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LIBIA, GIUDICI AMMMINISTRATIVI BOCCIANO L’ACCORDO SUI PROFUGHI CON ITALIA

Febbraio 13th, 2017 Riccardo Fucile

SARRAJ DESTINATO AD USCIRE DI SCENA, BRUTTA FIGURA DELL’ITALIA

Il ricorso si discuterà  mercoledì, davanti ai giudici del Tar libico, a Tripoli.
All’inizio dell’altra settimana sarà  poi reso noto il giudizio, la decisione. Tutti danno per scontato che i “ricorrenti” — ex ministri, principi del foro, personalità  libiche — saranno premiati.
Insomma che sarà  clamorosamente bocciato il protocollo d’intesa siglato a Palazzo Chigi il 2 febbraio scorso tra il Presidente del Consiglio italiano, Paolo Gentiloni, e il premier libico, Fayez El Sarraj. Il protocollo che sanciva l’inizio della controffensiva italiana contro i trafficanti di migranti potrebbe diventare così carta straccia.
L’intesa che era stata legittimamente portata a Malta, al vertice dei capi di Stato e di governo della Comunità  europea, come un fiore all’occhiello del governo Gentiloni, è destinata a evaporare nel nulla.
Se il Tar libico dovesse effettivamente bocciare l’intesa sarebbe un brutto colpo per l’Italia, impegnata finalmente a rendere coerente una politica di accoglienza nei confronti di chi ne ha diritto è nello stesso tempo di rigore nel rispetto della legalità . Ma la decisione dei giudici amministrativi libici rappresenterebbe anche una brusca frenata al lento e faticoso processo di stabilizzazione della Libia.
A Tripoli paragonano il “commerciante” El Sarraj a un “piccolo” Donald Trump che vede annullate dai giudici le sue decisioni.
Bocciature che vanificano così le iniziative politiche e amministrative di Sarraj, come la recente scelta dei componenti del nuovo consiglio d’amministrazione della Lia, Libyan Investment Authority, il fondo sovrano, la vera cassaforte dei petrodollari libici.
Insomma, per dirla tutta, Fayez El Sarraj sta diventando un problema, un grosso problema per la Libia. Intanto, agli “smemorati” della Comunità  internazionale i libici di Tripoli ma anche di Bengasi, di Tobruk o del profondo sud ricordano con queste iniziative giudiziarie che il governo Sarraj è illegittimo, non essendo stato votato dal parlamento di Tobruk che, sebbene scaduto da più di un anno, è in regime di “prorogatio” da parte della comunità  internazionale.
L’equivoco sta nel fatto che Sarraj è il legittimo presidente del Consiglio Presidenziale composto da nove membri in tutto. E indicato dal Comitato del dialogo, la vera e unica camera di compensazione dei conflitti e delle divisioni della Libia, che oggi sta discutendo un diverso assetto istituzionale del Paese.
Sono 29 i componenti del Comitato del dialogo che, in questi mesi, hanno lavorato sotto traccia, con la “benevolenza” della struttura delle Nazioni Unite, dell’uscente delegato per la Libia, Martin Kobler, che ha condiviso le decisioni maturate e che responsabilmente ha accettato anche di non partecipare agli ultimi incontri del Comitato, per rimarcare così l’autonomia dei libici.
Da tempo il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite aveva individuato il successore di Kobler, con il consenso dell’amministrazione americana di Barack Obama.
Doveva essere l’ex premier palestinese Salam Fayyad. Ma adesso il veto è arrivato da Donald Trump che non vuole il palestinese che fa irritare gli israeliani.
La nuova America di Trump riserverà  amare sorprese anche per la politica internazionale in Libia e Medio Oriente.
Dunque il Comitato di pacificazione nell’ultima riunione (22 gennaio scorso) ha disegnato una riorganizzazione dell’architettura istituzionale. Intanto, il Consiglio Presidenziale da nove dovrebbe scendere a tre membri.
La novità  che rappresenta una cesura con il passato è il Capo Supremo della Difesa. Che sarà  composto da un Comitato formato dal presidente del Parlamento, da quello del Consiglio di Stato (l’ex parlamento islamista di Tripoli) e da un delegato del Consiglio Presidenziale. I tre dovranno prendere le decisioni all’unanimità .
Dunque, il capo del governo e quello del Consiglio Presidenziale saranno due figure diverse; il Capo supremo della Difesa non sarà  più il Presidente del Consiglio Presidenziale.
Sarraj è destinato a uscire di scena. Lo stesso ruolo del generale Haftar, sostenuto dalle cancellerie di mezzo mondo (arabo e occidentale), è destinato a ridimensionarsi nel disegno della nuova architettura istituzionale.
I tempi per il passaggio dall’elaborazione all’attuazione di queste significative trasformazioni degli assetti politici e istituzionali sono dettati ora dalla formalizzazione della nuova delegazione — quattro membri- del Parlamento di Tobruk nel Comitato del dialogo. Informalmente, le scelte del Comitato sono già  state condivise dai vertici istituzionali della Cirenaica.
Bisogna solo aspettare con pazienza la formalizzazione di questi orientamenti. Ma i tempi libici sono noti per essere biblici.

