Giugno 1st, 2016 Riccardo Fucile
IL PUGILE E LA PRINCIPESSA, QUELLI DEL “DETTO…”, I COGNOMI FINTAMENTE FAMOSI…SUI NEBRODI C’E’ UN CANDIDATO PER FAMIGLIA
La carica degli ultraottantenni, i diciottenni alla prima esperienza. La giovane rampolla di sangue blu e il pugile campione dei superleggeri.
Fra soprannomi bizzarri e omonimie, tra figli e parenti “di” e supermamme, da sempre le liste elettorali sono un concentrato di situazioni e personaggi fra i più disparati.
E quelle degli oltre 1300 comuni che andranno al voto domenica 5 giugno non fanno eccezione.
Ecco i casi più curiosi.
Ottanta e più.
A Brindisi, l’unico capoluogo pugliese al voto (anticipato, dopo l’arresto dell’ex sindaco, Mimmo Consales, espulso dal Pd) si giocherà il derby degli ultraottantenni.
A gettarsi nell’agone politico saranno Carmelo Palazzo, 83 anni, che corre per la moderata Angela Carluccio, e Mario Tarì, 82, che sostiene la lista civica Nando Marino sindaco (centrosinistra).
Più “giovani” i due candidati napoletani, Arturo Sommonte e Giacomo Carini, classe 1936, entrambi in corsa per Gianni Lettieri (Forza Italia).
Ottant’anni anche per Gino Centra, che corre a Novara per Giancarlo Paracchini (lista civica Civitas). Ma a battere tutti è Anna Babini, ex partigiana di 91 anni, candidata al consiglio comunale di Ravenna con la lista civica “Ama Ravenna”, alleata Pd.
Il ballo dei debuttanti.
Folto lo squadrone di giovanissimi che si presenta a Napoli, come Francesco Giovanni De Luca e Giovanni Danese, 19 anni, a sostegno del sindaco uscente Luigi De Magistris, o il coetaneo Guido Walter Mariano che corre per Valeria Valente.
Curiosamente due nomi del ’96 appaiono nella lista Pensionati d’Europa: si tratta di Jessica Lucci e Francesca Di Vincenzo, vent’anni ancora da compiere.
A Novara l’aspirante consigliere più giovane è il 19enne Matteo Pavesi, della lista Città in Comune (sostiene il candidato di sinistra Paolo Rodini, appoggiato da Cofferati).
A Brindisi la candidata più giovane al consiglio comunale è Alexandra Matilde Mellone, che spegnerà venti candeline l’8 giugno e gareggia per il candidato di Fi, Nicola Massari. A Ruvo, in provincia di Bari, il candidato sindaco più giovane della regione è Oscar Altamura, M5s, 22 anni.
Un “vecchio”, in confronto al torinese Nicolò Lagrosa, che vince il titolo assoluto di baby-candidato: ha compiuto 18 anni il 1° maggio, va ancora a scuola (quest’anno ha la maturità scientifica) ed è in lista alla Circoscrizione 3 con i Moderati per Piero Fassino.
Il pugile e la principessa.
A Torino un giovane pugile corre per la lista civica che appoggia il sindaco uscente. Si chiama Andrea Scarpa, è foggiano, ha 28 anni ed è campione italiano e intercontinentale dei superleggeri.
“Voglio dare una scossa a questo sistema” è il suo motto. Mentre con lo slogan “Meglio nobili che ignobili” punta sul suo sangue blu la coetanea Giacinta Ruspoli, figlia del principe Sforza Ruspoli (Lilio per gli amici). La rampolla della nobile casata corre alle elezioni comunali di Roma nella lista “Con Giorgia Meloni sindaco”.
Omen nomen.
A Napoli nella lista DeMa a sostegno di De Magistris i candidati si presentano con soprannomi bizzarri.
C’è Antonio Di Luca, detto “Operaio”. Giuseppe Desideri detto “Desiderio”. Francesco Donzelli detto “Avvocato”.
Viene da chiedersi: se qualcuno scriverà “Avvocato” o “Desiderio” sulla scheda, il voto verrà ritenuto valido?
Non mancano nelle liste anche i fake, ossia le omonimie con personaggi celebri. Come a Brindisi, dove c’è Monica Bellucci, proprio come la nota attrice, che corre nella lista Cantiere giovani a fianco del già citato Marino.
Ha invece scritto “Vota Salvini” sul suo volantino un tale Giovanni Salvini, che si presenta come capolista in consiglio comunale a Torino per la Lega Padana – Piemont, giocando sull’omonimia del suo cognome con quello del leader del Carroccio.
Punta invece sull’acronimo Carmela Rozza, assessore uscente della giunta Pisapia che sostiene Sala a Milano e che sulla scheda ha come alias “Crozza”, con riferimento al popolare comico.
Comunisti a Portofino.
Fra i contrasti divertenti citiamo il caso di Portofino. La piazzetta dei miliardari d’Italia è stata invasa dalle bandiere rosse del Partito comunista dei Lavoratori, che si presenta nel borgo più amato dai vip con il candidato Piero Bruno. Le proposte del Partito: anticapitaliste, prima di tutto, e poi mirate all’unità di classe.
Un candidato a famiglia.
In Sicilia folla di candidati senza precedenti: uno ogni 85 abitanti in questa tornata elettorale che vede 29 comuni alle urne, ma nessun capoluogo (tra i centri più importanti Caltagirone, Alcamo e Vittoria). Il record ad Antillo, piccolo paese del Messinese, sui monti Nebrodi: lì c’è un candidato ogni 30 abitanti, in pratica un concorrente al consiglio comunale in ciascuna famiglia.
