Ottobre 7th, 2016 Riccardo Fucile
“COME CON LA DC”… “OGGI FA FINO DIRE IO VOTO NO”
È un modo per sottolineare che non basta una riforma del governo per far cambiare verso al Pil, se poi «nessuno rischia e non ha il coraggio di mettersi in gioco».
È il senso di scoramento di chi non si lamenta per la propria azienda, «quest’anno la raccolta pubblicitaria va un po’ meglio», ma osserva lo scontro sulle previsioni di crescita nazionale attorno a qualche decimale.
Il segno dei tempi è il clima di incertezza che accresce per effetto della schizofrenia «sui dati dell’economia»: «Si drammatizza e si sdrammatizza tutto nel giro di poche ore. Al tg delle tredici siamo sull’orlo del default, al tg delle venti arriva il “contrordine”, non succede nulla».
E sarà pur vero che la crisi globale ha provocato macerie, ma se l’Italia del dopoguerra seppe trasformarsi in potenza forse è perchè allora non era «un Paese afflitto dai parassiti». Nè cercava capri espiatori: «L’Europa, per esempio…».
Nell’attesa di sentirsi dare sul referendum la risposta che già conoscono, gli ospiti che Confalonieri riceve nella sede del Biscione a Roma vengono coinvolti in una discussione sul «Malaussène» dell’era contemporanea, su quell’entità con sede a Bruxelles a cui si attribuiscono anche colpe che non ha: «E io, sia chiaro, non penso sia sbagliato criticare l’Unione, per gli errori, le omissioni e pure – vogliamo dirlo? – per certe storie poco chiare che hanno coinvolto persino dei commissari europei. A posteriori si capiscono molte cose… Ma vogliamo davvero sbaraccare tutto?».
L’ordalia che attraversa il Vecchio Continente fa tornare alla mente del patron di Mediaset «certe immagini» che pensava fossero sepolte, «perchè da bambino ho visto la guerra. E se non ne ho vista un’altra è grazie alla costruzione di una nuova Europa. L’Europa ci ha salvato da altri conflitti, ha debellato gli “ismi” del secolo breve. Sentire adesso certi commenti, sentir dire con superficialità che la Brexit è stata un bene e che è giunto il momento anche per noi di fare la stessa cosa, è da irresponsabili. Ma scherziamo?».
Lentamente si scorge l’ordito del ragionamento, si intuisce che Confalonieri sta rispondendo alla domanda.
E soprattutto si capisce come il braccio destro di Berlusconi da anni stia sfruttando l’accusa di essere un lobbista per proteggersi: «Ma io sono un lobbista», ripete ogni volta. In realtà è un alibi.
Un lobbista non avrebbe mai detto – a suo tempo – che Berlusconi sbagliava a togliere la fiducia al governo Letta, non si sarebbe speso per consigliare al Cavaliere di dare il suo sostegno all’elezione di Mattarella al Quirinale, nè avrebbe tifato (continuando a farlo) per il patto del Nazareno.
Certo, «Renzi sarà anche un ganassa e tutto questo può dar fastidio», ma ciò non gli fa cambiare idea sul referendum e non lo dissuade dal convincimento che serva un’intesa tra le forze del popolarismo e del socialismo europeo in Italia nel contesto della crisi globale, con tutti gli «ismi» che girano per l’Europa.
Raccontano che gli scappi spesso un sorriso la mattina, quando legge che le sue posizioni sono mosse da un puro spirito aziendalista. Che è un pezzo di verità , ma non tutta la verità : «Se qualcuno scrive che faccio politica, giuro che lo querelo».
L’alibi regge. E gli consente di fare ciò che sostiene di non fare. Appena si rende conto di aver estenuato i suoi interlocutori, che nel frattempo hanno perso ogni speranza di ascoltare la risposta alla loro domanda, Confalonieri decide di rispondere. Con una serie di domande: «Ma quelli che stanno in Parlamento sono davvero convinti che vinca il No al referendum? Sono sicuri dei sondaggi che danno Renzi per perdente? E lei che idea si è fatto?».
L’effetto disorientamento sull’ospite è riuscito.
