Giugno 26th, 2016 Riccardo Fucile
PP 33%, PSOE 22,7%, PODEMOS 21,1%, CIUDADANOS 13%… MARIANO RAJOY E’ IL VINCITORE MA DA SOLO NON PUO’ GOVERNARE
Nessuna certezza dalle urne in Spagna: le elezioni hanno riproposto i risultati del voto di dicembre 2015 con il Pp primo partito ma senza maggioranza assoluta (anche se rafforzato con 14 deputati in più), davanti a Psoe, Podemos e Ciudadanos.
Un voto che ha visto tramontare il ‘sogno’ di Podemos di diventare il primo partito della sinistra, superando i socialisti, e candidarsi alla guida del governo.
Dopo la pubblicazione di un disastroso exit-poll che dava il partito post-indignados davanti allo Psoe e il suo leader Pablo Iglesias in buona posizione per candidarsi a premier di un governo di sinistra, i risultati reali mano a mano hanno rovesciato il quadro politico.
Così l’inaffondabile Mariano Rajoy sopravvive ad un’altra elezione e, anzi, è il vincitore relativo delle politiche spagnole.
Il partito ‘viola’ registra una forte delusione, dopo che le inchieste demoscopiche per settimane gli hanno fatto “toccare il cielo”, dando a un’ipotetica coalizione Podemos-Psoe guidata da Iglesias quasi la maggioranza assoluta.
Il partito, alleato con Izquierda Unida, si ferma a 71 seggi, lo stesso risultato delle elezioni dello scorso 20 dicembre, che hanno segnato la fine del tradizionale bipartitismo spagnolo e portato allo stallo il Parlamento.
Il Pp di Rajoy si rafforza rispetto a dicembre: cresce di 13 deputati, a quota 137 su 350, con il 33% dei voti.
Gli elettori hanno votato la ‘sicurezza’ contro l’avventura di Podemos. Così i popolari hanno vampirizzato anche il partito moderato emergente Ciudadanos, che è sceso da 40 a 32 seggi e al 12,9%.
I socialisti, in leggera flessione a 85 deputati contro i 90 del Congresso uscente – con il 22,8% – si sono salvati però dal disastro annunciato dai sondaggi, che unanimi prevedevano il sorpasso di Podemos.
Questi risultati del ‘secondo turno’, provocato dalla paralisi del parlamento dopo le politiche di dicembre, senza maggioranze chiare e fra veti incrociati dei partiti, rischiano però di non risolvere il problema della governabilità del Paese.
Rajoy ha continuato a proporre durante la campagna elettorale quanto ha sostenuto negli ultimi sei mesi, cioè una gran coalicion con socialisti e Ciudadanos che garantisca per quattro anni la stabilità del paese in un quadro ‘europeo’.
Il leader socialista Pedro Sanchez però finora ha risposto ‘no’. E da soli, popolari e Ciudadanos non arrivano alla maggioranza assoluta di 176 seggi del Congresso.
Ancora più difficile, come scrive El Pais, un’alleanza tra Psoe e Podemos, che di sicuro non arrivano insieme alla maggioranza assoluta senza i voti delle minoranze, come i nazionalisti baschi del Pnv (5 seggi) o gli indipendentisti catalani di Cdc e Erc (17 deputati).
Il premier uscente si presenta però ora alle trattative con gli altri partiti con una maggiore autorevolezza: quella del solo leader che ha vinto, e non poco, in queste politiche.
“Ho scritto un messaggio a Pedro Sanchez per parlare alla luce di questo risultato e non ho ancora ricevuto risposta – ha detto il leader di Podemos, Pablo Iglesias, commentando il risultato delle elezioni – Rimango convinto che sia sensato riuscire a dialogare e lavorare insieme a partire dal terreno comune, condividiamo infatti un modello sociale opposto a quello attuato dal governo dei popolari”.
Iglesias ha ammesso che il risultato del suo partito “non è stato soddisfacente” e si è detto anche preoccupato dalla “perdita di consenso per il blocco progressista”.
Anche lo Psoe, che pure conserva il secondo gradino del podio, non sorride: il partito socialista spagnolo ha infatti ottenuto il suo peggiore risultato storico in seggi nel Congresso dei deputati. Sanchez ha parlato a tarda sera, dicendo di “non essere soddisfatto del risultato del suo partito”, ma ha sottolineato che lo Psoe rimane “il primo partito della sinistra spagnola”.
