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“IO SO’ GIORGIA” E VOI NON SIETE UN CAZZO! DALLE NOMINE ALLE RIFORME, DALLA GEO-POLITICA ALL’ECONOMIA, LA MELONI È IN PIENA SINDROME DA MARCHESE DEL GRILLO: DECIDE TUTTO LEI (LE POUVOIR, C’EST MOI!)

Aprile 6th, 2023 Riccardo Fucile

SULLA PARTITA-CLOU, LE NOMINE DELLE AZIENDE DI STATO, FA SALTARE I TAVOLI DELLA MAGGIORANZA… IL PNRR, I NEMICI INTERNI (LA RUSSA E RAMPELLI) E L’UE: DONNA GIORGIA SOGNA L’ASSE PPE-ECR ALLE EUROPEE DEL PROSSIMO ANNO, MA GLI EURO-POTERI SI SONO GIA’ MESSI DI TRAVERSO

Dopo cinque mesi e mezzo di governo Meloni, lo scenario dei conflitti potenziali è chiaro: l’esecutivo guidato da “Io sono Giorgia” non ha nulla da temere dalle opposizioni, sempre più divise, rissose e in cerca di identità. I guai arrivano dall’interno. La maggioranza di centrodestra, che non è stata coesa neanche per salvare le apparenze, è agitata da un crescente malcontento verso l’atteggiamento autoritario della Ducetta della Garbatella. Lo sbarco dai “tombini” di via della Scrofa nella stanza dei bottoni di Palazzo Chigi ha inevitabilmente titillato gli appetiti di ex missini, forzisti, leghisti e peones. Ciascuno vorrebbe partecipare al gran buffet del potere e rivendicare la sua fetta di torta. Almeno dire la sua.
Invece Giorgia Meloni, presidiata dalla sua falange di pretoriani (Fazzolari, Mantovano, Lollobrigida, Donzelli), non intende gestire il potere in modo collegiale: decide lei. Punto.
E gli altri obbediscono: se non gli sta bene, s’attaccano. Il mantra è: “Io sono Fratelli d’Italia”; il tormentone è: “ho vinto le elezioni, comando io”: dalle nomine alle riforme, dalla politica estera all’economia, il pallino del gioco deve essere nella mani della Ducetta.
Una declinazione post-moderna e garbatellara de “l’Etat, c’est moi!”, l’espressione attribuita al re di Francia Luigi XIV quando decise di concentrare i poteri dello Stato sulla sua persona.
Così Salvini, per marcare il territorio, sgancia il fido rotweiler Calderoli sull’Autonomia. Subito Donna Giorgia ha manifestato perplessità e non vuole assecondare le ambizioni della Lega.
La premier ha sfilato al Mef (come immaginato da Mario Draghi e Daniele Franco) la gestione del Pnrr e ha affidato la colossale rogna al fido Raffaele Fitto, con l’intento di portare il dossier sotto l’occhiuto controllo di palazzo Chigi.
Ovviamente il “trasloco” dal Mef a Fitto, ripartendo da zero, ha comportato e comporta inevitabili ritardi, a partire dalla scelta di funzionari e tecnici, fino al punto che Fitto ha chiamato in causa Draghi e annunciando che alcuni progetti sono “irrealizzabili”. L’ennesima grandiosa figura di merda con Bruxelles.
Sulle nomine Donna Giorgia, che ha ormai calzato il cappello di Napoleone, gioca a nascondino con gli alleati: Fazzolari fa saltare i tavoli di maggioranza e rintuzza le pressioni con l’obiettivo malcelato di decidere in solitudine, alla Renzi, con un blitz sul gong.
La sua strategia è legata alla convinzione che, oltre al suo ”paggetto” Tajani, il ministro dell’Economia Giorgetti (che dovrà firmare le nomine nelle partecipate) la stia spalleggiando.
In realtà l’economista di Cazzago Brabbia (più Cazzago che Brabbia) resta il semolino di sempre, attento a fare un passo avanti e due indietro e tre di lato. Allora il mite Giorgetti è stato già preso per la collottola dal suo segretario, Matteo Salvini: “Non ti azzardare a firmare nessuna nomina se non passa prima sotto i miei occhi. Devo essere d’accordo anche io”. Punto.
Il Capitone, che dopo la botta alle elezioni politiche ha ritrovato ossigeno dopo le vittorie alle regionali in Lombardia e Friuli, ora gioca su più tavoli per rosicchiare visibilità e potere alla Meloni.
Non solo non ha chiuso il canale diplomatico con Licia Ronzulli ma, con un abile lavoro di “seduzione”, Salvini ha portato dalla sua parte il governatore forzista del Piemonte Alberto Cirio: ha promesso che gran parte delle gare previste per le Olimpiadi invernali Milano-Cortina 2026 si terrà a Torino (soprattutto dopo le numerose criticità rilevate dai tecnici della Federazione Internazionale Ghiaccio sul progetto di pista di pattinaggio in Lombardia).
