Ottobre 11th, 2023 Riccardo Fucile
CHI HA PAGATO? NON SI DICE
Un weekend di lusso, con ospitata al Gran Premio e alloggio in uno dei più esclusivi hotel di Singapore. In un clima rilassato, a metà tra la visita istituzionale e la gita scolastica, fra un aperitivo e un bagno in piscina, fra il 15 e il 17 settembre scorsi, una delegazione della Regione Liguria guidata da Giovanni Toti assiste alla vittoria del ferrarista Carlos Sainz. In parallelo, lontano da occhi indiscreti, si discute dei futuri assetti pubblici del porto di Genova, vis à vis coi vertici privati di Psa, fra i più grandi operatori marittimi mondiali, che a Genova controlla mezzo porto. Ma quanto è costato quel viaggio? Chi ha pagato e perché?
A chiederlo, in un’interrogazione presentata ieri, è il consigliere Ferruccio Sansa: “Toti è andato a sostenere la Liguria o a vedere la Formula 1? Difficile dire se sia più grave che abbia visto la Ferrari con soldi pubblici o se come una figura istituzionale riceva regali gratis da operatori economici privati”.
Lo staff di Toti si è limitato a dire che si è trattato di “una visita privata”, nonostante la stessa Regione Liguria, sui canali social lo avesse definito un viaggio “istituzionale”.
La differenza non è poca cosa, la confusione crea opacità. Se a pagare è l’ente pubblico, le spese andrebbero rendicontate. Se a saldare il conto è stato il privato, ragionano dall’opposizione, dovrebbe invece esserci un riscontro del “dono”, per evitare anche l’ombra di possibili conflitti di interesse.
Ma su questo la replica dello staff di Toti è succinta: “I costi non sono andati a carico dell’ente. È stata l’occasione per incontrare partner strategici in ambito portuale e non solo. Abbiamo assistito al GP, di cui Psa è sponsor, e abbiamo pure portato fortuna alla Ferrari”.
Di quella tre giorni circolano foto fra piscine, suite e paddock. Della delegazione facevano parte alcuni fedelissimi di Toti, come il capo di gabinetto Matteo Cozzani e la portavoce Jessica Nicolini. In quegli stessi giorni a Singapore era presente anche il padre Enrico, noto ex calciatore della Sampdoria, che ha postato una foto della piscina sull’attico del Marina Sands Bay, albergo da 600 euro a notte, e un messaggio: “Bye bye Singapore”.
A fare gli onori di casa era il colosso Temasek, la holding del fondo sovrano di Singapore che attraverso Psa a Genova è concessionaria delle banchine di Pra’-Voltri e del terminal Sech. Corsi e ricorsi storici: nel 2017 una delegazione guidata da Toti andò in pellegrinaggio a Ginevra, nella tana di un altro big, Gianluigi Aponte, patron di Msc, a bordo del jet privato del petroliere Alessandro Garrone. A 5 anni di distanza a Genova è in costruzione la mega diga, finanziata con 1,3 milioni di euro pubblici, di cui, secondo un esposto, il maggior beneficiario è proprio Aponte.
Toti stesso, in modo piuttosto disinvolto, ha confidato a il Secolo XIX di aver incontrato i manager Tan Chon Meng e David Yang, vertici di Psa, e di aver discusso dei nuovi assetti portuali, dalle alleanze fra operatori privati all’allargamento del porto di Pra’. Argomenti che, accusano Cgil-Cisl e Uil, non sarebbero nemmeno di competenza di Toti, ma del presidente dell’autorità portuale, e che andrebbero affrontati in sedi istituzionali. Non al paddock, non in piscina, e nemmeno in casa dei concessionari. Lo pensano anche migliaia di cittadini del ponente, che da anni avversano qualsiasi ipotesi di allargamento delle banchine, e si vedono costretti a decifrare le veline delle vacanze totiane.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Ottobre 11th, 2023 Riccardo Fucile
L’ARTICOLO DEL WALL STREET JOURNAL CHE INQUADRAVA IL CONFLITTO
Per inquadrare il conflitto Israele – Hamas riteniamo utile tradurre
questo articolo, comparso a gennaio 2009 sul Wall Street Journal a firma di Andrew Higgins.
La nozione che Israele abbia avuto un ruolo nella ascesa degli islamisti palestinesi non è forse così bizzarra, se si considera la strumentalizzazione dell’islamismo da parte degli Usa, e di come tali forze si siano volte contro chi precedentemente le ha favorite per colpire i propri nemici (laici).
Il motivo per cui risulta totalmente assente dal mainstream è forse che essi sono ciascuno il riflesso dell’altro, e che tifare per uno dei due significa inoltrarsi in un dedalo di violenze autoalimentatesi, smarrendo il filo d’Arianna della veridicità storica e e della ragionevolezza politica.
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Esaminando le macerie del bungalow di un vicino colpito da un razzo palestinese, il funzionario israeliano in pensione Avner Cohen traccia la traiettoria del missile fino a collegarla ad un “enorme, stupido errore” commesso 30 anni fa.
“Hamas, con mio grande rammarico, è una creazione di Israele”, afferma Cohen, un ebreo di origine tunisina che ha lavorato a Gaza per più di due decenni. Responsabile degli affari religiosi nella regione fino al 1994, Cohen ha visto il movimento islamico prendere forma, sconfiggere i rivali palestinesi laici e poi trasformarsi in quello che oggi è Hamas, un gruppo militante che ha giurato la distruzione di Israele.
Invece di cercare di frenare gli islamisti di Gaza fin dall’inizio, dice Cohen, Israele per anni li ha tollerati e, in alcuni casi, incoraggiati, come contrappeso ai nazionalisti laici dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e alla sua fazione dominante, Fatah di Yasser Arafat. Israele ha collaborato con un religioso paraplegico e mezzo cieco di nome Sheikh Ahmed Yassin, proprio mentre egli stava gettando le basi per quello che sarebbe diventato Hamas. Sheikh Yassin continua a ispirare i militanti oggi; durante la recente guerra a Gaza, i combattenti di Hamas hanno affrontato le truppe israeliane con le “Yassin”, primitive granate a razzo così chiamate in onore del religioso.
Sabato scorso [17 gennaio 2009], dopo 22 giorni di guerra, Israele ha annunciato la fine dell’offensiva. L’obiettivo dell’assalto era impedire che i razzi di Hamas cadessero su Israele. Il primo ministro Ehud Olmert l’ha considerata “un’operazione militare determinata e di successo”. Erano morti più di 1.200 palestinesi. Sono stati uccisi anche tredici israeliani.