La mamma è sempre la mamma.
Madri alla riscossa in diverse città . A Torino, in una lista civica che appoggia Osvaldo Napoli, c’è la supermamma Alessia Curti, passata alle cronache per il record di sette pargoli avuti nel 2013, ora in rotta con il marito che ha cercato di portarglieli via.
A Napoli, invece, a correre per De Magistris c’è Giuseppina La Delfa, fondatrice delle Famiglie Arcobaleno e prima mamma in Italia ad aver ottenuto dal Tribunale la stepchild adoption, ossia l’adozione incrociata dei figli con la sua compagna.
I parenti dei vip.
Nutrito il plotone di figli e parenti di personaggi famosi. A Roma, candidato con la lista Storace, c’è Aldo Maria Biscardi, detto Dodi, nipote del giornalista sportivo presentatore della popolare trasmissione calcistica “Il Processo”.
Biscardi junior, diciott’anni appena compiuti, a Repubblica Tv ha rivelato: “A scuola mi chiamavano il moviolone”.
A Milano ci sono Alberto Veronesi, figlio dell’oncologo Umberto, Francesca Turci, sorella della cantante Paola e Daria Colombo, moglie del cantautore Roberto Vecchioni. Tutti e tre corrono in liste diverse per Sala.
Arti e mestieri.
Attori, cantanti e chef tentano l’avventura in politica. A Napoli in lista arrivano le “Guarattelle”, grazie a Bruno Leone, maestro dell’antica arte dei burattini, candidato a fianco del sindaco uscente. Da attore veste spesso i panni di Pulcinella e ha promesso: “Se mi votate prometto che ruberò”.
Con De Magistris anche la cantante di origine tunisina M’Barka Ben Taleb (protagonista del film Passione di John Turturro).
A Torino scende in campo per Fassino anche l’egiziano Bibo, alias Bahaad Heiwiss, il re del kebab, uno dei primi ad aprire in città , diventando con la catena di locali “Horas” un punto di riferimento per i frequentatori della movida torinese.
In lista con Roberto Giachetti lo chef Alberto Ciarla, proprietario dell’omonimo ristorante a Trastevere.
Mentre a fianco del candidato sindaco Michel Emi Maritato (Assotutela) corre, invece, Massimo Marino, conduttore di Vivi Roma, conosciuto come “il re della notte” perchè specializzato nel pubblicizzare locali erotici della Capitale.
Infine Daniela Martani, pasionaria dell’Alitalia ed ex concorrente del Grande Fratello, si è convertita alla dieta vegana e si è guadagnata un posto nella lista dei Verdi per Roma a sostegno del candidato Pd.
Monica Rubino
(da “La Repubblica”)
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Giugno 1st, 2016 Riccardo Fucile
UNA VOLTA LA POLITICA ESPRIMEVA PASSIONI E DISTRIBUIVA RISORSE, OGGI LA DEMOCRAZIA LASCIA CHE LE DECISIONI VENGANO PRESE ALTROVE
Le elezioni amministrative del 5 e 19 giugno rischiano di essere le meno partecipate della storia; proprio nei giorni in cui la democrazia italiana festeggia il suo anniversario
Settant’anni fa, in queste stesse ore, i nostri nonni – e le nostre nonne – si preparavano a fare una cosa che non avevano mai fatto e forse neppure pensato: votare, concorrere a decidere il proprio destino, rivendicare la propria parte nella comunità nazionale.
Oggi il rito che in un Paese da ricostruire apparve insieme gioioso e solenne è diventato grigio come il nostro umore.
Eppure tutte le grandi città sono chiamate a eleggere il loro sindaco, l’unica figura che sino a poco fa aveva resistito al declino delle istituzioni e al degrado della rappresentanza.
Oggi i sindaci si dimettono, vengono arrestati, perdono credibilità , urlano insulti;e anche chi lavora seriamente non ha più un euro da spendere,una promessa da offrire.
In realtà , i motivi di interesse ci sono. E non soltanto perchè le amministrative rappresentano l’ultimo appuntamento elettorale prima del referendum di ottobre.
La capitale d’Italia potrebbe essere governatada una giovane esponente del Movimento 5 Stelle: una notizia che sarebbe l’apertura dei siti di tutto il mondo. Milano, al di là del fairplay tra i candidati – un segno prezioso in quanto raro, che fa della metropoli un’isola nel mare in tempesta della delegittimazione reciproca –, è chiamata a scegliere tra due maggioranze e due idee di città molto diverse .
E se Napoli, all’evidenza soddisfatta di se stessa, potrebbe non riservare sorprese, è interessante la sfida di Torino: un sistema che da oltre vent’anni si regge sull’alleanza tra quel che resta del Pci e quel che resta della Fiat, ora messo in discussione da una trentenne figlia della borghesia cittadina ma vista con simpatia da una parte del voto operaio.
Mentre a Bologna il sindaco pd firma il referendum della Cgil contro il Jobs act, la riforma più qualificante del governo pd.
Se neppure questo risveglia l’opinione pubblica, è evidente che ci sono altre ragioni. Non bastano nè i generici inviti alla partecipazione, nè la giusta denuncia della corruzione e dei privilegi che allontanano i cittadini dalla politica.
Intendiamoci: è incredibile come i politici italiani rifiutino semplici gesti che contribuirebbero a ridurre questa distanza.