E il capo del Biscione – aggrappandosi alla sua «esperienza» – si mette a ricordare di «quando in Italia c’era la Dc e sembrava che nessuno la votasse. Infatti nei sondaggi era data sempre bassissima. Poi si aprivano le urne e… Magari mi sbaglio, ma penso che sul referendum oggi faccia fino dire “io voto No”».
Ecco la risposta alla fatidica domanda. Più chiaro di così…
Francesco Verderami
(da “il Corriere della Sera”)
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Ottobre 7th, 2016 Riccardo Fucile
IN GIOCO L’IMMUNITA’ PARLAMENTARE E IL VOTO DELL’EX SINDACO DI MILANO PUO’ ESSERE DECISIVO PER LA MAGGIORANZA
«Io, come senatore del Nuovo centrodestra, questo governo al Senato lo sostengo e lo voto, ma se poi la stessa maggioranza, quando io ho un problema, mi vota contro, allora sono io che non voto più».
Parola di Gabriele Albertini, l’ex sindaco di Milano e ora senatore alfaniano, protagonista di una durissima querelle giudiziaria a colpi di esposti contro l’ex procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo, finita prima al Parlamento europeo, che non gli ha riconosciuto alcuna immunità visto che faceva interviste da sindaco, e adesso al Senato, dove invece sono in corso grandi manovre in casa Pd per tentare di salvare un voto indispensabile alla sopravvivenza del governo.
Ma a mettere in crisi le possibili intese il senatore Felice Casson, ex giudice istruttore a Venezia, che mercoledì sera, durante la seduta della Giunta per le autorizzazioni, di fronte a un singolare avvicendamento di relatore del caso e con un cambio brusco di indirizzo — prima, con Giorgio Pagliari del Pd, la Giunta avrebbe dovuto dichiararsi incompetente, poi con Rosanna Filippin, sempre del Pd, la copertura ad Albertini pare un fatto dovuto — ha chiesto di fermarsi.
«L’immunità non è perpetua, non può coprire l’intera vita di un senatore. Quindi, nel caso di Albertini, prima di pronunciarmi, voglio capire bene a quando risalgono i fatti e che ruolo aveva in quel momento Albertini, se era sindaco o parlamentare europeo, o senatore. Perchè se era solo sindaco non può ottenere la copertura del Senato».
Ma se Albertini non dovesse averla comincerà a votare contro Renzi, quindi il Pd è in fibrillazione.
Proviamo a ricostruire i fatti e a capire chi ha ragione in questa vicenda.
Albertini è sindaco di Milano dal 1997 al 2006.
Nel 2011 il primo cittadino entra in conflitto con l’aggiunto della procura Robledo, che poi diventerà protagonista di un famoso scontro con il suo capo Edmondo Bruti Liberati per il quale viene trasferito a Torino dal Csm. Ma tant’è.
Proprio nel 2011 Albertini — che nel frattempo è diventato parlamentare europeo — rilascia due interviste contro Robledo in cui lo accusa di voler perseguitare la sua giunta per via delle inchieste che apre in procura.
Ovviamente Robledo lo controquerela per calunnia. Finito sotto inchiesta a Brescia proprio per questo reato il sindaco chiede “protezione” al Parlamento europeo, che però nel 2013 gliela nega, sostenendo che lui parlava da primo cittadino di Milano e non da parlamentare europeo.
Albertini non si dà per vinto e presenta un altro esposto al ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri sempre contro Robledo, divenuto ormai un’ossessione, il quale avrebbe avuto uno spirito persecutorio nell’inchiesta sui derivati comunali. Nuova reazione di Robledo che lo riaccusa di calunnia e nuova incriminazione per Albertini proprio per questo reato.
Ma a questo punto l’ex sindaco è diventato senatore di Ncd e chiede alla Giunta di palazzo Madama la protezione e la copertura cui crede di aver diritto.
Di fronte all’evidenza — Albertini non era senatore, ma deputato Ue quando lanciò le sue accuse — il Senato si dichiara incompetente una prima volta.