L’affondo sul Pnrr del capogruppo leghista alla Camera, Riccardo Molinari, (“Valutare se rinunciare a parte dei fondi. Meglio non spendere i soldi che spenderli male”) è un pizzino mandato per conto di Salvini: bisogna decidere collegialmente.
Anche dentro Fratelli d’Italia il decisionismo di Giorgia Meloni crea disagio (eufemismo), e non solo tra quelli che più esplicitamente la avversano come il suo ex mentore Fabio Rampelli, arci-avversario del cognato Lollobrigida, e la sua corrente dei “Gabbiani”.
Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ad esempio, soffre per la gabbia istituzionale della presidenza del Senato in cui (anche giustamente) la Ducetta vuole rinchiuderlo. Il mai paludato ‘Gnazio vuole avere un ruolo politico, non intende recitare la parte del vecchio arnese arrugginito, parcheggiato su uno scranno di rappresentanza.
La sparata sull’attentato di via Rasella (“E’ stata una pagina tutt’altro che nobile della Resistenza: quelli uccisi furono una banda musicale di semi-pensionati e non nazisti delle SS”) dimostra che La Russa non vuole essere messo in un angolo né lasciare il centro della scena solo a Giorgia.
Scalpita anche il ministro della Difesa Crosetto: prima delle elezioni, l’ex democristiano veniva spedito in ogni trasmissione tv in qualità di “meloniano dal volto umano”, ora invece è stato imbavagliato. Basta interviste a raffica: parla (e decide) solo Giorgia.
Anche l’amour fou per Bruno Vespa ha fatto girare i testicoli di Gianpaolo Rossi, che si è ritrovato messo da parte da plenipotenziario Rai di FdI dal carisma e esperienza di Bru-neo. E allora ha iniziato a inciuciare con l’ibrido Mario Orfeo.
Il malcontento nella maggioranza non agevola i grandi piani della Meloni per le elezioni europee del prossimo anno: il suo sogno è rompere il tradizionale asse tra popolari e socialisti, e creare un nuovo equilibrio basato sull’alleanza, pendente a destra, tra Ppe e i conservatori di Ecr, gruppo di cui è presidente.
Il progetto è talmente ambizioso da provocare reazioni da parte dell’establishment europeo reticente a mollare la presa su Bruxelles. In questo contesto, forse, va letta l’inchiesta della magistratura tedesca su Mario Voigt, considerato molto vicino al presidente del Ppe, Manfred Weber, che, grazie ai suoi rapporti di amicizia con Tajani, è la sponda popolare al piano di Giorgia.
Altra forma di resistenza a questo grande piano sarebbero i recenti sommovimenti a Berlino: nella capitale tedesca il partito socialdemocratico di Scholz e la Cdu hanno infatti firmato il patto per governare la capitale insieme. Insomma, torna la Grosse Koalition, la grande coalizione che ha guidato la nazione nel quindicennio merkeliano.
Un primo segnale verso il ritorno delle grandi intese anche nel governo nazionale? Si vedrà, di sicuro il cancelliere, Olaf Scholz, messo sotto inchiesta per aver agevolato una frode fiscale miliardaria quando era sindaco di Amburgo, è sotto pressione. Ma un ritorno all’inciucione a Berlino potrebbe causare un effetto domino anche a Bruxelles, e tradursi in un ritorno della solita alleanza tra socialisti e popolari.
Il desiderio della Meloni di essere architetto dei nuovi euro-assetti non piace per niente a Matteo Salvini, che non vuole essere oscurato e marginalizzato dall’intraprendenza della premier.
Il suo partito nel Parlamento europeo, Identità e democrazia, potrebbe risultare fortemente ridimensionato, come dimostra già l’uscita dei “Veri finlandesi”, il partito sovranista di Helsinki che proprio ieri ha annunciato il passaggio a Ecr.
Ps: Sulle nomine, con le scontate conferme di Claudio Descalzi all’Eni e Matteo Del Fante a Poste, e la ormai quasi certa nomina di Lorenzo Mariani alla guida di Leonardo, il cetriolo da affettare riguarda Enel. Salvini ha posto il veto all’ipotesi di nominare ad Stefano Donnarumma. Ma quello del leghista è un veto strumentale: magari servirà a ottenere uno Scaroni in cambio o la guida delle Ferrovie.
(da Dagoreport)

