Dicembre 9th, 2023 Riccardo Fucile
LA ATLANTICA DIGITAL SPA HA 4 CONTRATTI IN ESSERE CON LA RAI. NEI GIORNI SCORSI
Atlantica Digital Spa, una delle società nella rete di Cyberealm, la Srl di cui è presidente il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, è tra le società fornitrici della Rai, la tv di Stato sulla quale proprio Gasparri deve vigilare. Infatti il capogruppo di Forza Italia è tra i componenti della Commissione parlamentare per la vigilanza dei servizi radiotelevisivi.
Luogo istituzionale diventato teatro per Gasparri, per mostrare cognac e carote all’audizione di Sigfrido Ranucci, conduttore di Report
Era stata proprio la trasmissione di Rai3 a rivelare come il forzista non avesse comunicato al Senato la sua carica di presidente (dal 17 giugno 2021) della Cyberealm.
Poi il Fatto ha ricostruito la rete societaria: la Cyberealm, specializzata in soluzioni di cybersecurity di proprietà dell’italo-israeliano Leone Ouazana, detiene il 24 per cento delle quote della Atlantica Cyber Security Srl, società che si occupa di “consulenza nel settore delle tecnologie e dell’informatica”, e nella quale partecipano anche altre aziende. Tra queste la Atlantica Digital Spa con una quota del 26 per cento.
Ed è proprio quest’ultima che, come raccontato nei giorni scorsi, ha vinto in questi anni (già da prima che Gasparri diventasse presidente di Cyberealm), ovviamente in modo lecito, appalti con società pubbliche: Consip, Rai, Arma dei carabinieri.
Il caso è arrivato martedì in Commissione di vigilanza dei servizi radiotelevisivi. La domanda è stata posta dai componenti del M5S. “La Cyberealm Srl – scrivono – unitamente” ad Atlantica Digital Spa “detiene a tutt’oggi quote della Atlantica Cyber Security srl; la Atlantica Digital Spa, risulta inoltre inserita nell’albo fornitori Rai del 9.07.2023”.
Per questo chiedono di sapere: “Se la Rai, o una società del Gruppo Rai, abbiano mai affidato alla Cyberealm srl, alla Atlantica Digital Spa o a loro partecipate l’espletamento di servizi…”.
La risposta dalla Tv di Stato è arrivata in forma scritta. Qui si spiega che non sono mai stati “perfezionati accordi con le società Cyberealm Srl e Atlantica Cyber Security Srl, le quali non risultano infatti nell’elenco anagrafico dei fornitori Rai”.
Diverso il caso di Atlantica Digital Spa, questa sì in rapporti con la Rai: è “iscritta in Albo Fornitori Rai, è registrata nella piattaforma Acquisti per la possibile partecipazione a procedure di affidamento e ha avuto diversi accordi negoziali con Rai spa”.
La Atlantica Digital Spa, continua la risposta inviata in Commissione, dal 2018 a oggi ha stipulato “18 accordi negoziali” con Rai Spa “di cui 4 tuttora in essere”.
Nei giorni scorsi, il senatore ha definito “improprio” l’accostamento con Atlantica Digital Spa, “società alla quale è totalmente estraneo”.