Ma la nuova imputazione per calunnia riapre la querelle e questa volta Albertini gioca la carta del suo possibile voto contrario alla maggioranza.
Accade così che nella Giunta per le autorizzazioni il primo relatore del caso — il Pd Giorgio Pagliari — si vede costretto a confermare l’indirizzo già seguito: Albertini non può godere di copertura perchè non era senatore all’epoca delle sue dichiarazioni.
Ma i vertici del Pd spingono per un pronunciamento più favorevole ad Albertini. A quel punto Pagliari si dimette da relatore.
Al suo posto subentra la veneta Rosanna Filippin, che invece intesse un peana su Albertini e si dice convinta che lo scudo dell’immunità gli spetti, in quanto si tratta di una storia infinita, di una guerra che continua, da quando Albertini era sindaco, poi parlamentare Ue, infine senatore.
A questo punto arriva l’altolà di Casson che chiede innanzitutto di capire bene a che epoca si riferiscono i fatti e che carica aveva Albertini in quel momento.
Se non era senatore, come pare proprio che non fosse, la copertura dalle inchieste non gli spetta. Ma a questo punto la maggioranza rischia di andare in tilt.
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 7th, 2016 Riccardo Fucile
LE SUE ULTIME VOLONTA’: COME DISTRIBUISCE IL PATRIMONIO, LA STRATEGIA AZIENDALE E L’AUSPICIO CHE CESSINO LE LITI FAMILIARI
Esselunga non dovrà mai finire alle Coop. Bernardo Caprotti l’ha ripetuto mille volte in vita. L’impegno passa però ora ai suoi eredi.
Il testamento del patron della più grande catena di supermercati tricolore – “molto sofferto” scrive lui stesso – è tranchant.
E oltre a spartire azioni, soldi, case, castelli, quadri, Bentley e fucili da caccia tra i due rami di una famiglia dilaniata dalle lotte dinastiche, traccia la rotta per il futuro dell’impero di casa:
“Attenzione – mette nero su bianco nelle ultime due righe del documento di 13 pagine che la Repubblica ha potuto esaminare -: la società è privata, italiana, soggetta ad attacchi”. Le sue ultime volontà sono così precise: Supermarkets Italiani, fa verbalizzare dal notaio, “può diventare una Coop. Questo non deve succedere”. Meglio cercare un alleato o un compratore all’estero.
Trovando all’azienda “quando i pessimi tempi italiani fossero migliorati, una collocazione internazionale”. Quale? Caprotti lascia pochi spazi di manovra a chi verrà dopo di lui: “Ahold (colosso olandese della grande distribuzione, ndr) sarebbe ideale. Mercadona (rivale spagnolo) no”.
Il documento steso il 9 ottobre 2014 nello studio Marchetti è una fotografia impietosa e cruda della Dinasty Esselunga.
“Dopo tante incomprensioni e tante, troppe amarezze – dice il testamento – ho preso una decisione di fondo per il bene di tutti, in primis le diecine di migliaia di persone i cui destini dipendono da noi”.
La spartizione del capitale (70% di Esselunga e 55% dell’immobiliare a Giuliana Albera e a sua figlia Marina, il resto in parti uguali ai figli di primo letto, Giuseppe e Violetta) garantisce una chiara guida azionaria al gruppo.
“Famiglia non ci sarà – scrive realista Caprotti -. Ma almeno non ci saranno lotte. O saranno inutili, le aziende non saranno dilaniate”.
Il loro futuro però, lo ammette lui stesso, è segnato: Supermermarkets Italiani è una società “attrattiva. Con Tornatore (Giuseppe, il regista da Oscar di “Nuovo cinema paradiso” che ha realizzato il cortometraggio “Il mago di Esselunga”, ndr) lo è divenuta di più. Però è a rischio. E’ troppo pesante condurla, pesantissimo “possederla”, questo Paese cattolico non tollera il successo”.
E i concorrenti – ora che il fondatore non c’è più – sono in agguato per cogliere la palla al balzo.
La divisione dei beni affidata alle ultime volontà con precisione certosina (la stessa con cui curava i suoi supermercati) dovrebbe consentire – negli auspici del fondatore – a evitare “ulteriori contrasti e pretese” consentendo a tutti “di vivere in pace nei propri ambiti”. Non sarà facile.