Eleonora Lavaggi
(da “il Fatto Quotidiano”)

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INTERVISTA A DAVIGO: “A 25 ANNI DA MANI PULITE, L’ITALIA E’ ANCORA PIU’ CORROTTA”

Febbraio 13th, 2017 Riccardo Fucile

“IL CODICE PENALE E’ UNO SPAVENTAPASSERI, IN CELLA VANNO SOLO GLI SCIOCCHI”… “IL GIUDICE E’ MESSO NELLA CONDIZIONE DI DOVER SCEGLIERE TRA FARE RISPETTARE LA LEGGE, RINUNCIANDO A FARE GIUSTIZIA, O TENTARE DI FARE GIUSTIZIA FORZANDO LA LEGGE”

Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo ha partecipato ad un forum al Corriere della Sera con il vice direttore Giampaolo Tucci e con i giornalisti Marco Ascione, Giovanni Bianconi, Luigi Ferrarella, Mario Gerevini, Giuseppe Guastella e Fiorenza Sarzanini.
Argomento del dibattito, che si è svolto nella redazione di via Solferino a Milano, il pianeta giustizia a 25 anni dall’inizio dell’inchiesta Mani pulite e in occasione dell’uscita del libro «Il sistema della corruzione» (Editori Laterza) scritto dall’ex pm del pool Mani pulite, ora presidente di sezione in Cassazione.
A 25 anni da Mani pulite, in Italia è cambiato poco o nulla?
«È drammatico quanto poco sia cambiata la situazione e quanto sulla corruzione peggiori la deriva dell’Italia nel panorama internazionale».
Un Paese corrotto?
«A livelli diversi, finalità  e modalità  diverse. È un Paese che sta morendo. C’è sfiducia, la gente non va più a votare, espatria».
Ci vuole una rivoluzione culturale?
«Bisogna cominciare dalla scuola».
Migliore l’Italia degli anni di Mani pulite?
«L’effetto domino non fu innescato da un sussulto di coscienza civile, ma dal fatto che erano finiti i soldi».
Lei sostiene che per la corruzione ci vorrebbe un doppio binario, come per la mafia.
«Bisognerebbe introdurre alcune delle norme che valgono per i mafiosi».
Ad esempio?
«Un sistema premiale forte e serio e le operazioni sotto copertura».
La corruzione spesso è alimentata da fondi neri esteri, sempre più difficili da aggredire.
«È un problema internazionale. L’assistenza giudiziaria internazionale è un relitto ottocentesco che richiede tempi talmente lunghi, incompatibili con la durata di un processo».
Corruzione «Simonia secolarizzata». Cioè?
«Nella Chiesa c’è il sacerdote che vende cose sacre, nello stato c’è il funzionario pubblico che vende le cose che per lui dovrebbero essere sacre, perchè ha giurato fedeltà  alla Repubblica».
Il pool Mani pulite ha fatto errori?
«Secondo me, no. Ha fatto quello che poteva. Se non ci avessero cambiato le leggi a partita in corso, saremmo andati avanti. Molte leggi possono avere su il nome dell’imputato».
Forse fino a un’epoca determinata.
«Sì, poi è cambiata la maggioranza e da allora le fanno più sofisticate. Ad esempio, la legge Severino non contrasta la corruzione ma è stata gabellata per una legge che la contrasta».
Monti, il premier di allora, non era sospettabile di essere vicino ai corrotti.
«Quella legge l’ha fatta il Parlamento. Ricordo che il ministro della Giustizia rispose alle obiezioni: “Era il massimo che si potesse fare in quel momento con quelle Camere”».
I vostri rappresentanti dissero che era una buona legge, come nel caso di quella sull’autoriciclaggio. C’è anche un problema vostro?
«Certo che c’è anche un problema della magistratura, ma cerchiamo di capirci, gioca anche molto il modo di fare leggi dovuto all’incompetenza della pubblica amministrazione che, purtroppo, non è più quella di cento fa, fatta di funzionari competenti e con il senso dello Stato. Quando ho incontrato la prima volta il ministro Orlando, gli ho fatto presente che la depenalizzazione che avevano fatto non serviva a niente perchè toglieva solo le briciole ma alcuni reati depenalizzati avevano l’effetto non di ridurre il carico di lavoro, ma di aumentarlo. Mi rispose che l’Anm aveva dato parere favorevole, io gli dissi che non sarebbe accaduto più perchè avevamo costituito delle commissioni interne».
Ha un giudizio molto negativo sui politici.
«Ce ne sono anche perbene, ma i meccanismi talvolta favoriscono il malaffare».
Cosa ne pensa di chi, come i 5 Stelle, ha introdotto codici interni legati alle inchieste?
«La politica non deve agganciarsi ad atti formali nel giudizio, ma a una valutazione autonoma dei fatti. Si può cacciare uno che è innocente o tenerlo se è colpevole. Sono due valutazione diverse, una è politica, l’altra di giustizia».
Non si introduce così un’inversione del principio di non colpevolezza?
«Non è così. Molte volte non c’è bisogno di aspettare la sentenza per far scattare la responsabilità  politica, ma in questo Paese non avviene mai, neanche di fronte ai casi evidenti».
Prendiamo il caso di Roma e della sindaca Raggi, è un caso controverso.
