Giugno 8th, 2023 Riccardo Fucile
“NOI ABBIAMO BISOGNO DELL’EUROPA. E L’EUROPA NUTRE DIFFIDENZA NEI NOSTRI CONFRONTI”
La fragilità crescente della democrazia, in Italia e nel mondo. Il futuro dell’Europa, in bilico tra due diverse concezioni della sovranità. Il rapporto del governo con gli istituti di garanzia e le grandi manovre per la Corte Costituzionale: la destra oggi al governo darà prova di saggezza democratica? A conversazione con Giuliano Amato
«Vedo tracce di una fragilità crescente della democrazia nel nostro paese, ma le vedo ancor di più negli Stati Uniti. Ora il disfacimento di alcuni fili importanti della nervatura democratica può portare a un indebolimento delle istituzioni, ma non vedo quel rischio autoritario denunciato da Stiglitz e Prodi […] la mia impressione è che ci sia un timore precostituito legato alle origini fasciste di buona parte di questa destra».
Ma non è opportuno che Fratelli d’Italia faccia i conti con le sue radici nere, riconoscendo l’antifascismo?
«Sì, questo è un punto non negoziabile. È impensabile che governanti e cariche istituzionali che giurano fedeltà alla Costituzione non riconoscano l’antifascismo. Senza l’antifascismo non ci sarebbe la Costituzione. Se non avessimo avuto la Resistenza e la classe dirigente che ne è figlia, saremmo stati considerati come la Germania: solo un Paese sconfitto, la cui Costituzione venne scritta non da un’Assemblea costituente eletta da tutti i cittadini, ma da un ristretto consesso sotto lo sguardo vigile dei Paesi occupanti. Un’umiliazione che a noi è stata risparmiata. ».
Perché Giorgia Meloni fa fatica a riconoscerlo?
«Perché dentro il suo partito resistono ancora robusti residui della cultura fascista. Sono assolutamente convinto che se ne dovrebbe liberare al più presto. Altrimenti non può sperare di ricevere lo stesso trattamento di chi s’è liberato di pesanti eredità, in Italia e in Europa».
Lei si riferisce alla resistenza dei popolari tedeschi a fare accordi con chi non ha rotto con l’eredità fascista. Una delle condizioni poste dal capogruppo europeo Manfred Weber è la soppressione della fiamma neofascista di Almirante che continua a contrassegnare il simbolo di Fratelli d’Italia. Ma il partito non è convinto di questa amputazione.
«Chi non ha conosciuto la Germania non si rende conto di quanto serio e profondo sia stato l’esame di coscienza antinazista. Questa destra deve fare i conti con il fascismo con lo stesso rigore con cui i cristianodemocratici li hanno fatti con il nazismo ».
Il disegno della presidente Meloni, in vista delle elezioni del prossimo anno, è guidare in Europa uno schieramento che metta insieme popolari conservatori e destra sovranista. Che cosa accadrebbe se vincesse questa destra antieuropea?
«Non sarebbe un esito auspicabile. Ma io preferisco soffermarmi su un possibile percorso alternativo. La destra italiana è in mezzo a una contraddizione. Da un lato assistiamo a una deriva che è figlia della sua storia, precedente all’esperienza di governo: l’alleanza con Orbán ne è la prova più evidente. Dall’altro lato è in atto una controtendenza moderata che spinge la stessa destra ad avere un ruolo di primo piano nell’Unione europea. Ma un ruolo di primo piano non lo eserciti stando al fianco di Orbán. Sarebbe una politica suicida. Il premier che non vuole popoli di razza mista non vale la Francia o la Germania, suvvia».
Eppure al momento resiste l’accordo con Orbán.
« Sarebbe sbagliato non vedere anche l’altro percorso europeo, con le sue indiscutibili convenienze. Con un debito pubblico ancora altissimo e un’economia a rischio anche a causa dei ritardi del Pnrr, in che condizioni si troverà l’Italia tra un paio d’anni? Noi abbiamo bisogno dell’Europa. E l’Europa nutre ancora diffidenza nei nostri confronti. Converrà alla Meloni schierarsi con Orbán o piuttosto mettere al riparo la nostra economia? Senza contare che con la scomparsa di Berlusconi dalla scena pubblica s’apre, per chi ne ha il coraggio in questa destra, la porta per il centro politico».
Una Meloni moderata e centrista sembra al momento più un auspicio che una realtà. Nelle ultime settimane si sono moltiplicati i gesti di insofferenza del governo verso gi istituti di garanzia, i poteri terzi e neutri. L’ultimo episodio riguarda la Corte dei Conti, privata per decreto del potere di controllo sul Pnrr.