Lo stesso testamento, del resto, è la prova di come le divisioni in famiglia siano ancora profonde e le posizioni lontanissime. La decisione di rivedere la prima versione dell’eredità risale a luglio 2010, quando Caprotti licenzia Paolo De Gennis, vice presidente di Esselunga e storico manager fin dalle origini della gestione Rockefeller.
“Il disegno di ripartizione e continuità familiare, business soprattutto, che con tanta fatica e sofferenza avevo costruito già oltre 16 anni fa – si legge nel documento – è definitivamente naufragato la sera del 30 luglio 2010. Ora dopo anni di battaglie legali e di pubbliche maldicenze da parte di Violetta e Giuseppe, ho destinato e destino le partecipazioni nelle due aziende che ho creato e che mi appartengono, in modo tale da dare tranquillità e continuità alle imprese, salvaguardando però i diritti di tutti i miei aventi causa, secondo la legge”.
L’uscita di De Gennis, arrivata dopo che l’imprenditore ha cacciato il figlio Giuseppe, fa deflagrare anche il litigio con Violetta, che fino ad allora era rimasta al fianco del padre.
La famiglia si spacca, e Bernardo decide di nominare “mie eredi universali in parti uguali tra loro, mia figlia Marina e mia moglie Giuliana”.
La moglie e la figlia, ottengono così il controllo di Supermarkets Italiani, la holding che controlla Esselunga, e il 55% della Villata, l’immobiliare che raccoglie uffici, magazzini e supermercati.
I figli di primo letto Giuseppe e Violetta si spartiscono quindi il restante 30% di Esselunga e il 45% dell’immobiliare. “Non sono stato molto premiato per quanto ho fatto, o ho cercato di fare, a favore di Giuseppe e Violetta – scrive Bernardo nelle sue ultime volontà – svantaggiati dalla legge italiana rispetto a Marina e alla madre”.
Questa scelta sancisce la gestione e impedisce ai figli di primo letto di avere la minoranza di blocco sui supermercati.
Ma c’è di più perchè avendo rispettato la legge di successione, che prevede che ogni figlio abbia per legittima almeno il 16,6% del patrimonio, non dà appigli a Violetta e Giuseppe di fare nuove cause.
Bernardo ripercorre le donazioni fatte in passato, o di recente ai suoi familiari, e aggiunge quelle per legato. Il primo che viene ricordato è il primogenito Giuseppe che ha ricevuto l’appartamento sul Golf di Monticello a Cassina Rizzardi, l’appartamento di Verbier in Svizzera, la villa di famiglia ad Albiate Milano e i suoi arredi, la biblioteca di 4 mila volumi del bisnonno Giuseppe Caprotti, l’archivio di famiglia e alcuni quadri di pregio tra cui una natura morta di De Chirico.
Violetta invece ha avuto, la sua casa di Via Bigli a Milano, quella di New York sulla Quinta strada, “la proprietà che mi è più cara” cioè il castello di Bursinel sul lago di Lemano e alcuni quadri tra cui un olio di Zandomeneghi.
Alla moglie Giuliana Albera va invece un altro appartamento sul Golf di Monticello a Cassina Rizzardi, l’intera proprietà di Fubine nel Monferrato con “la casa di caccia e altri quattro cascinali”, la barca “Alfamarine”, la metà della casa di Skiatos in Grecia – la cui altra metà va alla figlia Marina, che riceve anche 8 milioni per comprarsi la casa di Egerton Terrace a Londra – l’intero possedimento di alcuni chilometri “sul mare” a Zonza nel sud della Corsica, e alcuni quadri tra cui una “Madonna modesta” di Zandomeneghi.
Ma poi Bernardo precisa: “Non mi attarderei ulteriormente su cose passate, data l’entità di quanto sto disponendo”, fatto salvo che quanto non espressamente precisato, compresi tutti i suoi effetti personali, andranno alla moglie e alla figlia Marina.