Intanto “Il Fatto” ha ricostruito che tra i finanziatori dell’ultima campagna elettorale di Gasparri c’è pure AdnKronos Srl, si tratta dell’azienda di Pippo Marra, editore dell’omonima agenzia di stampa. AdKronos Comunicazione Srl ha contribuito con 5 mila euro anche alla campagna elettorale di Chiara Colosimo, deputata di Fratelli d’Italia. Si tratta di tutti contributi leciti e regolari. “Adnkronos Spa possiede la testata giornalistica relativa alla Agenzia di stampa. Adnkronos Comunicazione Srl invece è un’altra azienda che non svolge attività editoriale. E quindi non è soggetta alle norme previste dalla legge sulla stampa. Sono due società interamente indipendenti che svolgono attività diverse e separate”, spiegano da AdnKronos Comunicazione Srl.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Dicembre 9th, 2023 Riccardo Fucile
LA LEADER DI ESTREMA DESTRA, INSIEME AL SUO PARTITO E AD ALTRE 26 PERSONE, DOVRÀ PRESENTARSI IN AULA NELL’AUTUNNO DEL 2024 PER RISPONDERE DELL’ACCUSA DI AVER PAGATO ASSISTENTI CHE LAVORAVANO PER IL FRONT NATIONAL CON IL DENARO DELL’UNIONE EUROPEA- RISCHIA FINO A 10 ANNI CARCERE
Rinvio a giudizio per la leader di estrema destra Marine Le Pen, il suo partito Rassemblement National e altre 26 persone che dovranno comparire davanti al tribunale penale di Parigi per rispondere delle accuse di appropriazione indebita di fondi pubblici europei avvenute tra il 2004 e il 2016. Sono sospettati di aver utilizzato denaro dell’Unione Europea per pagare assistenti a Bruxelles e Strasburgo che in realtà lavoravano per il partito in Francia. “Non ha commesso alcuna infrazione o irregolarità”, fa sapere con un comunicato il Rassemblement parlando del coinvolgimento della sua leader.
L’udienza preliminare è fissata per il 27 marzo 2024, mentre il processo entrerà nel vivo a partire da ottobre 2024. “Purtroppo questa decisione non è una sorpresa”, ha dichiarato in un comunicato Rodolphe Bosselut, avvocato della presidente del gruppo RN all’Assemblée Nationale.
Marine Le Pen rischia una potenziale condanna fino a 10 anni di carcere, una multa di un milione di euro e l’ineleggibilità a cariche pubbliche per 10 anni, secondo quanto riportato dalla procura. “Contestiamo formalmente le accuse rivolte ai nostri deputati e assistenti parlamentari”, ha reagito il partito, assicurando che il processo gli darà “finalmente l’opportunità” di difendersi “e di presentare le sue argomentazioni”.
La notizia arriva a pochi giorni dalla pubblicazione del sondaggio EuroTrack per il quotidiano Les Echos sulle intenzioni di voto alle elezioni Europee di giugno per le quali Le Pen ha scelto il delfino Jordan Bardella, 28enne di origini piemontesi alla guida del partito di Le Pen dal 2022. Una scelta che i dati sembrano ripagare: la lista di estrema destra potrebbe ottenere il 28% dei suffragi, piazzandosi davanti a quella della maggioranza macroniana, ferma sotto al 19% e senza ancora un capolista dichiarato.
L’indagine sui fondi degli assistenti è partita nel 2015 quando, su richiesta del Parlamento europeo, la giustizia francese aveva aperto un’’inchiesta per sospette irregolarità riguardanti il ruolo di una ventina di assistenti del gruppo di destra francese all’Europarlamento nella quale fu ufficialmente indagata Marine Le Pen nel 2017. Il Parlamento europeo, costituitosi parte civile, nel 2018 ha quantificato a 6,8 milioni di euro il danno economico degli illeciti commessi tra il 2009 e il 2017.
(da agenzie)
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Dicembre 9th, 2023 Riccardo Fucile
RIFORMA DEL PATTO DI STABILITÀ, UNIONE BANCARIA, NOMINA DI FRANCO ALLA BEI: MELONI DICEVA CHE IL VETO SUL MES ANDAVA INSERITO IN UNA TRATTATIVA COMPLESSIVA, MA ALLA FINE L’ITALIA NON HA OTTENUTO NULLA
La “logica di pacchetto” la inventò Giuseppe Conte nel lontano 2019. Anche all’epoca il problema era il Mes, ovvero la firma della riforma, che l’allora premier legava a un patto che includeva le garanzie della Bei, il supporto Sure, l’Unione bancaria e altre questioni in discussione a Bruxelles. Era in realtà una formula, escogitata da Conte, per far ingoiare al M5s la firma del nuovo Fondo salva stati. Ora, dopo quattro anni, siamo allo stesso punto.
