Gennaio 10th, 2023 Riccardo Fucile
DIO, PATRIA E BERGOGLIO: ALL’UDIENZA PRIVATA CON PAPA FRANCESCO IN VATICANO, GIORGIA MELONI HA PORTATO CON SÉ IL COMPAGNO, ANDREA GIAMBRUNO, E LA FIGLIA, GINEVRA
In Vaticano con la famiglia per l’udienza privata con Papa Francesco.
La premier Giorgia Meloni, puntuale alle 10, è arrivata al Palazzo apostolico insieme al compagno Andrea Giambruno e alla figlia Ginevra. Vestita in tailleur nero, giacca e pantaloni, il compagno in completo nero, con il cappotto in mano, e la figlia con un cappottino scuro e un quaderno in mano.
Ad accoglierli nel Cortile di San Damaso, il reggente della Casa pontificia, monsignor Leonardo Sapienza, i gentiluomini di Sua Santità e il picchetto d’onore della Guardia svizzera pontificia.
È il primo incontro ufficiale con il pontefice da quando si è formato il governo. Pochi giorni fa, alla fine dei funerali di Benedetto XVI presieduti da Bergoglio, la premier, insieme al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha potuto salutare brevemente Francesco, e le foto mostrano una premier raggiante e un Pontefice benevolmente sorridente.
(da agenzie)
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Gennaio 10th, 2023 Riccardo Fucile
UNA STUDENTESSA DI 19 ANNI RISCHIA 5 ANNI DI CARCERE IN RUSSIA PER AVER CONDIVISO POST CONTRO LA GUERRA
Ne hanno discusso per bene su una chat del dipartimento di Storia. Poi hanno deciso: meglio denunciare Olesya direttamente all’Fsb, il servizio di sicurezza erede del Kgb sovietico, piuttosto che alla semplice polizia. “La delazione è dovere, per un patriota”, ha scritto uno dei ragazzi nella chat per fugare ogni dubbio sulla moralità dell’iniziativa.
Olesya Krivtsova, 19 anni, allieva della scuola di scienze sociali dell’Università federale dell’Artico (Narfu) ad Arkhangelsk, nel nord della Russia, è adesso agli arresti domiciliari, con divieto assoluto di comunicare.
È accusata di “screditare le forze armate” e di “giustificare il terrorismo”, per alcuni post pacifisti e per la condivisione di un articolo sull’attacco al ponte di Kerch in Crimea. Il 13 febbraio la corte deciderà se prolungare la pena e se fargliela scontare in carcere.
Solo per il primo capo di imputazione, rischia da tre a cinque anni. Il caso dimostra come sia sempre più rischioso esprimere critiche anche indirette alla “operazione militare speciale” in Ucraina. Dimostra anche quanto scuole e università siano impregnate di ideologia e conformismo
“Il bello è che Olesya non è nemmeno un’attivista”, dice a Fanpage.it il suo avvocato, Alexei Kychin: “È solo una normale studentessa non indifferente alla situazione provocata dalla guerra. Ma non ha mai fatto politica”.
L’Fsb, comunque, appena ricevuta la denuncia non si è fatto pregare. L’irruzione nell’appartamento della giovane è avvenuta a colpi di maglio: “un saluto da parte dei nostri amici di Wagner”, hanno urlato i “cekisti” dopo aver fracassato la porta e spinto faccia a terra la “sospettata”. Il riferimento è al metodo con cui i mercenari della Wagner massacrano i “traditori”: a colpi di maglio, appunto.
“Gli agenti sono stati estremamente duri, e la mia assistita ha subìto una forte pressione psicologica”, spiega l’avvocato Kichin riferendo il racconto di Olesya. “La situazione per chi è colpito da questo genere di accuse si fa sempre più difficile, e i processi per reati di opinione si stanno moltiplicando”, nota Kichin. Tra procedimenti in corso e sentenze già raggiunte siamo a quota 400, secondo dati dell’organizzazione Ovd-Info che monitora la persecuzione dei dissidenti in Russia.
Lacrime e rabbia
In tribunale la ragazza ha pianto, quando il procuratore ha chiesto la galera. Per ora il suo legale é riuscito a evitargliela. Ma una multa ricevuta in passato a causa di un volantino sul ruolo eroico dell’Ucraina nella guerra contro Hitler potrebbe finire per costarle davvero cara.
“Fino a poco tempo fa, tutto avrebbe potuto risolversi con un ulteriore procedimento amministrativo”, spiega l’avvocato. “Non più. Le norme repressive sono aumentate e si sono inasprite. Un nuovo articolo del codice penale (il 280.3, ndr) prevede pene pesanti in caso di recidiva nello screditare le forze armate russe”.
