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LA SCENEGGIATA DELLA MELONI E’ UN AUTOGOL. PORTA IN AULA UN FAX DI MAIO SUL MES: “APPROVATO CON IL FAVORE DELLE TENEBRE”. MA IN REALTA’ IL PARLAMENTO AVEVA GIA’ VOTATO UNA RISOLUZIONE

Dicembre 13th, 2023 Riccardo Fucile

PUO’ UN PREMIER ARRIVARE COSI IN BASSO? LA DISCUSSIONE E IL VOTO SULLA RATIFICA ERA AVVENUTO IN DIRETTA TV

«Vi ho portato un bel fax». Giorgia Meloni sventola un foglio all’indirizzo dei banchi dell’opposizione. In Senato, la mattina del 13 dicembre, la presidente del Consiglio fa le classiche comunicazioni prima di partecipare al Consiglio europeo. Quel documento riporta come destinatario il nome dell’ambasciatore Maurizio Massari, rappresentante dell’Italia presso l’Unione europea.
A spedirlo era Luigi Di Maio, all’epoca ministro degli Esteri. Nel breve testo, viene autorizzata la sigla dell’accordo di modifica del tratto del Mes. «Questo foglio l’ha firmato Di Maio un giorno dopo le dimissioni del governo Conte», tuona Meloni. Il governo Conte II si è dimesso il 26 gennaio 2021.
In Aula, la leader di Fratelli d’Italia sta provando a difendersi dall’accusa di continuare a rimandare la discussione sulla ratifica delle modifiche del Mes. E ripete: «Questa firma è stata fatta quando il governo Conte era dimissionato, in carica solamente per gli affari correnti. Una firma messa contro il parere del Parlamento, senza dirlo agli italiani, senza metterci la faccia e con il favore delle tenebre. Capisco la vostra difficoltà, capisco il vostro imbarazzo, ma dalla storia non si esce, perché la propaganda si può fare, ma poi rimangono i fogli a dimostrare la serietà di chi parla. E questo foglio dimostra la scarsissima serietà di un governo che alla chetichella e in silenzio, prima di fare gli scatoloni, lasciava questo pacco al governo successivo».
Una ricostruzione che, però, non ha riscontri con quanto avvenuto in quelle fasi convulse della politica italiana.
Siamo al dicembre 2020, le tensioni tra Matteo Renzi e Giuseppe Conte si erano fatte quotidiane. Le ministre di Italia Viva avevano già ventilato la possibilità di dimettersi, facendo terminare anzitempo l’esperienza dell’avvocato del popolo a Palazzo Chigi. Ma Conte doveva difendersi anche dalle fratture interne al suo partito. Una di queste era proprio causata dall’intenzione di firmare l’accordo di modifica del trattato istitutivo del Mes. Il 2 dicembre, diversi parlamentari grillini avevano pubblicato una lettera per dissociarsi dalla ratifica dell’intesa. Si celebrarono diverse riunioni fiume tra il 5 e il 7 dicembre, finché la maggioranza non trovò la formula per una risoluzione condivisa sul Mes. Il dicembre, Conte si presentò alle Camere per le comunicazioni che anticipavano il Consiglio europeo del 10 e dell’11 dicembre. Al termine del suo intervento, le dichiarazioni di voto sulle risoluzioni. E una di queste riguardava appunto il Mes.
La discussione e il voto sulla ratifica erano avvenuti in diretta tv, quindi non «senza dirlo agli italiani». E addirittura, con diversi interventi a titolo personale, una decina di deputati e senatori grillini votarono in dissenso dal gruppo. Alcuni di loro, tra cui Mattia Crucioli, saranno quindi espulsi. Ma Di Maio potè inviare quel fax forte di una risoluzione approvata dalla maggioranza.
(da Open)

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“IL PREMIERATO? MEGLIO IL CANCELLIERATO TEDESCO: ANCHE GIANFRANCO FINI, MENTORE DELLA MELONI, IMPALLINA LA RIFORMA DELLA SORA GIORGIA

Dicembre 13th, 2023 Riccardo Fucile

“NON VA INCENSATA, IO ERO UN CONVINTO SOSTENITORE DEL SEMIPRESIDENZIALISMO FRANCESE E LO RESTO, UN MODELLO ‘PURTROPPO’ NEGLETTO DALL’ATTUALE MAGGIORANZA. LEGA E FI HANNO ESPRESSO DISSENSO PER L’ELEZIONE DIRETTA DEL CAPO DELLO STATO”

Il rosso, il bianco, il nero. È una bocciatura in technicolor quella che, in tarda mattinata, illumina l’auletta dei gruppi a Montecitorio: seduti alla roulette del premierato, tre ex presidenti della Camera che più diversi non si può si dichiarano tutti pressoché contrari — pur con sfumature distinte — alla riforma partorita dal governo. Da rivedere, se non addirittura archiviare.
Lo dice tranchant Fausto Bertinotti: «Andiamo verso una deriva autoritaria, è questo il disegno, mettere fine alla Repubblica costituzionale e antifascista », sentenzia l’ex segretario di Rifondazione alzando il pugno chiuso. Lo ribadisce Pier Ferdinando Casini, vecchia scuola democristiana: «Attenzione alla distorsione delle regole democratiche», scandisce, abbandonando il consueto aplomb.
E se poi, quando tocca a Gianfranco Fini, persino il mentore di Giorgia Meloni si spinge ad affermare che il ddl Casellati «non può essere demonizzato, ma nemmeno incensato », significa che davvero qualcosa non funziona nella madre di tutte le riforme. Anche perché «io ero un convinto sostenitore del semipresidenzialismo francese e lo resto », precisa lo storico capo della destra: un modello «purtroppo» negletto dall’attuale maggioranza, che avrebbe fatto meglio «a guardare al cancellierato tedesco» anziché rifugiarsi in un compromesso indigeribile ai più.
Invitati a esprimersi in ordine alfabetico, il trittico che ha guidato la Camera dal 2001 al 2013 non ha dubbi. È tutto da rifare. E forse non è un caso se il costituzionalista Francesco Saverio Marini, estensore del testo, preferisca andar via prima di intervenire. Il più netto è Bertinotti: «C’è un forte ridimensionamento del ruolo del Presidente della Repubblica. Io penso che viviamo una crisi profonda della democrazia e della politica — già oggi autoritaria, a tendenza oligarchica — e ogni ipotesi di fuga da questi problemi attraverso acrobazie istituzionali sia destinata al fallimento. A meno che non vi sia un obiettivo, cioè usare tali acrobazie come grimaldello per forzare il quadro».
Casini richiama invece al dovere di lealtà: «Non prendiamoci in giro. Questa riforma cambia tutto a partire dalla funzione di terzietà del Capo dello Stato, al quale vengono tolti tutti i poteri di moral suasion . Sono poteri a fisarmonica funzionali a momenti di emergenza, una terzietà “senza unghie” si riduce al taglio del nastro».
Fini su questo però dissente: «La Costituzione non è un totem intoccabile, mi rifiuto di dire un no a priori», premette. Senza tuttavia celare il rammarico per l’occasione mancata: «Un partito che aveva nel programma elettorale l’opzione presidenzialista ha dovuto prendere atto che non era praticabile perché all’interno della coalizione Lega e FI hanno espresso dissenso per l’elezione diretta del Capo dello Stato», spiega l’ex leader di An.
(da “la Repubblica” )