Hamas ha risposto il giorno successivo lanciando cinque razzi verso la città israeliana di Sderot, a poche miglia lungo la strada da Moshav Tekuma, il villaggio agricolo dove vive il signor Cohen. Hamas ha poi annunciato il proprio cessate il fuoco.
Da allora, i leader di Hamas sono usciti dalla clandestinità e hanno riaffermato il loro controllo su Gaza. Si prevede che i colloqui mediati dall’Egitto per una tregua più duratura inizieranno questo fine settimana. Il presidente Barack Obama ha affermato questa settimana che una calma duratura “richiede più di un lungo cessate il fuoco” e dipende dal fatto che Israele e un futuro stato palestinese “vivano fianco a fianco in pace e sicurezza”.
Uno sguardo ai rapporti decennali di Israele con i gruppi radicali palestinesi – compresi alcuni tentativi poco conosciuti di cooperare con gli islamisti – rivela una sequenza di conseguenze non intenzionali e spesso pericolose. Di volta in volta, gli sforzi di Israele per trovare un partner palestinese docile, credibile nei confronti dei palestinesi e disposto a rifuggire la violenza, si sono rivelati controproducenti. I potenziali partner si sono trasformati in nemici o hanno perso il sostegno della loro base.
L’esperienza di Israele echeggia quella degli Stati Uniti, che, durante la Guerra Fredda, consideravano gli islamisti un utile alleato contro il comunismo. Le forze antisovietiche appoggiate dall’America dopo l’invasione dell’Afghanistan da parte di Mosca nel 1979 si trasformarono successivamente in al Qaeda.
In gioco c’è il futuro di quello che era il mandato britannico della Palestina, le terre nominate nella Bibbia che ora comprendono Israele e i territori palestinesi della Cisgiordania e di Gaza. Dal 1948, quando fu fondato lo Stato di Israele, israeliani e palestinesi hanno rivendicato ciascuno lo stesso territorio.
La causa palestinese è stata per decenni guidata dall’OLP (“Organizzazione per la Liberazione della Palestina”), che Israele considerava un gruppo terroristico e ha cercato di schiacciare fino agli anni ’90, quando esso rinunciò alla sua promessa di distruggere lo Stato ebraico. Il rivale palestinese dell’OLP, Hamas, guidato da militanti islamisti, ha rifiutato di riconoscere Israele e ha promesso di continuare la “resistenza”. Hamas ora controlla Gaza, un frammento di terra affollato e impoverito sul Mediterraneo da cui Israele ha ritirato truppe e coloni nel 2005.
Quando Israele si è accorto per la prima volta degli islamisti a Gaza negli anni ’70 e ’80, sembravano concentrati sullo studio del Corano, non sul confronto con Tel Aviv. Il governo israeliano ha ufficialmente riconosciuto un precursore di Hamas chiamato Mujama Al-Islamiya, registrando il gruppo come ente di beneficenza. Ha permesso ai suoi membri di creare un’università islamica e costruire moschee, club e scuole. Fondamentalmente, Israele si è spesso fatto da parte quando gli islamici e i loro rivali laici palestinesi di sinistra hanno combattuto, a volte violentemente, per l’influenza sia a Gaza che in Cisgiordania.
“Quando guardo indietro alla catena degli eventi, penso che abbiamo commesso un errore”, dice David Hacham, che ha lavorato a Gaza tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 come esperto di affari arabi nell’esercito israeliano. “Ma all’epoca nessuno pensava ai possibili risultati.”
I funzionari israeliani che hanno prestato servizio a Gaza non sono d’accordo su quanto le loro azioni possano aver contribuito all’ascesa di Hamas. Danno la colpa della recente ascesa del gruppo agli agenti esterni, in primo luogo all’Iran. Questa opinione è condivisa dal governo israeliano. “Hamas a Gaza è stato costruito dall’Iran come fondamento per il potere, ed è sostenuto attraverso finanziamenti, addestramento e fornitura di armi avanzate”, ha detto Olmert sabato scorso. Hamas ha negato di aver ricevuto assistenza militare dall’Iran.
Arieh Spitzen, ex capo del Dipartimento per gli Affari Palestinesi dell’esercito israeliano, afferma che, anche se Israele avesse tentato di fermare gli islamisti prima, dubita che avrebbe potuto fare molto per frenare l’Islam politico, un movimento che si stava diffondendo nel mondo musulmano. Secondo lui i tentativi di fermarlo sarebbero stati come cercare di cambiare i cicli della natura: “È come dire: ‘Ucciderò tutte le zanzare.’ Ma poi ottieni insetti ancora peggiori che ti uccideranno… Rompi l’equilibrio. Se togli di mezzo Hamas potresti vederti Al Qaeda. “
Quando, all’inizio degli anni ’90, divenne chiaro che gli islamici di Gaza si erano trasformati da gruppo religioso in forza combattente diretta contro Israele – in particolare dopo che erano passati agli attentati suicidi nel 1994 – Israele lo represse ferocemente. Ma ogni attacco militare non faceva altro che aumentare l’attrattiva di Hamas sui palestinesi comuni. Il gruppo alla fine sconfisse i rivali secolari, in particolare Fatah, nelle elezioni del 2006 sostenute dal principale alleato di Israele, gli Stati Uniti.
Ora, un grande timore in Israele e altrove è che, sebbene Hamas sia stato duramente colpito, la guerra potrebbe aver aumentato l’attrattiva popolare del gruppo. Ismail Haniyeh, capo dell’amministrazione di Hamas a Gaza, domenica scorsa è uscito allo scoperto per dichiarare che “Dio ci ha concesso una grande vittoria”.
Chi stato più danneggiato dalla guerra, dicono molti palestinesi, è Fatah, ora il principale partner negoziale di Israele. “Tutti lodano la resistenza e pensano che Fatah non ne faccia parte”, dice Baker Abu-Baker, sostenitore di lunga data di Fatah e autore di un libro su Hamas.
Una mancanza di devozione
Hamas affonda le sue radici nei Fratelli Musulmani, un gruppo istituito ad Egitto in Egitto nel 1928. La Fratellanza credeva che i mali del mondo arabo derivassero dalla mancanza di devozione islamica. Il suo slogan era: “L’Islam è la soluzione. Il Corano è la nostra costituzione”. La sua filosofia oggi è alla base dell’Islam politico moderno, e spesso militantemente intollerante, dall’Algeria all’Indonesia.