Paradossalmente, un monumento nei Giardini di Alessandro, sotto le mura del Cremlino, ricorda a tutti i russi l’eroismo di Kyiv contro il nazismo nella seconda guerra mondiale. Proprio come faceva il volantino di Olesya. Ma la realtà non è mai a senso unico, in Russia. “Screditare le forze armate” oggi significa semplicemente dire cose diverse dalla versione ufficiale del Cremlino. E secondo la versione ufficiale, l’Ucraina è il nazismo. Chi se ne frega del monumento. “Avete detto solo falsità”, ha chiosato l’imputata alla fine dell’udienza. Non sappiamo se si riferisse solo al suo processo o se parlasse più in generale della narrativa governativa sul conflitto in corso e sulla Storia.
Conformisti aggressivi
Di certo, la rabbia per l’ingiustizia ha trasformato le lacrime in coraggio. Asciugatasi gli occhi, in aula Olesya ha ribattuto alle accuse. Ha sbugiardato un compagno di università che diceva di esser stato da lei minacciato e un altro che sosteneva stesse scappando dalla Russia, dice l’avvocato. Ma anche se il match non è chiuso e qualche round l’ha vinto, tutto appare contro di lei. Compreso il “cacciatore di traditori” Timur Bulatov: famoso perché studia i social per denunciare i “nemici del popolo” — ovvero chi osa deviare dalla linea del Cremlino — in passato ha fatto arrestare l’attivista Lgbt Yulia Tsvetkova e ha incastrato altre persone. Adesso, sulla sua pagina di Vkontakte, il Facebook russo, si assume il “merito” di aver denunciato anche Olesya Krivtsova, ben prima dei pur solerti compagni di classe.
Né l’avvocato Kychin né il ministero dell’Interno — contattato dal sito di notizie 29.Ru — hanno confermato la circostanza. Bulatov è un “conformista aggressivo”, secondo una definizione data dal politologo Andrei Kolesnikov a un tipo sociale sempre più diffuso in Russia. Sono i fondamentalisti del regime, che non hanno bisogno di input dall’alto per scatenarsi contro chi ritengono indegno e spesso fanno più danni di quanti riescano a farne le stesse autorità. Si tratta di gente che ha preso molto sul serio l’appello a “sputar via i traditori come moscerini entrasti in bocca” fatto da Putin una ventina di giorni dopo l’invasione dell’Ucraina.
Ideologia universitaria
Se Bulatov in questa vicenda potrebbe essere solo un millantatore, è invece certamente agli atti del processo un rapporto del direttore del corso universitario di Olesya, Ayrtom Makulin. “Molto negativo nei confronti della mia cliente”, riferisce Kychin. Makulin recentemente ha espulso dall’università Darya Poryadina, giornalista della testata indipendente Sota, specializzata nel documentare le proteste contro Putin. Nel marzo scorso è intervenuto al convegno “Patriottismo, legge e ordine”, organizzato dal partito del presidente, Russia Unita, per “consolidare le forze sane della società di fronte alle minacce dell’Occidente”. Insomma, si capisce bene da che parte sta. D’altra parte, nella corsa per dare un’ideologia alla Russia della “operazione speciale”, il regime non ha certo dimenticato l’università: recentemente è stato istituito per tutti gli studenti di ogni facoltà un corso obbligatorio che comprende lezioni di Storia nella rivisitazione “patriottica” putiniana, altre sui valori spirituali e morali tradizionali e una parte su “La Russia e il mondo”, per giustificare l’isolazionismo e la contrapposizione all’Occidente. La visione tende a una mobilitazione della società a sostegno del sovrano e delegittima chiunque non si conformi all’idea nazionale e ai valori da essa proposti. Questo son diventati gli atenei di Putin. Non stupisce che nelle aule il clima intorno a persone “non indifferenti” come Olesya si stia facendo cupo.
Il corso di ideologia per le università è stato approvato un paio di mesi fa. Prima, l’indottrinamento si fermava alle scuole. Con un’accelerazione brusca, avvenuta nel maggio scorso in seguito al forum nazionale intitolato “Syla b pravde”, ovvero “il potere è nella verità”: una battuta a tutti nota in Russia, tratta dalla pellicola cult “Brat-2”, che idealizza l’eterna lotta tra “noi giusti” e “l’Occidente ostile”. Ma il potere in Russia non è nella verità. È nella propaganda. E come deciso nel corso del forum, in quest’anno scolastico dalle elementari in su ogni lunedì le lezioni si aprono con l’inno nazionale cantato in coro e l’alzabandiera. Alle materie consuete si aggiungono ore di Storia patria, versione rivista e corretta dal Cremlino. Nei prossimi mesi, poi, si introdurranno gradualmente corsi di addestramento militare, ha detto alla Tass il ministro dell’Educazione Sergey Kravtsov. I moduli dovrebbero essere completamente operativi dal prossimo settembre. Il capo di Stato maggiore Valery Gerasimov li vorrebbe di 140 ore per chi ha tra i 15 e i 17 anni. Così Vladimir Putin avrà i suoi “balilla”. Che servono poco per le guerre ma parecchio per l’indottrinamento della società. Servono a far aumentare il numero dei conformisti. E quindi le delazioni. E i guai per Olesya Krivtsova e tanti altri. La gente denuncerà i “traditori” perché avrà imparato a scuola che è normale farlo. In fondo anche il nostro Marcello Clerici era spinto alle sue azioni da un desiderio di normalità. Poi un giorno il regime cadrà. Anche in Russia. Olesya e gli altri saranno al sicuro. E, come Marcello Clerici alla fine del film, i conformisti più o meno aggressivi di oggi, gridando, attribuiranno ad altri gli orrori da loro stessi commessi. Chissà se i russi e il mondo gli crederanno.