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“LA MELONI NON MI PIACE PER NIENTE. NEL SUO PARTITO CI VEDO RESIDUI DI DESTRA FASCISTA”: CARLO DE BENEDETTI HA UNA PAROLA BUONA PER TUTTI

Dicembre 13th, 2023 Riccardo Fucile

“ELKANN HA DISTRUTTO ‘REPUBBLICA’ PER COPRIRE LA FUGA DI STELLANTIS DALL’ITALIA”… “CONTE? “PEGGIO DELLA MELONI, UN UOMO SENZA BANDIERE E SENZA IDEALI”, SALVINI? “ASSOMIGLIA A CONTE. SOLO CHE È PIÙ FESSO”… L’ULTIMA TELEFONATA AL CAV DUE GIORNI PRIMA CHE MORISSE

“John Elkann è riuscito in quattro anni a distruggere il gruppo editoriale che il principe Carlo Caracciolo, suo prozio, aveva creato in circa quindici anni. Un massacro incomprensibile nei suoi scopi”.
Dice così Carlo De Benedetti: “John ha venduto tutti i quotidiani locali, che andavano bene. Poi ha devastato pure Repubblica, che ancora si aggira tra i quotidiani italiani con la maestà malinconica delle rovine. Mi dispiace moltissimo. E’ straziante. Addirittura avevano messo ad amministrare i giornali uno che allo stesso tempo si occupava della Juventus. Carta e palloni. Non so se mi spiego. A quel gruppo dirigente ho visto fare cose che manco nella ‘cena dei cretini’: dicono ‘digital first’ ma non hanno investito un centesimo in serie acquisizioni sul digitale, mentre hanno annientato la carta”.
Ma, scusi, Ingegnere, se è così perché Elkann ha comprato il gruppo che ora si chiama Gedi? Non si compra mica una cosa per sfasciarla, per distruggerla. O sì?
“Dipende. Elkann sostanzialmente ha comprato i giornali soltanto per coprire la fuga di Stellantis dall’Italia. Per coprire la deindustrializzazione e la smobilitazione degli impianti produttivi automobilistici di un gruppo che ormai è francese. Per il resto, di come vanno questi giornali mi pare evidente che non gli importi nulla”. Insomma in realtà John Elkann si è comprato la sinistra italiana? “Vogliamo contare il numero di interviste in cui Maurizio Landini, il segretario della Cgil, parla su Repubblica di Stellantis e della scomparsa della Fiat dal nostro paese? Alla fine venderanno pure Repubblica e la Stampa. So che ci sono contatti”.
Ma lei, avendo visto come sono andate le cose, si è pentito di avere ceduto il gruppo Espresso a Elkann?
“Guardi che l’hanno venduto i miei figli, io ero contrario. Dal loro punto di vista, Rodolfo e Marco, hanno fatto la cosa giusta liberandosi di un gruppo che li obbligava a schierarsi”.
Però i figli di Silvio Berlusconi non vendono.
“Marina è innamorata di suo padre, ha sempre avuto una sorta di venerazione per lui. Marina sa benissimo che Mediaset è vecchia, che non reggerà la concorrenza delle grandi piattaforme internazionali come Netflix. Eppure non vende perché quella è la creatura di suo papà.
A proposito: cos’ha pensato il giorno in cui è morto Silvio Berlusconi, il suo nemico di una vita.
“Nemico mai. Avversario, sì. L’avevo sentito al telefono due giorni prima che morisse. Sapevo che stava male, e lui, pur affaticato, al telefono mi snocciolava una tiritera sul partito liberale di massa che aveva costruito. Io lo ascoltavo. E stavo zitto, anche se come può ben immaginare non ero d’accordo su nulla”.
Quindi vi sentivate spesso?
“No quasi mai, anzi direi proprio mai. Ma quella volta l’ho vissuta quasi come un addio, e quindi l’ho voluto chiamare. Anche se questo non cambia niente di ciò che io penso della sua influenza, negativa, sul paese e sulla politica”.
A proposito: la morte di Berlusconi può portare alla nascita di una destra “normale” con Giorgia Meloni?
“Questa destra non mi pare tanto normale. E Meloni non mi piace per niente”.
Eppure a un certo punto scopriamo che c’è qualcuno che all’Ingegnere piace persino meno. “Se dolorosamente costretto a scegliere tra Meloni e Conte, sceglierei Meloni”.
Ecco, ma dica la verità Ingegnere: Elly Schlein è una tremenda delusione.
“Guardi, io Schlein l’ho appoggiata e anche aiutata in qualche modo. Pensavo che fosse la persona di cui il Pd aveva bisogno. Pensavo fosse un cambiamento vero, non il modo di Dario Franceschini per restare al potere. Ma ora non voglio esagerare. Dare addosso alla Schlein è troppo facile. Il partito non c’è più da prima di Schlein, e io per la verità non so nemmeno che politica esprima ormai. Credo nessuna. Non sta nemmeno facendo un’opposizione comprensibile. E non voglio manco elencare le cose che stanno sbagliando, che sono tutte minuzie. Il Pd mi sembra un partito esangue, ecco. Mi ricorda la Dc alla fine della sua parabola, si aggrappa a tutto pur di restare al governo: il Pd si è aggrappato al movimento Cinque stelle e poi addirittura a Salvini. Loro hanno governato persino con Salvini. Quindi una persona sola, e Schlein è molto sola, può davvero tenere insieme le catene di un micro potere come quelle che la sinistra ha costruito negli ultimi vent’anni? Temo di no”.
Già si parla di un altro segretario. Di un federatore : Andrea Riccardi, Rosy Bindi, Paolo Gentiloni…
“Non andiamo da nessuna parte. L’assurdo ha tante tonalità e gradazioni quante ne ha il tragico”, riprende De Benedetti. “Gentiloni è intelligente, molto perbene, e assai rispettato a Bruxelles. Ma mi auguro per lui che non voglia prendere in mano il partito”.