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LA BEFFA: UN GRUPPO DI HACKER UCRAINO È PENETRATO NEL COMPUTER DI MIKHAIL LUCHIN, UN PROPAGANDISTA RUSSO, E HA ORDINATO 25 MILA DOLLARI DI PENI DI PLASTICA CON LA SUA CARTA DI CREDITO DA UN SITO

Aprile 6th, 2023 Riccardo Fucile

LUCHIN, AMICO DI VLADLEN TATARSKY UCCISO A SAN PIETROBURGO DOMENICA, VOLEVA DONARE QUEI SOLDI ALL’ESERCITO RUSSO PER COMPRARE DEI DRONI

Sono entrati nell’account personale di un blogger ultranazionalista russo, che ha contribuito allo sforzo bellico di Mosca acquistando droni, e hanno speso tutti i suoi soldi in giocattoli erotici. A confessarlo è stato un gruppo di attivisti ucraini, citato da Politico.
La comitiva Kiber Sprotyv (Cyber Resistance) ha infatti fatto sapere di essere entrata in possesso delle utenze private per accedere a AliExpress (servizio di negozi online cinese) di Mikhail Luchin, amico del propagandista russo Vladlen Tatarsky, rimasto ucciso nell’attentato di domenica scorsa a San Pietroburgo.
Gli ucraini hanno dichiarato di aver acquistato giocattoli erotici per un valore di 25mila dollari utilizzando la carta di credito del militante russo. «Ora Mikhail Luchin è il proprietario di una collezione unica di dildo che vale 25mila dollari. Soldi, questi – si legge su Telegram – che stava progettando di spendere per l’acquisto di droni da inviare all’esercito russo».
(da Open)

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FUMATA BIANCA: SCHLEIN CHIUDE L’ACCORDO SULLA SEGRETERIA DEL PD. NESSUN VICE, 5 POSTI ALLA MINORANZA. ENTRA ANCHE LA CORRENTE DI BASE RIFORMISTA DELL’EX MINISTRO LORENZO GUERINI

Aprile 6th, 2023 Riccardo Fucile

L’EX CAPOGRUPPO SERRACCHIANI ALLA GIUSTIZIA, GLI ENTI LOCALI A BARUFFI, BRACCIO DESTRO DI BONACCINI E ALESSANDRO ALFIERI ALLE RIFORME

Fumata bianca al Nazareno.
Elly Schlein e Stefano Bonaccini hanno trovato l’accordo sulla segreteria del Pd. Dopo una trattativa durata fino a notte – da una parte il capogruppo al Senato Francesco Boccia, dall’altra il sottosegretario emiliano Davide Baruffi – maggioranza e minoranza dem hanno siglato un’intesa di massima.
Schlein a questo punto potrebbe varare già in giornata la squadra con cui governerà il principale partito di opposizione. Squadra larga, modello governo ombra, fra i 15 e i 20 posti.
Cinque andranno alla minoranza: Debora Serracchiani andrà alla Giustizia, Alessandro Alfieri alle Riforme, lo stesso Baruffi, braccio destro di Bonaccini in Regione Emilia-Romagna, guiderà gli Enti Locali. In segreteria entra dunque anche la corrente di Base Riformista dell’ex ministro Lorenzo Guerini, l’area che nel post-primarie aveva espresso più perplessità sulla gestione unitaria.
Altra novità: Schlein non avrà vice-segretari. In quota maggioranza, blindati l’ex ministro Peppe Provenzano agli Esteri e l’ex viceministro Antonio Misiani all’Economia
Possibile un incarico anche per Sandro Ruotolo (Legalità o Sud)
(da La Repubblica)

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L’INFLAZIONE FA STRINGERE LA CINGHIA ALLE FAMIGLIE MA I GRANDI GRUPPI, COME “L’OREAL” E “UNILEVER”, CHIUDONO IL 2022 CON UNA CRESCITA DEL BILANCIO DA RECORD (RISPETTIVAMENTE +24,9% E +24,1%)

Aprile 6th, 2023 Riccardo Fucile

L’ALLARME DELL’UNIONE NAZIONALE CONSUMATORI: “GLI ITALIANI SONO AFFAMATI”