«Togliere completamente quel controllo della Corte dei Conti è un errore. Sarei stato più elegante: l’avrei ripristinato nel modo collaborativo in cui l’aveva pensato Brunetta, sopprimendo gli aspetti punitivi che spingono gli amministratori a non fare. E aggiungo: una modifica ordinamentale di questa natura non si fa con un emendamento a un decreto legge, questo è davvero criticabile».
Non la inquietano le critiche alla Banca d’Italia, l’aggressione all’Ufficio Bilancio di Palazzo Madama che mostra i limiti dell’autonomia differenziata, l’assalto all’informazione pubblica?
«Mi sembrano tutti segnali di una scarsa dimestichezza con il complesso delle istituzioni indipendenti. Un test della maturità di questa destra lo avremo con le nomine alla Corte Costituzionale. Tra questo e il prossimo anno, scadranno quattro giudici indicati dal Parlamento. Vedremo se le nuove nomine saranno tutte espressione della maggioranza politica, alla quale mancano solo 11 voti per i 3/5 necessari».
Un altro test sono le riforme costituzionali. Secondo il disegno di legge presidenzialista, proposto da Meloni prima di divenire premier, il presidente della Repubblica diventerebbe una figura iperpoliticizzata, non più garante di tutti.
«In una società divisa come la nostra, molto più polarizzata rispetto a quella di quarant’anni fa quando io stesso ero sostenitore del presidenzialismo, una riforma del genere contribuirebbe a scavare le divisioni: il presidente eletto sarebbe espressione di una sola parte politica, riconosciuto dai suoi elettori e detestato dagli sconfitti. Una soluzione malvista dagli italiani, che amano una figura presidenziale super partes».
È rimasto in piedi il premierato.
«Ma anche nel caso del premierato, mi pare stia prevalendo una linea più morbida. È stata scartata infatti l’elezione solitaria del premier: davanti a un primo ministro che ha la legittimazione popolare diretta, la figura del capo dello Stato perderebbe la sua autorevolezza.
Quindi si sta andando verso una strada già battuta in passato, ossia la possibilità per i cittadini di indicare nella scheda per il Parlamento il leader che si vuole come presidente del Consiglio, con in più la fiducia parlamentare solo a lui e non anche ai ministri. Sarebbe una riforma costituzionale molto limitata, probabilmente condivisa da buona parte del centro-sinistra, e che non andrebbe così al referendum che – come sa bene la presidente Meloni – è sempre un rischio per il governo».
In questo caso Meloni riuscirebbe a realizzare solo una piccola parte della sua riforma: non per sincera vocazione democratica, ma perché andrebbe incontro a una bocciatura degli elettori. E a proposito della sintonia con Orbán nella guerra contro gli omosessuali, arriverà presto in aula la legge già approvata in commissione che rende la maternità surrogata “reato universale”.
«Fui io a scrivere parole di fuoco contro la maternità surrogata nella sentenza della Corte Costituzionale. Lo ricordo perché non vorrei che l’attuale crociata della destra spinga il Pd a una sua difesa ad oltranza. La maternità surrogata “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”, come sta scritto nella sentenza».
Condivido. Ma il reato universale?
«Sono assolutamente contrario perché porta la propria giurisdizione al di là di ciò che le è consentito, esponendola a una contraddizione».
(da La Repubblica)
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Giugno 8th, 2023 Riccardo Fucile
ALLEATASI CON BERLUSCONI, A GIORGIA RIMANE UNA SPINA NEL FIANCO, SALVINI. ORA VUOLE SPINGERLO A DESTRA SERRANDO LA PORTA DEL GRUPPO DEI CONSERVATORI EUROPEI DI CUI E’ PRESIDENTE
Il motto, a Palazzo Chigi, è divenuto: “Meglio perdere che perdersi”. Giorgia Meloni, nella definitiva trasformazione da Draghetta a Ducetta, ha deciso di calzare l’elmetto e andare allo scontro frontale con quei poteri che osano interferire, sabotare, rallentare la sua azione di governo.
Nei suoi primi mesi da Presidente del Consiglio, Donna Giorgia ha provato a darsi una veste più istituzionale, dialogante e moderata, ribaltando come se niente fosse tutte le prese di posizione del recente passato quando si sollazzava a fare l’opposizione. Ma il richiamo della foresta, cioè la sua natura guerresca, unito agli ostacoli che le sono via via piovuti sul capo, l’hanno convinta a dissotterrare il manganello. Una riconversione culturale e anche ideologica.