Il tema è sempre il Mes, stavolta la ratifica di quell’accordo, e Giorgia Meloni ha fatto suo l’approccio contiano. L’Italia non ratifica, unico paese a non averlo fatto, per “affrontare il negoziato sulla nuova governance europea con un approccio a pacchetto” diceva la premier al Parlamento. Mentre il negoziato si avvia alla sua fase conclusiva, cosa troverà il governo Meloni nel pacchetto di Natale europeo?
Per Meloni il veto sul Mes – perché la mancanza della ratifica italiana impedisce al nuovo trattato di entrare in vigore – doveva essere, se non un ricatto, quantomeno una moneta di scambio per ottenere concessioni su altri tavoli come la riforma del Patto di stabilità in un senso meno rigido; l’avanzamento verso l’Unione bancaria; una trasformazione istituzionale del Mes verso una sorta di fondo sovrano europeo che faccia investimenti e finanzi politiche industriali nazionali; la candidatura, proposta dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, di Daniele Franco al vertice della Banca europea degli investimenti (Bei).
Quasi tutte le trattative si sono chiuse, tanto che Giorgetti, da molto tempo pressato dai suoi colleghi europei, ha garantito che la discussione parlamentare sul Mes ci sarà la prossima settimana. E qualcosa sicuramente dovrà dire la premier martedì 12 dicembre, quando sarà alla Camera per le comunicazioni in vista del decisivo Consiglio europeo del 14 e 15 dicembre.
Sicuramente si potrà fare un bilancio preliminare di questa strategia “a pacchetto”. Cosa ha ottenuto il governo? Molto poco. La ratifica del Mes è ormai ritenuta, da tutti i partner, una sorta di atto dovuto e unilaterale: non c’è alcuno sviluppo sull’unione bancaria (eccezion fatta per l’introduzione del backstop che però, paradossalmente, è il frutto del nuovo accordo sul Mes ritardato dall’Italia); e non c’è neppure, sul tavolo, una discussione sul cambio di funzione del Mes come “fondo sovrano europeo”.
Sulle nomine è stata un po’ una débâcle. Daniele Franco era uno dei tre candidati alla Bei, quando Giorgetti ha capito che non ce l’avrebbe fatta si è buttato sulla danese Margrethe Vestager: ieri è stata ufficializzata la nomina della spagnola Nadia Calviño. Vuol dire che l’Italia esce dal giro di nomine con una poltrona di rilievo in meno visto che nel frattempo Andrea Enria ha lasciato la presidenza della Vigilanza della Bce, assegnata alla tedesca Claudia Buch.
Resta la revisione delle regole fiscali, per le quali Giorgetti aveva chiesto di scorporare gli investimenti legati al Pnrr e agli obiettivi europei su green e digitale. Non è stato ottenuto granché. Alla fine il Patto di stabilità che verrà fuori è la proposta della Commissione europea in salsa tedesca, visto che verranno aggiunte alcune salvaguardie sulla riduzione di deficit e debito. La Spagna ha ottenuto molto di più senza minacciare alcun veto
(da il Foglio)
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Dicembre 9th, 2023 Riccardo Fucile
IL GOVERNATORE È PRONTO ALLE DIMISSIONI, PER METTERE ALL’ANGOLO FRATELLI D’ITALIA E FORZA ITALIA… IN BALLO ANCHE LE CANDIDATURE PER ABRUZZO, BASILICATA E PIEMONTE
La normalità vuole che i politici smentiscano le liti. In Sardegna (ma anche a Roma) in questi giorni succede l’esatto contrario: «Nessun accordo», rivendica Matteo Salvini. Il vicepremier punta i piedi, chiede di confermare il governatore uscente Christian Solinas, che il resto della coalizione ha scaricato. Il tema sono le regionali nell’isola e negli altri territori al voto nei prossimi mesi
Salvini pretende di risolvere la questione direttamente con Giorgia Meloni e Antonio Tajani, visto che il colloquio tanto sbandierato di mercoledì scorso non è bastato.