(da “La Repubblica”)
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Giugno 26th, 2016 Riccardo Fucile
TRA FURBIZIE E IGNORANZA SUL REFERENDUM INGLESE, L’EX PREMIER ITALIANO PROVA A NEGARE CHE I VECCHI ABBIANO DANNEGGIATO I GIOVANI: ECCO PERCHE’ E’ INATTENDIBILE
Andiamo per ordine.
Due giorni prima dell’esito del voto un istituto di ricerca inglese certifica che il 72-75% dei giovani inglesi è favorevole al fatto che la Gran Bretagna resti in Europa, segnalando che più avanza l’età e aumentano i contrari, fino al picco dell’80% per gli over 65.
Nei giorni successivi molti opinionisti riprendono la teoria che i “vecchi” hanno distrutto il futuro dei giovani, votando per l’uscita dalla Ue.
L’ex premier italiano Enrico Letta interviene su twitter per “smontare” questa teoria (concetto ripreso da molti quotidiani italiani) sostenendone l’inattendibilità , basandosi su un dato: che è andato a votare solo il 36% dei giovani tra il 18 e i 24 anni, dimostrandosi quindi disinteressati al problema.
Oggi che l’Istat britannico rende noti i dati ufficiali, emerge che Enrico Letta ha un concetto vago di gioventù e ha fornito solo un dato parziale che serviva al suo ragionamento di parte.
1) E’ vero che la percentuale di ragazzi tra i 18 e i 24 anni che sono andati a votare è del 36% (e poi vi spiegheremo il motivo) ma Letta dimentica di dire che quello tra i 25 e i 34 anni è del 58% (forse non sono giovani?), quello tra i 34 e 38 anni è del 72%. Citare solo il primo dato è falsificare la realtà del voto giovanile.
2) Ecco invece come hanno votato i giovani, affinche’ Letta si metta l’anima in pace su chi ha affossato il loro futuro: tra il ragazzi 18-24 enni il 73% ha votato per restare in Europa, tra i 25-49 enni il 57% ha votato per rimanere nella Ue.
Il cambio di direzione avviene solo quando si varca la soglia dei 50enni.
Da 50 a 65 anni chi ha votato per uscire è infatti del 56% e sale al 60% tra gli over 65.
Dati ufficiali che dimostrano che Letta ha preso un clamoroso abbaglio.
Sono le persone oltre i 50 anni che hanno affossato l’Europa, non i giovani.
3) Facile dire “i giovani non sono andati a votare”: in realtà chi ha oltre 24 anni a votare c’e’ andato. Semmai il discorso riguarda la fascia tra i 18 e i 24 anni.
Ma qui qualcuno dovrebbe dire la verità : per votare questo referendum bisognava registrarsi, uno non poteva il giorno del voto recarsi al seggio senza aver a tempo debito richiesto il documento.
E il termine ultimo è stato parecchio tempo prima, il 7 giugno per l’esattezza.
A dimostrazione che molti giovani volevano votare, citiamo il Financial Time che proprio in quel giorno scriveva:
“Il termine per la registrazione, obbligatoria per partecipare al voto, scade oggi a mezzanotte e negli ultimi giorni i numeri delle registrazioni hanno segnato un’impennata: ieri sono state 226mila le richieste di registrazione, il secondo maggior numero da quando sono state introdotte nel 2014 e secondo la Commissione Elettorale per due terzi sono giunte da giovani sotto i 34 anni. Dall’inizio di giugno sono state 700mila le richieste di registrazione, per 211mila da giovani con meno di 25 anni e per 240mila da 25-34enni. Da quando è iniziata la campagna sono 1,65 milioni le persone che si sono registrate”.
Quindi i giovani, quando hanno compreso che era in gioco il loro futuro, hanno cercato di far sentire la loro voce, ma un regolamento assurdo non ha permesso a tutti di esprimersi.
Proprio negli ultimi 15 giorni, quando la campagna è entrata nel vivo, hanno trovato la porta barrata.
Per non parlare di 2 milioni di britannici residenti all’estero che non hanno potuto esprimersi.
Peccato che Enrico Letta queste cose le abbia dimenticate, finendo per alimentare la propaganda dei “vecchi” che dopo aver sparato a raffica contro le giovani generazioni adesso vogliono nascondere il kalashnikov.