I suoi continui scontri con la Francia di Macron, i conflitti con l’Ue su Pnrr (la terza rata da febbraio non si vede), Mes (a Bruxelles Giorgia è odiata), la riforma del Patto di stabilità, le mosse per la conquista della Commissione europea in vista delle elezioni 2024, lo scazzo con la Corte dei Conti, il rialzo dei tassi della Bce e le minacce delle agenzie di rating, la tenaglia Usa-Cina legata alla Via della Seta, eccetera, hanno convinto Giorgia Meloni a sfanculare il “giannilettismo” democristo e quirinalizio della Roma Potentona per imbracciare il bazooka. Della serie: visto che i “poteri storti” non perdono occasione di sabotarci, andiamo alla guerra. Bang! Bang!
In questo cambio di “narrazione”, sempre più bellicista e vaffanculista, s’è consumato uno scontro all’interno dell’inner circle meloniano.
Contrario a ogni conflitto, soprattutto con le toghe, c’era l’ex magistrato e sottosegretario Alfredo Mantovano. Quella che fino a ieri era la “mente” politica di Giorgia, consigliere fidatissimo e ascoltatissimo, ha sperato fino alla fine di convincere la premier di evitare tensioni e scontri con la Corte dei Conti.
Mantovano ha spinto come ha potuto per convincere la Reginetta della Garbatella ad assumere una postura più dialogante quindi istituzionale con il Deep State (Finanza, Corte dei Conti, Avvocatura dello Stato, Consiglio di Stato e magistratura ordinaria) ma è stato sconfitto dall’ala oltranzista di Fratelli d’Italia che fa capo a Fazzolari, Donzelli, Foti, Santanché, etc.
Anche il ministro degli Affari europei, Raffaele Fitto, dopo aver scippato a quel ”covo di comunisti” del Mef i dossier del Pnrr, col risultato che nel trasloco ha perso sei mesi, ha rovesciato sulla spalla di Fazzolari il caprone espiatorio: se il Pnrr non va, è colpa dei controlli della Corte dei Conti. Deve morire!
Eppure il povero Fitto aveva provato a stemperare le tensioni, chiamando alla guida della nuova task force sul Pnrr Carlo Alberto Manfredi Selvaggi, magistrato contabile e, come si legge sul sito del Governo, “da oltre un decennio Procuratore Regionale della Corte dei Conti in diverse regioni del Nord, Centro e Sud Italia”.
Una nomina che voleva essere un’apertura verso i magistrati, ma che rischia di porre una questione di conflitto di interessi (come fa la Corte dei Conti a controllare la buona riuscita del Piano, se sta anche dentro la struttura che lo deve “mettere a terra”?)
I falchi restano invece convinti che debba essere la politica a comandare, e non le caste, le corporazioni, le logge o le filiere di potere. Un “vasto programma”, direbbe De Gaulle, che, rigettando l’eterno consociativismo all’italiana, ora dovrà fare i conti con la resistenza delle varie “caste”.
Per innestare la quarta e partire all’assalto, Meloni è stata costretta prima a “coprirsi” all’interno della sua stessa maggioranza. Liquidata Licia Ronzulli e venuto meno l’asse tra Lega e Forza Italia, la premier ha blindato l’alleanza con Silvio Berlusconi (a cui ha promesso il ruolo di “padre nobile” e “gran ciambellano” della futura alleanza tra Ppe e Ecr) attraverso i buoni uffici del sempiterno Gianni Letta, che è così riuscito a piazzare Preziosi al Tg2 e Scaroni alla presidenza di Enel, e il dialogo costante con il duplex Marta Fascina-Marina Berlusconi.
L’asse Forza Italia-Fratelli d’Italia ha reso cristallino il ruolo di solitario antagonista di Matteo Salvini, che non perde occasione di fare il controcanto ai proclami dal balcone di Giorgia.
Dall’autonomia al Pnrr, dalla collocazione internazionale dell’Italia alle nomine, il “Capitone” è la vera spina nel fianco della leader di Fratelli d’Italia, come dimostra anche la tensione durante il vertice sull’emergenza alluvione a Palazzo Chigi, di oggi.
La premier ha annunciato un “tavolo settimanale con gli enti locali, coordinato dal ministro Musumeci (Fdi), e Salvini è sbottato, scrollando le spalle, a braccia aperte e con il “volto infastidito offerto volutamente all’attenzione dei presenti”, come scrive Tommaso Ciriaco su “Repubblica”: ”Quindi faremo riferimento anche noi a Musumeci…”.