E perché?
“Perché non è adatto, e credo lo sappia bene lui per primo: lui è uno straordinario uomo di governo. Ma non è cosa sua infilarsi in quel giro di schiaffi che è il Pd”.
Ma perché la sinistra cerca sempre un nuovo Prodi?
“E’ una cosa un po’ comica, in effetti. E ripetitiva. Prodi fu un’operazione di successo, ma non si può eternamente ripetere quello schema. Non si può andare avanti con lo sguardo fissato sullo specchietto retrovisore, sul passato. Perché si va a sbattere”.
Ma esiste oggi un federatore?
“Boh, io non ne conosco. Ci sono persone all’interno del Pd che io rispetto molto, ma non hanno, come direbbe Berlusconi se fosse ancora vivo, il quid ”.
Provenzano?
“Mi piace. E mi piace anche Bersani che è uscito dal Pd ma ci sta ritornando. Lui combina popolarità e bonomia. E’ stato anche uno dei ministri più liberali che l’Italia abbia mai avuto. E’ grazie a lui se oggi esiste un mercato libero dell’energia”.
Va bene, ma mica si può tornare a Bersani.
“Non sto dicendo questo. Sto soltanto dicendo che non vedo energie nel Pd, l’ultimo che aveva un grande talento (dissipato) è stato Matteo Renzi”
Enrico Letta?
“Bravissima persona, che si è fatta macerare dal rancore”.
Beh, scusi, allora c’è Giuseppe Conte. Allora è lui il federatore?
“Non credo. Conte non è soltanto un uomo senza bandiere, è un uomo senza ideali. Senza princìpi. Si è rifugiato nel pacifismo, che politicamente equivale a zero. Il pacifismo o lo pratica il Papa, che è il portatore per chi ci crede d’una concezione armoniosa della società, oppure non è niente. Non può essere certo Conte il pacifismo. Lui è uno che ha passato la vita a fare l’aiutante allo studio legale Alpa. Inoltre Conte non è mai entrato in fabbrica in vita sua, non sa cosa sono i lavoratori. Come può fare il leader della sinistra? Insomma, voglio essere chiaro: il suo è stato un percorso senza prospettiva, Conte non è una soluzione né per la sinistra né per il paese. Anzi. A me un po’ Conte inquieta”.
E tuttavia potrebbe anche succedere che Conte diventi quello che oggi non è, il leader del centrosinistra. Sul serio. Se lei dovesse scegliere tra Conte e Giorgia Meloni chi sceglierebbe?
“Scelta comunque dolorosa, ma sceglierei Meloni. Di cui penso malissimo”.
Ma comunque è peggio Conte?
“Ma certo. Conte o comanda lui o contribuisce allo sfascio del Pd. Ed è un camaleonte capace di tutto”.
Scusi ma il gioco della torre mi piace: tra Salvini e Meloni invece chi butterebbe giù?
“Butterei giù Salvini”.
E perché?
“Perché assomiglia a Conte. Solo che è più fesso”.
“E infine c’è una cosa che mi preoccupa. Cioè che Meloni domina tutto il sistema informativo. Basta guardare la televisione: la Rai è stata occupata e i canali Mediaset sono suoi. Praticamente contro la destra c’è soltanto La7, quanto a televisione. Mentre è nato un gruppo editoriale meloniano che adesso avrà anche una radio, visto che Elkann sta spingendo la sua dissipazione fino a vendere anche Radio Capital agli Angelucci. E chissà che non facciano pure una televisione. Un’altra. Questa concentrazione e questa compressione del pluralismo io la trovo preoccupante. E poi, glielo dico chiaro, io nel partito di Meloni ci vedo residui di destra fascista. Sarò esagerato, ma la penso così”.
Il fascismo?
“Sono disposto ad ammettere di avere un pregiudizio psicologico, quasi prepolitico, ma non posso nasconderlo. Per me resta insuperabile il ricordo della mia fuga in Svizzera quando ero bambino durante la guerra e dopo le leggi razziali. Non riesco a non pensare ai miei cugini massacrati a Mauthausen. Sono fatti che ti restano addosso. Ce li ho scritti sulla pelle. Dunque sono drasticamente contro la destra post fascista, lo ammetto. Per me quel periodo della vita è stato la dimostrazione che esiste il regno del male”.
Ma Giorgia Meloni è nata nel 1977.
“Lo so bene. E infatti dico queste cose sapendo che vanno aldilà di ogni ragionamento, ma il mio è un sentimento che ti resta addosso. E poi, guardi, Meloni non riesce a pronunciare la parola ‘antifascismo’, ma com’è possibile? Io riconosco alla presidente del Consiglio anche delle capacità e delle doti da leader, penso che si sia mossa bene in politica estera, ma non posso rimuovere il mio pregiudizio”.
Ripeto la domanda: non trova che ci sia ambiguità a sinistra?
“Mi colpisce Landini, per tornare alla parte iniziale della nostra conversazione. Mi impressiona un sindacato che fa ideologia anziché occuparsi della scomparsa della Fiat, o dei salari. In Italia abbiamo i salari più bassi d’Europa, tra il 40 e il 50 per cento più bassi di quelli che ci sono in Francia e in Germania. Quella del salario minimo era una proposta giusta del Partito democratico. In Francia e in Germania i sindacati non solo l’hanno ottenuto, il salario minimo, ma hanno poi ottenuto anche la rivalutazione dei salari. Il sindacato italiano, la Cgil, invece dove era? Manifestava a favore della Palestina, ecco che faceva Landini, non arrivando neppure a capire la differenza tra Hamas e palestinesi”.
(da il Foglio)

