLE E SERVIZI PUBBLICI
I referendum «sociali» hanno già totalizzato 300 mila firme: lo ha comunicato ieri il Comitato promotore, che ha lanciato contemporaneamente una mobilitazione straordinaria di raccolta in giugno.
«Ne servono altre 200 mila», spiegano il Forum italiano dei movimenti per l’acqua, il Movimento per la scuola pubblica e la Campagna «Stop devastazioni» per i diritti ambientali e sociali.
«Con quel risultato la primavera prossima potremo andare al voto».
«La mobilitazione per abrogare gli aspetti peggiori della legge 107 (la cattiva scuola di Renzi) per bloccare il piano nazionale che prevede la costruzione di altri 15 inceneritori sul suolo italiano, per evitare la concessione di nuove trivellazioni in mare o in terra e per raccogliere centinaia di migliaia di firme contrarie alla direttiva della ministra Marianna Madia volta a privatizzare i servizi pubblici — spiegano gli organizzatori entrando nel dettaglio dei quesiti — ha già ricevuto un’ottima risposta dagli italiani e dalle italiane. Fra i molti — aggiungono — ringraziamo Luciano Canfora, che ha firmato per i referendum sociali al Salone del libro di Torino, e don Luigi Ciotti, che lo ha fatto a Villafranca Tirrena. I loro e gli altri 300 mila nomi sui nostri moduli ci danno la spinta per affrontare quest’ultimo mese di raccolta firme, fiduciosi di uscirne vittoriosi».
I banchetti sono presenti in tutta Italia e i moduli si possono trovare in tutti i municipi. «Il 12 e 13 giugno cadrà anche il quinto anniversario del referendum sull’acqua pubblica, il cui esito vittorioso è sempre più lontano dall’essere rispettato — ricorda il Comitato — Noi invece non lo dimentichiamo e ne rafforzeremo il messaggio con una serie di iniziative per raccogliere le firme, come un dibattito pubblico a Ferrara la sera del 10 giugno»
Impegnata nella raccolta firme è anche la Cgil, e in special modo la Flc, che ha aderito in particolare ai quattro quesiti sulla scuola (si aggiungono a quelli promossi dalla stessa Cgil su licenziamenti, appalti e voucher).
I quattro quesiti, ricorda la Flc Cgil, sono relativi «al potere discrezionale dei dirigenti scolastici per la chiamata diretta e per l’attribuzione unilaterale di quote di salario ai docenti, al cosiddetto bonus scuola per le private (in palese contraddizione con la Costituzione) e all’obbligatorietà delle ore minime di alternanza scuola-lavoro».
(da agenzie)
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