«Premesso che non parlo dei procedimenti in corso, in qualche caso la politica può dire “aspetto di vedere come va finire” o “mi sono fatto un’idea”, ma non può dire sempre “aspettiamo le sentenze”. Significa caricare sulla decisione del giudice la selezione della classe politica».
I politici dovrebbero darsi codici di comportamento?
«Secondo me sì. Basta anche il buonsenso».
Non c’è il rischio di finire nel moralismo?
«Se mi mandano in udienza con un collega che si è saputo che ruba, io non vado perchè chi ci vede pensa che siamo uguali. Io non rubo».
L’Anm accoglie pm e giudici. Non le sembra forte dire che il codice di procedura penale è fatto per farla fare franca ai farabutti?
«Il nostro giudice è vincolato da un sistema di inutilizzabilità  sconfortante perchè una prova acquisita, valida nei confronti di un imputato, diventa inutilizzabile per un altro se è stata acquisita a termini delle indagini preliminari scaduti. Il giudice è messo nella condizione di dover scegliere tra rispettare la legge rinunciando a fare giustizia o tentare di fare giustizia forzando la legge. È inaccettabile. E allora è normale che uno venga arrestato e poi assolto. Se non volevano questo non dovevano scrive il codice così, oppure dovevano dirci di non arrestare più».
Riporta una frase del generale Dalla Chiesa che diceva: che c’è chi parla di manette facili e chi di ingiustizia che assolve. Ingiustizia?
«L’ingiustizia può essere nella legge oltre che negli uomini, se la legge è contraria al senso comune di giustizia, e molte delle norme che applichiamo lo sono. Ora la minaccia del carcere non è credibile perchè il codice penale è uno spaventapasseri, da lontano fa paura, quando ci si avvicina appare innocuo. In galera ci va chi è così sciocco da farsi arrestare in flagranza e gli appartenenti alla criminalità  organizzata. Gli altri in media ci vanno di meno».
Lei è un giudice, un suo imputato potrebbe avere difficoltà  leggendo: «Ne prendiamo pochi e quando li prendiamo vengono condannati a pene esigue che non vengono fatte scontare».
«Nel nostro sistema il rispetto delle regole formali, che il più delle volte non hanno nessuna utilità , vanifica la ricostruzione storica dei fatti. A un certo punto ho lasciato la Procura per fare il giudice in appello, volevo capire come mai le sentenze venissero quasi sempre riformate. Ho visto che era vero quello che mi aveva insegnato un anziano magistrato che diceva che i giudici del tribunale sono come i padri, severi quando è necessario, quelli della Corte d’appello come i nonni, di regola rovinano i nipoti. Dato che su cento ricorsi in appello, 98 sono degli imputati condannati, si cominciano a vedere i problemi solo con una certa ottica e spesso è impossibile resistere alla tentazione di ridurre le pene. Bisognerebbe cambiare anche l’appello».
Solo carcere? E l’esecuzione esterna?
«Dipende dai reati e dal tipo degli imputati».
E stato mai tentato di forzare le regole?
«No. Le ho sempre rispettate, e anche quando ero convinto che l’imputato fosse colpevole l’ho assolto se la prova era inutilizzabile, pensando che era un mascalzone che l’aveva fatta franca».
Un sistema che protegge l’impunità ?
«In un sistema ben ordinato, un innocente non deve essere assolto, non deve neppure andare a giudizio perchè per lui il processo è una tragedia. I filtri dovrebbero essere all’inizio».
Qual è la priorità ?
«La depenalizzazione. Il problema della giustizia è il numero dei processi. O abbiamo il coraggio di dire che va drasticamente ridotto o non se ne uscirà  mai. Nel penale basta intervenire con una massiccia depenalizzazione e introdurre meccanismi di deterrenza delle impugnazioni, quelli che ci sono, sono risibili».
La politica invece va su una strada diversa e introduce nuovi reati come l’omicidio stradale.
«Cose prive di senso. Per l’omicidio stradale la pena è talmente alta che tra un po’ a qualcuno converrà  dire che voleva ammazzare per rispondere di omicidio volontario».
Che ne dice dei suoi colleghi dell’Anm dell’Emilia Romagna dopo il comunicato sulla decisione del Tribunale del riesame
«Non lo conosco, non posso sapere tutto».
È stata trovata la decisione di un collegio prima dell’udienza. L’Anm locale ha detto che poi altri giudici hanno confermato la decisione dei primi che si erano astenuti…
«Bisogna distinguere l’ipocrisia dal malcostume. Un giudice diligente non potendo ricordare a memoria decine di processi al giorno, si appunta lo studio che fa. L’ho sempre fatto, ma non firmo gli appunti e non li metto nel fascicolo».
E allora, a cosa serve la discussione?
«Si può cambiare la decisione».
Lei lo fa?
«Quando un avvocato dice cose che non avevo notato, raro, o che mi convincono, cambio opinione perchè solo gli imbecilli non lo fanno».