(da Fanpage)
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Gennaio 10th, 2023 Riccardo Fucile
COSA SAPEVA DELL’IMMINENTE ASSALTO ALLE ISTITUZIONI? QUANTO MENO, COME DONALD, L’AVEVA INCORAGGIATO, E ORA TEME DI ESSERE INCRIMINATO ED ESTRADATO
Dal suo rifugio in Florida, Jair Bolsonaro prende le distanze
dall’assalto alle istituzioni di Brasilia, anche perché teme di essere incriminato ed estradato.
Il presidente Joe Biden però si unisce al collega messicano Andrés Manuel López Obrador e a quello canadese Justin Trudeau – e in serata sente anche Lula e lo invita a Washington per inizio febbraio – per condannare l’attacco che ricorda quello trumpista del 6 gennaio 2021, mentre diversi parlamentari democratici gli chiedono di rimandare a casa lo sgradito ospite.
Bolsonaro – che ieri è stato ricoverato all’ospedale AdventHealth Celebration, per forti dolori addominali – era volato ad Orlando prima della scadenza del mandato, il 30 dicembre, di sicuro per non partecipare all’inaugurazione del rivale Lula, come aveva fatto Donald Trump con Biden.
I più maliziosi però sospettano che sapesse dell’imminente assalto alle istituzioni, che come Donald aveva quanto meno incoraggiato, se non organizzato, e voleva trovarsi fuori dal Paese quando sarebbe avvenuto per poter negare ogni responsabilità. Quindi si è rifugiato nella casa di José Aldo, un ex campione di arti marziali dell’Ultimate Fighting Championship, suo sostenitore.
Prima di partire aveva lanciato segnali inquietanti: «Abbiamo perso una battaglia, ma non perderemo la guerra. Il mondo non finisce il primo gennaio». Quindi aveva detto che stava «considerando le alternative ».
Una volta arrivato ad Orlando ha evitato di andare alla festa di capodanno di Trump a Mar-a-Lago, ma il figlio Eduardo ha incontrato l’ex capo della Casa Bianca. Jair invece ha fatto qualche selfie con i sostenitori indossando una maglia della nazionale americana, e si è lasciato fotografare mentre mangiava in un fast food della catena Kentucky Fried Chicken.
Dopo l’assalto a Brasilia, il “Trump dei Tropici” ha commentato così via Twitter: «Le manifestazioni pacifiche, nel rispetto della legge, fanno parte della democrazia. Tuttavia i saccheggi e le invasioni di edifici pubblici, tipo quelli avvenuti oggi, così come quelli praticati dalla sinistra nel 2013 e nel 2017, sono fuori dalle regole». Poi ha sottolineato di aver sempre rispettato la Costituzione, durante il suo mandato. Il figlio Eduardo, raggiunto brevemente al telefono, ha detto che non c’è altro da aggiungere: «La posizione è quella che ha chiaramente espresso».
Anche prima dell’assalto a Brasilia, il giudice della Corte Suprema Alexandre de Moraes aveva aperto quattro inchieste su Bolsonaro, per aver usato la polizia federale allo scopo di proteggere i figli, diffuso falsità sulle elezioni, gestito troll per la disinformazione e usato gli uffici presidenziali per farlo.
Ora rischia di essere indagato per l’attacco al Parlamento, ma anche prima poteva essere incriminato, e quindi forse era scappato per evitarlo. Se il Brasile domandasse l’estradizione, non è sicuro che gli Usa la concederebbero, perché ci sono di mezzo reati politici, e comunque richiederebbe tempo. È probabile quindi che tutti preferiscano aspettare il suo rientro in patria, per poi eventualmente incriminarlo. Ma Bolsonaro lascerà mai la Florida di sua volontà?
(da Repubblica)
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Gennaio 10th, 2023 Riccardo Fucile
DALLE BRAGHE VERDI ALLA SECESSIONE: I RALLY, I MOLARI, LA FOLGORAZIONE PER BOSSI E LA RAZZA PADANA FINO AL DIMENTICATO BERLUSCONI “MAFIOSO”
Nato citrullo di Padania, Roberto Calderoli s’è fatto col tempo statista. Portento paragonabile a quello dell’Evoluzione che ha trasformato il pitecantropo di Giava che governava il fuoco, nel ragioniere con la Panda che oggi vive lungo le pianure del Raccordo Anulare.
Per farlo, la Natura ha impiegato mezzo milione di anni. Nel caso di Calderoli ne sono bastati 30 di legislature, tre ministeri, due matrimoni, il primo di rito celtico con il braciere, il sidro e Marco Formentini, all’epoca druido di Milano. Il secondo con una principessa degli spumanti, dinastia Gancia, con la sola scenografia di quattro cani lupo fuori dalla trattoria stellata di Cherasco, dove arrostivano il pesce e le rispettive promesse sentimentali.