Le pile di colombe pasquali scontate fino al 60% che desolate si guardano con i bancali di uova al cioccolato sotto costo, spiegano meglio di qualunque numero quanto l’inflazione stia erodendo il potere d’acquisto delle famiglie. E come, a cascata, stiano cambiando le abitudini di spesa. Anche a ridosso delle feste.
Un fenomeno alimentato dal caro energia e dalla guerra in Ucraina, ma che secondo i banchieri centrali è soprattutto dovuto alla speculazione dei produttori. Non si spiegherebbe altrimenti come le multinazionali, da Unilever a L’Oréal, abbiano chiuso il 2022 con una crescita record di margini e profitti (+24,9% la prima, +24,1% la seconda), mentre la grande distribuzione a fronte di un aumento di ricavi – spinti dall’inflazione – abbia registrato una contrazione degli utili.
Secondo l’ultima rilevazione Istat, a febbraio, le vendite al dettaglio sono aumentate, rispetto allo stesso periodo del 2022, del 5,8% in valore e sono calate del 3,5% in volume, con gli alimentari che accentuano il divario: +7,9% in valore e -4,9% in volume.
E mentre continuano a soffrire i negozi di piccole dimensioni, prosegue la corsa dei discount che a colpi di offerte e vendite sotto costo hanno visto crescere le vendite del 9,9% consolidando un trend avviato lo scorso anno.
Con il risultato che la «tenuta della spesa per consumi finali (+3% in termini nominali)» è stata finanziata dai risparmi delle famiglie che sono calati di due punti nel quarto trimestre dell’anno scorso e del 5,1% nell’intero 2022 rispetto al 2021.
Il presidente dell’Unione nazionale consumatori, Massimiliano Dona, rilancia: «Gli italiani sono affamati dal carovita, non hanno mai stretto così tanto la cinghia. Rispetto a gennaio scendono dello 0,3% persino le vendite alimentari, che in volume precipitano dell’1,8%». A farne le spese, accusa Coldiretti, sono soprattutto frutta e verdura, i cui acquisti sono calati dell’8% rispetto al 2022.
(da La Stampa)

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SALARIO MINIMO, SENTENZA DEL TRIBUNALE DI MILANO: “PAGARE 3,96 EURO L’ORA E’ CONTRO LA COSTITUZIONE”

Aprile 6th, 2023 Riccardo Fucile

LO STIPENDIO PAGATO DA UNA SOCIETA’ DI VIGILANZA CHE CORRISPONDE AL CONTRATTO NAZIONALE FIRMATO DAI SINDACATI VIOLAVA L’ART 36 DELLA COSTITUZIONE

Uno stipendio da 3,96 all’ora, anche se è previsto da un contratto collettivo nazionale, va contro la Costituzione. In particolare l’articolo 36: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Ad affermarlo è stata la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Milano, dando ragione a una dipendente della società di vigilanza Civis di Padova.
La paga oraria che la dipendente riceveva era, appunto, di 3,96 euro all’ora. Per un totale di 640 euro netti al mese, una cifra al di sotto della soglia di povertà e anche del reddito di cittadinanza.
Per questo, la lavoratrice nel novembre 2022 ha fatto causa all’azienda, sostenuta dagli avvocati padovani Giorgia D’Andrea e Giacomo Gianolla e dall’associazione Adl Cobas. Nel suo caso, la dipendente riusciva ad avvicinarsi ai mille euro al mese solo facendo decine di ore di straordinari ogni mese.
La sentenza è arrivata la settimana scorsa, il 30 marzo: il tribunale ha condannato la società di vigilanza a pagare un risarcimento pari a 372 euro lordi per ogni mese di lavoro della donna (6.700 euro circa in totale). Si tratta della differenza tra lo stipendio ricevuto e quella prevista per un servizio di portierato con un diverso contratto collettivo, quello Multiservizi.
La sentenza è importante anche perché la paga ricevuta è fissata da un contratto collettivo nazionale, quello per i Servizi fiduciari, sottoscritto da Cgil e Cisl e fermo senza rinnovi da almeno otto anni. Il tribunale ha dichiarato nulli gli articoli del contratto che stabilivano la paga, e questo potrebbe essere un precedente.
Adl Cobas: “Una vittoria storica, ci sono altri casi simili”
Secondo Mauro Zanotto di Adl Cobas “è una vittoria storica che apre la strada anche ad altri lavoratori nella stessa situazione in Italia e a Padova. In tutto il Paese sono circa 100mila gli interessati a una sentenza simile”. Non solo, ma “a Padova ci sono una ventina di cause pendenti per motivi analoghi, più altri sparuti casi qua e là contro aziende private”. Per questo, la sentenza potrebbe essere la prima di una serie.
In molti casi, peraltro, si tratta di dipendenti di enti pubblici, come l’Agenzia delle Entrate, l’università o gli ospedali. E anche gli altri due contratti collettivi che regolano il settore (Aiss e Safi, sottoscritti da altri sindacati) prevedono paghe inferiori alla soglia fissata dal tribunale, quindi rischierebbero di essere annullati in caso di processo.
“Dopo l’ennesima decisione di un tribunale che impone il rispetto dei principi di proporzionalità e sufficienza, ci si chiede se non sia arrivato il momento di una legge”, ha dichiarato l’associazione, “che appresti un sistema di tutele universale per tutti i lavoratori e le lavoratrici, non soggetto a rapporti di forza squilibrati, e che li tuteli dal lavoro povero. Speriamo che questa sentenza faccia capire alle sigle sindacali che hanno firmato questi contratti inaccettabili a livello nazionale che non si può andare avanti così. Per noi la conseguenza deve essere l’istituzione del salario minimo a dieci euro l’ora”.
“Il fatto che sia lo stipendio previsto dal contratto nazionale approvato da Cgil e Cisl – punto sul quale si è basata la difesa di Civis – non può essere una giustificazione”, hanno sottolineato gli avvocati della dipendente, “perché i sindacati possono anche conoscere bene la realtà lavorativa ma non stabilire cosa è dignitoso e cosa no”.
(da Fanpage)