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Giugno 26th, 2016 Riccardo Fucile
I RISULTATI DICONO CHE IL REMAIN E’ PIU’ FORTE DOVE CI SONO GIOVANI, ISTRUITI E STRANIERI INTEGRATI
Riprendiamo il controllo dei nostri confini. Era questo uno degli slogan utilizzato dai sostenitori della campagna per il leave nel referendum sulla Brexit.
Che, elemento paradossale, ha fatto maggiormente breccia in quelle zone del Regno Unito dove è più bassa la presenza degli immigrati.
I giovani contro i vecchi, le persone più istruite e benestanti contro quelle che hanno studiato meno e appartengono alla working class: l’analisi del voto sul referendum sulla permanenza nell’Unione europea consegna un’Inghilterra divisa in due.
C’è però un ulteriore elemento a dividere il Paese, ovvero la presenza di stranieri. Paradossalmente, dove è più alta la percentuale di immigrati, più bassa è stata la percentuale del leave.
Come a dire che chi vuole chiudere i confini vive in zone dove è più bassa la concentrazione di persone che questi confini li hanno attraversati.
Per ricostruire come sia andata, Wired ha messo a confronto i risultati del referendum con i dati sulla popolazione residente nata al di fuori dei confini britannici.
Si tratta di una stima effettuata dal National Office for Statistics, l’Istat del Regno Unito.
Precisato che per alcune contee dell’Irlanda del Nord non è stato possibile ricavare il dato sulla presenza degli stranieri, il risultato è questo: il leave ha trionfato solo in zone nelle quali la presenza di stranieri non va oltre il 22%.
E’ possibile che in questi risultati abbia influito anche il voto degli stranieri:, ma questo non toglie che tanto più la società è multietnica tanto meno è forte la tendenza all’isolazionismo che invece ha portato al trionfo del leave.
Di questo aspetto del voto sulla Brexit si è accorto il Guardian, che ha realizzato alcuni grafici per analizzare l’esito del referendum.
La scelta di rimanere nell’Unione europea ha poi fatto breccia tra i più giovani, ma anche tra le persone più benestanti e con un livello di educazione superiore.
Sono invece i più anziani, i più poveri e quelli che hanno studiato meno ad aver scelto di dire addio a Bruxelles.
Tendenze che del resto erano emerse anche prima del voto.
Nei giorni immediatamente precedenti all’apertura delle urne, YouGov aveva pubblicato un grafico che mostrava come la propensione al leave crescesse con l’età degli elettori.
Fatta eccezione per gli elettori dell’Ukip, tutti coerentemente schierati per il leave, si vede bene come tra gli under 30 la prevalenza fosse per il remain.
È solo tra i conservatori e, in parte, tra i sostenitori dello Scottish national party che l’aumento dell’età ha portato a scegliere di abbandonare l’Unione europea.
Altro aspetto censito da YouGov, l’opinione sulla Brexit in relazione al titolo di studio: anche in questo caso, l’Ukip fa eccezione.
Ma se si guarda agli elettori degli altri partiti, si vede bene come più è alto il titolo di studio, più è forte la tendenza verso il remain.
E mentre la Gran Bretagna è impegnata nell’analisi del voto, il Paese deve iniziare a confrontarsi con le prime conseguenze della vittoria del leave: la sterlina che crolla ai livelli più bassi da trent’anni a questa parte, Standard&Poor’s che annuncia che Londra perderà il rating Aaa, il premier David Cameron che annuncia le dimissioni. Ma anche una richiesta di ripetere il voto così forte tra gli elettori che il sito del governo sul quale è possibile pubblicare e sottoscrivere petizioni è andato in crash per il troppo traffico.
Quali saranno le conseguenze di questo referendum, che ha comunque un valore esclusivamente consultivo, è insomma una storia ancora tutta da scrivere.
(da “Wired”)
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Giugno 26th, 2016 Riccardo Fucile
LA FONDAZIONE JUGEND RETTET E’ FONDATA DA DUE GIOVANI DI 20 E 23 ANNI… HANNO RACCOLTO 300.000 EURO, PRESTO LA BARCA PRONTA A PARTIRE, CON UN EQUIPAGGIO DI PROFESSIONISTI E VOLONTARI
Quando hai vent’anni ci sono diversi modi di pensare al mare.
Puoi avere in testa solo una vacanza, una bella foto da condividere con gli amici. Oppure avere uno sguardo inquieto che riesce a spingersi un po’ più in là , oltre l’indifferenza e oltre una politica umanitaria che di umano ha ancora poco.