Dopo la fondazione di Israele nel 1948, la Fratellanza reclutò alcuni seguaci nei campi profughi palestinesi di Gaza e altrove, ma gli attivisti laici arrivarono a dominare il movimento nazionalista palestinese.
A quel tempo, Gaza era governata dall’Egitto. L’allora presidente del paese, Gamal Abdel Nasser, era un nazionalista laico che represse brutalmente la Fratellanza. Nel 1967 Nasser subì una schiacciante sconfitta quando Israele trionfò nella Guerra dei Sei Giorni. Israele prese il controllo di Gaza e anche della Cisgiordania.
“Eravamo tutti sbalorditi”, dice lo scrittore palestinese e sostenitore di Hamas Azzam Tamimi. All’epoca era a scuola in Kuwait e dice di aver stretto amicizia con un compagno di classe di nome Khaled Mashaal, ora capo politico di Hamas con sede a Damasco. “La sconfitta araba ha fornito alla Fratellanza una grande opportunità”, afferma Tamimi.
A Gaza, Israele ha dato la caccia ai membri di Fatah e ad altre fazioni laiche dell’OLP, ma ha abbandonato le dure restrizioni imposte agli attivisti islamici dai precedenti governanti egiziani del territorio. Fatah, fondata nel 1964, era la spina dorsale dell’OLP, responsabile di dirottamenti, attentati e altre violenze contro Israele. Nel 1974 gli stati arabi dichiararono l’OLP “l’unico legittimo rappresentante” del popolo palestinese nel mondo.
I Fratelli Musulmani, guidati a Gaza dallo sceicco Yassin, erano liberi di diffondere apertamente il loro messaggio. Oltre a lanciare vari progetti di beneficenza, Sheikh Yassin raccolse fondi per ristampare gli scritti di Sayyid Qutb, un membro egiziano della Fratellanza che, prima della sua esecuzione da parte del presidente Nasser, sosteneva la jihad globale. Ora è visto come uno degli ideologi fondatori dell’Islam politico militante.
Il signor Cohen, che all’epoca lavorava per il dipartimento per gli affari religiosi del governo israeliano a Gaza, dice di aver cominciato a sentire rapporti inquietanti a metà degli anni ’70 su Sheikh Yassin da parte del clero islamico tradizionale. Dice che lo avevano avvertito che lo sceicco non aveva una formazione islamica formale e che in definitiva era più interessato alla politica che alla fede. “Hanno detto: ‘Stai lontano da Yassin. È un grosso pericolo’, ricorda il signor Cohen.
Invece, l’amministrazione israeliana guidata dai militari a Gaza ha visto con favore il religioso paraplegico, che ha creato un’ampia rete di scuole, cliniche, una biblioteca e asili. Sheikh Yassin fondò il gruppo islamista Mujama al-Islamiya, che fu ufficialmente riconosciuto da Israele come ente di beneficenza e poi, nel 1979, come associazione. Israele ha anche appoggiato la creazione dell’Università islamica di Gaza, che ora considera un focolaio di militanza. L’università è stata uno dei primi obiettivi colpiti dagli aerei da guerra israeliani nella recente guerra [dicembre 2008-gennaio 2009, n.d. R.].
Il generale Yosef Kastel, all’epoca governatore israeliano di Gaza, è troppo malato per commentare, ha detto sua moglie. Ma il generale Yitzhak Segev, che assunse la carica di governatore di Gaza alla fine del 1979, afferma di non nutrire illusioni sulle intenzioni a lungo termine di Sheikh Yassin o sui pericoli dell’Islam politico. Come ex addetto militare israeliano in Iran, aveva osservato il fervore islamico rovesciare lo Scià. Tuttavia, a Gaza, dice Segev, “il nostro principale nemico era Fatah”, e il religioso “era ancora pacifico al 100%” nei confronti di Israele. Ex funzionari affermano che all’epoca Israele era anche cauto sul poter essere considerato un nemico dell’Islam.
Il signor Segev dice di aver avuto contatti regolari con Sheikh Yassin, in parte per tenerlo d’occhio. Ha visitato la sua moschea e incontrato il religioso una dozzina di volte. All’epoca era illegale per gli israeliani incontrare qualcuno dell’OLP. Il signor Segev ha poi organizzato il trasporto del religioso in Israele per cure ospedaliere. “Non abbiamo avuto problemi con lui”, dice.
In effetti, il religioso e Israele avevano un nemico comune: gli attivisti palestinesi laici. Dopo un tentativo fallito a Gaza di estromettere i laici dalla leadership della Mezzaluna Rossa palestinese, la versione musulmana della Croce Rossa, il gruppo di Yassin ha organizzato una manifestazione violenta, prendendo d’assalto l’edificio della Mezzaluna Rossa. Gli islamisti hanno anche attaccato negozi di liquori e cinema. L’esercito israeliano è rimasto per lo più in disparte.
Segev dice che l’esercito non voleva essere coinvolto nelle dispute palestinesi ma ha inviato soldati per impedire agli islamici di bruciare la casa del capo laico della Mezzaluna Rossa, un socialista che sosteneva l’OLP.
“Un’alternativa all’OLP”
Gli scontri tra islamisti e nazionalisti laici si diffusero in Cisgiordania e si intensificarono durante i primi anni ’80, sconvolgendo i campus universitari, in particolare l’Università di Birzeit, un centro di attivismo politico.
Mentre i combattimenti tra le fazioni studentesche rivali a Birzeit diventavano più violenti, il generale Shalom Harari, allora ufficiale dell’intelligence militare a Gaza, afferma di aver ricevuto una chiamata dai soldati israeliani che presidiavano un posto di blocco sulla strada per uscire da Gaza. Avevano fermato un autobus con a bordo attivisti islamici che volevano unirsi alla battaglia contro Fatah a Birzeit. “Ho detto: ‘Se vogliono eliminarsi a vicenda, lasciateli andare’”, ricorda Harari.
Un leader della fazione islamista di Birzeit all’epoca era Mahmoud Musleh, ora membro pro-Hamas di una legislatura palestinese eletto nel 2006. Egli ricorda come le solitamente aggressive forze di sicurezza israeliane si tirassero indietro e lasciassero che la conflagrazione si sviluppasse. Nega qualsiasi collusione tra il suo stesso campo e gli israeliani, ma dice che “speravano che saremmo diventati un’alternativa all’OLP”.