Un’inevitabile resa dei conti tra i due litiganti, ci sarà alle elezioni europee, dove ogni partito correrà da solo, vista la legge elettorale proporzionale, e si “peseranno” i rapporti di forza.
Il segretario del Carroccio, in Europa, è completamente isolato: si ritrova nel gruppo Identità e Democrazia insieme a Marine Le Pen e alle svastichelle tedesche di Afd. Per questo, vorrebbe trovare una nuova collocazione, e l’unica opzione, visto che nel Ppe i liberali e i tedeschi non lo vogliono vedere neanche in cartolina, è l’ingresso nei Conservatori e riformisti, gruppo presieduto proprio da Giorgia Meloni. Peccato che la Ducetta non abbia nessuna voglia di far spazio alle truppe leghiste.
Avendo fiutato l’aria pesante (ieri era a cena con Mantovano), Salvini vorrebbe portare a casa almeno la riforma dell’autonomia regionale prima del voto europeo, mentre la Meloni temporeggia: il suo obiettivo è legarla alla modifica dell’assetto istituzionale del Paese (presidenzialismo o premierato che sia).
A proposito di riforme: il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si è molto infastidito per la minaccia della premier di portarle a casa con un voto di maggioranza, per poi andare allo showdown con il referendum.
Davanti a questo repellente scenario meloniano di premierato e presidenzialismo, il Capo dello Stato ha rinforzato la volontà di restare al Quirinale fino alla fine del suo secondo mandato, accantonando ogni ipotesi di dimissioni anticipate. E a dargli manforte, ha trovato proprio Salvini, che, in funzione anti-Giorgia, ha recentemente elogiato il suo ruolo di garante: ”Mattarella non si tocca”.
L’alleanza tra Fratelli d’Italia e Forza Italia, che punta a spingere a destra Salvini, lasciandogli ben poche armi a disposizione, può avere effetti collaterali. La storia patria recente dimostra che i governi apparentemente più solidi iniziano il loro declino a seguito delle baruffe interne: Renzi ricorderà come il Pd accolse il ricorso al referendum nel 2016, e come lo affossò sabotandolo.
La crociata, culturale e ideologica, di Giorgia Meloni, in guerra con il “deep state”, ha ovviamente fatto incazzare i magistrati. Non solo le toghe della Corte dei Conti, a cui il governo ha sfilato il controllo “concomitante” sulla messa a terra del Pnrr, ma anche i magistrati ordinari, che si sono sentiti messi nel mirino dal ministro della Giustizia garantista, Carlo Nordio. Un primo “avviso ai navigati” è arrivato dalla Procura di Napoli, nell’ambito dell’inchiesta sulla corruzione internazionale per il Colombia-gate, che vede indagati, tra gli altri, Massimo D’Alema e Alessandro Profumo.
I pm hanno disposto la perquisizione negli uffici e nelle abitazioni di “Baffino” e dell’ex presidente di Leonardo, a più di un anno di distanza dallo scoppio del caso. Come a dire: l’occhiuto controllo delle procure può arrivare ovunque e in qualsiasi momento. E quasi certamente non mancheranno contraccolpi…
La nuova Giorgia in versione barricadera ha anche smesso di confrontarsi periodicamente con Mario Draghi, il quale, in privato, si lascia andare a previsioni lapidarie: ”Il Pnrr è morto. Non si fa”. E se il Piano restasse carta morta, il PIL italiano che è calcolato sul Pnrr, tornerebbe a vivacchiare alle solite percentuali da zero virgola.
Ps. Dall’operazione contro “deep state” e poteri forti, e dall’alleanza Fratelli d’Italia-Forza Italia, i due a uscire malconci sono: Alfredo Mantovano e Matteo Salvini. I due, che si sono sempre cordialmente detestati, per la prima volta hanno qualcosa in comune…
(da Dagoreport)
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Giugno 8th, 2023 Riccardo Fucile
GLI ARTICOLI IN DIFESA DELLA PREMIER
C’è un problema con l’ascensore a Palazzo Chigi? Niente paura, con un importo di 4mila euro arriva la Romeo gestioni e lo risolve.
Se c’è bisogno di un intervento di manutenzione al sistema antincendio? Per poco meno di 2mila euro arriva sempre la Romeo gestioni.
E se servono dei lavori agli infissi della sede del governo? Gli addetti della Romeo accorrono di nuovo. Insomma, sotto forma di raggruppamento temporaneo di imprese, la società è di casa alla presidenza del Consiglio, compiendo decine e decine di interventi, secondo quanto stabilito da un vecchio contratto.