La tensione sale. Il tavolo di maggioranza sulle candidature è fermo, i dirigenti di FdI, Forza Italia e Lega di fatto non si vedono da settembre. La causa del blocco risiede in Trentino, dove il vincitore delle elezioni, Maurizio Fugatti non riesce a formare la giunta per le liti tra i partiti che lo sostengono. A Trento alla fine l’accordo si è trovato, Fratelli d’Italia ha ottenuto quello che chiedeva, un posto da vicepresidente e ora restano solo piccoli dettagli da sistemare.
Il tavolo nazionale si potrebbe riconvocare la settimana prima di Natale. Il tema più delicato è la Sardegna, con le urne che si apriranno fra poco più di due mesi (ultima domenica di febbraio o la prima di marzo). Meno complesse sembrano le trattative per Abruzzo, Basilicata e Piemonte.
Fratelli d’Italia e Forza Italia hanno detto a più riprese che l’attuale governatore Solinas non deve essere ricandidato. Giorgia Meloni vuole una Regione in più, visti i rapporti di forza cambiati (al momento FdI governa le Marche, l’Abruzzo e il Lazio con un indipendente) e propone il sindaco di Cagliari, Paolo Truzzu.
La Lega, però, non molla. Ieri, di prima mattina, Salvini ha diffuso una nota per smentire che ci fosse un accordo per la rimozione di Solinas, in cambio della conferma della leghista Donatella Tesei in Umbria (alle urne dopo l’estate). In questo schema Piemonte e Basilicata resterebbero a Forza Italia, con gli uscenti Alberto Cirio e Vito Bardi.
Sui territori i leghisti sono sobbalzati e hanno cominciato a chiamare Roma: «Avete firmato alle nostre spalle?». E il vicepremier ha dovuto smentire. Il più seccato in queste ore è Solinas, il quale sentendosi sul punto di essere scaricato e senza un futuro chiaro sarebbe pronto a far saltare le trattative con una mossa a sorpresa: sciogliere la giunta e anticipare le elezioni a gennaio.
In Sardegna poi c’è chi reclama che non sia soltanto “il continente” a decidere. Il Grande centro, guidato da Antonello Peru chiede di adottare come criterio di scelta i sondaggi sui possibili candidati. A essere penalizzato potrebbe essere, oltre a Solinas, anche Truzzu, in fondo alle classifiche di gradimento dei sindaci. Mentre i consensi più ampi li fa registrare il deputato di Forza Italia Pietro Pittalis, ufficialmente non in pista.
Il sogno centrista è di puntare sulla società civile, con nomi come il direttore della Coldiretti sarda Luca Saba o quello di Angelo Binaghi, capo della federazione tennis (al quale però non giova la guerra con il presidente del Coni Giovanni Malagò). Il rebus sardo però è destinato a risolversi a Roma, come chiedere Salvini, «ne parleremo con Giorgia e Antonio».