Bernardo lascia poi due quadri alla segretaria Germana Chiodi “signora a cui voglio esprimere la mia immensa gratitudine per lo straordinario aiuto prestato” e la metà dei due conti titoli (presso Credit Suisse e Deutsche Bank) e del conto corrente (sempre presso Deutsche).
L’altra metà andrà divisa tra i 5 nipoti, ovvero i tre figli di Giuseppe, Tommaso, Margherita e Giovanni, e i due figli del fratello minore Claudio, Andrea e Fabrizio, che ugualmente ricevono dei quadri.
Al marito della figlia Marina, Francesco Moncada di Paternò l’imprenditore lascia la sua Bentley “perchè la faccia diventare veramente vintage”. Al ragioniere di una vita, Cesare Redaelli vanno 2 milioni di euro.
Dopo aver donato alla Pinacoteca Ambrosiana “un dipinto di scuola leonardesca di grande interesse e ingente valore e avendo da ciò ottenuto un’esperienza molto negativa” Caprotti cancella le donazioni previste alla galleria di Arte Moderna di Milano.
E invece lascia al Louvre, l’olio di Manet “La vergine col coniglio bianco” con l’onere che venga esposto accanto al Tiziano originale. Tutto preciso, tutto calcolato.
Nel tentativo di regalare un difficile lieto fine a una vicenda umana complessa. “Ho lavorato duramente – ricorda -. Ho sofferto l’improvvisa tragica scomparsa di mio padre… Poi, più tardi, il dissidio coi miei due fratelli la cui liquidazione (richiesta) mi è costata quasi vent’anni di ristrettezze; nell’immane fatica, più tardi la crisi drammatica e la fine della Caprotti”.
La manifattura tessile di famiglia chiusa nel 2009 dopo 179 anni di attività . “Ove mai (così non sarà ) qualcuno dovesse pretendere integrazioni a quanto ricevuto – scrive un Caprotti sfibrato dai lunghi braccio di ferro legali con i suoi parenti più stretti – tali pretese dovranno, naturalmente e come per legge, riferirsi in via preventiva a tutto quanto disposto con il presente testamento”.
L’imprenditore – in conclusione – pensa persino al suo funerale: “che sia al mattino, il più presto possibile, onde non disturbare il prossimo” nella chiesa di San Giuseppe che è a “300 metri da casa” con la preghiera che non siano fatti annunci o necrologi, “sarebbero paginate di fornitori cortigiani”.
La saga della Esselunga, ora, continua senza di lui. L’importante è che non finisca alla Coop.
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 7th, 2016 Riccardo Fucile
“SERVE FAR DI PIU'” SULLE POLITICHE DI CONTRASTO ALL’INDIGENZA… INSIEME ALLA GRECIA, L’ITALIA E’ L’UNICO PAESE EUROPEO PRIVO DI UNA MISURA NAZIONALE
Tre milioni in più di persone che vivono sotto la soglia di sopravvivenza in sette anni: la situazione fotografata dal Rapporto 2016 di Caritas Italiana sulle politiche di contrasto alla povertà , pubblicato oggi, è davvero drammatica.
E i numeri sono impressionanti.
Nel 2007 i poveri nel nostro Paese erano 1,8 milioni (il 3,1% del totale), nel 2015 la cifra è schizzata a 4,6 (il 7,6%), registrando un aumento esponenziale delle persone in condizioni di indigenza in un lasso di tempo relativamente breve.
Un fenomeno non più circoscritto.
Stando al rapporto, le condizioni di povertà assoluta si riscontrano soprattutto a sud, nelle famiglie con anziani, nei nuclei con almeno tre figli piccoli e in quelle in cui nessuno dei familiari ha un lavoro, e sembra essere cresciuta – questo il dato inquietante – al centro-nord, tra le famiglie giovani, nei nuclei con uno o due figli minori e persino in quelli con componenti occupati.
I dati, insomma, parlano chiaro: il problema della povertà tocca oggi l’intera società italiana e non è più circoscritto come in passato.
Il nostro Paese resta l’unico in Europa, insieme alla Grecia, ancora privo di una misura nazionale universalistica contro l’indigenza assoluta.