MANUTENZIONI GOVERNATIVE
La Romeo gestioni è una delle realtà che compongono il gruppo fondato da Alfredo Romeo, che estende i suoi interessi anche al settore immobiliare e alberghiero. La sua vicinanza con la politica è nota, da sempre vanta buoni rapporti con Matteo Renzi e la sua famiglia, in testa il padre Tiziano.
Nel frattempo, le aree di azione dell’imprenditore napoletano si sono allargate al mondo editoriale: dopo Il Riformista, ha riportato in edicola L’Unità, intrecciando così politica, potere economico e informazione. Le prossime settimane saranno decisive per capire il rapporto con le istituzioni, nello specifico quello tra il gruppo di Romeo e la presidenza del Consiglio.
Il 30 giugno, infatti, scade l’accordo esecutivo che assegna da un decennio alla sua società gli interventi di manutenzione di tutti gli edifici della presidenza del Consiglio: da Palazzo Chigi a via delle Mercede, da Palazzo Vidoni a Villa Lubin.
L’accordo è entrato in vigore nel 2013, nell’ambito della convenzione Consip Facility management 3, nel lotto relativo agli immobili del centro di Roma. In quell’anno è stata sottoscritta un’intesa della durata di sette anni, attraversando vari governi. Successivamente, si è proceduto con una serie di proroghe, la prima del governo Conte nel 2020, l’altra del governo Draghi, a causa del Covid e dei ritardi della Consip sul completamento di successive convenzioni. Giorgia Meloni ha ereditato il prolungamento disposto nel maggio 2022 fino al prossimo giugno. Ora tocca a lei: la decisione fa capo solo alla struttura di Palazzo Chigi e può essere presa in base alle esigenze manifestate dal governo.
NUOVE OPZIONI
La Consip, intanto, ha messo a disposizione una prima opzione: la convenzione Facility management (Fm) 4 per cui Romeo è finito sotto processo negli anni scorsi, con l’accusa di turbativa d’asta, venendo assolto «perché il fatto non sussiste». D’altra parte risulta tuttora imputato per traffico di influenze, in un altro filone dell’inchiesta sugli appalti Consip. Al netto delle vicende giudiziarie, comunque, la convenzione Fm 4 è stata aggiudicata dal raggruppamento temporaneo di imprese Engie servizi. C’è poi l’accordo quadro della Consip chiamato “grandi immobili”, che si suddivide in due lotti: il primo, relativo agli edifici con superficie compresa tra 25mila e gli 80mila metri quadri, vinto dalla Romeo Gestioni e dal rti Dussmann service; il secondo destinato ai patrimoni immobiliari ubicati nel Comune di Roma, con superficie inferiore a 25mila quadri, di cui risultano fornitori Romeo Gestioni e il rti Italiana facility management. In tutti casi, la decisione della presidenza del Consiglio avrà un impatto sul rapporto con la società dell’imprenditore-editore.
E qui si intreccia la partita dell’informazione, che si muove tra gli affari con Palazzo Chigi e le linee editoriali seguite dai due quotidiani acquistati da Romeo.
LINEA SOFT
Non stupisce allora che Il Riformista possa assumere una posizione comprensiva verso il governo. Il direttore editoriale è Matteo Renzi, lo stesso senatore e leader di Italia viva, finora più polemico verso Pd e Movimento 5 Stelle che nei confronti del centrodestra. Il direttore responsabile è Andrea Ruggeri, già deputato di Forza Italia. Ma la situazione è diversa se si parla dell’Unità, che assume toni talvolta teneri nei confronti del governo. È un fatto più sorprendente perché si tratta del giornale fondato da Antonio Gramsci, come si onora di scrivere sotto la testata, il quotidiano diretto da Piero Sansonetti. Un esempio è il primo editoriale, in difesa della premier sulle inchieste giornalistiche condotte intorno alla rete dei rapporti economici e societari della sua famiglia. E così via, tra un rimpianto per il centrodestra di Silvio Berlusconi e una celebrazione del «trionfo» della presidente del Consiglio il 2 giugno, gli articoli hanno scelto talvolta una linea morbida. O una critica dai tratti gentili.