Un anno dopo, nel 1984, l’esercito israeliano ricevette una soffiata dai sostenitori di Fatah che gli islamisti di Gaza di Sheikh Yassin stavano raccogliendo armi, secondo i funzionari israeliani dell’epoca. Le truppe israeliane hanno fatto irruzione in una moschea e hanno trovato un deposito di armi. Lo sceicco Yassin è stato incarcerato.
Ha detto agli interrogatori israeliani che le armi erano destinate all’uso contro i palestinesi rivali, non contro Israele, secondo Hacham, l’esperto di affari militari che afferma di aver parlato spesso con gli islamici incarcerati. Il religioso è stato rilasciato dopo un anno e ha continuato ad espandere la portata del suo gruppo in tutta Gaza.
Più o meno nel periodo dell’arresto di Sheikh Yassin, il signor Cohen, il funzionario per gli affari religiosi, inviò un rapporto ad alti funzionari militari e civili israeliani a Gaza. Descrivendo il religioso come una figura “diabolica”, ha avvertito che la politica di Israele nei confronti degli islamisti stava permettendo a tale movimento di trasformarsi in una forza pericolosa.
“Credo che continuando a distogliere lo sguardo, il nostro approccio indulgente nei confronti di Mujama ci danneggerà in futuro. Suggerisco quindi di concentrare i nostri sforzi sulla ricerca di modi per spezzare questo mostro prima che questa realtà ci venga in faccia”, scrisse.
Il signor Harari, l’ufficiale dell’intelligence militare, dice che questo e altri avvertimenti sono stati ignorati. Ma, secondo lui, la ragione di ciò è stata la negligenza, non il desiderio di rafforzare gli islamisti: “Israele non ha mai finanziato Hamas. Israele non ha mai armato Hamas”.
Roni Shaked, ex ufficiale dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interna israeliano, e autore di un libro su Hamas, afferma che Sheikh Yassin e i suoi seguaci avevano una prospettiva a lungo termine i cui pericoli all’epoca non erano compresi. “Hanno lavorato lentamente, lentamente, passo dopo passo secondo il piano dei Fratelli Musulmani”.
Dichiarare la Jihad
Nel 1987, diversi palestinesi furono uccisi in un incidente stradale che coinvolse un autista israeliano, innescando un’ondata di proteste che divenne nota come la prima Intifada. Yassin e altri sei islamisti di Mujama lanciarono Hamas, o Movimento di resistenza islamica. Lo statuto di Hamas, pubblicato un anno dopo, è costellato di antisemitismo e dichiara che ” la jihad è il suo percorso e la morte per la causa di Allah il suo credo più sublime”.
I funzionari israeliani, ancora concentrati su Fatah e inizialmente ignari dello statuto di Hamas, hanno continuato a mantenere i contatti con gli islamici di Gaza. Il signor Hacham, esperto militare di affari arabi, ricorda di aver portato uno dei fondatori di Hamas, Mahmoud Zahar, a incontrare l’allora ministro della difesa israeliano, Yitzhak Rabin, come parte delle consultazioni regolari tra funzionari israeliani e palestinesi non legati all’OLP. Zahar, l’unico fondatore di Hamas che sia ancora vivo oggi, è ora il leader politico senior del gruppo a Gaza.
Nel 1989 Hamas sferrò il suo primo attacco contro Israele, rapendo e uccidendo due soldati. Israele arrestò Sheikh Yassin condannandolo all’ergastolo. Successivamente ha arrestato più di 400 sospetti attivisti di Hamas, tra cui Zahar, e li ha deportati nel sud del Libano. Lì si unirono a Hezbollah, la milizia anti-israeliana appoggiata dall’Iran.
Molti dei deportati sono poi tornati a Gaza. Hamas ha rafforzato il suo arsenale e intensificato i suoi attacchi, pur mantenendo la rete sociale che ha sostenuto il suo sostegno a Gaza.
Nel frattempo, il suo nemico, l’OLP, rinunciò al suo impegno per la distruzione di Israele e iniziò a negoziare una soluzione a due Stati. Hamas lo ha accusato di tradimento. Questa accusa ha trovato crescente risonanza mentre Israele continuava a sviluppare insediamenti sui territori palestinesi occupati, in particolare in Cisgiordania. Sebbene la Cisgiordania fosse passata sotto il controllo nominale di una nuova Autorità Palestinese, era ancora costellata di checkpoint militari israeliani e di un numero crescente di coloni israeliani.
Incapace di sradicare una rete islamista ormai radicata che aveva improvvisamente sostituito l’OLP come principale nemico, Israele cercò di decapitarla. Ha iniziato a prendere di mira i leader di Hamas. Anche questo non ha intaccato il sostegno di Hamas e talvolta ha addirittura aiutato il gruppo. Nel 1997, ad esempio, l’agenzia di spionaggio israeliana Mossad tentò di avvelenare il leader politico di Hamas in esilio, Mashaal, che allora viveva in Giordania.
Gli agenti furono catturati e, per farli uscire da una prigione giordana, Israele accettò di rilasciare Sheikh Yassin. Il religioso è partito per un tour del mondo islamico per raccogliere sostegno e denaro. È tornato a Gaza accolto come un eroe.
Efraim Halevy, un ufficiale veterano del Mossad che ha negoziato l’accordo che ha liberato Sheikh Yassin, dice che la libertà del religioso era difficile da digerire, ma Israele non aveva scelta. Dopo il fiasco in Giordania, Halevy fu nominato direttore del Mossad, posizione che mantenne fino al 2002. Due anni dopo, Sheikh Yassin fu ucciso da un attacco aereo israeliano.
Negli ultimi anni Halevy ha esortato Israele a negoziare con Hamas. Dice che “Hamas può essere schiacciato”, ma crede che “il prezzo per schiacciare Hamas è un prezzo che Israele preferirebbe non pagare”. Quando il vicino autoritario e laico di Israele, la Siria, lanciò una campagna per spazzare via i militanti dei Fratelli Musulmani all’inizio degli anni ’80, uccise più di 20.000 persone, molte delle quali civili.