Un Paese che in pochi anni ha perso il 25% di produzione industriale e un milione di posti di lavoro, con 5 milioni di poveri e il record europeo di rassegnati che vivono di assistenza statale o welfare familiare, non comprende come un parlamentare – o il consigliere di una municipalizzata – possa ricevere gli stipendi e i vitalizi pubblici più alti dell’Occidente, che spesso sono soltanto un acconto sul grosso degli introiti: la commistione tra politica e affari.
Ma la questione non è tutta qui.
La vita pubblica è gracile e incattivita perchè la nostra organizzazione sociale offre pochi spazi di confronto e di decisione.
Quasi tutti sentono di non contare nulla, se non nello sfogatoio della rete, nella virtualità dei social.
Il voto era il segno di un’appartenenza; oggi i partiti non hanno quasi più sezioni, iscritti, giornali, ideologie, forse neppure idee.
Il voto era all’origine il modo con cui i contribuenti decidevano come spendere i denari delle loro tasse; oggi la crescente no tax area – spesso un paradiso fiscale in patria per evasori ed elusori – esclude partecipazione e responsabilità .
La rivoluzione tecnologica e la crisi dei sindacati e dei contratti collettivi hanno spezzettato il lavoro e isolato i lavoratori gli uni dagli altri.
Anche provvedimenti inevitabili, come l’abolizione del servizio militare obbligatorio, fanno sì che un giovane diventi cittadino senza quasi mai incontrare lo Stato, senza sentirsi soggetto di diritti e di doveri (che fine ha fatto l’idea ricorrente del servizio civile?).
La politica esprimeva passioni e distribuiva risorse; ora non fa più nè una cosa nè l’altra.
La democrazia fatica a decidere, o lascia che le decisioni vengano prese altrove: dalle lobby, dalla burocrazia europea, dalla finanza internazionale.
L’Italia del 1946 non era l’Eden. Era appena uscita da una guerra civile.
Mancava il cibo e c’erano 15 milioni di mine inesplose. Però c’era anche la sensazione che il futuro non dipendesse soltanto dal fato o dagli eserciti stranieri, ma soprattutto da quello che gli italiani sarebbero stati in grado di fare.
Non abbiamo nessuna nostalgia della Repubblica dei partiti che sarebbe venuta, oggi rimpianta solo dai politici di professione; ma quello spirito pubblico un po’ ci manca. Ci fu un tempo in cui gli italiani erano pronti a farsi uccidere – e non è retorica, perchè molti si fecero uccidere – per conquistare il diritto di costituire una comunità democratica, diventare padroni della propria sorte, sentirsi parte di qualcosa che andasse oltre se stessi.
È una conquista che non possiamo gettare via così.
Aldo Cazzullo
(da “il Corriere della Sera“)
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Giugno 1st, 2016 Riccardo Fucile
IN 25 ANNI UN RESIDENTE SU SETTE SE N’E’ ANDATO, VUOTA UNA CASA SU TRE, VI SONO DUE ANZIANI PER OGNI GIOVANE
Non solo Nord-Sud, c’è un altro divario che zavorra l’Italia. È quello tra centro e periferia.
Da un lato ci sono le aree metropolitane e i capoluoghi «a sviluppo elevato»: centri che hanno consolidato specificità imprenditoriali spesso trascinandosi dietro l’hinterland.
Dall’altra c’è la pletora dei piccoli comuni: paesini alpini che resistono alle asperità della montagna, mini-insediamenti abitativi abbarbicati sull’Appennino, municipi dimenticati da Dio e dagli uomini sparsi nelle campagne del Sud.
Di questi mini-Comuni, 2430 (il 30% del totale) rischiano di non sopravvivere a causa del lento (ma almeno finora inesorabile) spopolamento.
NOI E L’EUROPA
Nel Paese dei campanili l’85% dei Comuni (6875) ha meno di 10 mila abitanti. Di questi 5627 sono incasellati dalle statistiche sotto la voce «piccoli» perchè non raggiungono i 5 mila residenti. Di più: ben 3532 (vale a dire il 43,8% del totale) restano sotto i 2 mila.
Attenzione però, l’Italia non ha un numero di municipi superiore al resto d’Europa.
A fronte degli 8 mila Comuni italiani (circa uno ogni 7500 abitanti circa), in Germania ci sono 11.334 gemeinden (uno ogni 7213), nel Regno Unito 9434 wards (uno ogni 6618) in Francia 36.680 communes (uno ogni 1774) e in Spagna 8116 municipios (uno ogni 5687).
La media dell’Ue è di un ente ogni 4132 abitanti.
Il problema è un altro e si chiama crollo demografico. Speso conseguenza della mancanza di lavoro e servizi locali.
IL CALO DEMOGRAFICO
Un dossier di Legambiente (che sarà presentato oggi a Roma con l’Anci) fotografa il calo di popolazione e le caratteristiche di quello che viene definito il «disagio insediativo» dei piccoli Comuni.
Non è un pericolo marginale: nei 2430 Comuni a rischio sopravvivenza vivono quasi 3 milioni e mezzo di italiani, il 5,8% della popolazione.
Ma in 25 anni i Paesi sotto i 5 mila residenti hanno perso 675 mila abitanti.
Un calo del 6,3%, mentre nello stesso periodo la popolazione italiana cresceva del +7% con oltre 4 milioni di cittadini in più rispetto al 1991.