(da La Stampa)
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Dicembre 9th, 2023 Riccardo Fucile
MEDICI SENZA FRONTIERE: “AMERICA COMPLICE DELLA CARNEFICINA DI GAZA”
Ieri sera gli Stati Uniti hanno bloccato l’approvazione da parte del Consiglio di sicurezza dell’ONU di una risoluzione che chiedeva “un cessate il fuoco umanitario immediato” nella Striscia di Gaza. Al Palazzo di vetro di New York in favore del testo si sono espressi 13 Stati membri su 15 dell’organismo. Washington ha bloccato la proposta, avanzata dagli Emirati Arabi Uniti, esercitando il proprio diritto di veto. La Gran Bretagna, un altro Paese membro permanente del Consiglio che può impedire l’approvazione delle risoluzioni, si è invece astenuta. “Nonostante la mancanza di tempo per i negoziati, gli Usa si sono impegnati in colloqui seri facendo proposte proattive, come la ripresa delle pause umanitarie. Ma la fretta di votare ha fatto sì che il testo fosse sbilanciato e ci ha costretti a votare contro. Ad esempio, non capiamo perché il Consiglio di Sicurezza non vuole condannare gli attacchi terroristici di Hamas del 7 ottobre. E inoltre non menziona il diritto di Israele a difendersi”, ha dichiarato il vice ambasciatore americano all’Onu Robert Wood
In poco più di due mesi di bombardamenti e incursioni dell’esercito di Israele a Gaza sono state uccise almeno 16mila persone; tra le vittime ci sono anche migliaia di minori, e migliaia di altri civili palestinesi sono dispersi, probabilmente morti sotto le macerie degli edifici distrutti dai raid. Per questo la proposta di un cessate il fuoco umanitario del segretario generale dell’ONU Guterres sembrava di assoluto buon senso, il minimo che si dovesse fare per fermare il massacro. Sulla vita di uomini, donne e bambini hanno però finito per prevalere interessi economici e strategici
La Palestina: “Il no degli USA a un cessate il fuoco è disastroso”
Riyad Mansour, osservatore permanente dello Stato di Palestina presso l’ONU, ha infatti definito il veto americano, “più che deplorevole, disastroso”, ma anche “un punto di svolta nella storia”: “Invece di consentire a questo Consiglio di mantenere il proprio mandato lanciando finalmente, dopo due mesi di massacri, un chiaro appello affinché le atrocità finiscano, ai criminali di guerra viene concesso più tempo per perpetuare i loro crimini. Come può essere giustificato? come si può giustificare il massacro di un intero popolo?”. La Cina ha espresso “profonda delusione” mentre per l’Iran “le conseguenze del veto Usa alla risoluzione dell’ONU su Gaza potrebbero essere quelle di un’esplosione incontrollabile” in Medio Oriente. Finche’ l’America sostiene i crimini del regime sionista e la continuazione della guerra c’è la possibilità di un’esplosione incontrollabile della situazione nella regione”.
Medici Senza Frontiere: “USA complici del massacro a Gaza”
Durissimo anche il commento di Avril Benoît, direttore generale di Medici Senza Frontiere (MSF) negli Stati Uniti: “Mentre le bombe continuano a cadere sui civili palestinesi e a causare una distruzione diffusa, gli Stati Uniti hanno usato ancora una volta il loro potere per bloccare il tentativo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di chiedere un cessate il fuoco a Gaza. Ponendo il veto a questa risoluzione, gli Stati Uniti sono gli unici a votare contro l’umanità, diventando inoltre complici della carneficina a Gaza”.
Per MSF “il veto degli Stati Uniti è in netto contrasto con i valori che professano di sostenere. Continuando a fornire copertura diplomatica alle atrocità in corso a Gaza, gli Stati Uniti lanciano due segnali chiari: il diritto umanitario internazionale può essere applicato in modo selettivo e le vite di alcune persone contano meno di altre. Israele sta continuando ad attaccare indiscriminatamente persone e strutture civili e a imporre un assedio che equivale a una punizione collettiva per l’intera popolazione di Gaza, costretta a sfollamenti di massa. Israele nega inoltre l’accesso a cure mediche e assistenza umanitaria, oggi più che mai vitali a Gaza. Gli Stati Uniti continuano a fornire sostegno politico e finanziario a Israele che porta avanti le sue operazioni militari senza curarsi del terribile costo per i civili. Affinché gli operatori umanitari siano in grado di rispondere agli immensi bisogni, MSF chiede un cessate il fuoco adesso”.
(da Fanpage)
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Dicembre 9th, 2023 Riccardo Fucile
LA SECONDA PARTE DELLA MONUMENTALE INCHIESTA DEL “WASHINGTON POST” SUL FALLIMENTO DELLA RESISTENZA UCRAINA NELL’ULTIMO ANNO… COMPLESSIVAMENTE, L’UCRAINA HA RICONQUISTATO SOLTANTO 518 KM QUADRATI DI TERRITORIO AL PREZZO DI MIGLIAIA DI MORTI E DI DECINE DI MILIARDI DI AIUTI MILITARI OCCIDENTALI
I soldati della 47ma Brigata Meccanizzata attesero – tesi ma fiduciosi – il calar della notte per ammassarsi nei loro mezzi da combattimento Bradley forniti dagli USA. Era il 7 giugno e la tanto attesa controffensiva ucraina stava per iniziare.