Nella recente guerra a Gaza, Israele non si è posto come obiettivo la distruzione di Hamas. Ha limitato i suoi obiettivi dichiarati a fermare il lancio di razzi da parte degli islamisti e a indebolire la loro capacità militare complessiva. All’inizio dell’operazione israeliana a dicembre, il ministro della Difesa Ehud Barak ha detto al parlamento che l’obiettivo era “infliggere ad Hamas un duro colpo, un colpo che gli farà fermare le sue azioni ostili da Gaza contro i cittadini e i soldati israeliani”.
Tornando a casa dalle macerie dell’abitazione del suo vicino, Cohen, ex funzionario degli affari religiosi a Gaza, maledice Hamas e anche quelli che vede come i passi falsi che hanno permesso agli islamici di mettere radici profonde a Gaza.
Ricorda un incontro degli anni ’70 con un religioso islamico tradizionale che voleva che Israele smettesse di cooperare con i Fratelli Musulmani seguaci di Sheikh Yassin: “Mi disse: ‘Avrai grandi rimpianti tra 20 o 30 anni.’ Aveva ragione.”
(da (lafionda.org)
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Ottobre 11th, 2023 Riccardo Fucile
IN PRIMO GRADO ERA STATO CONDANNATO A 13 ANNI E 2 MESI, ORA AD 1 ANNO E SEI MESI CON PENA SOSPESA… ASSOLTI TUTTI GLI ALTRI 17 IMPUTATI….GIORNO DI LUTTO PER LA FECCIA RAZZISTA
Crollano in appello le accuse contestate all’ex sindaco di Riace Domenico “Mimmo” Lucano. I giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria, infatti, lo hanno condannato ad un anno e sei mesi di reclusione, con pena sospesa, contro la richiesta della Procura generale di 10 anni e 5 mesi e stravolgendo la sentenza di primo grado del Tribunale di Locri che gli aveva inflitto 13 anni e 2 mesi di carcere per associazione per delinquere, truffa, peculato, falso e abuso d’ufficio. Dalla lettura del dispositivo emerge che la Corte ha assolto Lucano dai reati più gravi. La Corte ha assolto tutti gli altri 17 imputati.
La sua attività di accoglienza di migranti negli anni ha portato numerosi stranieri a stabilirsi nel suo piccolo borgo, durante la sua attività di sindaco, per tre mandati. Il modello “Riace” è stato lodato, ma anche molto contestato da una parte della politica.
L’ex sindaco di Riace Domenico Lucano, condannato solo per il reato di abuso d’ufficio, ha preferito attendere l’esito del processo a casa sua, e la sentenza è scaturita dopo oltre sei ore di camera di consiglio.
I suoi sostenitori hanno festeggiato la sentenza, dentro e fuori dall’aula della Corte d’Appello di Reggio Calabria, con abbracci e scroscianti applausi.
L’accusa, rappresentata dai Sostituti procuratori generali Adriana Fimiani e Antonio Giuttari, aveva chiesto per Lucano la condanna a 10 anni e 5 mesi di reclusione. Con Lucano, dinanzi ai giudici d’Appello di Reggio Calabria (presidente Elisabetta Palumbo, a latere, Davide Lauro e Massimo Minniti), rispondevano anche 17 suoi collaboratori, indagati per la gestione del sistema di accoglienza fondato, con l’accusa di avere utilizzato i fondi destinati all’accoglienza dei migranti, per “trarre personali vantaggi economici” e, inoltre, dovevano rispondere a vario titolo, di associazione a delinquere, abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Il commendo dei legali di Lucano: “Bella pagina per la giustizia italiana”
«Oggi è una bella pagina per la giustizia italiana». Ha commentato così l’avvocato Andrea Daqua la sentenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria nel processo “Xenia” dove il suo assistito, l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano, è stato condannato a un anno e mezzo di reclusione con pena sospesa venendo assolto da tutti i reati per i quali, in primo grado, era stato condannato a 13 anni e 2 mesi di carcere.
«È stata una bella vittoria – ha aggiunto il legale – una soddisfazione per lui perché non abbiamo mai dubitato della sua innocenza, della sua onestà morale e intellettuale. Adesso glielo andiamo a comunicare».
Per l’altro avvocato di Lucano, Giuliano Pisapia, «un anno e sei mesi con pena sospesa è una stupidaggine. L’importante è che Mimmo Lucano è stato riconosciuto che ha fatto tutto per il bene dell’umanità, per il bene di chi ha bisogno. Non ha fatto nulla per sé stesso. Poi piccoli errori ognuno li può fare. Quello che è importante è che Lucano è stato considerato dalla Corte d’Appello come uno che ha sempre lavorato per gli altri, mai per sé stesso». «La pena è stata ridotta così tanto – ha concluso Daqua – perché siamo stati in grado di dimostrare l’abnormità del giudizio di primo grado. Gli errori e le valutazioni scorrette erano evidenti. La Corte d’Appello ha saputo prenderne atto. L’associazione a delinquere è caduta perché non è mai esistita. È caduto tutto il castello accusatorio. È finito ‘l’accanimento non terapeutico’ a cui è stato sottoposto Lucano».
Fratoianni: “Non avevamo dubbi, la solidarietà non può essere un reato”
«Noi non avevamo dubbi: la solidarietà non può essere un reato. Ora anche un tribunale lo conferma facendo crollare il castello delle accuse contro Mimmo Lucano. Ne siamo davvero felici. Un abbraccio a Mimmo per tutto quello che ha dovuto passare». Lo afferma il segretario nazionale di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, parlamentare dell’Alleanza Verdi Sinistra.
(da agenzie)
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Ottobre 11th, 2023 Riccardo Fucile
GAZA, 12.000 EDIFICI COLPITI, 2 MILIONI DI PERSONE SENZA RIFORNIMENTI E VIE DI FUGA, 1055 MORTI E 6.000 FERITI, IL 60% BAMBINI E ANZIANI
Mentre Israele si prepara a lanciare un’«offensiva totale» contro
Hamas, nella Striscia di Gaza la situazione è già drammatica. L’ultimo bilancio del ministero della Sanità parla di 1055 morti e 5184 feriti, di cui il 60% è rappresentato da bambini e anziani. Tra le vittime ci sono anche nove membri dello staff dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi.
Ad annunciarlo è la stessa agenzia Onu, che su X aggiunge: «La protezione dei civili è fondamentale, anche in tempi di conflitto. I civili dovrebbero essere protetti in conformità con le leggi di guerra».