(da editorialedomani)
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Giugno 8th, 2023 Riccardo Fucile
I FOTOGRAMMI DEI SOPRUSI AGLI ATTI DELL’INDAGINE CHE HANNO PORTATO AGLI ARRESTI DEI CINQUE AGENTI DELLA QUESTURA (E ALTRI 21 SONO INDAGATI)
Eccole le immagini della vergogna della Questura di Verona: eccolo il poliziotto in divisa che dopo aver costretto un uomo appena fermato per un normale controllo di polizia, prima a urinare per terra. E poi, buttato a terra, a “essere utilizzato come uno straccio per pavimenti sulla sua stessa urina”.
I video e i fotogrammi, depositati oggi dalla Polizia nell’indagine che ha portato agli arresti di cinque agenti e all’iscrizione nel registro degli indagati di altri 21, raccontano drammaticamente cosa accadeva nell’acquario della questura di Verona.
Una delle sequenze peggiori documenta cosa è accaduto a Daju Nicolae, cittadino rumeno fermato durante un controllo per strada. L’agente Alessandro Migliore prima gli spruzza uno spray al peperoncino in faccia, gratuitamente, come si evince dal video. Dopodiché Nicolae comincia ad avere urgenza di andare in bagno e batte contro il vetro di plexiglass, chiedendo di utilizzare i servizi.
“Questa era la ragione del comportamento apparentemente intemperante del fermato, che spiega anche come mai, ad un certo punto, egli si sia visto costretto ad urinare all’interno della stanza, venendo per questo percosso selvaggiamente e spruzzato con lo spray urticante” scrive la gip nell’ordinanza.
Ma non basta: Nicolae fa pipi per terra ed è a quel punto che l’agente lo prende, lo strattona e lo butta per terra. Utilizzandolo appunto “come uno straccio”.
(da La Repubblica)
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Giugno 8th, 2023 Riccardo Fucile
ACCORDO CON I PM ANCHE PER IL DEPUTATO MELONIANO GIANGIACOMO CALOVINI: L’INDAGINE SI RIFERISCE ALLE DIMISSIONI DA CONSIGLIERE COMUNALE DI BRESCIA DI GIOVANNI ACRI, SEMPRE DI FDI, CHE AVREBBE LASCIATO IL SUO INCARICO, IL 25 GIUGNO DEL 2021, PER FAR SUBENTRARE IL PRIMO DEI NON ELETTI, CIOE’ CALOVINI, VICINO ALLA CORRENTE DI FIDANZA. IN CAMBIO, SECONDO L’ACCUSA, AVREBBE OTTENUTO L’ASSUNZIONE DEL FIGLIO, JACOPO ACRI, COME ASSISTENTE PARLAMENTARE DI FIDANZA
Hanno concordato con la Procura di Milano un patteggiamento a un anno e 4 mesi, pena sospesa e senza interdizione dai pubblici uffici, l’europarlamentare di Fdi Carlo Fidanza e il deputato dello stesso partito Giangiacomo Calovini, che erano finiti indagati per corruzione.
In particolare, stando alle indagini dei pm Giovanni Polizzi e Cristiana Roveda, l’ex consigliere comunale di Brescia Giovanni Acri, sempre di Fdi, avrebbe lasciato il suo incarico, il 25 giugno del 2021, facendo subentrare in Consiglio comunale il primo dei non eletti, ossia Calovini (poi diventato deputato), vicino alla corrente politica di Fidanza. E in cambio, secondo l’accusa, avrebbe ottenuto l’assunzione del figlio, Jacopo Acri, come assistente dell’europarlamentare Fidanza.
Secondo l’accusa, Fidanza sarebbe stato il promotore del presunto accordo illecito per poter assegnare una carica a Calovini, esponente della corrente interna del partito che faceva capo all’eurodeputato. L’accordo di patteggiamento, di cui ha dato conto il Corriere della Sera on line e confermato da fonti legali, prevede la riqualificazione dell’accusa da “corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio” a “corruzione per l’esercizio della funzione”.
E oltre alla sospensione condizionale della pena prevede anche per Calovini, difeso dal legale Andrea Puccio, e per Fidanza, assistito dall’avvocato Enrico Giarda, nessuna applicazione di pene accessorie, come la interdizione dai pubblici uffici, e dunque la possibilità per loro di continuare a stare in Parlamento.
Sulle istanze dovrà comunque esprimersi un gip. Al momento per Acri e un altro indagato, Giuseppe Romele, ex vicecoordinatore lombardo di Fdi, non sono state presentate, a quanto si è saputo, istanze simili di patteggiamento, dopo la chiusura delle indagini da parte dei pm milanesi che risale allo scorso gennaio.