Scopo delle prime ventiquattr’ore era quello di avanzare per circa nove miglia, raggiungendo così il villaggio di Robotyne – un’offensiva iniziale a sud in vista del più ampio obiettivo di riprendersi Melitopol, città nelle vicinanze del Mar d’Azov, e d’interrompere le linee di rifornimento russe.
Nulla andò secondo i piani.
Le truppe ucraine si aspettavano i campi minati ma furono colti alla sprovvista dalla densità degli ordigni. Il suolo era tappezzato di esplosivi, così tanti e tali che in alcuni casi erano stati sepolti a cataste. I soldati erano stati addestrati a guidare i Bradley all’interno di una base in Germania, sul terreno spianato. E invece, sul terreno molle della regione di Zaporizhzhia, nell’assordante rumore della battaglia, faticavano a manovrarli tra gli angusti sentieri sminati dai reparti in avanzata.
I russi, appostati più in alto, aprirono istantaneamente il fuoco con i missili anticarro. Alcuni mezzi furono colpiti, obbligando gli altri alle loro spalle a deviare dal percorso, finendo a loro volta per esplodere sulle mine e ostruendo ulteriormente il convoglio. A quel punto gli elicotteri e i droni russi piombarono già dal cielo ad attaccare i mezzi ucraini tamponatisi a catena.
I soldati, che in alcuni casi vivevano per la prima volta il trauma del combattimento, si ritirarono per riorganizzarsi – solo per continuare nei giorni successivi ad attaccare e a battere in ritirata, e così via, con gli stessi esiti sanguinosi.
“Era un inferno” ha dichiarato Oleh Sentsov, comandante di plotone nella 47ma. Il quarto giorno, il generale Valery Zaluzhny al vertice del comando ucraino, aveva visto abbastanza. Il campo di battaglia era disseminato di armamenti occidentali – Bradley americani, carri armati Leopard tedeschi, dragamine. Il numero dei morti e dei feriti fiaccava il morale.
Come ha rivelato un alto ufficiale di Kiev, Zaluzhny disse alle sue truppe d’interrompere gli attacchi prima che fossero distrutti ulteriori armamenti ucraini, già limitati
Anziché provare a sfondare le difese russe con un massiccio attacco automatizzato e il supporto del fuoco di artiglieria, come avevano consigliato i suoi omologhi americani, Zaluzhny decise che i soldati ucraini si sarebbero mossi a piedi in gruppetti di circa dieci persone – un’avanzata che avrebbe salvato equipaggiamenti e vite umane ma che sarebbe stata molto più lenta.
In quel quarto giorno furono scartati mesi e mesi di pianificazione con gli Stati Uniti, e la già prorogata controffensiva, studiata per raggiungere il Mar d’Azov nel giro di sessanta-novanta giorni, rallentò fin quasi a fermarsi.
Anziché effettuare l’exploit di nove miglia il primo giorno, nei quasi sei mesi a partire da giugno gli ucraini erano avanzati di circa dodici miglia liberando una manciata di villaggi. Melitopol era ancora fuori portata, e anche parecchio.
Il seguente resoconto di come si dipanò la controffensiva è la seconda e ultima puntata della disamina e mette in luce i tentativi violenti e spesso futili di sfondare le linee russe, oltre alle sempre più ampie divergenze tra comandanti ucraini e americani riguardo a tattiche e strategie.
Nel primo articolo è stata sviscerata la pianificazione ucraina e statunitense che fu introdotta nell’operazione. Questa seconda parte si basa invece sulle interviste rilasciate da oltre trenta ufficiali ucraini e americani, oltre che da più di due dozzine di ufficiali dell’esercito e soldati al fronte. In alcuni casi, ufficiali e soldati hanno descritto le operazioni militari protetti dall’anonimato.