Alle vittime si sommano poi i danni infrastrutturali. Le stime delle autorità palestinesi parlano di oltre mille unità abitative distrutte e 12mila gravemente danneggiate. Tra queste si contano anche 7 ospedali, 48 scuole e 10 strutture sanitarie.
In mattinata l’esercito israeliano ha fatto sapere di aver bombardato anche l’Università islamica a Gaza.
I massicci bombardamenti aerei sono andati avanti per tutta la notte.
Oltre ai continui bombardamenti aerei da parte dell’esercito israeliano – una rappresaglia dopo il massiccio attacco sferrato da Hamas lo scorso 7 ottobre – ci sono poi le conseguenze dei tagli ai rifornimenti di energia elettrica, acqua, gas. Dalle 14.30 di oggi, mercoledì 11 ottobre, Gaza è al buio. Jalal Ismail, dell’Autorità per l’energia, ha spiegato che l’unica centrale elettrica attiva ha esaurito il carburante rimasto e ha smesso di funzionare. Anche questa è una delle conseguenze del blocco totale imposto dallo Stato israeliano.
Gli aiuti umanitari
Nei giorni scorsi la situazione ha fatto levare i primi campanelli d’allarme anche tra i banchi delle Nazioni Unite e dell’Unione europea. La posizione di Bruxelles in merito è piuttosto chiara: «Israele ha il diritto di difendersi, ma deve agire nel rispetto del diritto internazionale e del diritto umanitario», ha tuonato ieri l’Alto Rappresentante Ue per la Politica Estera Josep Borrell.
Il timore è quello di dover assistere a una tragedia umanitaria, con il blocco imposto da Israele che costringe 2 milioni di persone a vivere in condizioni disumane. Da qui la decisione dell’Unione europea (e non solo) di non sospendere gli aiuti umanitari per il popolo palestinese.
«I civili di Gaza vivono un’impotenza difficile da descrivere e sono destinati a rimanere lì, sperando che la bomba successiva non cada sulla loro casa, ma di lato, e non li uccida», ha denunciato oggi Fabrizio Carboni, della Croce Rossa Internazionale, in un’intervista a La Stampa.
I corridoi di fuga bloccati
Uno degli altri problemi per gli abitanti di Gaza riguarda le vie di fuga. Dopo l’intensificarsi degli attacchi da parte di Israele, i civili non sanno più dove cercare riparo, con l’unico valico di uscita – quello di Rafah con l’Egitto – che è stato chiuso a causa di alcuni bombardamenti.
Secondo l’emittente americana Nbc, il governo americano sarebbe al lavoro creare un corridoio che consenta ai civili palestinesi che vogliono scappare dalla guerra di farlo. In queste ore, il presidente Joe Biden si starebbe coordinando con altri Paesi per trovare una soluzione. Secondo le stime dell’Onu, sono circa 264mila gli sfollati nella Striscia di Gaza. Un numero, precisa l’ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, che è destinato a crescere ulteriormente nelle prossime ore e nei prossimi giorni.
(da agenzie)
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Ottobre 11th, 2023 Riccardo Fucile
QUINDI UN RAPPRESENTANTE DELLE FORZE DELL’ORDINE INVECE DI SERVIRE LO STATO E’ AL SERVIZIO DELLA LEGA? ALTRO CHE DOSSIERAGGIO, SIAMO IN PRESENZA DI TRADITORI DEL GIURAMENTO DI FEDELTA’ ALLE ISTITUZIONI
Chi ha mandato il video della manifestazione del porto di Catania il 25 maggio del 2018, alla quale ha partecipato la giudice Iolanda Apostolico, al ministro Matteo Salvini? Sono passati sei giorni dalla prima pubblicazione sui social del leader della Lega di quel filmato e il vicepremier non ha ancora risposto a questa domanda. Cruciale, perché racconta due cose: un dossieraggio nei confronti di una cittadina, per lo più magistrata. E un utilizzo privato, per fini politici, delle forze di Polizia. Quello che è certo è che sono state raccontate molte bugie. Queste.
L’autore del primo video pubblicato da Salvini si trovava a contatto con il cordone di polizia che conteneva sulla banchina del porto di Catania i manifestanti. Non era quindi un giornalista . E nemmeno un manifestante. In un video dall’alto si intravede un uomo in borghese, calvo, con una telecamerina nelle mani. Le immagini, con il primo piano della giudice Apostolico, potrebbero essere le sue. Ma non è stato ancora identificato.
§È successo però altro. Un carabiniere in servizio quel giorno al porto di Catania si è presentato dai suoi superiori e ha raccontato di essere lui l’autore di un video, quella sera della Diciotti.
Prestava servizio d’ordine al porto e aveva girato le immagini con il suo cellulare. Essendo catanese ricordava la presenza della giudice Apostolico e di suo marito. E così quando aveva letto di quella sentenza che tanto clamore aveva fatto, si era ricordato di quella vecchia manifestazione. Ed era riuscito a recuperare le immagini girate cinque anni prima dalla memoria del suo telefono.
Un video che all’epoca non era mai stato condiviso con i superiori né tantomeno con l’autorità giudiziaria perché non aveva ritenuto ci fossero indicazioni utili. Una volta recuperato il filmato, lo ha inoltrato a una chat di amici e colleghi: “Vedete chi c’è?” ha scritto, ricordando proprio la presenza di Apostolico.
In quella chat, risulta a Repubblica , c’era anche il parlamentare della Lega, Anastasio Carrà, che smentisce però di aver mai ricevuto quel video.
Ma non può negare la sua conoscenza con il carabiniere in questione: è stato il suo vice. È un amico fraterno. E condivide con lui anche la passione politica. «Quel video lo ha girato un nostro attivista» dicevano i leghisti catanesi poche ore dopo la pubblicazione delle immagini. E forse non raccontavano una bugia.
Ci sono però, tante cose che non tornano in questo racconto. Il primo punto: il carabiniere reo confesso non è l’uomo calvo con la telecamerina. Chi era, allora? E dove sono le immagini che stava girando quella sera? Ancora: quei frame sembrano girati con una di quelle telecamere con lo sportellino apribile in dotazione alle forze di polizia. E ancora: chi e perché si ricordava della presenza della giudice Apostolico? C’era un registro con i nomi dei partecipanti?
C’è poi il ruolo dell’onorevole Carrà. Ex carabiniere, superiore e amico fraterno del militare che ha informato la gerarchia di aver girato e diffuso il video continua a dire pubblicamente che lui il video lo ha visto soltanto dopo la pubblicazione sui canali social di Salvini. Una coincidenza stranissima.