La differenza demografica netta è quindi del 13%. Significa che in un quarto di secolo una persona su sette se n’è andata dai piccoli Comuni. La densità è scesa a 36 persone per chilometro quadrato: 13 volte in meno rispetto agli insediamenti con oltre 5 mila abitanti. PAESI FANTASMA
Sempre di meno e sempre più vecchi. In quest’Italia in miniatura, dall’anima rurale, gli over 65 sono aumentati dell’83% a fronte degli under 14.
Dalla sostanziale parità si è passati a oltre due anziani per ogni giovanissimo. I piccoli comuni sono poco attraenti anche per la popolazione che arriva dall’estero.
Dato ribadito dal deficit di imprese straniere, il 25,6% in meno della media. Il pericolo è che i borghi siano destinati a diventare i paesi fantasma del terzo millennio.
Già oggi le abitazioni vuote sfiorano i 2 milioni (mentre sono 4 milioni e 345 mila quelle occupate): vale a dire una su tre. E finora nemmeno il turismo ha salvato il patrimonio dei mini-Comuni, dove la capacità ricettiva è cresciuta meno della metà di quella urbana.
LA CORSA ALLA FUSIONE
Il rilancio dei «piccoli» è al centro di “Voler bene all’Italia”, la festa dei borghi promossa da Legambiente dal 2 al 5 giugno.
Per la presidente Rossella Muroni «è indispensabile puntare sulla semplificazione amministrativa, mantenere presidi come scuole, servizi postali e ospedali e garantire risorse per la valorizzazione come prevede il ddl in discussione alla Camera».
Anche perchè «una politica che dimentica i piccoli comuni – avverte Massimo Castelli, coordinatore dell’Anci – non fa l’interesse del Paese».
L’altra faccia di questo quadro a tinte fosche è la corsa alle fusioni per razionalizzare spese e gestioni dei servizi. Il primo gennaio 2016 sono spariti 40 Comuni. E non è finita.
Il governo spinge sull’acceleratore e in manovra ha confermato il contributo straordinario pari al 40% dei trasferimenti erariali dell’anno 2010 per chi si fonde.
Altri sette progetti di accorpamento hanno già ottenuto il via libera dei cittadini tramite referendum.
È il paradosso del Paese dei mille campanili: per salvarli, tocca superarli.
Gabriele Martini
(da “La Stampa”)
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Giugno 1st, 2016 Riccardo Fucile
CHIAMATE A OGNI ORA E ANCHE SENZA CONSENSO: LE OFFERTE VIA TELEFONO SONO UN ASSILLO QUOTIDIANO PER MILIONI DI ITALIANI
Squillano mentre giriamo il sugo o appena dopo pranzo. Quando siamo sul bus, o mentre lavoriamo. Ci raggiungono sul fisso e sul cellulare, ci chiamano per nome e magari ci danno anche del «tu». E ovvio: hanno sempre in serbo un’offerta irrinunciabile e solo per noi.
Ma spesso ottengono solo di esasperarci, di farci infuriare.
Così i call center, da simbolo che erano del lavoro precario e instabile, sono diventati soprattutto il simbolo di un assillo quotidiano. Che non risparmia nessuno.
Colpa dell’inarrestabile ascesa del telemarketing, delle offerte fatte via telefono per conto di operatori di telefonia e internet, di aziende del settore energetico, ormai anche di assicurazioni e banche.
E colpa di un sistema che non sta in piedi, di un settore che naviga tra regole assenti ed altre disattese.
Un sistema dopato
La prima cosa da sapere è questa: chi vi chiama per proporre una nuova offerta non lavora mai dentro Vodafone, Wind, Tiscali, Enel e così via.
Salvo rarissime eccezioni, fa parte di un’azienda esterna, e specializzata. I call center sono regolari intermediari: ricevono in appalto il compito di contattare (e conquistare) nuovi clienti, e vengono pagati in funzione dei risultati. Tot contratti, tot euro.
È l’unica cosa che conta. E qui il sistema s’inceppa. Perchè la competizione è agguerrita e i margini sono bassissimi.
La sostenibilità economica di queste aziende è il primo problema, su tutti i fronti.
Lo è ovviamente anche sul fronte dei rapporti con i consumatori. Perchè con i margini risicati è difficile tenere la barra diritta, fare risultati rispettando le regole, l’etica e le buone maniere.
In teoria a controllare che non vengano compiuti abusi c’è il Garante della Privacy, ma ha strumenti – ovvero norme – non abbastanza affilati.
In teoria spetta anche ai committenti di vigilare su chi lavora per conto loro, anche per evitare danni d’immagine. Ma di fatto non avviene, o troppo poco.
I contratti e i risultati sono l’unica cosa che conta. È come uno sport dove l’antidoping non funziona.
Oltre il consenso
L’emblema di tutto quello che non funziona sono gli elenchi. Le liste di nomi e numeri che ogni operatore telemarketing ha sulla scrivania, o nel computer.
Il sistema attuale prevede il cosiddetto «opt out». Ovvero: tutti sono contattabili, a meno che non neghino il consenso in modo esplicito.
«Fino al 2011 esisteva la regola del consenso espresso – spiega Giuseppe Busia, segretario generale del Garante della Privacy – e si poteva telefonare solo a chi aveva dato l’autorizzazione a ricevere chiamate promozionali. Poi il sistema è cambiato».
In gran parte dei casi, se vi squilla il telefono è perchè vi è scappata una firma o una crocetta di troppo, avete dato il consenso dentro un modulo online o per la carta fedeltà del supermercato.
Ma ormai capita anche se siete stati attenti, e il consenso non l’avete mai dato a nessuno. Dentro i call center – che spesso lavorano per diversi committenti – le liste «non consensate» girano da un tavolo all’altro. Anche se non dovrebbero.