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I DEPUTATI SI FANNO IL REGALO DI NATALE: PIU’ SPESE E ASSUNZIONI NEGLI STAFF

Dicembre 13th, 2023 Riccardo Fucile

UNA DELIBERA METTE A DISPOSIZIONE 4 MILIONI DI EURO PER RECLUTARE ALTRI COLLABORATORI

Una spesa di 4 milioni di euro per le assunzioni a chiamata, su base esclusivamente fiduciaria, a Montecitorio. L’ufficio di presidenza (udp) della Camera, con la firma di Lorenzo Fontana, a ottobre ha dato il via libera a un’infornata negli staff dei componenti dello stesso ufficio di presidenza, che già di base conta su una sostanziosa dote per il reclutamento dei “decretati” (definiti così perché formalmente contrattualizzati con un decreto presidenziale). Un auto-regalo prenatalizio che si sono concessi i quattro vicepresidenti, i tre questori e i vari segretari dell’aula di Montecitorio, che insieme al presidente compongono l’organismo.
MILIONI DI CORSA
L’operazione costerà, a regime, alla Camera – e quindi alle casse pubbliche – la bellezza di 4 milioni di euro all’anno, comprese le spese previdenziali. Negli uffici, però, c’era fretta. La novità è infatti entrata in vigore già dal primo novembre, senza nemmeno attendere il 2024. Così in questo scorcio di anno, è stato messo in conto un esborso di 670mila euro per garantire in questi due mesi gli stipendi, il pagamento dei contributi e delle imposte per i nuovi innesti.
Lontano dai riflettori, dunque, è stata condotta l’operazione per infarcire gli staff di nuovi profili. Dal punto di vista pratico è stata riscritta da zero la normativa sul funzionamento dell’organismo, abrogando tutte le precedenti deliberazioni. L’iniziativa, secondo le indiscrezioni, sarebbe stata caldeggiata dal deputato-questore di Fratelli d’Italia, Paolo Trancassini, in asse con il vicepresidente dell’aula e collega di partito, Fabio Rampelli, e con l’assenso di Lorenzo Fontana. La delibera dell’ufficio di presidenza, visionata da Domani, risale a quasi due mesi fa, esattamente al 18 ottobre, quando si è tenuta la riunione dell’organismo. Il testo è stato tenuto coperto per mesi con il “favore delle tenebre”. Il motivo? I bollettini con i resoconti degli organi collegiali vengono resi noti talvolta anche cinque-sei mesi dopo la discussione.
DISTACCO A MONTECITORIO
La storia, però, è iniziata già una settimana prima. La proposta originaria è stata formulata il 12 ottobre dal collegio dei questori, composto da tre deputati: due di maggioranza, Trancassini per Fdi, Alessandro Manuel Benvenuto per la Lega, e uno dell’opposizione, Filippo Scerra del Movimento 5 stelle. Per regolamento interno il collegio è chiamato a dare indicazioni sulle spese, sottoponendo poi la documentazione all’ufficio di presidenza. «L’approvazione è stata unanime», dice Trancassini a Domani. Una versione che però viene smentita da Scerra, che sostiene di aver votato contro. Di sicuro, comunque, le opposizioni non hanno fatto le barricate. Ogni gruppo sia di maggioranza che di opposizione può contare un rappresentante nell’organismo, beneficiando di conseguenza della misura introdotta dalla delibera in base alla rappresentanza.
Nel dettaglio il testo prevede che possono essere assunti, per l’intera durata del mandato parlamentare, «dipendenti della Pubblica amministrazione o di organismi a totale o parziale partecipazione pubblica, diretta o indiretta, in posizione di comando o di distacco», si legge nel documento. Cosa significa? Per esempio un dirigente di un comune, dell’Inps o di qualsiasi amministrazione può entrare a Montecitorio da collaboratore esterno, con una serie di vantaggi, a cominciare dagli orari di lavoro senza vincolo e dall’accesso al palazzo istituzionale. Il contratto prevede una retribuzione di circa 74mila euro lordi all’anno, che si può peraltro sommare alla remunerazione dell’amministrazione di provenienza. Una condizione vantaggiosa per i selezionati, per cui alla Camera è stata individuata una spesa di 4 milioni di euro. Escludendo chi fa di professione il collaboratore parlamentare.
FRATELLI DI STAFF
Il maggiore beneficio spetta ai quattro vicepresidenti (Rampelli di Fdi, Giorgio Mulè di Forza Italia, Anna Ascani del Pd e Sergio Costa del Movimento 5 stelle) che possono assumere fino a un massimo di tre unità per il loro ufficio. I questori potranno avere invece un’aggiunta di due persone nel loro staff, mentre “solo” uno toccherà ai segretari di presidenza. Il gruppo parlamentare che potrà assumere di più è per forza di cose quello di Fratelli d’Italia, che è il più consistente e conta nell’ufficio di presidenza – oltre a Rampelli e Trancassini – su tre segretari d’aula, Giovanni Donzelli, Carolina Varchi e Riccardo Zucconi. A rendere ancora più favorevole l’operazione c’è la solita scarsa trasparenza sui nomi dei collaboratori dell’ufficio di presidenza: a differenza dei consulenti del governo, Montecitorio non è tenuto a pubblicare la lista dei collaboratori né tantomeno la loro remunerazione.
(da editorialedomani.it)