Giuseppe Guastella
(da “il Corriere della Sera”)

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IN SICILIA BERLUSCONI GIOCA LA CARTA PRESTIGIACOMO

Febbraio 13th, 2017 Riccardo Fucile

UN’AZZURRA DELLA PRIMA ORA PER RILANCIARE IL PARTITO… IL M5S PROVA A CONVINCERE IL MAGISTRATO ANTIMAFIA NINO DI MATTEO

In Sicilia, a contendersi la presidenza della regione, starebbero per scendere in campo due assi: uno della politica, l’altro della magistratura. Uno in quota Forza Italia, l’altro in forza al M5s.
Il nome a sorpresa a cui sta pensando Silvio Berlusconi, in vista delle elezioni regionali del prossimo ottobre, sarebbe quello di Stefania Prestigiacomo.
Il Cavaliere guarda all’isola, quella del 61 a zero delle politiche del 13 maggio 2001 quando fece bottino pieno di seggi e consenso, per rilanciare il centrodestra. Berlusconi ricorda con nostalgia gli anni in cui varcava lo Stretto e trovava i palazzetti dello sport stracolmi al grido: «Silvio, Silvio!».
L’ultima volta è stato nel marzo scorso quando andò a Palermo, al teatro Politeama, e poi in una passeggiata a via principe di Belmonte si improvvisò barman da Spinnato, nota rosticceria del centro.
Presto potrebbe tornare a Palermo per lanciare la candidatura della Prestigiacomo. Ancora non è stata fissata la data, ma fonti azzurre fanno filtrare che la kermesse dovrebbe essere ad aprile.
Prestigiacomo è un’azzurra della prima ora, vicinissima a Gianfranco Miccichè, il luogotenente berlusconiano in Sicilia oggi è tornato in auge come commissario regionale di Fi.
In un recente incontro ad Arcore Miccichè avrebbe portato sul tavolo il nome di «Stefania» per palazzo d’Orleans e la risposta del Cavaliere sarebbe stata netta: «Sì, Stefania è brava, bella: può essere la nostra carta vincente per riconquistare la Sicilia».
A villa San Martino si guarda con interesse alla Sicilia perchè «quello sarà  il primo vero test nazionale e un altro fallimento della sinistra».
I sondaggi che filtrano in queste ore quotano il centrodestra al 36%, il centrosinistra attorno al 20% e i grillini al 38%. Un testa a testa anomalo.
Che porta a fare in casa Fi il seguente ragionamento: «Una discesa in campo di Berlusconi con il volto di Stefania potrebbe realizzare il miracolo».
Si prefigura così in Sicilia per la successione di Rosario Crocetta una sfida fra Berlusconi e Grillo. Forza Italia contro il M5s.
Intanto i cinquestelle sono più attivi che mai e pensano che Palazzo d’Orleans sia portata di mano. Sabato a Palermo ci sarà  Luigi Di Maio. Il vice presidente della Camera darà  il là  alla corsa per la presidenza della regione.
Giancarlo Cancelleri, già  in campo cinque anni fa, sarà  certamente della partita.
In campo anche altri deputati regionali come Francesco Cappello, Giampiero Trizzino e Valentina Zafferana.
Ma la notizia che filtra dall’inner circle dei 5stelle è che alla fine Grillo potrebbe puntare su un nome di peso, capace di strappare voti in un ampio bacino d’opinione: l’asso nella manica sarebbe il magistrato antimafia Nino Di Matteo, il quale recentemente ha elogiato il nuovo codice etico del movimento: «Finalmente — ha affermato Di Matteo – contribuisce a distinguere la valutazione di responsabilità  politica che deve scaturire da certi comportamenti o certe situazioni dalla eventuale responsabilità  penale».
Se son rose fioriranno.

Giuseppe Alberto Falci
(da “La Stampa”)

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VOTO A OTTOBRE, LA STRADA DEL COLLE CHE PUO’ CONVINCERE RENZI

Febbraio 13th, 2017 Riccardo Fucile

SCIOGLIMENTO DELLE CAMERE IN ESTATE DOPO G7 E LEGGE ELETTORALE

Fino a un paio di settimane fa, con chiunque parlasse, il segretario del Pd Matteo Renzi era categorico: «O si vota a giugno, o si finisce a febbraio del 2018». Impossibile, a suo modo di vedere, una chiamata alle urne in autunno.
«C’è la legge di bilancio. E poi non bisogna fare scattare i vitalizi dei parlamentari», ha ripetuto spesso ai suoi.
Ma, negli ultimi giorni, nella sua testa continuano a ronzare le considerazioni che gli ha fatto più volte il capo dello Stato, Sergio Mattarella: è vero che non è un tabù andare a votare a giugno, ma appuntamenti internazionali e la necessità  di armonizzare le leggi elettorali per Camera e Senato, operazione che potrebbe avere tempi più lunghi del previsto, rendono difficile quel traguardo.
Lo stesso presidente della Repubblica, d’altra parte, sa bene che arrivare alla scadenza naturale del 2018 sarebbe chiedere molto, forse troppo, a una legislatura virtualmente terminata con il referendum del 4 dicembre.
Per questo, lo scenario più ragionevole porta al voto tra la fine di settembre e i primi di ottobre: un percorso che indurrebbe il Colle — a patto che la legge elettorale sia approvata – a sciogliere le Camere tra la fine di luglio e i primi di agosto.
La prospettiva sta diventando suggestiva agli occhi di Renzi. Vero è che la sua prima scelta resta giugno. Ma da qui a là , appuntamenti-vetrina di livello internazionale come l’anniversario del Trattato di Roma, a marzo, o il G7 di Taormina a fine maggio, sono come macigni sulla strada di una campagna elettorale.
Per non parlare della discussione sul sistema di voto: in teoria già  previsto in calendario per il 27 febbraio in Aula, secondo chi ne capisce di tempi del Parlamento non ci arriverà  mai per quella data.
Domani si riunirà  l’Ufficio di presidenza della Commissione Affari costituzionali, che per prima deve occuparsi dell’argomento. Dopo aver rinviato l’inizio della discussione all’indomani della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale, ora dovrebbe mettersi al lavoro: ma l’articolo 108 del regolamento di Montecitorio, che spiega proprio come lavorare sulle sentenze della Consulta, potrebbe rallentare i lavori.
Si tratta di ostacoli oggettivi, difficili da scansare anche per chi, come il segretario del Pd, vorrebbe correre verso il voto.
E allora, la seconda scelta potrebbe diventare l’autunno. Certo, però, in quel periodo cade la legge di bilancio, la più importante e delicata della vita dello Stato. Ma proprio per questo, e perchè l’Europa potrebbe chiederci nuovi sacrifici non concedendo più margini di flessibilità , costringendoci quindi a una norma lacrime e sangue, al Colle pensano che non sarebbe forse auspicabile lasciare questo compito a Gentiloni e alla sua squadra, un esecutivo di servizio nato per affrontare alcune emergenze e poi traghettare al voto.
Meglio sarebbe che se ne facesse carico un governo nuovo, pienamente legittimato a chiedere sforzi dal voto popolare: un esecutivo che, tra l’altro, potrebbe ancora godere in quella fase dello stimolo dato dalla Bce con il quantitative easing, destinato a finire con il 2018.
Resta un altro problema, individuato da Renzi nell’ipotesi del voto in autunno: a metà  settembre scatteranno le pensioni dei parlamentari e questo vorrebbe dire, come ripetono i suoi fedelissimi, «consegnare ai grillini la campagna elettorale già  fatta». Quanto il segretario sia preoccupato da quell’aspetto, lo ha rivelato un paio di settimane fa tramite una dichiarazione tv che ha fatto infuriare metà  dei suoi deputati. Ma, per questo, tra i renziani di stretta osservanza già  si è diffusa un’ipotesi: quella di intervenire sul regolamento che ordina la questione.
Cambiando la norma, magari facendo sì, avanza l’ipotesi un fedelissimo del segretario, che i contributi versati da ciascun eletto confluiscano nella propria posizione previdenziale, senza che il passaggio al Parlamento dia diritto a una pensione a parte.
«Non ci stiamo ancora lavorando, ma questo non vuol dire che non si potrebbe fare», conferma il capogruppo Pd Ettore Rosato.
A quel punto, i maggiori ostacoli al voto verso fine anno sarebbero rimossi.
E il capo dello Stato non avrebbe nulla da eccepire a sciogliere le Camere. Purchè, naturalmente, una legge elettorale omogenea abbia finalmente visto la luce.