“La sua introduzione – ricorda la Caritas – è stata richiesta da più parti sin dagli anni ’90, senza trovare ascolto da nessuno dei Governi susseguitisi nel tempo”.
“Bene Renzi, ma serve fare di più”.
Secondo l’organismo pastorale Cei, l’attuale Esecutivo ha avuto l’indubbio merito di “scardinare” lo storico interesse della politica italiana nei confronti della povertà : la Legge di stabilità per il 2016, in particolare, con uno stanziamento di 600 nuovi milioni di euro per il 2016 e di 1 miliardo assicurato stabilmente a partire dal 2017, ha segnato una netta discontinuità rispetto alle scelte del passato, ma gli sforzi fatti ancora non bastano.
“Si tratta di capire – si legge nel rapporto Caritas – se quanto realizzato sin qui verrà seguito dal passo che ancora manca, ovvero da un investimento pluriennale che sostenga gli attori del welfare locale”.
“Un Piano nazionale con un orizzonte molto limitato”. Il percorso previsto per l’introduzione del Reddito d’inclusione (REI), ricorda la Caritas, si ferma al 2017 e la percentuale di poveri interessata non supera il 35% del totale, lasciandone scoperta la maggior parte.
Dall’inizio della crisi ad oggi, rileva il documento, la povertà assoluta, ovvero la condizione di coloro che non hanno le risorse economiche necessarie per vivere in maniera minimamente accettabile, è aumentata in Italia fino ad esplodere.
Ampliare l’utenza del REI previsto nei prossimi anni e mettere in campo azioni per accompagnarne l’introduzione nei territori è, secondo l’organismo pastorale, la misura necessaria da adottare per arginare una situazione ormai quasi al tracollo.
“Servono 2 miliardi”. Nel documento non mancano proposte concrete: “La prossima legge di stabilità – si legge – dovrebbe incrementare di ulteriori 500 milioni il miliardo già reso disponibile a partire dal 2017. Considerate le misure già esistenti per i poveri, si dovrebbe arrivare a complessivi 2 miliardi di euro, con i quali si potrà intercettare solo una quota della popolazione indigente, certamente inferiore al 35% del totale”. Secondo la Caritas, dunque, per il 2017, 2 miliardi sarebbero una cifra sufficiente ad affrontare il problema.
Attualmente, precisa ancora il documento, “i nuovi stanziamenti finanziano due misure transitorie, il Sostegno per l’Inclusione Attiva (SIA) e l’Assegno per la Disoccupazione (ASDI), che nel corso del 2017 saranno assorbite nel REI, la misura definitiva. Al suo finanziamento concorreranno le risorse indicate sopra e le altre che si deciderà di stanziare”.
Gli attori del cambiamento. L’Alleanza contro la povertà in Italia, che raggruppa 37 soggetti sociali, dai Comuni alle Regioni agli enti di rappresentanza del Terzo settore, è certamente uno degli attori-chiave di questa fase di cambiamento, a partire dalla elaborazione del Reddito di Inclusiono Sociale, una proposta puntuale e articolata che cerca di affrontare tutti i possibili nodi attuativi.
“Servono nuove modalità di lavoro”. In attesa della riforma definitiva, la Caritas rileva anche che le realtà del welfare locale si confrontano con l’attuazione delle misure transitorie e ciò richiede modalità di lavoro nuove, basate soprattutto sulla collaborazione interistituzionale e sulla costruzione di reti tra i soggetti territoriali per la presa in carico delle persone in povertà .
“Sono percorsi inediti. Il punto è trasformare queste fatiche in un’occasione preziosa per iniziare a costruire un nuovo sistema di welfare rivolto ai poveri: l’unica strada possibile e ragionevole è renderle sin da subito parte di un Piano pluriennale di sviluppo”, spiega la Caritas nel Rapporto.
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 7th, 2016 Riccardo Fucile
UNA RICERCA SU “NATURE”: ASPETTATIVA DI VITA SI ALLUNGA, “SIAMO ORMAI VICINI AL TETTO”
Vivremo “solo” 122 anni. Oltre non è possibile andare: è scritto nel nostro orologio biologico.