Seguendo quest’ultima strada, un gruppo di nove ragazzi tedeschi, tutti giovanissimi, ha deciso di raccogliere i fondi per comprare una nave, rimetterla a nuovo e trasformarla in un’imbarcazione da salvataggio, per i migranti che attraversano il Mediterraneo in fuga da miseria e guerra.
Un’idea ambiziosa e coraggiosa, un progetto serio, elaborato nei minimi dettagli, che nel giro di un anno è diventato qualcosa di più.
Grazie a una campagna di crowdfunding divisa in due fasi sono stati ottenuti oltre 300mila euro, e presto la barca sarà pronta per partire e pattugliare il mare per sei mesi, guidata da un equipaggio di professionisti e volontari.
L’associazione che ha promosso l’iniziativa si chiama Jugend Rettet, ed è stata fondata da due giovani di Berlino, Jakob Schoen, e Lena Waldhoff, rispettivamente 20 e 23 anni.
Alla base c’è la volontà di fare qualcosa di concreto per affrontare l’emergenza migranti, e allo stesso tempo di creare una rete europea, una sorta di piattaforma di discussione tra i giovani, per promuovere la partecipazione e sviluppare il tema del soccorso in mare e quello delle politiche di asilo.
“Siamo un gruppo di giovani con la possibilità di cambiare qualcosa — spiega Jakob Schoen sul sito del progetto — Una nave non è una soluzione a lungo termine. Tuttavia servirà a salvare vite umane. E farà sorgere una domanda: perchè al posto dei governi europei, sono i giovani, con una loro iniziativa privata, a doversi fare carico di questa missione?”.
Sul sito viene mostrata la timeline aggiornata e dettagliata.
Il primo passo viene compiuto a giugno del 2015, pensando alle ultime stragi di migranti sulle rotte del Mediterraneo.
I numeri dell’anno precedente sono spaventosi: nel 2014 almeno 3500 persone non sono sopravvissute al viaggio per raggiungere le coste dell’Europa e sono state inghiottite dal mare.
Anche se potrebbero essere molte di più, perchè una stima esatta delle vittime di naufragi è impossibile farla.
Da qui, dal senso di impotenza di fronte a un dramma senza precedenti, e dalla sensazione che l’Europa stia voltando lo sguardo dall’alta parte, arriva la spinta, nasce l’idea di mettersi in gioco in prima persona, e recuperare una nave per aiutare i richiedenti asilo che si trovano in mezzo al mare.
Così la squadra di ragazzi comincia a studiare per verificare la fattibilità , e prende contatti con organizzazioni come Greenpeace, che già hanno portato avanti esperienze di questo tipo, per avere consigli pratici su come fare.
Il progetto è ben fatto e ben concepito, e in pochi mesi arrivano adesioni, proposte di collaborazione, piccole e grandi donazioni.
“Il nostro obiettivo è semplice: meno morti nel Mediterraneo. Da una parte c’è la nave, impiegata per le missioni di soccorso. Dall’altra, Jugend Rettet vuole costruire una rete europea dedicata ad adolescenti e giovani, che vogliano scambiarsi opinioni e pensieri sul ruolo dell’Europa in questa emergenza umanitaria. In questo modo le persone hanno la possibilità di essere coinvolti nella discussione sulle politiche di asilo”.
Per questo l’associazione ha promosso, oltre alla raccolta fondi per sostenere le spese, anche la creazione di gruppo di “ambasciatori” del progetto, distribuiti per il momento in tutto il nord Europa.
La nave scelta è un’imbarcazione olandese, in grado di ospitare un centinaio di persone. Ha delle caratteristiche precise, è dotata di scialuppe, giubbotti di salvataggio e serbatoi di acqua dolce, per soccorrere chi si trova in stato di disidratazione.
A bordo ci sarà una squadra di professionisti, medici, skipper, e operatori, aiutati da volontari.
Dieci persone suddivisi in turni bisettimanali. “Un equipaggio professionale garantisce che le operazioni siano condotte in modo sicuro e serio. Ma l’organizzazione vuole anche dare ad alcuni giovani la possibilità di partecipare direttamente nelle missioni di soccorso come marinai”.
La partenza è prevista per la fine di giugno.