Francesca Schianchi
(da “La Stampa”)

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RENZIANI CONTRO MINORANZA: ECCO LA GEOGRAFIA INTERNA AL PD

Febbraio 13th, 2017 Riccardo Fucile

MAPPA INTERNA IN MOVIMENTO, RENZI CONSERVA 100 PARLAMENTARI, MA HA PERSO APPEAL RISPETTO AL CONGRESSO DEL 2013

A poche ore dalla delicatissima riunione della direzione, la geografia del Pd si presenta con una miriade di gruppi e sottogruppi, che tagliano quelle che finora si sono definite “maggioranza renziana” e “minoranza”.
Dopo la sconfitta al referendum del 4 dicembre e la nascita del governo Gentiloni, le faglie che attraversano i democratici si sono moltiplicate.
Ad oggi, le stime indicano che attorno a Renzi, e dunque per il voto anticipato, ci sono i renziani ortodossi (circa 50 tra deputati e senatori), l’ala dei giovani turchi che fa riferimento a Matteo Orfini (circa 15 parlamentari) e una fetta dell’area di sinistra legata al ministro Maurizio Martina, divisa al suo interno visto che un esponente di punta di questa corrente, Cesare Damiano, punta invece a portare a compimento la legislatura sostenendo il governo.
E può contare sul sostegno di circa la metà  della sua area.
Tra i renziani doc, oltre a Luca Lotti, Lorenzo Guerini e Maria Elena Boschi, si possono contare i 37 firmatari di un documento di impronta iper-renziana contro l’aumento delle tasse promosso da Edoardo Fanucci.
Tra questi i deputati David Ermini, Alessia Rotta, Dario Parrini, Alessia Morani, Anna Ascani. Renziani a 24 carati anche i senatori Andrea Marcucci, Mauro Del Barba e Roberto Cociancich.
In totale, dunque, poco meno di un centinaio di parlamentari è schierato apertamente sulla linea del segretario, che si può sintetizzare in “congresso lampo per votare il prima possibile”.
Sul fronte opposto ci sono i bersaniani: una cinquantina tra Camera e Senato, guidati dall’ex segretario e da Roberto Speranza.
Il loro obiettivo è il voto nel 2018, con un congresso da svolgere in modo approfondito, con tempi lunghi. In caso di una brusca accelerazione verso le urne, non escludono una scissione e una lista insieme a Massimo D’Alema.
I nomi forti di questo gruppo sono Miguel Gotor, Federico Fornaro, Maurizio Migliavacca, Nico Stumpo e Davide Zoggia.
Nel mezzo, tra i due fronti che si contrappongono in modo più esplicito, un’ampia zona grigia che va dai renziani non ortodossi come Matteo Richetti Alfredo Bazoli, Luigi Lepri, Emma Fattorini e Laura Puppato (una ventina di deputati più alcuni senatori), al corpaccione che fa riferimento a Dario Franceschini, composto da circa 90 parlamentari, che conta esponenti come il capogruppo al Senato Luigi Zanda, il sottosegretario Gianclaudio Bressa, il senatore Franco Mirabelli e la vicepresidente della Camera Marina Sereni.
Con varie sfumature, queste aree nutrono forti perplessità  sulla corsa alle urne, e ritengono che il Pd debba sostenere fino in fondo il governo Gentiloni.
In quest’area fanno eccezione il capogruppo alla Camera Ettore Rosato e l’ex sindaco di Torino Piero Fassino, più vicini alla linea di Renzi.
Critici sulle urne anticipate l’area di sinistra che fa riferimento a Cesare Damiano e i “Turchi” vicini al ministro della Giustizia Andrea Orlando, che può contare su circa 35 parlamentari tra cui Daniele Marantelli, Anna Rossomando e i tredici senatori “turchi” che hanno firmato nei giorni scorsi un documento di sostegno al governo promosso da Vannino Chiti. Documento firmato in totale da 41 senatori, molti dell’area Franceschini.
Freddi sul congresso lampo e sulla corsa alle urne a giugno anche i 5 parlamentari molto vicini al premier Gentiloni (da Lorenza Bonaccorsi a Ermete Realacci, ma anche Roberto Giachetti è legato al premier), i 10 veltroniani doc (Verini, Causi, Morassut e altri), i 15 parlamentari dell’area Cuperlo, la decina di ex civatiani guidati dal senatore Sergio Lo Giudice e i 7-8 ex popolari vicini a Beppe Fioroni.
A questa mappa si aggiunge una serie di esponenti del Pd che non rientra in nessuna corrente: a partire dai governatori di Puglia e Toscana, Michele Emiliano ed Enrico Rossi, pronti a sfidare Renzi al prossimo congresso.
Ma anche senatori di varie aree culturali come Mario Tronti, Giancarlo Sangalli, Josefa Idem, Luigi Manconi, Sergio Zavoli.
E governatori come Nicola Zingaretti e Vincenzo De Luca, che hanno sostenuto il Sì al referendum ma che non si possono iscrivere tra i renziani doc.
Una geografia in continuo movimento, con in primo piano le crepe nella amplissima maggioranza che dal congresso del 2013 ha sostenuto la segreteria Renzi.