E intanto fioriscono persino le aziende specializzate in questo: nel compilare liste di nomi e numeri e rifornire i call center di utenti da tormentare.
Ristabilire le regole
Ma poi non ci sono solo le liste selvagge. Anche i modi possono essere spiacevoli.
È il caso delle chiamate mute. Il telefono squilla, l’utente risponde, ma dall’altra parte non c’è nessuno.
Merito dei sistemi automatici che velocizzano il lavoro, ma il metodo è a dir poco insopportabile. Già nel 2014 il Garante della Privacy ha indicato dei limiti anche a questo. E poi a marzo 2016 è Assocontact – l’associazione nazionale dei contact center in outsourcing – ad aver messo nero su bianco un codice etico.
Una serie di regole che tutte le aziende del settore s’impegnano a seguire. La parte più importante è l’articolo 7. Che recita così: «Sono vietate tutte le pratiche ambigue, scorrette, ingannevoli o sleali, indipendentemente dal fatto che violino specifiche norme di legge e regolamenti nazionali». E poi l’articolo 8, che stabilisce diversi principi importanti. Mai chiamate prima delle 9 o dopo le 21. Mai chiamate allo stesso numero, da uno stesso call center, più di una volta al mese. Mai insistere se l’interlocutore vuole terminare la chiamata. Mai chiamate mute, nei termini di quanto indicato dal Garante. Già basterebbe a rendere la vita dei consumatori più serena.
«Un sistema da rifondare»
Secondo gli ultimi dati del Cerved, l’universo italiano dei call center esternalizzati conta 2.501 imprese, con 80 mila addetti totali e un fatturato complessivo da 1,3 miliardi di euro all’anno.
Le prime otto aziende rappresentano il 59,3 per cento del mercato. Compresa Almaviva. Anche se a trainare il settore resta l’assistenza clienti, il telemarketing ha ripreso a crescere.
«In corso c’è una grande trasformazione – conferma Roberto Boggio, presidente di Assocontact – e si stanno aggiungendo committenti nuovi: non più solo gli operatori di telecomunicazioni, ma sempre più le utility, poi banche e assicurazioni, anche le pubbliche amministrazioni».
Sul tema della chiamate moleste, Boggio non si nasconde: «Il sistema è completamente da rifondare. Vogliamo un modello nuovo, che permetta ai call center di contattare solo chi è realmente interessato ad accedere a sconti ed offerte speciali. Il codice deontologico che ci siamo dati va in questa direzione. Ma noi proponiamo qualcosa di più: una banca dati dove per ogni utente ci sia un ‘sì’ o un ‘no’ ad indicare il consenso o meno. Siamo disposti a far nascere un organismo ad hoc per creare questa banca dati».
Il Registro delle opposizioni: un rimedio a metà
Eppure qualcosa di simile esisterebbe già . Un rimedio alle chiamate indesiderate che si chiama «Registro pubblico delle opposizioni».
Un elenco istituito nel 2011 per legge: basta iscriversi per revocare il consenso ad essere contattati a scopo di marketing. ma è un’arma spuntatissima.
Perchè vale solo per 13 milioni di linee telefoniche su 115 milioni totali, cioè vale solo per quelle inserite negli elenchi pubblici.
E c’è un altro guaio: l’iscrizione non basta ad azzerare i consensi dati in precedenza. «Serve una maggiore protezione – osserva il segretario generale Busia – e serve prevedere la possibilità di iscrivere nel Registro tutte le numerazioni telefoniche, anche quelle che non sono sugli elenchi, quindi pure i cellulari. E soprattutto che l’iscrizione consenta la cancellazione di ogni eventuale consenso pregresso».
Anche il numero uno di Assocontact concorda: il Registro va riformato.
«Dovremmo farlo con un’azione coordinata – dice – e che finalmente veda tutti prendersi le proprie responsabilità . Le nostre aziende insieme ai committenti, alle authority, alla politica. Oggi ci sono molte resistenze al cambiamento. Ma le colpe sono di tutti. È nell’assenza di regole, e in un quadro in cui i committenti tirano tirano e tirano, che si è generata una situazione che porta fino alle chiamate moleste».
Stefano Rizzato
(da “La Stampa”)
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Giugno 1st, 2016 Riccardo Fucile
OCCORRE SVOLTARE VERSO UN CENTRODESTRA LIBERALE E SOLIDALE CHE NON ABBIA PAURA DI PARLARE DI DIRITTI CIVILI, LIBERTA’ INDIVIDUALI E DIMENSIONE ETICA
Mi auguro di cuore che, dopo questa “tornata elettorale”, si ritorni (finalmente) a ragionare in modo serio e “sincero”.
A parlarsi di nuovo e con grande passione e qualità superando atavici cascami di ogni sorta…
Il tempo del “mero” centro-destra e del “mero” centro-sinistra è passato da un pezzo; travolto dall’azione di politici incapaci di ascoltare, di studiate, di capire, di approfondire e di trovare risposte adeguate.
Eppure, “nell’imperituro deserto”, tutte le contraddizioni perdurano, “resistendo ad ogni avversità “…
Una “destra socialista”, una sinistra ultra-statalista ed assistenzialista (quella che, mente da un lato finge di concedere nuovi spazi di libertà , dall’altro propone – e ripropone – uno “Stato abnorme” con un socialismo che, non soltanto mira a schiacciare le coscienze, ma reitera l’indegna macchia delle clientele), ed un mondo liberale supino, ripiegato su sè stesso, “costretto” alle solite dicotomie, non sono più capaci di raccontare (e di rappresentare) proprio più nulla…
Nel centro-destra serve una nuova spinta propulsiva ed un liberismo che voli finalmente alto. Non si può più continuare ad essere “liberali soltanto in economia” e rifuggire dalle sfide dei tempi in merito alle libertà civili.