(da La Repubblica)
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Ottobre 11th, 2023 Riccardo Fucile
DETTAGLIATE LE MOTIVAZIONI GIURIDICHE DEL PROVVEDIMENTO
La giudice del tribunale di Catania Iolanda Apostolico ha deciso di
non convalidare i trattenimenti nel cpr di Pozzallo disposti dal questore di Ragusa nei confronti di quattro migranti tunisini. È il secondo provvedimento in tal senso della magistrata finita nella bufera dopo la pubblicazione di un video in cui era stata filmata mentre, ad agosto 2018, protestava contro la decisione dell’allora ministro dell’interno Salvini di non far sbarcare in porto 150 profughi. Domenica scorsa un altro giudice di Catania non aveva convalidato sei trattenimenti.
«Il richiedente – scrive Apostolico in uno dei 4 provvedimenti in cui nega la convalida del trattenimento – non può essere trattenuto al solo fine di esaminare la sua domanda e, come già affermato da precedenti decisioni di questo tribunale, il trattenimento di un richiedente protezione internazionale per le direttive europee, costituendo una misura di privazione della libertà personale, è legittimamente realizzabile soltanto in presenza delle condizioni giustificative previste dalla legge».
La giudice ribadisce inoltre, come già scritto in altre ordinanze, che lo status di richiedente asilo si assume con la manifestazione della volontà di invocare la protezione e nei 4 casi trattati tale volontà è stata espressa già a Lampedusa. A Pozzallo, infatti, i profughi tunisini si sono limitati a ribadire quanto chiesto sull’isola al loro arrivo: per cui per legge la cosiddetta procedura di frontiera non può essere loro applicata e quindi il trattenimento decade.
Inoltre la giudice rileva che la norma del cosiddetto decreto Cutro che prevede il pagamento di una somma a garanzia come mezzo per evitare il trattenimento è «incompatibile con la direttiva Ue del 2013» come interpretata dalla giurisprudenza secondo cui «il trattenimento può avere luogo soltanto ove necessario, sulla base di una valutazione caso per caso, salvo che non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive». Infine Apostolico cita una sentenza della Corte di Giustizia del 2020 secondo cui le norme Ue «devono essere interpretate nel senso che ostano, in primo luogo, a che un richiedente protezione internazionale sia trattenuto per il solo fatto che non può sovvenire alle proprie necessità».
/da agenzie)
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Ottobre 11th, 2023 Riccardo Fucile
L’INVITO DI MELONI ALLA MODERAZIONE PER MOTIVI DI SICUREZZA INTERNA E DI RELAZIONI (ANCHE COMMERCIALI) CON I PAESI ARABI
Che pochade. Finisce che Pd e M5s votano la risoluzione della maggioranza (con i rossoverdi che si astengono). E termina pure con il centrodestra che dice sì al documento di Pd-M5s e rossoverdi, eccetto il punto 5 che critica il governo di Netanyahu. Ma tutti – eccetto i rossoverdi – votano l’elaborato del Terzo polo.
Nel centrodestra, prevale la cautela del ministro degli Esteri Antonio Tajani che oggi volerà in Egitto, rispetto alla linea più aggressiva espressa al tavolo delle trattative dal sottosegretario Giovanbattista Fazzolari. E Giorgia Meloni? E’ preoccupata. Da fattori interni ed esterni. Vuole spegnere incendi e non accenderne altri. Ecco perché alla fine passa la mediazione del ministro degli Esteri a cui la premier in un messaggio chiede di “fare Tajani”. E quindi di essere concavo e convesso.
Meloni di prima mattina durante una visita alla sinagoga nel portare solidarietà alla comunità ebraica romana dice che il “rischio di emulazione degli atti criminali da parte di Hamas potrebbe arrivare anche da noi”. C’è un problema di sicurezza interna dunque, ma anche di proiezione esterna e di relazioni con i paesi arabi, con i quali l’Italia ha rapporti che passano dall’energia agli scambi commerciali.
La premier teme l’escalation.
I negoziati interni ruotano intorno alle prime conclusioni della prima versione che parlavano di “agire per evitare che arrivino fondi a Hamas – sia attraverso canali istituzionali, sia attraverso privati – che, mascherati da aiuti umanitari sono utilizzati per finanziare attacchi terroristici”. E’ la posizione di Fazzolari, che prende piede dalle parole del commissario Olivér Várhelyi, pronto a sospendere i fondi europei ai territori palestinesi.
Una dichiarazione disconosciuta dalla Commissione, a partire da Ursula von der Leyen, che si rifà alla linea di Josep Borell, ministro degli Esteri della Ue, che annuncia al contrario che “non ci sarà alcuno stop ai finanziamenti perché danneggerebbe i palestinesi favorendo i terroristi”. Alla fine vedrà la luce quest’altra formula: “La Camera impegna il governo ad agire per evitare che arrivino fondi a Hamas, attraverso canali istituzionali, organizzazioni internazionali o privati, che vengano utilizzati per finanziare attacchi terroristici e incitare all’odio verso Israele”. Questo passaggio, più ammorbidito, spingerà dopo un conciliabolo fra i ministri Antonio Tajani e Luca Ciriani e i dem Lorenzo Guerini, Chiara Braga e Francesco Boccia e Giuseppe Provenzano al via libera del Pd al testo della maggioranza, portandosi dietro anche il M5s di Giuseppe Conte, ma non Bonelli & Fratoianni.
((da Il Foglio” )
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Ottobre 11th, 2023 Riccardo Fucile
“RAGIONARE VUOL DIRE RISALIRE ALLE CAUSE”
Principio di realtà e approccio razionale: questi sono gli strumenti
imprescindibili con cui, secondo il filosofo Massimo Cacciari, va affrontato il conflitto tra Israele e Palestina.
Ospite di Giovanni Floris a Dimartedì (La7), Cacciari ricalca quanto affermato dall’ex ambasciatrice Elena Basile a Otto e mezzo: “Ragionare, secondo la razionalità occidentale, significa sempre risalire alle cause. Non si sa nulla finché non si conoscono le cause di un fenomeno. E di ogni guerra bisogna sempre comprendere le ragioni, nei limiti del possibile e con la massima obiettività, perché le guerre hanno sempre una storia – continua – Non puoi sempre andare avanti a occasioni: oggi c’è l’11 settembre. E prima? Non c’è niente. Oggi c’è l’invasione russa in Ucraina. E prima? Non c’è niente. Oggi c’è Hamas che invade Israele. E prima? Non c’è niente. Questo non è ragionare, è puro infantilismo“.