Ai tempi del Dio Po, l’antico Calderoli credeva per davvero alla Sacra Ampolla e al suo sacerdote in canottiera, il Bossi Umberto da Gemonio. Oggi che si è emancipato in tutto, tranne che nel vestire braghe e cravatte verdi, discetta di valori costituzionali e di statuti delle Regioni italiane alle quali – con la proposta della Riforma delle autonomie differenziate – vorrebbe imprimere il tatuaggio della piccola secessione, dopo avere abbandonato quella grande, suddividendo in parti diseguali il bottino fiscale raccolto ogni anno da Roma ladrona, un migliaio di miliardi di euro all’ingrosso.
Da consegnare alle singole Regioni secondo la loro spesa storica. Il che vorrebbe dire consolidare i privilegi delle più ricche a scapito delle più povere con perequazioni ancora da studiare.
L’importante è farla in fretta, visto che i governatori di Veneto e Lombardia scalpitano insieme con il loro cospicuo elettorato legaiolo. Indizio di un interesse non del tutto compatibile con il dovere costituzionale dell’unità e dell’uguaglianza dei cittadini, ma chi se ne importa: il vero scalpo di guerra preteso dalla Lega declinante di Matteo Salvini è proprio la diseguaglianza del Nord dai pelandroni del Sud, perennemente assistiti.
Avventurosa è stata la sua evoluzione. Calderoli nasce nel mese (del pesce) d’aprile, anno 1956 a Bergamo, provincia di Bergamo, primo slogan: “Bergamo nazione, tutto il resto Meridione”. Nasce predestinato a un’altra storia professionale: figlio, nipote e fratello di odontotecnici e dentisti. Si appassiona anche lui ai molari cariati dalla masticazione. E mentre sfascia automobili nei rally d’Appennino, nel 1982 si laurea chirurgo maxillofacciale.
L’incontro fatale con Bossi “un tizio che veniva da Varese e diceva: passerò alla Storia” – avviene durante la festa più adatta, quella del Carnevale. La maschera secessionista gli va a pennello, anche lui predica la supremazia della “razza padana, razza pura, razza eletta”. Lo fa nel primo comizio della sua vita in bergamasco stretto. Gli credono. Entra in Consiglio comunale nel 1990. Due anni dopo è in Parlamento.
L’armamentario che maneggia è sempre il peggiore: rastrellamento ed espulsione degli albanesi, castrazione con forbici per i pedofili, fuoco sugli scafisti. Ce l’ha con “i nazisti rossi”. Con “la civiltà gay che sta trasformando la Padania in un ricettacolo di culattoni”. Ma specialmente con Berlusconi, “il mafioso di Arcore”, “il re dei debiti”, “l’uomo della P2”, “l’assassino dell’economia italiana”.
Ma quando Berlusconi ripiana i debiti della Lega, cambia musica. Con tutta la nomenclatura entra nella stanza dei bottoni. Bossi diventa ministro delle Riforme, anno 2001, semplificate ogni anno nei raduni di Pontida e Venezia con l’ostensione del Tricolore: “Lo uso per pulirmi il culo!”.
Calderoli ascende tra i velluti dei senatori e si mette a studiare le geometrie dei regolamenti, come fossero le arcate dentali. Alle quali imprime la sua nuova scienza che consiste nel creare danni parlamentari ove possibile, moltiplicare gli inciampi, fino al capolavoro degli 82 milioni di emendamenti presentati per rallentare la discussione sulla legge elettorale, il cosiddetto Italicum: “Ho un programmino che da un testo base è in grado di comporre centinaia di migliaia di varianti”.
A forza di applausi e risate dal circo mediatico, si avventura con bermuda, polenta e grappa in una baita di Lorenzago del Cadore a scrivere in latinorum la Riforma Federalista, anno 2004, bruciata a stretto giro da un apposito referendum.
Non contento si incarica di redigere la nuova legge elettorale, battezzandola da sé “una porcata”, in una celebre intervista a Matrix, che tra veti e contro-veti è rimasta intoccata per tre legislature, fino a quando la Corte costituzionale l’ha destinata alle mandibole della trita-documenti.
Di guai ne ha combinati parecchi. Celebre la sua passeggiata con maialino su un terreno che il Comune di Lodi voleva destinare alla costruzione di una moschea, rendendolo infetto.
Addirittura memorabile la maglietta anti Maometto che in veste ministeriale esibì al Tg1, scatenando fuochi di guerriglia in Libia. Provò a rimediare con le scuse. Disse al Corriere che non aveva dormito “per una intera notte”, significando di avere dormito benissimo tutte le altre, pazienza per gli undici morti durante gli scontri davanti al nostro consolato di Bengasi.