Andrea Carugati
(da “La Stampa”)

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BERDINI IMMAGINA COMPLOTTI, MA LA SUA RICOSTRUZIONE FA ACQUA

Febbraio 13th, 2017 Riccardo Fucile

UNA LETTERA AL FATTO PER FARSI RIAMMETTERE A CORTE, MA LE BUGIE SONO TROPPE

Oggi, a quanto pare, la Giunta Raggi deciderà  il destino di Paolo Berdini. E, sempre secondo i rumors, anche se la sindaca ancora non ha trovato un sostituto, Virginia Raggi sarebbe orientata a salutare chi ha ritenuto di poterla insultare sperando nell’anonimato.
Ciò nonostante, Berdini ha deciso oggi di affidare a una lunga lettera sul Fatto Quotidiano una sua sottospecie di autodifesa in cui evita e svicola su tutti i punti di criticità  che riguardano il suo operato nell’occasione del colloquio con Federico Capurso per inseguire una serie di fantasmi di complotti che spiegano, a suo dire, la sua dipartita.
Insomma, è proprio vero che Berdini è l’assessore più a 5 Stelle della Giunta Raggi. C’è di più: la lettera sarà  particolarmente adorata dalle parti di Virginia Raggi perchè dice che la «sistematica azione di recupero di legalità  e trasparenza non si è mai fermata, neppure quando sono state provocate le dimissioni di due persone d’eccellenza come Carla Raineri e Marcello Minenna.
Essi erano il trait d’union con l’azione del commissario prefettizio: averli sostituiti è stata l’origine di tutti i mali della giunta Raggi».
Ovvero, Berdini torna ad accusare il Raggio Magico dei Quattro Amici al Bar (Raggi, Frongia, Romeo, Marra) di aver cacciato la fonte di giustizia e legalità  che era presente in giunta (Raineri e Minenna) fornendo così ulteriore copertura politica ed ideologica alle tesi contenute negli esposti di Carla Raineri, i quali hanno già  provocato un’indagine sulla sindaca per la nomina di Salvatore Romeo.
Berdini conferma che la dipartita di Raineri e Minenna è stata provocata dai “centri di malaffare” (parole di Raineri) che i due stavano cercando di mettere in condizioni di non nuocere, in quella che non può non essere una durissima requisitoria nei confronti dell’operato della sindaca.
Poi passa alle sue personalissime ipotesi di complotto sull’audio pubblicato da La Stampa che lo ha messo definitivamente nei guai:
Non nascondo che in diversi momenti, soprattutto a partire da dicembre, ho provato solitudine. Per mesi sono stato l’assessore ‘contro’, anche nella riunione che si è tenuta martedì 7 febbraio nel mio assessorato. Che non si è conclusa come i fautori del progetto speravano. Il giorno seguente, guarda caso, viene pubblicata un’“intervista truffa”. Con una sapiente regia delle uscite un quotidiano pubblica prima una conversazione, poi una registrazione audio e infine un altro stralcio di quell’audio . Tutto riferito a fatti risalenti non al giorno prima, ma addirittura a venerdì 3 febbraio. Devo pensare che sia un caso? Perchè tenersela quattro giorni nel cassetto?
In primo luogo Berdini ipotizza che tutto nasca dalla riunione di martedì 7 febbraio con i proponenti del progetto Stadio della Roma, che non sarebbe andata come questi ultimi speravano. Purtroppo, e non è un caso, Berdini non si addentra in particolari e non spiega cosa sia successo nella riunione di così particolare.
E sapete perchè? Perchè in realtà  non è successo niente di diverso da quello che è successo negli ultimi mesi. Ovvero il proponente e il comune stanno cercando da mesi di trovare un accordo che preveda una riduzione delle cubature in cambio di minori opere pubbliche (sì, è davvero questa la materia del contendere: meno torri, meno lavori necessari per la città ) nella difficile mediazione che Roma Capitale sta portando avanti.
Cosa è successo di diverso nella riunione del 7 rispetto alle altre? Niente.
L’accordo ancora non si è trovato. Ma soprattutto, Berdini dimostra di essere un modestone assai scordarello, come si dice da queste parti.
Perchè l’assessore smemorato dimentica che il 5 febbraio un altro suo audio è finito sulla bocca di tutti. Ovvero quello pubblicato sul Messaggero e preso durante l’assemblea dell’VIII Municipio al termine della quale Berdini ha parlato con Capurso.
Il giorno dopo sui giornali escono articoli che raccontano che, proprio a proposito dello stadio, l’assessore Berdini ha pronunciato la seguente frase: «Non faremo sconti a nessuno. Come sullo stadio, eh? Cioè, l’hanno presa sui denti, ragazzi, si devono imparare!».
Di cosa parlava Berdini sostenendo che qualcuno l’aveva presa sui denti?
Prima di tutto guardiamo le date: la riunione va in scena venerdì, ovvero quattro giorni prima della famosa riunione del 7 febbraio che Berdini sostiene essere il motivo della pubblicazione dell’articolo sulla Stampa. Curioso, no?
Eppure l’articolo viene pubblicato lo stesso e quello sventurato di Berdini a quel punto, dimostrando tutta la sua lucidità , tutto il suo rispetto per le istituzioni e per il ruolo che ricopre e tutta la sua fiducia indefessa nell’opinione pubblica, non trova di meglio che dettare una nota stampa in cui smentisce di aver detto quello che ha detto:
“Ieri ho partecipato ad un’assemblea nel VIII Municipio dove si sono affrontati i temi dell’emergenza abitativa e degli sfratti. Non si è accennato minimamente all’argomento stadio della Roma nè quantomeno avrei pronunciato un’unica parola sul tema”. Così in una nota l’assessore all’Urbanistica di Roma Capitale, Paolo Berdini
A quel punto, e soltanto in quel momento, il Messaggero pubblica l’audio della frase pronunciata da Berdini: lo fa perchè l’assessore sta smentendo quello che è vero e sta dando del bugiardo al quotidiano. Berdini, quando l’audio viene pubblicato, fa lo gnorri: non fa più dichiarazioni sul tema e aspetta che passi la buriana, pur essendo dimostrato che nella circostanza ha ritenuto di dover prendere in giro l’opinione pubblica mentendo.