Cacciari si sofferma poi sul principio di realtà: “Lo so che non è semplice, ma da una parte occorre riconoscere il diritto del popolo palestinese a uno Stato che non sia un ghetto e dall’altra riconoscere pienamente lo Stato d’Israele. Ma come si fa? Le decisioni fondamentali possono essere assunte solo attraverso un patto tra potenze globali. È sempre stato così e oggi lo è ancora. Non è realistico – continua – pensare che si possa tenere un popolo nelle condizioni in cui versa attualmente quello palestinese, né che si possa abbattere lo Stato d’Israele. Quindi, da parte dei contendenti o vi è un principio di realtà oppure si rischiano tragedie perenni con la speranza che non deflagrino in un conflitto mondiale“.
Circa il diffuso automatismo di bollare come putiniani quelli che analizzano le cause dell’invasione russa o come amici di Hamas coloro che osano evidenziare le responsabilità di Israele, Cacciari è tranchant: “Questa è la mentalità succube tipica dei provinciali, dei poveretti, di quelli che devono stare sempre con un padrone per poter sopravvivere. Ma scherziamo? Gli Usa, per esempio, sono pieni di intellettuali e di politologi – chiosa – che criticano la politica americana in Ucraina senza che ciò susciti il minimo scandalo. In Israele non ci sono forse forze politiche che hanno fatto una strenua battaglia contro le politiche di Netanyahu? Parliamo di grandi democrazie dove c’è chi contende radicalmente le politiche di quei governi, e soprattutto oggi quelle di Biden e di Netanyahu“.
(da agenzie)
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Ottobre 11th, 2023 Riccardo Fucile
IL GOVERNO LAVORA A UN PIANO PER LA QUOTAZIONE DI FS, DUE STRADE PER LA SEPARAZIONE TRA TRENITALIA E RFI
L’unico governo che arrivò ad un passo dal mettere sul mercato Ferrovie dello Stato fu quello di Matteo Renzi. Correva il novembre del 2015, e l’allora ministro Graziano Delrio approvò anche il decreto che avrebbe dovuto far partire la privatizzazione.
Ebbero la meglio l’opposizione dei sindacati e – un anno dopo – la crisi di quella maggioranza. Ora ci riprova Giorgia Meloni, spinta dalla necessità di mandare ai mercati segnali rassicuranti sulla riduzione del debito pubblico. Secondo quanto confermano a La Stampa due fonti qualificate, l’ipotesi è di una quotazione in Borsa sul «modello Terna», la società che possiede la rete elettrica per il quaranta per cento del gruppo.
Ieri un indizio sulle intenzioni del governo l’ha lasciato il ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti alla fine dell’audizione in Parlamento sul Documento di economia e finanza. «Quello delle privatizzazioni è un percorso ad ostacoli ma ambizioso». Poi, pressato dai cronisti su quali fossero le ipotesi in agenda – se autostrade, strade o ferrovie – ha risposto: «L’inversione dei fattori potrebbe aiutarvi a capire».
Nei documenti di finanza pubblica il governo ha promesso venti miliardi di incassi in un triennio. L’operazione Ferrovie è fra le più complicate ma allo stesso tempo in cima alle preferenze, e per almeno due ragioni. La prima: delle grandi società pubbliche privatizzabili è l’ultima di cui lo Stato possiede ancora il cento per cento. La seconda: il business ferroviario richiama l’attenzione di molti investitori. Basti qui citare il caso di Italo, che in pochi anni ha trovato due grossi compratori, l’ultimo dei quali – poche settimane fa – l’armatore di Msc Gianluigi Aponte. Otto anni fa il 40 per cento di Ferrovie era stimato quattro miliardi, più o meno il valore odierno dell’intera Italo. Per acquistare il 50 per cento di Italo Aponte ha appena sborsato al fondo americano Global Infrastructure Partners due miliardi. Cifre esatte a Palazzo Chigi non se ne fanno ancora, ma è verosimile un obiettivo fra i quattro e i cinque miliardi, che permetterebbe di realizzare dunque un quarto della promessa scritta nella Nadef.
«Per portare in fondo un’operazione del genere occorre almeno un anno», ammette una delle due fonti interpellate. Ciò che rende complicata l’operazione Ferrovie – e che nel 2015 la affossò – è il riassetto societario che impone. La rete – la stessa sulla quale transitano i treni privati di Italo – non può essere venduta come il business dei treni. Da anni gli esperti discutono due strade. La soluzione più coerente sarebbe la separazione secca fra le due grandi controllate del gruppo, ovvero Trenitalia e quella che gestisce l’infrastruttura, ovvero Rete ferroviaria italiana, che in questo caso resterebbe per intero allo Stato. Ma è una soluzione che richiede tempo e garantirebbe introiti meno ricchi ad un governo costretto a fare cassa. «La vendita dell’intero gruppo massimizza gli introiti per lo Stato», conferma Andrea Giuricin, uno del massimi esperti del settore. Di qui la seconda ipotesi, che se ben congegnata potrebbe evitare la censura delle istituzioni comunitarie. La rete potrebbe essere resa preventivamente “neutrale” e allo stesso tempo remunerativa per alcuni privati. L’ipotesi di scuola è quella di permettere ai fondi pensione di partecipare ai nuovi investimenti infrastrutturali sulla rete.
Nelle stanze di Ferrovie se ne discute ormai da mesi, ma nelle ultime settimane, complice la pressione dei mercati, il dossier è tornato sul tavolo dei vertici. Gli investimenti previsti dal Recovery Plan rendono il momento particolarmente favorevole. Il caso vuole che ieri il numero uno del gruppo Luigi Ferraris fosse a New York per una serie di incontri con gli investitori. «Con oltre 26 miliardi di euro la nostra azienda è il più grande appaltatore del Paese. I fondi inseriti nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza però non sono gli unici. Abbiamo definito un piano da 200 miliardi di investimenti in un decennio». Serviranno a colmare «il divario infrastrutturale tra Nord e Sud e al potenziamento delle interconnessioni tra porti e aeroporti, stazioni ferroviarie e terminal merci».
(da La Repubblica)
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