(da agenzie)
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Giugno 8th, 2023 Riccardo Fucile
“ERA SOLO UN FATTORINO” HA SÌ LAVORATO COME SPIA, MA IL SUO RUOLO ERA QUELLO DI SEMPLICE PASSACARTE: DOVEVA CONTROLLARE LE DOMANDE PER LE VISITE DEI PARENTI DELLA GERMANIA OCCIDENTALE E FICCARE IL NASO TRA GLI STUDENTELLI DELL’UNIVERSITÀ DI DRESDA
Putin spia d’elite del KGB? No. Non è stato probabilmente così. Le imprese passate del presidente russo sono probabilmente false. Si tratta, d’altra parte, di un’epoca della sua vita avvolta dal mistero. E che lui stesso non ha mai commentato. Anche se sono circolate molte storie sulle sue presunte imprese.
L’indagine del quotidiano tedesco Der Spiegel svela un’altra realtà. La maggior parte del lavoro di Putin era in realtà limitato a “banali” compiti amministrativi. Citando uno degli ex colleghi di Putin presso l’ufficio di Dresda del KGB, trapela che il suo “lavoro consisteva principalmente nell’esaminare all’infinito le domande per le visite dei parenti della Germania occidentale o nella ricerca di potenziali informatori tra gli studenti stranieri dell’Università di Dresda”.
Putin, inoltre, è raramente menzionato nei registri della Stasi (il nome della polizia segreta della Germania dell’Est). In quelli che fanno riferimento a lui, è solo per quanto riguarda il suo compleanno o compiti amministrativi.
Nessuno fornisce prove a sostegno delle storie menzionate in precedenza. Horst Jehmlich, un ex ufficiale della Stasi che ha lavorato anche a Dresda, ha detto a Der Spiegel che Putin non era altro che un “fattorino”.
“Ha mentito”, era “solo un maggiore”. Così Oleg Kalugin, ex ufficiale di alto rango del KGB e feroce critico di Putin, in un’intervista con RFE/RL nel 2015. Putin ha lavorato per il KGB, il servizio di intelligence dell’Unione Sovietica, per quasi due decenni.
(da Il Messaggero)
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Giugno 8th, 2023 Riccardo Fucile
“LE CONSEGUENZE GEOPOLITICHE DELL’AGGRESSIONE DI PUTIN INFLUENZERANNO L’EUROPA PER ANNI”
Una vittoria della Russia o un «pareggio confuso» nella guerra in Ucraina sarebbe fatale per l’Unione Europea. Lo ha detto l’ex premier italiano Mario Draghi in un discorso al Mit di Boston dove ha ricevuto il premio Miriam Pozen. Per Draghi «la guerra in Ucraina, come mai prima d’ora, ha dimostrato l’unità dell’Ue nella difesa dei suoi valori fondanti, andando oltre le priorità nazionali dei singoli Paesi. Questa unità sarà cruciale negli anni a venire». Ovvero quando bisognerà «ridisegnare l’Unione, per accogliere al suo interno l’Ucraina, i Paesi balcanici e i Paesi dell’Europa orientale». E «nell’organizzare un sistema di difesa europeo complementare alla Nato». Draghi ha rifiutato la guida della Nato. Ma è considerato uno dei candidati alla guida della Commissione Europea nel 2024.
Le conseguenze della guerra di Putin
Secondo l’ex premier le conseguenze geopolitiche di un conflitto prolungato al confine orientale dell’Europa sono molto significative, quindi bisogna prepararsi. Primo, «l’Ue deve essere disposta a rafforzare le proprie capacità di difesa». Secondo, «dobbiamo essere pronti a iniziare un viaggio con l’Ucraina che porti alla sua adesione alla Nato». Terzo, «dobbiamo prepararci a un periodo prolungato in cui l’economia globale si comporterà in modo molto diverso rispetto al recente passato». Per esempio, «mi aspetto che i governi abbiano per sempre deficit più alti».
Perché la sfida climatica o la necessità di rafforzare le catene di approvvigionamento, «richiederanno investimenti pubblici sostanziosi che non possono essere finanziati solo da aumenti di tasse». Questa spesa pubblica maggiore «aggiungerà pressione all’inflazione, oltre ad altri possibili shock sul lato dell’offerta». E nel lungo periodo, secondo Draghi «è probabile che i tassi di interesse resteranno più alti che nello scorso decennio».