Una mezza dozzina di volte ha avuto grattacapi dalla magistratura. A Verona per le Guardie Padane. A Milano per gli scontri in via Bellerio, sede della Lega. A Lodi per il fallimento della banca leghista, la Credieuronord e i finanziamenti ricevuto dalla Popolare di Lodi, la banca di Giuseppe Fiorani. A Napoli, quando gli uomini del Capitano Ultimo indagarono sui conti della Lega, i diamanti comprati in Tanzania dal tesoriere Francesco Belsito, i soldi girati in nero a “The Family”, cioè a Bossi, i 49 milioni di euro incassati con i rimborsi elettorali e spariti nel nulla. E poi a Bergamo per avere insultato la ministra di colore Cécile Kyenge: “Amo, com’è noto, gli animali, gli orsi, i lupi, ma quando vedo la ministra non posso non pensare alle sembianze di un orango”: 18 mesi di condanna per diffamazione con l’aggravante dell’odio razziale.
“Non avrei scommesso un euro su di me”, dichiarò quando diventò per la prima volta ministro, anno 2004. Da allora è ancora lì. A dimostrazione che al netto del suo portento evolutivo, i veri citrulli siamo noi.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Gennaio 10th, 2023 Riccardo Fucile
I RETROSCENA DICONO CHE GANSWEIN E’ AMAREGGIATO PER GLI STRALCI FUORI CONTESTO DEL SUO LIBRO SU RATZINGER
Ieri Papa Francesco ha convocato per un’udienza privata padre
Georg Gänswein, già segretario particolare di Joseph Ratzinger. Il faccia a faccia è nato dopo le anticipazioni del libro del monsignore “Nient’altro che la verità”.
E dopo le allusioni sul no alla messa in latino che spezzo il cuore a Benedetto XVI e gli appelli a rimandare (o cancellare) la pubblicazione. Cosa si sono detti padre Georg e Jorge Mario Bergoglio?
I retroscena dei quotidiani dicono che Gänswein è «amareggiato» per gli stralci «fuori contesto» del libro pubblicati dai giornali. E che è arrivato ad una convinzione: «Adesso devo stare zitto». Mentre Francesco sarebbe «più rattristato che irritato».
L’ordine del silenzio
Secondo il Papa le uscite di Gänswein hanno trasformato un momento di lutto (quello per la morte di Ratzinger) in un rinfocolare della guerra tra fazioni interna al Vaticano.
Una circostanza testimoniata dalle tante interviste rilasciate dai vescovi in questi giorni. In cui si parla di rischi di scisma e delle sue dimissioni. Per questo Bergoglio se l’è presa con l’«arma letale» del chiacchiericcio nei giorni scorsi. Mentre il futuro stesso di Padre Georg è un mistero.
Di certo, spiega oggi Repubblica, lascerà il monastero Mater Ecclesiae nel quale ha convissuto con Benedetto.
L’ipotesi che rientri in Germania è improbabile. Non verrebbe accolto a braccia aperte dal clero tedesco. Ma secondo il quotidiano circola in Vaticano l’ipotesi di dargli un incarico da nunzio apostolico in Lichtenstein.
Ma alla fine Gänswein potrebbe anche rimanere a Roma. Con un incarico di insegnamento in un’università pontificia. O come archivista. Oppure ancora rimanere a disposizione del Papa.
(da Open)
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Gennaio 10th, 2023 Riccardo Fucile
OGGI UDIENZA PER L’ATTIVISTA SIMONE FICICCHIA
Oggi il Tribunale di Milano deciderà se il portavoce di Ultima Generazione Simone Ficicchia verrà sottoposto a sorveglianza speciale. Il 20enne è indagato dalla Questura di Pavia per le diverse azioni di disobbedienza civile non violenta contro la crisi climatica a cui ha preso parte da febbraio ad oggi.
Le misure di prevenzione che potrebbero essergli applicate sono diverse: dalla sorveglianza con l’obiettivo di prevenire altre iniziative considerate criminose fino all’obbligo di non allontanarsi dal comune di residenza per un tempo che va da uno a cinque anni.
Difeso dall’avvocato Gilberto Pagani, Ficicchia ha già fatto sapere in questi giorni che l’esito di quest’udienza non fermerà le manifestazioni di dissenso di Ultima Generazione.
«Siamo consapevoli di ciò che facciamo e ce ne assumiamo la responsabilità, agendo pacificamente e a viso scoperto, sempre», ha dichiarato l’attivista.
«La repressione che stiamo subendo è, però, sproporzionata rispetto alle azioni non violente che portiamo avanti», ha aggiunto. E gli attivisti di Ultima Generazione hanno preso ancora una volta posizione per ribadire le loro richieste, ed esprimere solidarietà a Simone, organizzando un presidio di fronte al Tribunale. «Siamo in disaccordo con questo processo perché le persone veramente pericolose sono i politici, le persone al governo, che spendono i soldi dei cittadini in combustibili fossibili », dichiara Alice, attivista di Ultima Generazione, a Open.