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PNRR, LE STORIE DEI PICCOLI COMUNI NEL CAOS TRA BUROCRAZIA E CONTENZIOSI

Aprile 6th, 2023 Riccardo Fucile

“HO DUE FUNZIONARI, PER ADERIRE A UN BANDO TRALASCIAMO TUTTO IL RESTO”

“Tempistiche serrate calate su uffici sottodimensionati”: il Pnrr per i piccoli Comuni, in particolare al Sud, non è solo il luccichio dei soldi dei finanziamenti (quando arrivano) ma anche un difficile gioco dell’oca.
A dirlo sono i sindaci alle prese con forti carenze di personale: fare i progetti con scadenze ravvicinate e miriadi di indicatori in cui districarsi diventa difficilissimo, spesso impossibile.
È il caso dei comuni del Sannio: una provincia, quella di Benevento, che conta 260mila abitanti, 25mila in meno rispetto a 20 anni fa. E 15mila li ha persi in soli cinque anni: bimbi non ne nascono, i ragazzi se ne vanno. Il Pnrr qui è stato accolto anche come un’occasione per contrastare questa erosione demografica. I Comuni, tutti sotto i 15mila abitanti a parte il capoluogo Benevento, si sono attrezzati come potevano per intercettare i finanziamenti.
Questo dopo l’entusiasmo iniziale, che ha portato, anche nel capoluogo, a volare di fantasia: sulla scrivania di Clemente Mastella, a Benevento, sono arrivate pure proposte per un aeroporto. Cestinate visto che si parla di un Comune a meno di 70 chilometri da Capodichino e in una regione in cui c’è già un secondo aeroporto (che ha avuto diversi problemi). I piccoli Comuni dal canto loro hanno puntato su quel che era alla portata: rinnovare le scuole, creare asili nido, strutture sportive. Avviandosi a un vero e proprio tour de force.
Molti sindaci infatti spiegano che per come sono strutturati i bandi si tratta di scegliere tra il Pnrr e l’ordinario: “In un Comune come il mio – spiega Danilo Parente, sindaco di Apollosa (2500 abitanti) – l’ufficio tecnico è di due persone, se aderisci a un bando come quello per la palestra all’aperto (Missione 4 Istruzione e Ricerca, Investimento 1.3 “Piano per le infrastrutture per lo sport nelle scuole”) che ha una tempistica inusuale visto che devi concluderlo in un mese, di fatto devi concentrarti unicamente su quello. Tralasciando però tutto il resto”.
Il personale è un tasto dolente per comuni piccoli in un area interna del sud: “Noi ce la siamo cavata – spiega Vito Fusco, sindaco di Castelpoto, 1200 abitanti – ma per prendere 3 finanziamenti devi fare i salti mortali e seguire gli iter passo passo. La questione è che questi fondi servirebbero a sanare le diseguaglianze, ma con bandi competitivi che premiano chiaramente Comuni con più personale o dove sono possibili partenariati avviene il contrario: la verità è che sarebbero servite più procedure negoziate per dare scuole o palestre o asili a chi ne ha bisogno, non a chi arriva prima. Un Comune dell’Emilia con le stesse dimensioni del mio ha il doppio dei dipendenti: chiaro sia più veloce ed efficiente nel compilare i bandi”.