Giulia Zaccariello
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 26th, 2016 Riccardo Fucile
PRIMA LA NOTIFICA DELL’ART. 50 DEL TRATTATO DI LISBONA, MA CON CAMERON DIMISSIONARIO SE NE PARLERA’ IN AUTUNNO… MA NON MANCANO LE VIE D’USCITA: “L’ACCORDO FINALE DOVRA’ ESSERE SOTTOPOSTO AGLI ELETTORI, POSSIBILE UN RIPENSAMENTO”
“L’importante è che, fino a che l’accordo di uscita non viene definito, la Gran Bretagna resta membro a pieno titolo dell’Ue con tutti i diritti e i doveri”.
Due giorni dopo lo shock della vittoria del Leave al referendum di giovedì, è Angela Merkel a mettere in chiaro quale sia davvero l’effetto del voto dei britannici: solo un’indicazione al loro governo.
Che, ha continuato la Cancelliera, “immagino voglia mettere in pratica le decisioni del referendum”. Infatti a oggi il Regno Unito fa ancora parte, a tutti gli effetti, dei 28 Stati membri. E non sarà fuori fino a quando il primo ministro inglese non attiverà il detonatore chiamato articolo 50. Cioè quel paragrafo del trattato di Lisbona sul funzionamento dell’Unione europea che disciplina la possibilità di recesso da parte di un Paese membro. La procedura è lunga, complicata e senza precedenti. Così, mentre mercati, cancellerie e cittadini smaltiscono lo shock post voto, è proprio questo l’oggetto del braccio di ferro tra i leader europei e il premier dimissionario David Cameron.
L’esito è difficile da prevedere: secondo la stampa inglese, più l’attivazione dell’articolo 50 viene rimandata meno si può escludere che in autunno gli inglesi tornino alle urne per eleggere un nuovo governo che potrebbe addirittura tentare di ribaltare l’esito della consultazione del 23 giugno.
“Possibile, visto che si è trattato di un referendum solo consultivo, ma altamente improbabile“, dice a ilfattoquotidiano.it Justin Frosini, docente del dipartimento Studi giuridici dell’università Bocconi e direttore del Center for constitutional studies and democratic development fondato da università di Bologna e Johns Hopkins University.
“Potrebbe invece succedere che ad essere sottoposto agli elettori sia l’accordo di uscita che verrà raggiunto con la Ue. E a quel punto, in caso di vittoria dei contrari, il processo di exit potrebbe davvero bloccarsi”.
Il “divorzio” inizia con la notifica dell’articolo 50
“Ogni Stato membro può decidere di recedere dall’Unione conformemente alle proprie norme costituzionali”, recita l’articolo 50.
Per farlo deve notificare al Consiglio europeo l’intenzione di separarsi e negoziare un accordo di ritiro. Solo in quel momento partirà il conto alla rovescia al termine del quale i trattati europei cesseranno di essere applicati nei confini del Paese.
Il Regno Unito smetterà di partecipare alle decisioni del Consiglio e dovrà rinegoziare 80mila pagine di accordi europei, stabilendo quali mantenere nell’ordinamento inglese.
L’accordo dovrà poi essere approvato dal Consiglio stesso a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento.
In mancanza di intesa, l’uscita diventerà comunque effettiva a due anni dalla notifica. A meno che lo Stato e il Consiglio europeo non concordino nel prorogare quel termine. In assenza sia di nuovi accordi commerciali sia di una proroga, per la Gran Bretagna torneranno in vigore le regole del World Trade Organisation: vale a dire che, per esempio, le merci esportate nella Ue saranno soggette a dazi.
Juncker incalza, i Tories prendono tempo
In questa cornice, venerdì il presidente della Commissione Jean Claude Juncker ha incalzato: “Ci aspettiamo che il governo inglese dia effetto alla decisione il più velocemente possibile”.
Ma Cameron, dopo aver perso la scommessa più rischiosa della sua carriera politica, ha preso tempo annunciando che a tirare il grilletto facendo partire il processo formale e legale che porterà alla “exit” vera e propria sarà il prossimo premier.
La cui scelta, in base al sistema costituzionale inglese, spetta al partito conservatore uscito vincitore dalle elezioni del 2015: a guidare il governo sarà il leader che uscirà dal congresso dei Tories in calendario la prima settimana di ottobre.
“Ma il partito è spaccato”, fa notare Frosini. “Una parte si oppone a quello che sembrava il successore designato di Cameron, Boris Johnson, che ha cavalcato il Leave per motivi meramente politici ma secondo me è rimasto spiazzato dalla vittoria”.