La politica, in un certo senso, può occuparsi dell’etica. Anzi, deve proprio averla una solida base etica. Può anche prendere spunto dalla “morale”. Ma quello spunto è soltanto uno dei vari momenti di riflessione: la politica è “cosa laica”.
“Conservatori nei valori e liberali in economia”. Così recita un vecchio slogan. La storia ha ampiamente chiarito che è tempo di superarlo. È accaduto in Inghilterra, dovrà accadere anche “qui da noi”.
Le libertà civili non possono (e non dovranno) mai più essere esogene alla riflessione del “centro-destra liberale e solidale”.
Non dovranno mai più essere ascritte alla sola, confusa e confusionaria azione di una sinistra capace di usarle soltanto a titolo di “mazzetta elettorale”.
È tempo di “raggiungere le nuvolette” per guardare le stelle da vicino. Di approfondire i risultati offerti dai contributi “meritevoli” – neuroscienze comprese – e di analizzare le questioni per quelle che sono: “le verità rivelate” lasciamole perdere…
È vero che i cattolici sono in perenne ricerca di una “rappresentanza”.
Un centro-desta liberale e solidale dovrà avere risposte anche per loro, ma non fino al punto di ottundere le menti e di rendere aridi i cuori.
La politica dovrà assolutamente ritornare a parlare (proprio) al cuore ed alla mente delle persone. Ridarsi una dimensione etica solida. Rigudagarsi la credibilità perduta.
Certe sfide sono oggettivamente trasversali e richiedono spessore e coraggio: quello di ricondurre la “morale” all’esclusivo “privato” delle persone immaginando nuovi schemi di ragionamento, di riflessione e di sintesi, in materia di diritti civili, di libertà individuali, di scelte consapevoli (eutanasia compresa), di apparato statale, di burocrazia e di mercato… “Testa e cuore”…
La politica si occupi di parlare “a questo”.
L’anima delle persone lasciamola alla coscienza ed alla “fede”, anche laica, nel caso…
Salvatore Castello
Right BLU – La Destra Liberale
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Giugno 1st, 2016 Riccardo Fucile
L’AGGUATO DA VIGLIACCHI DURANTE UNA OPERAZIONE ANTIDROGA: SCOPERTA SERRA CON 6.000 PIANTE DI MARIJUANA
E’ morto senza nemmeno riuscire a vedere in faccia i suoi assassini.
Ucciso alle spalle, con una raffica di pallottole, durante un normale servizio di controllo.
Così se n’è andato Silvio Mirarchi, 53 enne, che di professione faceva il carabiniere. Maresciallo, di Catanzaro, talmente fedele all’Arma che perfino su Facebook aveva scelto come profilo l’effige dei carabinieri.
E’ stato ammazzato a Marsala da una banda di malviventi, forse legati al traffico di droga, che hanno sparato ripetutamente alle sue spalle: a nulla è valso l’aiuto del collega che ha trascinato Mirarchi sull’auto fino a portarlo in ospedale dove è stato operato a un rene.
L’episodio è avvenuto intorno alle 22.30: i due militari stavano svolgendo un controllo tra le contrade di Ciavolo e Ventrischi.
A causa di qualcosa di sospetto entrambi sarebbero scesi dall’auto quando all’improvviso è partito la raffica di colpi di grosso calibro.
Mirarchi è stato colpito all’altezza del rene. Lì vicino, a pochi metri dalla zona dell’agguato, è stata scoperta una serra utilizzata per la coltivazione di marijuana: c’erano 6mila piante.
Per ora gli aggressori restano sconosciuti. Mirarchi, trasferito all’ospedale di Palermo in elicottero per un ultimo disperato tentativo di intervento durato 8 ore è morto nel pomeriggio di oggi.
Aveva un buco nell’aorta e ha perso troppo sangue. Alla sua famiglia è subito giunto il cordoglio dell’Arma, del Presidente della Repubblica Mattarella e del premier Matteo Renzi
L’area in cui i due carabinieri stavano indagando era considerata “calda”.
Nella zona dove è stato ucciso il maresciallo il 25 maggio scorso venne trovato il corpo senza vita di un romeno. Nella stessa zona c’era stato anche uno scontro a colpi di arma da fuoco con il ferimento di una persona.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 1st, 2016 Riccardo Fucile
LA DIFFIDA ALLA RAI A INVITARE MARCO LILLO, IL GIORNALISTA AUTORE DE “IL POTERE DEI SEGRETI”: NEL LIBRO SI PARLA DELLE INTERCETTAZIONI TRA MARONI E VOTINO IN CUI EMERGE LA VICENDA
Il presidente leghista della Lombardia scrive alla Rai diffidandola dall’ospitare il giornalista del Fatto, autore del libro “Il potere dei segreti”.
Ecco la storia che lo riguarda
Roberto Maroni alla fine del 2012, quattro mesi dopo avere spazzato via Umberto Bossi facendosi nominare segretario della Lega al grido di “non avrò ombre”, si voleva far pagare l’affitto di un appartamento a Milano di nascosto dalla Lega Nord.