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UNA DONNA SOLA AL COMANDO

Dicembre 13th, 2023 Riccardo Fucile

IN UN CRESCENDO DI POTERE SENZA LIMITI ARRIVA LA GAFFE DELLA MELONI SU DRAGHI

Nel silenzio generale, nella distrazione di un’opinione pubblica giustamente angosciata per le due guerre in corso e per l’incertezza economica sul futuro, il governo sta procedendo alla sua riforma costituzionale. Che non è, attenzione, la riforma Casellati sull’elezione diretta del premier, la quale chissà se vedrà mai la luce (non esiste praticamente un solo costituzionalista in Italia che non l’abbia già impallinata). La vera riforma costituzionale è già stata fatta, seppur senza proclami e surrettiziamente: è l’abolizione di quel poco di Parlamento rimasto e l’instaurazione della Repubblica presidenziale di palazzo Chigi. Riforma di un solo articolo: decide tutto Giorgia Meloni e tanti saluti. Meloni “Wonder woman” che ieri, facendo la ruota allo specchio come i pavoni, si è paragonata a Mario Draghi e l’ha trovato inutile, uno che si faceva le foto con i leader e “non portava a casa niente”. Una spirale di onnipotenza celebrata dai giornali della destra e dal Tg unico Rai-Mediaset (con la solitaria eccezione del Tg3), mentre i parlamentari di Fratelli d’Italia cantano tutti in coro “meno male che Giorgia c’è”. Ma sull’attacco a Draghi ci torneremo tra poco.
Di questa riforma presidenzialista “de facto” si stanno vedendo i frutti in questi giorni in cui le Camere, ridotte a camerette, sono (anzi dovrebbero) essere impegnate nell’esame della legge più importante dell’anno, quella di Bilancio. Il provvedimento che stabilisce il dare e l’avere, che decide gli investimenti, i tagli, il sociale, le pensioni, le tasse, la sanità, le grandi e piccole opere, la scuola. Tutto, insomma.
Con un’innovazione pericolosa, perché avvenuta al di fuori di ogni regola scritta, il governo ha già deciso che la manovra non è emendabile, nemmeno da parte dei parlamentari della sua stessa maggioranza. Così è se vi pare, prendere o lasciare.
Tanto che al 12 di Dicembre ancora non si conosce il contenuto del maxi emendamento che il governo sta cucinando nelle sue segrete stanze e si intuisce, dietro la porta, solo il rumore attutito di uno scontro furioso sulla distribuzione delle poche risorse disponibili. Si capisce che non ci sono i soldi promessi a Matteo Salvini per il ponte sullo Stretto e il vicepremier sta facendo il diavolo a quattro per non essere sconfessato nelle sue promesse. Si comprende anche che si sta consumando una battaglia sanguinosa sul Superbonus, tanto che ieri i relatori della Manovra, Guido Quintino Liris (Fratelli d’Italia ) e Dario Damiani (Forza Italia) sono stati seccamente smentiti dal ministero dell’Economia, poco dopo aver accennato a un intervento in extremis per prorogare in qualche modo la misura. Ma tutto questo lo sappiamo, appunto, solo grazie ai retroscena dei giornalisti che raccolgono gli spifferi del Parlamento. Perché le Camere, nel frattempo, attendono in silenzio che cali dall’alto Mosè-Meloni con le tavole della legge. La logica è quella di un governo onnipotente, ormai dominus unico della scena.
Con una chiarezza al limite della brutalità, il neo presidente della Corte costituzionale, Augusto Barbera, ha detto ieri quel che il capo dello Stato si è sforzato in questi mesi di far capire al governo, seppure sottovoce: “I maxi emendamenti sono obbrobriosi”. Ha detto proprio così: obbrobriosi. Scritti mettendo insieme “progettini” che i parlamentari “non riescono a conoscere perché sono presentati all’ultimo minuto”.
Ora, è pur vero che quella dei maxi emendamenti e dell’eccesso di voti di fiducia e decreti legge è una pratica a cui hanno volentieri fatto ricorso tutti i governi, anche quelli tecnici o di centrosinistra. Ma con questo governo di destra-centro una prassi deplorevole è diventata regola generale, senza eccezioni.
Arrivando al punto che la Camera dei deputati, nel silenzio del suo presidente (che pure, da leghista, potrebbe una volta tanto non intrupparsi nel coro “meno male che Giorgia c’è”), esaminerà in prima lettura la Finanziaria tra Natale e Capodanno, probabilmente il 29 dicembre, a poche ore dall’esercizio provvisorio. Una prepotenza mai vista, letteralmente, nella storia parlamentare italiana.
Ma tutto passa così, senza più limiti e freni. Come i decreti legge, ormai la via ordinaria per la legislazione, che hanno completamente esautorato le Camere. Uno studio, presentato ieri dall’associazione degli ex parlamentari, dimostra in maniera lampante questo svuotamento del Parlamento a favore di un super-governo onnipotente. I decreti legge del governo sono passati da una media di 1,1 al mese della XV legislatura (quella di Prodi e Berlusconi, per capirci) alla cifra monstre di 2,6 al mese nella legislatura in corso, più che raddoppiando.
Il socialista Lelio Basso, che ce l’aveva con i democristiani, parlò di un “golpe bianco” perché il governo centrista di allora aveva osato presentare tre decreti legge in un anno. Che direbbe oggi, quando Meloni solo a novembre ne ha sfornati otto?
In questo crescendo di comando senza limiti e potere senza contrappesi arriva la battuta infelice, chissà se voluta o scappata di bocca, su Mario Draghi. Una “gaffe” che è difficile non mettere in relazione allo scoop di Repubblica di tre giorni fa, quando scrivemmo che c’è un’interlocuzione riservata in corso, tra Parigi e Berlino, per puntare su Draghi come prossimo presidente della Commissione europea. Una manovra con molte ragioni, come ha spiegato Claudio Tito, che lascerebbe Meloni in una posizione difficile, quasi obbligandola a dare il suo assenso. A meno che… A meno che la figura di Draghi non finisca nel tritacarne della polemica politica, “sporcata” e alla fine inservibile. Tanto, nell’Italia immemore, chi ricorda più l’uomo che ha salvato l’euro (e la Nazione, come si usa dire oggi), che ha vaccinato milioni di cittadini, che ha schierato il Paese da subito tra i difensori dell’Ucraina, che ha costretto l’Europa a negoziare insieme sull’acquisto delle dosi, che ha scritto in poche settimane il Pnrr. Tutti devono dimenticare e imparare a cantare nel coro nel Giorgia. Guai a chi stecca.
(da La Repubblica)