Mentre l’audio genera una comprensibile shitstorm sul profilo di Berdini, è utile ricordare due circostanze importanti.
La prima: il Messaggero ha fatto e continua a fare una campagna stampa contro lo stadio della Roma. Per ragioni comprensibili e legate alla proprietà , il quotidiano sullo stadio la pensa come Berdini.
E questo già  dovrebbe far scoppiare tutti a ridere sulle ipotesi complottistiche dell’assessore.
La seconda circostanza è più cogente: il Messaggero ha pubblicato l’audio dopo la ridicola smentita di Berdini, proprio per dimostrare che Berdini aveva detto il falso.
E veniamo al cuore del gombloddo dello Stadio che immagina Paolo Berdini. Secondo le sue parole è andata così:
Quel venerdì dopo 4 ore di teso confronto sull’emergenza abitativa un ragazzo mi si è presentato nella sala della conferenza come un militante cinquestelle e abbiamo parlato a lungo di alcune questioni romane. Solo dopo, all’esterno, sono caduto nella trappola con una registrazione illegale. È evidente che vogliono farmi fuori. Il vero punto è la colata di cemento che si vuole imporre a tutti i costi ad una città  già  martoriata, ridotta a un ammasso di periferie senza anima e senza quei requisiti di civiltà  che dovrebbero invece contraddistinguere la capitale d’Italia.
Ma che Berdini abbia un rapporto quantomeno fantasioso con la realtà  è ormai un dato di fatto.
L’assessore infatti furbescamente dimentica di raccontare come si è arrivati alla pubblicazione dell’audio.
Dopo la pubblicazione dell’intervista, infatti, Berdini si presenta a Rainews24 per riempire di insulti il giornalista della Stampa (“piccolo mascalzoncello“), che avrebbe a suo dire registrato di straforo un colloquio che lui aveva fatto con altri.
A quel punto Capurso e la Stampa confermano tutti i dettagli del colloquio e il giornalista interviene in due trasmissioni televisive per smentire le diffamazioni di Berdini.
Soltanto a parole, perchè il quotidiano evidentemente ritiene di non dover pubblicare l’audio (anche se, come tutti tranne i fan di “Intercettateci tutti”, ricordano, registrare una conversazione per proprio promemoria è perfettamente legale.
Fin qui, è la parola dell’uno contro la parola dell’altro. Berdini però insiste e nella nota stampa in cui annuncia le sue dimissioni poi respinte con riserva (qualunque cosa ciò voglia dire) continua allegramente a mentire all’opinione pubblica sostenendo che l’intervista è falsa perchè, ad esempio, nel testo Berdini dice di conoscere Paolo Ielo (uno dei due magistrati che indaga sulla Raggi) mentre lui smentisce di averlo mai conosciuto.
A quel punto, e soltanto dopo l’ennesima intemerata di Berdini, la Stampa pubblica l’audio che smentisce punto per punto le bugie che l’assessore sta rifilando all’opinione pubblica.
Nella registrazione, ad esempio si sente distintamente Berdini che dice di conoscere Ielo; ma c’è anche altro: “Mica è finita la musica, dopo ‘sta cosa de l’Espresso tra tre giorni ne esce un’altra… No guarda, è una situazione che trovo esplosiva”. E ancora: “Tra la Raggi e Romeo c’è un rapporto [non udibile] Questo io l’ho scoperto il secondo o terzo giorno… va bene, io sono un uomo generoso, ti porto a letto… Questa donna che dice che lei non sapeva niente (delle polizze)? Ma a chi c…o la racconta? Per fortuna che non c’è nessun reato… E lei era pure già  separata… vada a letto con chi c… gli pare!”. In alcune parti il colloquio è incomprensibile. In altre Berdini si sente benissimo: «Se lei si fidasse delle persone giuste… lei s’è messa ‘sta corte dei miracoli…mettiti il meglio del meglio di Roma! Invece s’è messo una banda». «Otto ore di interrogatorio! Che c…o! Cioè io sono amico della magistratura però… Perchè io poi lo so che questi quanno te pizzicano… Paolo Ielo è una persona bravissima, io lo conosco personalmente».
Prima della fine dell’audio si sente Capurso dire che è un collaboratore (precario) della Stampa. È quindi confermato: Berdini sapeva di stare parlando con un giornalista. E soprattutto, la Stampa ha fatto la stessa cosa del Messaggero: ha pubblicato l’audio quando Berdini ha provato a mentire sulle reali circostanze del colloquio, accusando gli altri di dire bugie.
E mica finisce qui. Perchè quando Berdini rilascia un’altra intervista, stavolta a Giovanna Vitale di Repubblica, nella quale continua imperterrito a mentire, la Stampa pubblica un altro stralcio dell’audio che è forse il più lurido e disonorevole di tutti:
Berdini aveva continuato a sostenere che il colloquio gli fosse stato in qualche modo carpito e a dire che soltanto alla fine della discussione Capurso gli aveva detto di essere un giornalista. In questo video l’assessore parla del presunto rapporto tra Raggi e Romeo (“sono amanti”) ma insieme dice al giornalista di riportare la voce come anonima. In una parola Berdini, come si sente dall’audio, ci tiene a diffamare la sindaca riferendo quella che è una sua impressione — come precisato prima nel colloquio — ma vuole farlo come anonimo, senza comparire in volto e senza prendersi la responsabilità  di quello che sostiene.
Un atteggiamento che già  di per sè qualifica l’uomo, ma che lo rende anche un pericolo pubblico come assessore.
Basta quindi guardare alla temporalità  dei fatti per capire che l’ipotesi di complotto di Berdini non sta in piedi: la registrazione non era illegale, è stata pubblicata dopo l’articolo e soltanto in reazione alle moltissime bugie che l’assessore ha ritenuto di raccontare all’opinione pubblica, dimostrando così quanto vale la sua parola.
Sarebbe appena il caso di accennare a Berdini che se lui si mette a raccontare diffamazioni nei confronti della sindaca al primo che passa già  dimostra di non essere in grado di ricoprire alcun ruolo pubblico. Ma il punto non è questo. Il punto è che la Capitale d’Italia non si merita un assessore bugiardo.