Chi è Simone Ficicchia
Simone Ficicchia è un attivista di 20 anni residente a Voghera, in provincia di Pavia, per cui la Questura di Pavia ha chiesto la sorveglianza speciale per «pericolosità sociale» con obbligo di dimora nel Comune dove risiede.
Nelle 18 pagine del fascicolo della Questura sono circa una trentina i procedimenti aperti a suo carico per le diverse azioni svolte in questi mesi, tra blocchi del traffico e imbrattamenti. E proprio uno di questi blocchi gli è costato il foglio di via – una misura che prevede per un periodo non superiore a tre anni l’allontanamento da un Comune – da Roma.
Ciononostante, nei giorni scorsi si è diretto nella capitale per un’intervista televisiva, ma è stato bloccato in albergo dalle autorità e accompagnato a riprendere il treno.
Per la Questura di Pavia, l’attivista di Ultima Generazione «emerge come esponente di punta di tale organizzazione, risultando sempre in prima linea nelle azioni delittuose perpetrate da tale associazione». E risultano «impressionanti gli episodi di cui si è reso protagonista nell’anno in corso e le numerosissime violazioni di legge». Oltre a diversi fogli via emessi da più città, al 20enne sono stati contestati reati che vanno dall’interruzione di pubblico servizio, al danneggiamento e imbrattamento fino alla resistenza a pubblico ufficiale.
«Non so se potrò continuare»
«È la prima volta che viene applicata una misura del genere all’interno movimento del clima. Non so se potrò continuare, se queste misure me lo permetteranno», dichiara oggi Ficicchia dopo essersi messo simbolicamente dietro lo striscione con gli altri attivisti.
«Il governo è uscito allo scoperto richiamando norme al limite della costituzionalità perché non trovava altri modi per fermarci», ha aggiunto. Ficicchia si è sempre detto consapevole delle conseguenze legali a suo carico, ma dopo esser stato informato lo scorso dicembre del fascicolo della Questura di Pavia si è detto sorpreso del livello di «tentativo di repressione» messo in atto nei suoi confronti.
«Andando a leggere l’impianto accusatorio – ha denunciato Simone con un video social nei giorni scorsi – ho trovato un elenco dei miei comportamenti e delle mie frequentazioni e non pensavo potessero arrivare a un livello di invasione del genere».
Nella citazione del Tribunale di Milano si parla del 20enne come di un «soggetto socialmente pericoloso denunciato e condannato più volte». Ma – spiega Simone – «questo elemento non corrisponde al vero: al momento non è presente alcun processo in corso a me riferito e mai c’è stata alcuna condanna. E la resistenza a pubblico ufficiale di cui si parla è, in verità, la resistenza passiva non violenta che adottiamo sempre». Secondo Ficicchia, quest’udienza è stato un tentativo di «intimidazione»: «Vogliono vedere se aumentando la repressione su una persona, gli altri decidono così di fare un passo indietro. Ma questo non succederà».
Il legale: «Il processo? Un atto politico»
Secondo l’avvocato che difende in aula il 20enne si tratta di un atto politico. «Assimilare questi cittadini a mafiosi, terroristi e malavitosi è un insulto all’intelligenza, alla verità e alla decenza. Questa proposta di misura di prevenzione è un atto politico che proviene direttamente da una questura, cioè dal ministero degli Interni e dal Governo», commenta l’avvocato Pagani. «Ci aspettiamo giustizia – ha detto oggi fuori dall’aula – perché questo è un provvedimento che vuole colpire i diritti di chi manifesta. Lo Stato e il potere non vogliono prendere una soluzione contro il cambiamento climatico e Simone fa in modo di portare questo tema all’attenzione pubblica ed è ingiusto che venga colpito». A suo avviso, il focus dell’udienza di oggi dev’essere sottolineare come le istituzioni siano andate «oltre la criminalizzazione del dissenso: qui è in gioco, oltre al diritto di esprimere le proprie opinioni, anche la sopravvivenza dell’umanità sul nostro pianeta».
Il presidio degli attivisti
«No gas no carbone», recita lo striscione di Ultima Generazione che ha organizzato un presidio in solidarietà del portavoce a processo. «Se Simone diventerà un sorvegliato speciale allora dobbiamo diventarlo tutti. Siamo l’ultima generazione, ma non vogliamo esserlo», dichiarano gli attivisti.
(da Open)
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Gennaio 10th, 2023 Riccardo Fucile
INFLAZIONE RECORD, QUASI TUTTA ALIMENTARE, PREZZI ALLE STELLE A BUDAPEST
L’Ungheria di Viktor Orbán ha secondo Eurostat l’inflazione annua
più alta di tutta Europa, con il 23,1% secondo l’ultima rilevazione. Come tutti i paesi a spingere l’indice dei prezzi c’è l’energia in conseguenza della guerra in Ucraina.
Ma l’Ungheria nella classifica dei rincari per elettricità, gas e carburanti, pur registrando un aumento annuo dei prezzi del 66,1%, è solo al quinto posto in una classifica dominata dall’Italia con il suo +130,1%.