Un discorso univoco, come spiega anche Pasquale Iacovella, primo cittadino di Casalduni, 1200 abitanti: “Non posso lamentarmi e anzi, devo fare i complimenti ai miei dipendenti: sono pochi, non giovanissimi, ma per farsi trovare pronti si sono addirittura premurati di seguire corsi di formazione autonomamente, non perché gliel’ho indicato io. Certo è difficile per un comune piccolo: il meccanismo è farraginoso e non è certo quello della determina cui si era abituati”.
Il personale dunque: pochi, spesso a un passo dalla pensione o quasi e travolti da meccanismi non semplici. Eppure una contromisura era arrivata: “Sì, ci avevano dato la possibilità di implementare l’organico proprio per il Pnrr – spiega Giuseppe Addabbo, sindaco di Molinara, 1500 abitanti – con il fondo da 30 milioni di euro previsto da Draghi con il decreto 152 del 2021. Noi avevamo aderito e ci avevano dato la possibilità di aggiungere al nostro personale 3 unità ad hoc…il problema è che la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del provvedimento con cui vengono ripartite le risorse è arrivata un mese fa…e dunque queste unità aggiuntive non ancora le vediamo. È una logica che premia i numeri e non il territorio, ancora una volta”.
E c’è anche un’altra riflessione che offrono i sindaci dei piccoli comuni di un’area interna del sud scollegata dai centri urbani e al centro di un forte processo di spopolamento: “Noi abbiamo avuto 250mila euro per la digitalizzazione…siamo contenti, ma forse sono troppi per una comunità piccola come la nostra dove invece servirebbe altro”, spiega il sindaco di Molinara cui fa eco Danilo Parente di Apollosa. “Siamo naturalmente contentissimi di poter realizzare una palestra all’aperto: mi consente di infrastrutturare il paese, di dotarlo di un’area sportiva all’avanguardia e va benissimo. Ma il ritorno qual è? Sono soldi che l’Italia ha in prestito e che dunque dovrebbero generare un ritorno per poi restituirli: non so se la palestra da sola basta a creare economie…”.
Infine la questione dei finanziamenti. Soldi che a volte, come spiegano alcuni sindaci, ancora non arrivano: “Noi siamo bloccati sul progetto per intervenire sul dissesto idrogeologico, risorse figlie di vecchie misure poi confluite nel Pnrr – spiega Angelo Pepe, sindaco di Apice, 5300 abitanti – abbiamo fatto i lavori in base alle anticipazioni, ma ho dovuto sospendere perché non ci hanno dato la differenza. E le imprese vanno in forte difficoltà e aprono contenziosi. Chi li paga questi contenziosi? La verità è che non sono i Comuni che non spendono, è che c’è un problema a livello ministeriale: soltanto di password per accedere alle diverse piattaforme c’è un’inflazione pazzesca, non sarebbe stato più semplice creare una piattaforma unica?”.
(da Il Fatto Quotidiano)