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VANTARSI COME TERAPIA

Dicembre 13th, 2023 Riccardo Fucile

DRAGHI NON AVEVA BISOGNO DI VANTARSI, CONTAVANO I FATTI… MELONI E PIANTEDOSI USANO LA FANFARA PER GLORIFICARE IL NULLA E A NOSTRE SPESE

Il famoso understatement (secondo la definizione di Oxford Languages: “atteggiamento volutamente alieno da enfasi e retorica”), al quale molti uomini delle istituzioni, vedi Mario Draghi, hanno cercato di attenersi, dev’essere considerato dai nuovi governanti un deprimente cascame del passato.
Il vero capo, per galvanizzare le truppe, deve trasformare in fanfara ogni suo atto quotidiano.
Nei nuovi governanti enfasi e retorica non solo non suscitano diffidenza: ma sono i due ingredienti insostituibili della propaganda patriottarda.
Il fatto che il ministro dell’Interno Piantedosi si sia munito di un “social manager”, grazie al quale ogni retata di malfattori, o espulsione di spacciatori, diventa una gloriosa pagina di rinascita nazionale da annunciare, sul sito ufficiale del ministero, con titoli cubitali (manca l’Inno di Mameli: provvedere subito, per piacere), è il contrario esatto dell’understatement.
È un vantarsi, un gongolare del proprio potere e del proprio ruolo sociale, un “quanto sono bravo!” non richiesto e certamente controproducente tra chi apprezza i toni bassi: forse una valorosa minoranza.
Allo stesso identico modo il servizio del Tg1 sull’adunata governativa di Atreju, certo non l’unico servizio della nuova Rai a non avere alcun rapporto con ciò che normalmente si chiama “giornalismo”, conferma che la regola è non farsi il minimo scrupolo, quando si tratta di parlare bene di se stessi: semmai, al contrario, esagerare nell’elogio e nel compiacimento.
In sintesi, uno come Mario Draghi non ha alcun bisogno di vantarsi: ha già le sue sicurezze.
Piantedosi e Atreju invece sì: ne hanno un gran bisogno. Poterlo fare a spese nostre dev’essere un grande comfort.
(da La Repubblica)

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COME CAMBIA LA BUSTA PAGA NEL 2024? TASSE E CONTRIBUTI, ECCO CHI CI GUADAGNA E QUANTO

Dicembre 13th, 2023 Riccardo Fucile

I CONTI DELL’UFFICIO PARLAMENTARE BILANCIO… AUMENTI DA ELEMOSINA PER I PENSIONATI, QUALCHE DECINA DI EURO PER I DIPENDENTI, MA IL RINNOVO DEI CONTRATTI POTREBBE RIDURLI ANCORA