È invece da tutti i generi alimentari che viene l’inflazione record che sta mettendo nei guai il governo di Orbán.
L’Ungheria è prima in Europa per rincari in ogni settore alimentare. Il balzo record dei prezzi lo hanno fatto le uova, con un +102,9% annuo (al secondo posto la Repubblica ceca con +71,9%). Ma è prima anche per rincari su latte e derivati (+75,3%), su pane e cereali (+64,4%), sulla verdura (+38,7%), sulla carne (+39,6%), sul pesce (+36,6%), sulla frutta (+29,4%), sulle bevande analcoliche (+34,1%) come su quelle alcoliche (+19,7%).
Allestire una tavolata è diventato un lusso per le famiglie ungheresi, e la sola cosa che non costa molto più di prima è la tovaglia, visto che per i tessuti i rincari sono assai contenuti e l’Ungheria si trova nella metà bassa della classifica europea dei prezzi secondo Eurostat. Secondo la banca centrale ungherese MNB nel suo ultimo rapporto sull’inflazione a fine dicembre questo rialzo anomalo dei prezzi su alcuni generi sarebbe conseguenza diretta della scelta del governo Orbán di mettere un tetto su alcuni generi, iniziando proprio dai prodotti dell’energia. Dove non c’è il tetto i prezzi sono fluttuati liberamente, con i rincari record che oggi rendono una vera fatica mettere insieme il pranzo con la cena.
(da agenzie)
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Gennaio 10th, 2023 Riccardo Fucile
LA NOTIZIA E’ FALSA PERCHE’ L’ITALIA NON PRODUCE MINE SIMILI DAL 1997… SAREBBE ORA CHE L’AMBASCIATORE RUSSO FOSSE RIMANDATO A CASA
“Propaganda allusiva e tendenziosa”. Così il ministro della difesa, Guido Crosetto, ha bollato la notizia (falsa) fatta circolare dal ministero degli Esteri russo e dall’ambasciata russa in Italia, che nel conflitto tra Russia e Ucraina vengano utilizzate delle mine antiuomo prodotte ed esportate dall’Italia.
La vicenda è iniziata cinque giorni fa, quando la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha detto che l’Italia “sta rifornendo Kiev di mine antiuomo”.
Ieri, l’ambasciata russa ha pubblicato su Twitter la foto di tre mine, scrivendo che erano “di fabbricazione italiana” e che erano state trovate in Ucraina. “Quanti di questi ‘souvenir dall’Italia’ rimangono in terra ucraina? Le persone ne soffriranno per molto tempo”, recitava il tweet.
La spiegazione è arrivata da Guido Crosetto, ministro della Difesa. L’ambasciata russa “mente sapendo di mentire”, ha scritto in un comunicato. “Un’allusiva e tendenziosa propaganda contro il nostro Paese, che ha sempre rispettato le norme del diritto internazionale”. L’Italia, infatti, è stata tra i primi Paesi a firmare, nel 1997, la convenzione di Ottawa sulla messa al bando delle mine antipersona (a cui la Russia non ha ancora aderito, tanto che ha utilizzato almeno 7 tipi di mine antipersona nella guerra in Ucraina).
“Le mine riprodotte nel tweet (1 antiuomo e 2 anticarro) ricordano mine di fabbricazione italiana Valsella/Tecnovar, che non possono essere italiane”, ha chiarito il ministro. “La produzione di mine antiuomo in Italia si è interrotta più di 28 anni fa con una moratoria del governo e la successiva legge 374/1997″. In più, “mine antiuomo di produzione italiana sono state esportate solo fino all’inizio degli anni ’90”.
Tuttavia, “la licenza di produzione fu concessa anche ad alti Paesi, come si può evincere dalla sigla dell’unica mina antiuomo ritratta in foto, una VS50 non prodotta in Italia ma in estremo Oriente”, ha concluso Crosetto.
Anche Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne per la Rete italiana pace e disarmo, ha evidenziato che “la foto dell’ambasciata russa in Italia con mine italiane ipoteticamente disinnescate in Ucraina dimostra solo il ‘lungo’ impatto delle armi (alcune in particolare), ma non c’entra con forniture militari recenti. Lo segnala la Campagna italiana per la messa al bando delle mine, e lo sottolinea giustamente Guido Crosetto”.
“Che una mossa ‘propagandistica’ del genere arrivi da un Paese come la Russia che non è parte della Convenzione di Ottawa contro le mine antipersona è abbastanza disturbante e tragicamente ironico”, ha commentato Vignarca. In più, la vicenda “dovrebbe far riflettere decisori politici (e opinione pubblica) sulla delicatezza dell’esportazione di armi, che sfugge sempre ai percorsi “ideali” di chi vuole vendere armi con troppa faciloneria (ed interesse)”.
Anche al Campagna italiana per la messa al bando delle mine è intervenuta nel dibattito, come detto da Vignarca, per sottolineare che le “accuse false e vergognose” della Russia non hanno “nessun fondamento” e che “l’Italia è uno dei Paesi più impegnati al mondo” nel contrasto alle mine. Dopo l’adesione al trattato di Ottawa, oltre sette milioni di mine antipersona furono rimosse dalle scorte dell’esercito italiano e distrutte.