Intanto lo stesso direttore della campagna “Vote Leave”, Matthew Elliott, sembra tutt’altro che desideroso di accelerare i tempi: “Non riteniamo ci sia bisogno di invocare subito l’articolo 50, è meglio che le acque si calmino durante l’estate e in quel periodo ci siano negoziati informali con gli altri Stati”, ha detto in un’intervista a Reuters.
L’ipotesi di uno stop prima ancora di far partire la trattativa
Secondo il Guardian, più i “Brexiter” se la prendono comoda più l’elettorato (alle prese con l’inevitabile indebolimento della sterlina) diventerà impaziente, i parlamentari pro Ue — che sono la maggioranza — si mobiliteranno contro l’uscita e si concretizzerà l’ipotesi di nuove elezioni generali, con nuovi leader sulla scena.
A quel punto la richiesta di rivedere la decisione del referendum “non sarebbe inconcepibile“, scrive il quotidiano liberal.
E torna in mente la frase della Merkel, quell’”immagino che anche la Gran Bretagna voglia mettere in pratica le decisioni del referendum” che sembra lasciare aperto uno spiraglio alla possibilità del ripensamento.
Questo proprio mentre la petizione al Parlamento europeo per ripetere la consultazione ha raggiunto tre milioni di firme.
Tanto più che la Cancelliera tedesca ha aggiunto: “Non mi bloccherei sulla questione dei tempi brevi” per l’attivazione dell’articolo 50. Il contrario di quanto aveva affermato poche ore prima Juncker. Sul tema, sempre invocando la calma, è intervenuto anche il ministro britannico alle Attività produttive Sajid Javid: “Non è necessario decidere subito quando invocare l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che contiene la clausola di recesso dall’Unione europea”.
…e quella del ripensamento ex post
“La petizione per un nuovo referendum dovrà essere discussa dal Parlamento di Westminster ma difficilmente avrà successo, perchè modifica ex post il quorum funzionale e quello relativo all’affluenza”, spiega Frosini.
“E’ più che altro il segnale politico che arriva da un Paese spaccato tra giovani e vecchi e da quei 2 milioni di elettori (più dello scarto tra Leave e Remain, ndr) a cui non è stato consentito di votare perchè residenti all’estero da oltre 15 anni“.
Poco probabile anche, secondo il docente, che il governo non attivi la procedura per l’uscita. “Potrebbe invece accadere che una volta inviato l’atto di notifica dell’articolo 50 e rinegoziati tutti i rapporti con la Ue, l’accordo finale sia sottoposto a un nuovo referendum. Dando la possibilità di un ripensamento ex post sul Brexit”.
E a quel punto, inevitabilmente, per il Regno Unito o quel che ne resterà sarebbe necessario ripercorrere tutta la procedura di adesione all’Unione.
Chiara Brusini
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 26th, 2016 Riccardo Fucile
OLIVER HEALY AVEVA PROMOSSO LA SOTTOSCRIZIONE QUANDO I PRO-EUROPA ERANO DATI IN VANTAGGIO
Un mese fa, il 23 maggio, l’attivista “nazionalista” William Oliver Healey era preoccupato.
Lui è un forte sostenitore del “Leave” e in quel periodo danno il Remain, ovvero il “restare” in Europa, in testa a quasi tutti i sondaggi.
Così Healey prepara un testo, una petizione, da far firmare ai cittadini e da inviare al Parlamento (che li prende in oggetto se superiori alle 100mila firme entro 21 giorni). Il testo dice che affinchè i referendum sulla Brexit sia valido bisognerebbe “applicare una regola secondo la quale se le preferenze a ‘remain’ o a ‘leave’ sono sotto al 60% su un’affluenza inferiore al 75%, allora dovrebbe esserci un altro referendum”.
Healey, di cui oggi si legge nei social tutta la gioia per la Brexit, aveva pensato a una formula in cui, in caso di vittoria dei Remain, si potesse fare un secondo referendum. Ironia della sorte però oggi proprio la sua petizione, pensata per agevolare i leave, è diventata il simbolo di speranza di tutti quei londinesi e quei giovani che vogliono rimanere in Europa.
E così oggi ad esempio la petizione di Healey ha raggiunto e superato 3 milioni di firme.