A conti fatti, nel 2024 quanto rimarrà in più nelle tasche dei lavoratori italiani? Ad influire ci sono due provvedimenti. Il primo è il decreto legislativo 88 del 27 ottobre (qui) che prevede: fino a 15 mila euro lordi ci sono 75 euro in più di detrazioni da lavoro dipendente all’anno (da 1.880 euro a 1.955 euro); da 15 mila a 28 mila euro l’aliquota Irpef scende dal 25 al 23%. Oltre i 50 mila euro, invece, si perdono 260 euro di detrazioni: quelle, per intenderci, del 19% degli interessi sul mutuo per la prima casa, la scuola dei figli, la ristrutturazione dell’abitazione, ecc. Le spese sanitarie saranno, comunque, tutte detraibili.
Il secondo è il disegno di legge di Bilancio, in arrivo al Senato il 18 dicembre, che conferma per i dipendenti anche per il 2024 il taglio del cuneo fiscale (qui, articolo 5 pagina 7): invece di circa il 9% di contributi previdenziali a carico del lavoratore, chi ha una retribuzione lorda fino a 25 mila euro (22.600 di reddito imponibile) pagherà circa il 2%; fino a 35 mila euro (31.700 di reddito imponibile) circa il 3%. Lo sconto non si applica più, però, alla tredicesima. Chi versa meno contributi per il taglio al cuneo fiscale, ovviamente, non avrà nessuna ripercussione sulla pensione futura.
I conti dell’Ufficio parlamentare bilancio
Grazie ai conti dell’Ufficio parlamentare di bilancio vediamo chi ci guadagna e quanto per fasce di reddito.
L’analisi che segue permette di approfondire quattro aspetti: 1) i vantaggi individuali ci dicono quanti euro ciascuno vedrà entrare in più nel proprio portafoglio in un anno; 2) le scelte politiche dietro i provvedimenti: la percentuale di guadagno sulla base del proprio reddito indica chi il governo Meloni intende aiutare di più e chi di meno; 3) quanti contribuenti ci sono nelle fasce di reddito che vengono avvantaggiate e quanti in quelle per cui cambia poco; 4) come gli interventi modificano il contributo delle varie categorie e fasce di reddito al gettito complessivo.
Quali benefici per i 20,7 milioni di dipendenti
Questa categoria somma i vantaggi dei due provvedimenti (riduzione Irpef e taglio del cuneo fiscale)
fino a 8.000 euro restano in tasca 192 euro in più all’anno, ossia il 5,1% del reddito imponibile;
tra 8 e 15 mila, 533 euro, il 4,7%;
tra 15 e 25 mila, 994 euro, il 4,9%;
tra 25 e 28 mila, 1.210 euro, il 4,6%.
Fin qui ci sono tre dipendenti su quattro, considerando anche part time e stagionali.
Tra 28 e 35 mila, il vantaggio è di 816 euro, pari al 2,6% del reddito imponibile; e poi:
tra 35 e 50 mila, 303 euro, lo 0,7%;
tra 50 e 100 mila, 158 euro, lo 0,2%;
oltre i 100 mila, 123 euro, lo 0,1%.
I numeri messi in fila mostrano, dunque, come da 28 mila euro in su, quando l’effetto del taglio al cuneo fiscale si riduce del 7/6% e poi a 35 mila euro finisce, i benefici si sgonfiano: la percentuale di guadagno rispetto al reddito imponibile si dimezza tra i 28 e i 35 mila e oltre i 35 diventa sempre meno rilevante (303 euro sono pochi per chi è benestante, ma comunque in cifra assoluta sono di più di quelli che vengono presi fino a 8.000).
Il motivo è anche che le maggiori detrazioni da lavoro dipendente e la riduzione dell’aliquota Irpef hanno effetto sulla busta paga di tutti i dipendenti, mentre oltre i 50 mila euro vengono bilanciati dal taglio alle altre detrazioni.
Gli altri 19,3 milioni di contribuenti
Guardiamo adesso gli altri 19,3 milioni di contribuenti Irpef tra cui i circa 15 milioni di pensionati, gli autonomi (ovviamente che non aderiscono alla flat tax) e chi ha rendite da fabbricati, che beneficiano solo della riduzione dell’aliquota Irpef.
Proprio perché non vedono nessun beneficio dal taglio del cuneo fiscale, i loro vantaggi sono molto più limitati e più spostati sui redditi medio-alti:
fino a 8.000 il guadagno è di euro 7 euro, pari allo 0,2% dello stipendio;
tra 8 e 15 mila, 13 euro, 0,1%;
tra 15 e 25 mila, 99 euro, 0,5%;
tra 25 e 28 mila, 234 euro, 0,9%;
tra 28 e 35 mila, 268 euro, 0,9%;
tra 35 e 50 mila, 264 euro, 0,6%;
tra 50 e 100 mila, 213 euro, 0,3%;
oltre i 100 mila, 172 euro, 0,1%.
Il gettito da lavoro dipendente
A livello collettivo: se su 100 contribuenti fino a oggi il 51,8% di dipendenti contribuiva al gettito complessivo per il 53,7% di Irpef e contributi a carico del lavoratore, con i 2 provvedimenti nel 2024 il contributo al gettito scende al 51,5%. Per i dipendenti, dunque, che da sempre sono i maggiori contribuenti della fiscalità generale e contributiva, adesso c’è una, seppur minima, inversione di tendenza.
Il gettito da lavoro non dipendente
Su 100 contribuenti, i non dipendenti sono il 48,2%. Finora hanno contribuito alla fiscalità generale e contributiva per il 46,3%, nel 2024 contribuiranno per il 48,5%.
Il costo dei provvedimenti
Il costo dei provvedimenti per le casse dello Stato è di 10,7 miliardi per la riduzione del cuneo fiscale che va a sostenere i redditi bassi fino a 35 mila euro; mentre di 4,3 miliardi per l’Irpef al 23% fino a 28 mila euro che vale poca roba e più spalmata.
Entrambi i provvedimenti valgono solo per il 2024 poi bisognerà trovare di nuovo i soldi. E anche decidere da che parte andare davvero.
I provvedimenti per il 2024 sono all’insegna della progressività come piace alla Cisl; accontentano le imprese che per fare avere più soldi in tasca ai lavoratori poveri spingono sul taglio al cuneo fiscale anziché sull’aumento degli stipendi; mentre vanno nella direzione opposta rispetto a quella indicata dal leader della Lega Matteo Salvini che, come più volte dichiarato, vuole la tassa piatta per tutti, dipendenti compresi.
Nel frattempo si prospetta un problema non da poco: sta già facendo molto discutere il fatto che i benefici del possibile rinnovo dei contratti del pubblico impiego, annunciato dal ministro Paolo Zangrillo con un aumento di retribuzione del 5,8% per oltre 3 milioni di dipendenti, possa essere azzerato in realtà dal meccanismo del cuneo fiscale.
A 35 mila e 1 euro la contribuzione risale al 9%. Esempio: gli infermieri e gli insegnanti che oggi non superano la fascia di reddito dei 35 mila euro e che beneficiano dunque del taglio al cuneo fiscale, con il rinnovo dei contratti potrebbero superarla. Tradotto nella pratica vuol dire che il governo con una mano dà e con l’altra toglierebbe pur pagandoli di più. Senza nessun vantaggio per la loro busta paga.
Milena Gabanelli e Simona Ravizza
(da corriere.it)

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GASPARRI NON SI DIMETTE, QUALCUNO NE AVEVA FORSE DUBITATO?