La tesi arriva da Jan Vijg dell’Albert Einstein College di New York su Nature
Come il nostro corpo non è costruito per correre a cento all’ora, così non riusciremo mai a superare il limite imposto dal nostro “metronomo biologico”, rafforza il concetto in un editoriale Jay Olshansky dell’università dell’Illinois
Lo studio parte dall’analisi demografica dell’oggi.
La donna più anziana, la francese Jeanne Calment, è morta a 122 anni nel 1997. Da allora è aumentato il numero di centenari nel mondo, eppure nessuno ha superato il suo record, come ci si sarebbe, invece, attesi.
Dal 1997 «i guadagni si stanno riducendo, in termini di aspettativa di vita dei superanziani » scrivono Vijg e colleghi. «Evidentemente esiste un limite alla lunghezza della vita umana ».
Anno dopo anno, dopo la morte di Jeanne Calment, il record di longevità si è andato abbassando. Oggi appartiene a un’italiana, Emma Morano, che ha “appena” 116 anni
Lo studio, basato su registri demografici, è stato accolto come una provocazione dalla vivacissima comunità dei biologi che da una ventina d’anni si dedica alla manipolazione di quel metronomo.
«Esiste un muro? E noi proveremo a superarlo» replica Claudio Franceschi dell’università di Bologna, coordinatore del progetto europeo Nu-Age su cibo e invecchiamento e referente per l’Italia di quello Mark-Age per trovare un marcatore dell’età biologica rispetto a quella anagrafica.
«Nel verme C.elegans abbiamo allungato la vita di 10 volte, nel moscerino della frutta di 2, nel topo del 30%. L’uomo è un organismo più complesso, ma è ovvio che esistano strade per estendere la vita, soprattutto quella trascorsa in salute. Non esiste alcun programma genetico che a un certo punto ci ordini di morire».
Le strade per abbattere il muro, o anche solo per spostarlo più in là , sono diverse.
Una è la dieta: si è visto che in molte specie animali una restrizione calorica del 30% (un regime prossimo all’inedia, poco adatto agli umani) attiva meccanismi genetici che allungano la vita.
Franceschi ha da poco pubblicato uno studio su Current Biology che dimostra come molti centenari abbiano una composizione particolare dei batteri intestinali, ricca di alcune specie e povera di altri: «Quando capiremo il perchè, riusciremo forse a sintetizzare le sostanze prodotte da quei batteri buoni».
Delle pillole, come surrogati della restrizione calorica, capaci di attivare gli stessi meccanismi genetici, sono già in sperimentazione: le più importanti sono rapamicina e metformina.
E prima ancora che la scienza abbia rischiarato il cammino, il business dei faramci allunga-vita è esploso. Google, nel 2013 ha fondato la Calico “per capire meglio la biologia che controlla la durata della vita”
Che il “metronomo biologico” non batta per tutti allo stesso ritmo – e che dunque ognuno abbia il suo muro individuale – è stato dimostrato da Steve Horvath.
Il bioinformatico dell’università della California nel 2013 ha scoperto un metodo preciso quasi al 100% (basato sulla metilazione, ovvero sulla capacità di accendersi e spegnersi dei vari geni) per calcolare l’invecchiamento. «I 105enni che ho studiato – spiega Franceschi – avevano un’età biologica di 8 anni inferiore a quella anagrafica. Lo stesso valeva per i loro figli ».
Per Luigi Fontana, esperto di restrizione calorica e invecchiamento all’università di Brescia e alla Washington University, ad allungare la vita dovremmo anzi dedicarci con più impegno: «Oggi siamo abituati a diagnosticare malattie e curarle con farmaci o chirurgia. Dovremmo invece imparare a conoscere i meccanismi molecolari dell’invecchiamento per prevenirli. Risparmieremmo soldi e guadagneremmo salute».
Nessuno ha superato il record di Jeanne Calment. Ma i centenari sono sempre di più Tagliare le calorie del 30% attiva i meccanismi genetici che scacciano le cause di morte
Elena Dusi
(da “La Repubblica”)
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