(da Fanpage)
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Gennaio 10th, 2023 Riccardo Fucile
IN UN VIDEO INVIATO AL FRATELLO AVEVA DETTO: “QUI SI MUORE”. PER LA PROCURA “QUASI CERTAMENTE NON È VIVO”
«Qui si muore». Sono le ultime parole di Daouda Diane, scomparso
dopo avere girato un video che è insieme testamento e denuncia, la sua faccia in primo piano, il telefonino a inquadrarla dentro un cementificio del paese di Acate, in provincia di Ragusa.
«Qui si muore», dice Daouda, profeta del suo destino, parlando da quel che sembra l’interno di una betoniera, una mascherina logorata sul viso, un martello pneumatico nelle mani, senza guanti, senza protezioni. «Inutile – racconta in quel video-denuncia che invia al fratello in Costa d’Avorio – che nel nostro Paese andiamo a raccontare che lavoriamo in fabbrica. Questi sono posti pericolosi, qui si muore».
È sabato 2 luglio. E da allora Daouda Diane, 37 anni, della Costa d’Avorio, operaio, mediatore culturale, sindacalista, marito e padre di un bambino, è diventato Daouda il fantasma. Scomparso nel nulla, con la procura di Ragusa che ammette: «Quasi certamente non è vivo». Fatto sta che manda quel video intorno alle due e mezzo del pomeriggio, poche ore dopo il suo cellulare si spegne, la “cella” telefonica è talmente grande che non si possono distinguere i suoi spostamenti nel dettaglio, le telecamere interne al cementificio della Sgv Calcestruzzi sono rotte, quelle sulla strada non registrano il suo passaggio.
Secondo il titolare dell’azienda, Gianmarco Longo, «è uscito a mezzogiorno, io non c’ero ma me l’hanno riferito. È venuto alle otto, chiedendo di svolgere qualche lavoretto di pulizia, è stato pagato e se n’è andato. Non abbiamo nulla da temere». Lo stesso titolare secondo cui Daouda era «una presenza saltuaria e amichevole, teneva compagnia al personale, rendendosi utile a spazzare il cortile, ottenendo in cambio una piccola somma».
Versione, questa, spazzata via dalle indagini: «Una delle poche certezze è che lavorasse in nero nel cementificio», per dirla con il procuratore di Ragusa, Fabio D’Anna, che ha aperto un fascicolo per omicidio e occultamento di cadavere e ha iscritto nel registro degli indagati i responsabili legali dell’azienda, come atto dovuto. Gianmarco Longo è figlio di Carmelo, coinvolto in passato in indagini per associazione a delinquere finalizzata alla truffa e alla turbativa d’asta. Il fratello di Carmelo, Giovanni, è stato arrestato nel 2019 in un’operazione che ha consentito di fare luce sul clan mafioso di Vittoria. Il padre era Salvatore Longo, ucciso nel ’90 ad Acate in un agguato di stampo mafioso.
Alle 14.30, quando Daouda manda il video, il cementificio è chiuso da più di due ore («Forse l’ha girato in un altro giorno – dice il titolare dell’azienda – o forse in un altro posto») e che nulla è stato contestato all’azienda se non l’utilizzo di manodopera irregolare.
Di sicuro c’è solo, secondo gli inquirenti, che l’operaio non era lì di passaggio. Ma i cani molecolari sguinzagliati in ogni angolo del cementificio e le apparecchiature più sofisticate che cercano resti umani non hanno fiutato niente. Ricerche e perquisizioni tardive, perché la denuncia è scattata solo otto giorni dopo la scomparsa, quando l’amico Marcire Doucoure (destinatario pure lui di quel video) non sa più dove cercarlo.
Quel video lo ha rivisto centinaia di volte, stupendosi del fatto che Daouda parli in francese, e non nel loro dialetto, come se volesse farsi capire da tutti. Non uno sfogo privato, ma una denuncia. L’ipotesi dell’allontanamento volontario suona quasi come un insulto: Daouda sarebbe partito venti giorni dopo per riabbracciare la moglie Awa e il figlio, dopo cinque anni. Per questo aveva comprato il biglietto aereo, 600 euro, che ha lasciato a casa insieme al permesso di soggiorno, i soldi, il passaporto.
I sindacati sono in rivolta, un paio di volte le manifestazioni di protesta hanno rischiato di finire con l’assalto del cementificio. Il magistrato Bruno Giordano, fino a pochi giorni fa direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro, ha scritto al presidente Mattarella: «Non possiamo sciogliere Diane nell’acido dell’oblio e dell’indifferenza». La moglie Awa, che nelle fotografie sorride abbracciata a lui, dice: «Queste cose possono accadere da noi, in Africa, non in un Paese civilizzato come l’Italia». E poi esprime il suo unico desiderio: «Restituitemi almeno il suo corpo in modo che possa pregare per lui».
(da La Stampa)
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