(da “NextQuotidiano”)

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MACRON, IL “MOZART DELLA FINANZA”, GIOCA LA CARTA DELLA TRASPARENZA E RENDE PUBBLICI I SUOI FINANZIATORI

Febbraio 13th, 2017 Riccardo Fucile

RACCOLTI 5 MILIONI DI EURO TRA SEMPLICI CITTADINI, MA ORA ANCHE GLI INVESTITORI SCOMMETTONO SU DI LUI

Emmanuel Macron gioca la carta della trasparenza. Mentre Franà§ois Fillon e Marine Le Pen si ritrovano a dover fare i conti con una serie di scandali legati a impieghi fittizi e rimborsi illeciti, l’ex ministro dell’economia sceglie la via della chiarezza, cercando di dissipare i tanti dubbi nati sul finanziamento della sua campagna elettorale.
Le Journal de Dimanche ha pubblicato un resoconto sulla situazione economica di En Marche!, il movimento lanciato lo scorso aprile per sostenere la candidatura di Macron alle prossime presidenziali.
Secondo quanto riportato dal settimanale francese, il mini-partito avrebbe raccolto fino ad oggi 5,1 milioni di euro: una cifra consistente, anche se ancora lontana dai 17 milioni previsti per il finanziamento dell’intera campagna.
Gran parte della somma proverrebbe dalle donazioni spontanee fatte da semplici cittadini attraverso il sito, mentre solamente il 3% supererebbe i 4mila euro.
A differenza dei suoi avversari, Macron non può beneficiare di nessun sovvenzionamento pubblico, visto che non ha un vero partito politico alle spalle.
Per raccogliere i fondi necessari alla sua campagna, il leader di En Marche! è andato a pescare nella sua vecchia agenda, risalente al periodo compreso tra il 2008 e il 2012, quando lavorava per la banca d’affari Rotschild.
I suoi contatti nel mondo della finanza internazionale gli hanno permesso di tessere una fitta trama di conoscenze su cui poter fare affidamento.
Così, “il Mozart della finanza” (soprannome affibbiatogli durante il periodo passato da Rotschild) ha orchestrato un progetto di fundraising simile a quelli utilizzati per le campagne elettorali statunitensi, utilizzando il suo movimento come una sorta di startup da sviluppare attraverso la partecipazione di diversi finanziatori.
Per lanciare il suo progetto, in queste ultime settimane Macron ha tenuto una serie di riunioni tra New York, Bruxelles, Berlino e Londra, dove il candidato trentottenne ha incontrato diversi investitori stranieri che, seppur nell’anonimato, si sono mostrati pronti a sostenerlo economicamente.
Proprio nella capitale inglese Macron può contare su uno degli endorsement più importanti: quello di Benoit d’Angelin, ex banchiere di Lehmann Brothers, che sta gestendo la raccolta fondi nella comunità  dei francesi espatriati più influenti della City.
Con i suoi agganci nel settore bancario franco-inglese, D’Angelin potrà  assicurare il sostegno di una buona fetta di investitori oltremanica, interessati a questo nuovo fenomeno politico.
Ma gli appoggi di Macron non si limitano solamente a finanziatori esteri.
A Parigi il candidato all’Eliseo ha costruito una squadra composta da figure chiave del mondo economico e bancario francese.
Primo fra tutti Christian Dargnat, ex direttore generale della BNP Paribas Asset Management e attuale presidente dell’associazione di finanziamento di En Marche!. Proprio Dargnat sembra essere la testa di ponte utilizzata da Macron per conquistare i finanziatori. Grazie all’esperienza maturata nel campo degli investimenti bancari, questo ex banchiere è il tramite tra il candidato all’Eliseo e i potenziali sostenitori.
A Dargnat si affianca poi Bernard Moraud, un altro banchiere specializzato nel settore delle telecomunicazioni con un passato alla Morgan Stanley che oggi copre il ruolo di consigliere speciale.
In questo modo Macron sta ipotecando la fiducia dei più importanti investitori, che sembrano fidarsi di questa nuova figura politica, lontana dal vecchio establishment istituzionale e pronta a sostenere un’economia ultra-liberale che promette di rompere quei “blocchi” statali colpevoli di soffocare la crescita economica del paese.
“nessun centesimo del budget del ministero è stato mai utilizzato per En Marche!”.
Per il momento la strategia di Macron si sta rivelando vincente.
Secondo il portavoce del movimento, Sylvain Fort, “bisognerà  trovare tra i 2 e i 3 milioni di euro entro metà  aprile”. Un obiettivo facilmente realizzabile visti i traguardi raggiunti fino ad oggi.

(da “Huffingtonpost”)

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