È una delle tante notizie inedite imbarazzanti per il presidente della Lombardia contenute ne Il Potere dei segreti, il libro inchiesta di Marco Lillo, pubblicato da Paper First, la collana del Fatto Quotidiano presente in libreria o, a richiesta, in edicola e on line.
La vicenda della casa era stata appena accennata il 27 aprile da Lillo in tv alla trasmissione Agorà su Rai 3.
Proprio il giorno dopo Maroni scrive alla Rai la lettera che chiede il ‘bando’ dell’autore del libro dalla tv pubblica, attuato poi un mese dopo dall’ufficio legale.
La vicenda della casa è citata nelle conversazioni tra Maroni e Isabella Votino, la sua portavoce storica, intercettata dalla Dia di Reggio Calabria nell’inchiesta Breakfast. Ecco il passo del libro.
Per capire come funzioni il triangolo professionale tra Isabella Votino, Domenico Aiello e il governatore è utile un’intercettazione nella quale i tre parlano dell’immobile in affitto occupato dalla donna nella Torre Velasca dei Ligresti.
È il 13 novembre 2012, questa è la sintesi della telefonata da parte della Dia: “Maroni racconta al telefono a Isabella Votino che sta cercando un appartamento arredato a Milano. Lei gli dice che sta lasciando l’abitazione in Torre Velasca e che l’affitto è di 18 mila euro l’anno, più le spese, quindi una cifra che va dai 1.500 ai 2.200 euro al mese. Il governatore le chiede se glielo possono affittare allo stesso prezzo e Isabella replica che parlerà con Domenico Aiello per fargli controllare il contratto e verificare se può subentrare e, considerato che deve essere intestato alla Lega Nord, suggerisce che potrebbe intestarselo lui e poi farsi rimborsare dal partito l’importo.
A questo punto lei aspetta qualche altro giorno per la disdetta di Torre Velasca, perchè potrebbe essere un’opportunità importante.
Maroni dice di non volersi intestare l’appartamento perchè altrimenti verrebbe fuori la notizia che il partito paga un suo alloggio e quindi devono dimostrare che si tratta di ‘una foresteria presa dalla Lega che serve per gli ospiti che il Carroccio vuole ospitare’.
Isabella dice che adesso chiede a Domenico Aiello se possono fare il cambio di intestazione nel contratto, inserendo la Lega come subentro.
Maroni spiega che potrebbero mettere nel contratto una terza persona e non lui: ‘Uno che troviamo e che si intesti il contratto e poi la Lega gli dà …’.
Isabella risponde che, probabilmente, non gli faranno fare una cosa del genere. Bobo ribadisce che sarebbe il caso di escludere la possibilità di intestarlo a lui.
La Votino afferma che forse la cosa migliore sarebbe quella di proporre a Domenico di intestarsi lui il contratto, anche perchè ci sarebbe sempre il modo di pagarlo. Maroni dice che in questa maniera per lui andrebbe”.
La Dia non riesce a comprendere come sia finita (…).
Comunque sia finita la storia dell’affitto, il rapporto fiduciario è stretto.
Sette mesi dopo le elezioni, il 27 settembre 2013, la nuova giunta della Regione Lombardia “su proposta del presidente Maroni” conferisce all’avvocato calabrese l’incarico di rappresentare l’istituzione in giudizio come parte civile nel processo contro il predecessore Roberto Formigoni e i suoi presunti complici per il caso Fondazione Maugeri-San Raffaele.
Il 1° aprile 2015 Aiello e Regione concordano un compenso pari a 200mila euro, al netto di oneri e accessori, più il 20 per cento in caso di condanna degli imputati a pagare oltre un milione di euro di danni.
L’avvocato per questo incarico ne ha incassati già 135 mila.
Al legale, con deliberazioni successive, verranno conferiti anche altri incarichi (…) il 12 settembre 2014 quello per il processo contro l’ex amministratore di Infrastrutture lombarde (Il), Antonio Giulio Rognoni e altri; il 26 febbraio 2015 quello per l’udienza preliminare per un altro filone minore relativo sempre alle consulenze di Il. Non basta: nell’aprile 2015, Domenico Aiello è scelto da Maroni come consigliere di amministrazione di Expo Spa (…).
Lo studio associato, infine, nel gennaio del 2014 riceve dal gruppo Ferrovie Nord Milano, controllato dalla Regione Lombardia, due incarichi di assistenza legale per i quali Aiello ha già incassato 35 mila euro.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 1st, 2016 Riccardo Fucile
LA SOCIETA’ “TRE ROSE” DI CASALE MONFERRATO HA CONQUISTATO LA PROMOZIONE
Hanno attraversato il Mediterraneo in un barcone, sono approdati a Lampedusa e ora sono diventati una squadra di rugby in C2.
E’ la storia dei rifugiati delle “Tre Rose”, una piccola società del Monferrato che ha scommesso sulla forza e sulla voglia di cominciare una nuova vita in Italia.
Erano dilettanti, ma ora potranno gareggiare in un vero campionato.
Scrive La Repubblica:
“Questa volta non ci avrebbero battuto nemmeno gli All Blacks. E’ la gioia più grande, dopo tanti mesi di sofferenza”.
Domenica hanno giocato quasi per un’ora con un uomo in meno e addirittura sono rimasti in 12 nei minuti finali, perchè l’emozione s’era fatta incontrollabile.
Cinque mete: due le ha marcate Julian, romeno, una Youssuf, ivoriano, un’altra Leonel, argentino. E una Giovanni, italiano, lo “straniero”.