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GAP SALARIALE INSOSTENIBILE, AUMENTANO LE DISEGUAGLIANZE

Aprile 6th, 2023 Riccardo Fucile

IL 57% DEGLI ITALIANI GUADAGNA MENO DI 20MILA EURO L’ANNO E IL 29,6 MENO DI 10MILA. APPENA L’1% SUPERA I 100MILA EURO

Mentre il governo Meloni nega il Reddito di cittadinanza e il salario minimo, in Italia c’è un’emergenza, quella del gap salariale, grande quanto una casa.
Gli ultimi dati che lo confermano sono quelli contenuti nel nuovo report di Openpolis sui divari di reddito in Italia e negli altri Paesi europei. Sebbene la ricchezza sia aumentata e le condizioni di vita siano mediamente migliorate, le disuguaglianze nella distribuzione di tale benessere sono rimaste pressoché invariate in Europa.
L’Italia ovviamente non fa eccezione, anzi è nel gruppo degli Stati in cui i divari si sono ampliati.
Nel nostro Paese, in particolare, si è aggravata la forbice tra una maggioranza di persone che dichiara di guadagnare poco (meno di 20mila euro lordi l’anno) e una minoranza che afferma di guadagnare molto (poco più dell’1% dei cittadini guadagna più di 100mila euro l’anno).
Il principale indicatore della disuguaglianza si riferisce alla distribuzione del reddito all’interno di una società, ovvero l’indice di Gini.
Esso indica le differenze tra i redditi percepiti. Tale indicatore può avere valori compresi tra 0% e 100%. Più è basso, più ci si avvicina a una situazione di perfetta uguaglianza in cui tutte le persone hanno il medesimo reddito.
Più è alto invece più i redditi sono concentrati in un piccolo gruppo di persone. Come riporta la Banca mondiale, in Europa mediamente i salari sono aumentati e le condizioni di vita sono migliorate nel corso degli ultimi decenni. Tuttavia ciò non ha comportato un parallelo allentarsi delle disuguaglianze tra i cittadini.
Questo fenomeno si manifesta in particolare attraverso l’aumento relativo degli stipendi più alti e il calo di quelli più bassi, in alcuni stati come quelli dell’Europa centro-orientale. Altrove, gli stipendi bassi sono comunque aumentati poco e lentamente rispetto a quelli medi e alti.
Mediamente in Europa il coefficiente Gini si attesta al 30,1% nel 2021, con un calo molto lieve rispetto a 10 anni prima.
Dei 27 Paesi membri dell’Ue, in 11 l’indice di Gini è aumentato negli ultimi 10 anni. Tra questi anche l’Italia (+0,5%).
L’aumento più marcato si è registrato in Bulgaria (+6,1 punti percentuali). Mentre il calo maggiore si è verificato in Slovacchia (-4,4, dove però il dato più recente è relativo al 2020) e in Polonia (-4,1). Nel complesso, nel 2021 il dato più alto è quello bulgaro che sfiora il 40%. Seguito da quello della Lettonia e della Lituania (al di sopra del 35%). Mentre il più basso è quello slovacco (21%).
L’Italia è da questo punto di vista lievemente al di sopra della media Ue (30,1%), attestandosi, nel 2021, al 33%.
Per quanto riguarda l’Italia gli stipendi sono molto lontani dall’essere equamente distribuiti. Sono ancora molti infatti i contribuenti che guadagnano meno di mille euro lordi al mese, prima di qualsiasi detrazione fiscale. E oltre la metà di tutti i contribuenti (57%) che dichiarano il proprio reddito non arriva comunque a 20mila euro annui.
La fascia più rappresentata è quella dei redditi compresi tra i 10mila e i 20mila euro l’anno. Tuttavia sono quasi 12 milioni gli italiani che guadagnano meno di 10mila euro l’anno, il 29,6% del totale.
Mentre meno del 3% di tutti i contribuenti guadagna più di 70mila euro, una quota che arriva poco sopra l’1% nel caso di chi dichiara più di 100mila euro (meno di mezzo di milione di persone in tutto il paese). Oltre un milione di persone afferma di guadagnare zero o addirittura di avere un reddito negativo.
(da La Notizia)

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PARTITO E AZIENDA, L’IMPERO TREMA