Lo stesso Healey si è accorto in queste ore di quello che stava succedendo e lui, fervente sostenitore del Leave, si è affrettato a spiegare su Facebook l’accaduto.
Inizia con un “carissimi” rivolto ad altri simpatizzanti della Brexit e spiega di aver creato la petizione “un mese fa, quando i sondaggi dicevano che avrebbe vinto il remain”.
Spiega inoltre che era un modo per tutelare i leave in caso di sconfitta e che ora la sua causa è diventata simbolo della campagna opposta ma che “comunque, se non fosse stata la mia, qualcun altro l’avrebbe fatta”.
Ma anche se inconsapevolmente ore Healey ha dato il via a un segnale che non può essere ignorato dal Parlamento il quale, però, potrebbe facilmente bocciare l’idea di fare ancora un referendum.
Forse una prima discussione sulla petizione ci sarà già martedì ma secondo gli esperti la bocciatura è molto probabile.
Ma quei 3 milioni di firme nate da una petizione pro-leave e diventate ora il cavallo di battaglia dei remain fanno comunque paura alla politica.
Vedi Farage, l’ultranazionalista dell’Ukip, che si è già affrettato a denigrare quest’ultima petizione.
Ad oggi appare comunque molto più probabile, come già annunciato anche da fonti governative, la possibilità che la Scozia indica un secondo referendum sull’indipendenza piuttosto che il secondo referendum chiesto online.
O almeno, è quel che spera Healey.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 26th, 2016 Riccardo Fucile
E LA PETIZIONE PER RIVOTARE SFONDA IL TETTO DI TRE MILIONI DI SOTTOSCRITTORI
Il Parlamento di Edimburgo potrebbe cercare tramite un voto dell’assemblea di bloccare la Brexit.
Parlando alla Bbc, ha detto che “certamente” chiederà ai deputati (69 del suo partito sul totale di 129) di rifiutare di dare “il consenso legislativo” perchè il governo di Londra proceda con l’uscita dall’Ue.
Tuttavia, ha ammesso che il governo potrebbe contestare la necessità di avere il consenso di Londra.
“Se il Parlamento scozzese deve fare una valutazione su quello è giusto per la Scozia – ha spiegato Nicola Sturgeon – allora sul tavolo c’è l’opzione di dire, noi non votiamo per qualcosa che è contrario agli interessi della Scozia”.
“Sospetto – ha poi aggiunto – che avrà una visione molto diversa su questo punto e dovremo vedere come finiranno le discussioni”.
Al referendum la Scozia ha votato al 62% di restare in Ue, contro il 38% che ha scelto di uscire.
Petizione nuovo referendum: tre milioni di firme.
La petizione lanciata sul sito del parlamento inglese per chiedere un nuovo referendum sulla Brexit sta avendo un enorme successo in Gran Bretagna: ha raccolto oltre tre milioni di firme.
I firmatari chiedono la promulgazione di una nuova legge che consenta la ripetizione del referendum in caso di un risultato del ‘Leave’ o del ‘Remain’ inferiore al 60%.
E che abbia come condizione minima un’affluenza alle urne non inferiore al 75%.
(da agenzie)
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Giugno 26th, 2016 Riccardo Fucile
PER SOSTENERE L’USCITA DALLA UE PRIMA PROMETTE, POI AMMETTE: “NON POSSO GARANTIRLO, DIRLO E’ STATO UN ERRORE”… PER LA SERIE “CIALTRONI A CASA NOSTRA”
Incassata la Brexit, Nigel Farage ha ammesso che i fautori dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea “hanno commesso un errore” nel promettere agli elettori che, in caso di vittoria del Leave, i 350 milioni di sterline che ogni settimana sono elargiti alle casse comunitarie, sarebbero andati all’istruzione pubblica o ancor più all’Nhs, il sistema sanitario nazionale.
Il leader dell’Ukip, Farage, intervistato dai giornalisti del programma Good Morning Britain su Itv, ha infatti ammesso che non ci sarà questo trasferimento.
“È stato fatto un errore. Non posso garantire che tanto denaro andrà al servizio sanitario pubblico, è una cosa che mai sosterrei. Prometterlo è stato un errore”, ha dichiarato candidamente Farage.
“Era solo propaganda?“ ha incalzato la giornalista.
“Questo è stato uno degli errori fatti durante la campagna per il Leave”, ha affermato Farage, scatenando la furia dell’intervistatrice.
(da “Huffingtonpost”)
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