Kiev deve vincere
L’ex presidente della Bce dice che «accettare una vittoria russa o un pareggio confuso indebolirebbe fatalmente altri Stati confinanti. E manderebbe un messaggio agli autocrati che l’Ue è pronta a scendere a compromessi su ciò che rappresenta, su ciò che è. Segnalerebbe inoltre ai nostri partner orientali che il nostro impegno per la loro libertà e indipendenza – un pilastro della nostra politica estera – non è poi così incrollabile». Invece una vittoria per l’Europa «significa avere una pace stabile. E oggi questa prospettiva appare difficile. L’invasione della Russia fa parte di una strategia delirante a lungo termine del presidente Putin: recuperare l’influenza passata dell’Unione Sovietica e l’esistenza del suo governo è ora intimamente legata al suo successo. Ci vorrebbe un cambiamento politico interno a Mosca perché la Russia abbandoni i suoi obiettivi, ma non vi è alcun segno che un tale cambiamento si verificherà»
Le banche centrali e i governi
L’ex premier ha parlato anche di politica economica. «Le banche centrali devono certamente essere molto attente al loro impatto sulla crescita, in modo da evitare inutili sofferenze. Ma il compito ricadrà principalmente sui governi che dovranno ridisegnare le politiche fiscali in questo nuovo contesto» di tassi alti, bassa crescita potenziale e debiti pubblici elevati, dice l’economista. I governi, ha spiegato Draghi, «dovranno imparare a vivere in un mondo in cui lo spazio fiscale non è infinito, come sembrava essere quando i tassi di crescita superavano di parecchio i costi di indebitamento».
E se alcune delle lezioni degli ultimi trent’anni sono state comprese, ha aggiunto, «sarà necessario prestare molta più attenzione alla composizione della politica fiscale», che dovrebbe essere progettata «per aumentare il potenziale di crescita, proteggendo e includendo allo stesso tempo coloro che hanno più bisogno di aiuto». Questo quadro, però, «potrebbe cambiare radicalmente se un’ondata di potenti innovazioni, come l’intelligenza artificiale, dovesse scuotere il mondo e aumentare la crescita globale», ha concluso.
(da agenzie)
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Giugno 8th, 2023 Riccardo Fucile
NOTTE TRANQUILLA E INTERVENTO “SENZA COMPLICAZIONI”
Papa Francesco ha trascorso una notte tranquilla al Policlinico Gemelli. Ieri Jorge Mario Bergoglio ha subito una laparotomia. Ovvero l’intervento chirurgico di tre ore all’intestino in anestesia generale, «senza complicazioni».
Ad operare l’équipe guidata dal professor Sergio Alfieri. Dallo staff del Policlinico universitario trapela che la situazione è tranquilla. Non ci sono altre novità dopo quelle già comunicate ieri sera. Il Pontefice ha reagito bene all’intervento chirurgico, era vigile e cosciente e non mancava anche di “fare battute”.
Il decorso post-operatorio, al momento, procede come previsto. Il laparocele causava al Santo Padre da alcuni mesi una sindrome subocclusiva intestinale dolorosa ingravescente.
Nel bollettino di ieri si specificava che nel corso dell’intervento chirurgico sono state riscontrate delle tenaci aderenze tra alcune anse intestinali medio-tenuali parzialmente conglobate ed il peritoneo parietale che causavano la sintomatologia sopra menzionata.
«Si è proceduto pertanto alla liberazione delle aderenze (cicatrici interne) con sbrigliamento completo di tutta la matassa tenuale. È stata quindi eseguita la riparazione del difetto erniario mediante una plastica della parete addominale con l’ausilio di una rete protesica. L’intervento chirurgico e l’anestesia generale si sono svolte senza complicazioni. Il Santo Padre ha reagito bene all’intervento chirurgico».
Le condizioni del Pontefice
Massimo Antonelli, direttore dell’Unità operativa complessa Anestesia , Rianimazione, Terapia Intensiva e Tossicologia Clinica del Policlinico Universitario A. Gemelli Irccs, ha parlato con l’AdnKronos delle condizioni del Pontefice. «Alla domanda se sentisse dolore a seguito dell’intervento, il Santo Padre ha risposto più con cenni della testa che con le parole, rassicurando tutti noi che stava bene e che non provava alcun dolore fisico. Sono state queste le prime battute che abbiamo scambiato con Papa Francesco poco dopo il suo trasferimento nell’appartamento riservato al Pontefice nel Reparto Solventi», ha spiegato Antonelli.
La terapia intensiva
La stanza del Pontefice è dotata anche di una vera e propria terapia intensiva. «È così da quando fu allestita nel 2005, in occasione dell’ultimo intervento chirurgico a cui venne sottoposto Papa Giovanni Paolo II», conclude Antonelli.
(da Open)
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