Aprile 6th, 2023 Riccardo Fucile

IL FUTURO È UN REBUS

Per tutti, adesso, è il momento della speranza, di un ottimismo che è anzitutto un dovere: «Il suo umore? Il nostro è buono », taglia corto il fratello del Cavaliere, Paolo. Sullo sfondo, però, c’è la consapevolezza che l’ex premier stia vivendo la sfida più difficile della sua vita. E, per quanto si parli di un uomo di 86 anni, la sola idea dell’evento peggiore provoca uno choc generale.
§Ora, il peggioramento delle condizioni dell’ex premier mette d’improvviso l’impero del tycoon di Arcore davanti a un futuro incerto. In realtà, le ultime mosse politiche avrebbero avuto come ratio anche la messa in sicurezza delle aziende.
E questo scopo, in particolare, avrebbe animato la scelta di far sposare a Forza Italia una linea meno aggressiva nei confronti del governo, ridimensionando le ambizioni di dirigenti come Alessandro Cattaneo e Licia Ronzulli considerati “falchi”. Una decisione fortemente voluta da Marta Fascina ma benedetta da Marina Berlusconi.
Rivela un esponente azzurro che è nel partito dal ‘94: «Da tempo la famiglia non vede più il partito fra gli asset principali, diciamo così, del gruppo. Meglio diventare nei fatti una costola di Fratelli d’Italia: si tutelano maggiormente gli interessi imprenditoriali».
Ma la rilevanza di una figura come quella del Cavaliere non può che provocare incertezza, oggi, fra i quasi 5 mila dipendenti del gruppo – che ha spostato la sede legale in Olanda – e soprattutto nell’esercito di 400 eletti, a ogni livello, in Forza Italia: tutti, ai piani alti del partito, sono concordi nell’affermare che la presenza di Berlusconi nelle campagne elettorali – anche indirittamente vale i due terzi dei consensi di FI.
E i sondaggisti sono unanimi nell’asserire che alle ultime Politiche l’insperato 8 per cento sia frutto quasi esclusivo del ritorno in campo dell’ex premier.
A tutto vantaggio dei parlamentari eletti in liste bloccate: ci sono 63 fra senatori e deputati, per non parlare dei cinque ministri, che tutto devono all’anziano patriarca di Arcore.
Il futuro è davvero un’incognita: il partito dovrebbe passare nelle mani di Antonio Tajani e di Marta Fascina, che nell’ultima tornata di nomine hanno fatto il pieno di fedelissimi.
Ma l’opposizione interna potrebbe far valere lo statuto del partito, che all’articolo 23 definisce la composizione del comitato di presidenza: e questo organismo non contempla il coordinatore, che oggi è appunto Tajani.
L’opposizione interna è già pronta a dare battaglia contro una eventuale successione automatica del vicepremier e ministro degli Esteri a Silvio Berlusconi. Tajani, si fa notare, non ha neppure la rappresentanza legale del partito, dunque la disponibilità del simbolo, per anni affidata all’ex senatore Alfredo Messina.
All’orizzonte potrebbe profilarsi un esodo di massa. Verso il partito della Meloni, appunto, la Lega o formazioni centriste.
E poi c’è la questione finanziaria, non irrilevante: Forza Italia ha un indebitamento di circa 90 milioni, coperto da due fideiussioni personali di Berlusconi. Gli eredi continuerebbero a garantirle?
(da La Repubblica)

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I PARLAMENTARI DI FORZA ITALIA SONO NEL PANICO: CHI PRENDERÀ LE REDINI DEL PARTITO DOPO SILVIO BERLUSCONI?

Aprile 6th, 2023 Riccardo Fucile

MARINA BERLUSCONI POTREBBE ACCOMPAGNARE L’ULTIMA FASE DEL REGNO DEL PADRE, INSIEMA A MARTA FASCINA. MA UN PARTITO CHE È STATO UNA SORTA DI PROPRIETÀ PRIVATA DI CHI LO HA INVENTATO ACCETTEREBBE UN’EREDITÀ DINASTICA? IL RISCHIO DIASPORA È FORTE

Il ricovero del Cavaliere al San Raffaele, il secondo in pochi giorni, ha rinfocolato nelle chiacchiere di corridoio a Montecitorio l’interrogativo su cosa sarebbe di Forza Italia, non nel caso in cui il leader venisse a mancare, ma anche se dovesse accentuarsi la forzata assenza a cui è costretto da oltre un anno.
Negli ultimi tempi c’è stato chi ha messo in dubbio la reale convinzione con cui il Fondatore avrebbe pilotato l’accostamento filogovernativo del suo partito, voluto in realtà – s’è detto – dai figli Marina e Piersilvio, soprattutto dalla prima, che avrebbe costruito uno stretto rapporto personale con la premier Meloni.
Marina Berlusconi non potrebbe che essere incoraggiata dalle circostanze: se lei volesse, e non è affatto detto che lo voglia, potrebbe accompagnare l’ultima fase del regno del padre come in parte sta già facendo, insieme alla compagna Marta Fascina, in attesa di prenderne il posto.
Ma un partito che è già stato una sorta di proprietà privata di chi lo ha inventato accetterebbe un’eredità dinastica? Qui la risposta dipende dalle alternative politiche che potrebbero riguardare i 44 deputati e i 18 senatori di FI.
Il rischio di una diaspora è forte. Evitarlo dipenderà soprattutto dall’agibilità politica di quell’ipotesi di Centro al momento affidata a Calenda. Con Renzi che cerca svaghi dappertutto (da ieri è anche direttore del “Riformista”), ma sotto sotto aspetta il momento buono per tornare in pista in prima linea, magari alla guida di un nuovo partito post-berlusconiano.
(da La Stampa)

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