Sì, se la sono meritata.
Trenta ragazzi dell’Africa sub-sahariana – le Rose Nere, li hanno soprannominati – e un’avventura cominciata un anno fa su di un campo di gramigna spelacchiata nato sopra i vecchi scarichi dello stabilimento Eternit di Casale Monferrato, Alessandria.
Il sogno è diventato realtà grazie al presidente della squadra e a una cooperativa sociale che accoglie profughi a Casale Monferrato:
A Casale c’è la sede di Senape, cooperativa sociale che assiste 150 profughi (comprese alcune mamme con i loro bambini) e li accompagna lungo il cammino istituzionale – corsi di italiano, di formazione professionale – in attesa che la loro domanda di asilo sia accolta o meno.
“Ho chiesto se qualcuno aveva voglia a fare sport con noi: un modo per permettere loro di passare un po’ di tempo in maniera sana, e integrarsi meglio”.
Gli rispondono 4 giovani del Ghana.
L’esperimento ha funzionato, eccome. “Non solo si sono divertiti, ma hanno dimostrato di essere degli atleti formidabili. Alzando di brutto il livello del gruppo”.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 1st, 2016 Riccardo Fucile
“GIACHETTI E’ IL MIGLIORE, NECESSARIO BLOCCARE MELONI E MARCHINI”… “RAGGI INADEGUATA MA MEGLIO VINCENTE PERCHE’ ALTRIMENTI IL PD NON CAMBIERA’ MAI”
Da diversi anni è in prima linea nel segnalare sprechi, disservizi e inefficienze in città . Ora il blog “Roma fa schifo” in vista delle prossime elezioni amministrative esprime le proprie preferenze di voto.
“Al primo turno – scrive il blog – bisogna che i voti vadano a Roberto Giachetti”. “Innanzitutto – si sottolinea . per evitare che gli altri candidati arrivino al ballottaggio e, pur perdendolo, possano portare in aula un numero considerevole di consiglieri. Giachetti al ballottaggio significa con ogni probabilità Meloni terza e Marchini quarto: significa che i personaggi contenuti nelle liste di Salvini, di Forza Italia e di Storace avranno enorme difficoltà a entrare in aula e riusciranno ad eleggere un numero minimo di consiglieri”.
Per rafforzare Giachetti al primo turno, scrivono i gestori del blog, occorre votare la lista dei Radicali collegata: “C’è dunque un modo per rinforzare – solo al primo turno, attenzione – la candidatura di Giachetti senza perdere la possibilità di guardarsi allo specchio? La soluzione è semplice e risponde al nome di Radicali. Si tratta forse dell’unico partito – in assoluto! – che si può votare senza vergognarsi di averlo fatto dopo soli 30 secondi. C’è un candidato nello specifico a cui dare la preferenza? Certo: Riccardo Magi. Non siamo d’accordo con lui su tutto, anzi, ma voi votatelo, fidatevi e non ve ne pentirete. Parla per lui quello che ha fatto nella scorsa consiliatura”.
Ma la presa di posizione è tutto fuorchè un endorsement a vantaggio del Pd. In vista di un eventuale ballottaggio, la prima scelta del blog dovrebbe essere la candidata del movimento 5 Stelle Virginia Raggi.
E anche in questo caso non per una sorta di sostegno al Movimento.
“Sappiamo alla perfezione che Giachetti è la migliore figura in lizza (forse la migliore figura in assoluto in tutte le amministrative di questa tornata), sappiamo alla perfezione che tutto sommato il suo programma è meglio confezionato degli altri, allo stesso modo abbiamo assaporato in queste settimane la sostanziale evanescenza di Virginia Raggi, lo strabismo sui contenuti, il pericolo concreto di vederla circondata di personaggi inquietanti (non a caso non ha voluto anticipare i nomi della giunta). Il Movimento 5 Stelle è riuscito in pochi anni a fare danni quasi quanto la partitocrazia e il consociativismo ha fatto nei cinquant’anni precedenti: ha raggiunto l’obbiettivo di sdoganare l’idiozia, di dare piena dignità alla stupidità , alla superstizione, alla demagogia, al populismo della peggior specie. Ciò non ci impedisce tuttavia di indicare che al ballottaggio il voto debba andare convintamente a Virginia Raggi. La vittoria di Raggi al ballottaggio contro Giachetti non deve essere banale, ma schiacciante e netta.
Secondo il blog, la sconfitta di Giachetti è una sorta di male necessario per assicurare un vero ricambio nella classe dirigente del Pd. Ricambio che Ignazio marino aveva provato ad avviare e che la defenestrazione del primo cittadino ha bruscamente interrotto.
Una vittoria di Giachetti invierebbe un messaggio devastante; significherebbe che davvero chi prova a cambiare le cose può subire il trattamento-notaio senza che questo abbia conseguenze; significherebbe lo stop a qualsiasi ipotetica azione riformistica perchè una vittoria finale del candidato del PD sarebbe il chiaro segno che la gente non vuole cambiare davvero, sarebbe un messaggio lanciato a tutti e a Giachetti in primis.
Fare quel che è stato fatto con Marino e poi non pagarne serie conseguenze sarebbe inquietante. Non si tratta di dare una lezione al PD (in parte quella lezione, visto lo schifo che c’è ancora in giro, la dovrebbe dare Pignatone) o di votare per ripicca, si tratta di significare nel modo più chiaro possibile una richiesta di radicale e profonda trasformazione e discontinuità delle logiche su cui si basa questa città .
(da “Huffingtonpost”)
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