Dicembre 13th, 2023 Riccardo Fucile

NEGA CHE IL SUO RUOLO IN CYBERALM SIA INCOMPATIBILE CON IL SENATO, TUTTO SARA’ ARCHIVIATO A COLPI DI MAGGIORANZA

Il capogruppo di Forza Italia, Maurizio Gasparri, non ritiene incompatibile il suo ruolo di presidente della Cyberealm srl, società che si occupa di cybersicurezza, con quello di senatore. Per questo non solo resterà al suo posto, ma non sembra intenzionato a dimettersi dal ruolo assunto nell’azienda il 17 giugno 2021. È quello che emerge dalla lettera inviata lunedì alla Giunta delle elezioni del Senato che ha aperto un’istruttoria sul suo conto dopo le inchieste giornalistiche di Report e del Fatto sul suo potenziale conflitto d’interessi mai dichiarato a Palazzo Madama. Dopo la riunione del comitato ristretto della Giunta, inoltre, emerge anche un’altra notizia: la maggioranza di destra vorrebbe chiudere la pratica senza alcuna conseguenza già entro Natale.
Dopo l’apertura di un’istruttoria, il senatore di Forza Italia ha mandato una lettera di “comunicazioni” alla Giunta per le elezioni al presidente del Pd Dario Franceschini e al coordinatore del comitato ristretto Manfredi Potenti (Lega). Nella missiva, che il Fatto ha letto, Gasparri prova in punta di diritto a dimostrare che non ci sia alcuna incompatibilità tra la carica di presidente della Cyberealm e quella di senatore.
Tutta la difesa dell’azzurro si basa sulla legge 60 del 1953 secondo cui i membri del Parlamento “non possono ricoprire cariche né esercitare funzioni di amministratore” in associazioni o enti che “gestiscano servizi di qualunque genere per conto dello Stato o della PA o ai quali lo Stato contribuisce in via ordinaria, direttamente o indirettamente”.
Solo la “intersezione o sovrapposizione di funzioni” tra le sfere pubblica o privata “può determinare l’incompatibilità”.
Per il senatore devono coesistere una condizione “soggettiva e oggettiva” per generare contrasto tra i due ruoli. Gasparri, citando una delibera del Cda di Cyberealm, specifica che il 17 giugno 2021 era stato nominato un Ad con “tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione (…)” e questo basta perché non sussistano “poteri operativi in capo al sottoscritto, tanto meno di gestione”.
Inoltre il senatore scrive che essere componente del Cda di una società privata “non è autonomamente sufficiente a determinare la condizione di incompatibilità” ma deve esserci anche una causa oggettiva. Ovvero: la società deve “svolgere servizi di qualunque genere per conto dello Stato o della PA, o ai quali lo Stato contribuisca in via ordinaria direttamente e indirettamente”.
A quel punto Gasparri specifica che la Cyberealm srl non ha mai svolto “servizi, di qualunque genere, per conto dello Stato” né direttamente (nessun affidamento da parte dello Stato) né indirettamente tramite altre società. Il senatore aggiunge che le notizie sui contratti tra Cyberealm srl e la Rai sono stati smentiti dalla tv pubblica.
Il Fatto nei giorni scorsi aveva raccontato, citando una risposta proprio della tv pubblica, dei contratti non con Cyberealm ma con Atlantica Digital Spa. Entrambe sono socie della Atlantica Cybersecurity Srl. Gasparri poi conclude: non c’è “alcuna condizione confliggente” tra i due ruoli.
La questione però è anche politica. Durante il comitato ristretto, ieri, il senatore leghista Potenti ha chiesto a Gasparri di fornire documenti utili alla pratica: lo statuto della società, la delibera di nomina a presidente e le delibere successive. Ma la collega di partito Erika Stefani si è detta contraria perché Gasparri ha già smentito ogni incompatibilità.
Solo la protesta del M5S ha fatto tornare tutto all’ipotesi originaria. Ora il senatore dovrà fornire i documenti e se vuole potrà essere ascoltato. “Aspettiamo i suoi documenti in giunta – spiegano le senatrici del M5S Ketty Damante e Ada Lopreiato – in qualunque Paese non governato da Meloni si sarebbe già dimesso”.
(da agenzie)

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IL PROF GARATTINI E LA SANITA’ LOMBARDA: “BASTA LOTTIZZAZIONI, LE POLITICA DEVE STARNE FUORI”

Dicembre 13th, 2023 Riccardo Fucile

IL PESO DEI PRIVATI AUMENTA A DISMISURA: SOVRANISTI AL SERVIZIO DELLE LOBBY

Il farmacologo Silvio Garattini, fondatore dell’Istituto Mario Negri, dice basta alla sanità lottizzata in Lombardia. In un’intervista rilasciata all’edizione milanese di Repubblica sostiene che chi la amministra «deve avere una formazione adeguata». Ed essere scelto «non in base all’appartenenza politica». Nel colloquio con Alessandra Corica Garattini commenta il balletto politico sulle prossime nomine nella sanità lombarda senza alcun dubbio: «Serve una scuola di alta formazione, che si occupi appunto di formare i dirigenti sanitari che devono occuparsi di Ssn e ospedali pubblici. È un’esigenza non più rinviabile, perché non è accettabile che la scelta di un dg avvenga solo in base a una casacca politica e non in base a competenze e formazione».
L’aumento del peso dei privati
Secondo Garattini «un ospedale pubblico è un bene prezioso, da amministrare con uno scopo ben preciso: il bene dei cittadini e dei pazienti». E le liti non sono un bello spettacolo: Sfortunatamente non è la prima volta che accade: la sanità in Lombardia è terreno di spartizione, e aggiungerei non soltanto in Lombardia. Essendo il settore che, dal punto di vista economico è più “pesante” se si guarda ai vari bilanci regionali, quello che accade qui da noi purtroppo accade anche in altre regioni. In Lombardia è considerato terreno di potere, e come tale viene trattato e spartito». Per il professore dopo Formigoni non è cambiato nulla. A parte «l’aumento del peso dei privati, che qui da noi è più forte che nelle altre regioni italiane, e che si è rafforzato ulteriormente negli ultimi anni anche a causa della crisi patita dal Servizio sanitario nazionale».
Le cooperative
Garattini si riferisce «per esempio alle tante cooperative che reclutano medici e infermieri che, a gettone, vanno poi a lavorare negli ospedali pubblici, dove c’è una grave carenza di personale: anche questo è dare spazio ai privati in sanità, senza effettivamente risolvere quelli che sono i problemi del pubblico».
E poi c’è la medicina territoriale. Che in Lombardia «è estremamente carente: nessuno credo sia contento di stare per ore in attesa in un pronto soccorso, “intasando” il sistema, ma purtroppo spesso è l’unica alternativa. È su questo che si dovrebbe lavorare, così come sulla prevenzione».
(da Open)

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