Dai rapporti sulla campagna apprendiamo, fra le altre cose, che:
– Il settanta per cento dei soldati di una delle brigate che guidavano la controffensiva, equipaggiati con le armi occidentali più all’avanguardia, andarono in battaglia senza alcuna esperienza di combattimento.
– Le battute d’arresto degli ucraini sul campo di battaglia portarono a screzi con gli Stati Uniti riguardo alla più efficace linea di condotta finalizzata ad aprire un varco nelle difese russe.
– Per settimane, nella prima parte della campagna, il comandante delle forze americane in Europa non riuscì a mettersi in contatto con il vertice del comando ucraino, in un clima di tensioni dovute ai ripensamenti americani relativi alle decisioni prese sul campo di battaglia.
– Ciascuna fazione incolpava l’altra per i vari passi falsi o errori di valutazione. I militari americani conclusero che l’Ucraina non era all’altezza nelle tattiche militari essenziali, comprese le perlustrazioni del terreno per determinare la densità dei campi minati. Gli ufficiali ucraini, dal canto loro, sostenevano che gli americani non sembravano comprendere che i droni e tutti gli altri strumenti tecnologici avevano trasformato il campo di battaglia.
– Complessivamente, l’Ucraina ha riconquistato soltanto circa 518 km quadrati di territorio (equivalente a una manciata di quartieri romani, ndt), al prezzo di migliaia di morti e feriti e di miliardi in aiuti militari occidentali nel solo 2023.
Circa sei mesi dopo l’inizio della controffensiva, la campagna era diventata una guerra di “conquiste incrementali”.
L’Ucraina orientale e meridionale sono striate di umide trincee stile Prima Guerra Mondiale mentre i cieli pullulano di droni spia e d’assalto. Mosca lancia missili per colpire bersagli umani nelle città ucraine, mentre Kiev utilizza sia i missili occidentali sia la tecnologia ucraina per colpire dietro le linee del fronte – a Mosca, in Crimea e sul Mar Nero.
E tuttavia, le linee territoriali del giugno 2023 sono cambiate a malapena. E il presidente russo Vladimir Putin – in netto contrasto con il silenzio che ha spesso mantenuto nel primo anno di guerra – approfitta di ogni occasione per strombazzare il fallimento della controffensiva. La quale, come ha dichiarato lo stesso Putin a ottobre, “è in sedicente fase di stallo, ma in realtà fallita su tutta la linea”.
Addestrarsi alla battaglia
Il 16 gennaio, cinque mesi prima dell’inizio della controffensiva ucraina, il generale Mark A. Milley, allora capo di Stato Maggiore congiunto, fece visita ai soldati della 47ma, pochi giorni dopo l’arrivo dell’unità nella base di addestramento di Grafenwoehr in Germania.
Seguito a ruota dagli assistenti e dagli alti ufficiali di stanza in Europa, Milley attraversò a zig zag un poligono di tiro fangoso e gelido, chiacchierando con i soldati ucraini e osservandoli sparare a bersagli immobili con fucili e mitragliatrici M240B.
L’impianto era stato utilizzato per addestrare piccoli gruppi di soldati ucraini fin dal 2014, quando la Russia aveva invaso e annesso illegalmente al proprio territorio la penisola di Crimea. In vista della controffensiva, l’asticella si alzò a uno o più battaglioni di circa seicento soldati ucraini per volta che attraversavano ciclicamente il poligono.
In una tenda da campo bianca, Milley si riunì con i soldati americani che sovrintendevano all’addestramento, e quelli gli dissero che stavano cercando di replicare le tattiche russe e di costruire alcune trincee e altri ostacoli che gli ucraini si sarebbero trovati di fronte in battaglia.
“Per vincere con i russi… tutto sta che riescano a sparare e a muoversi” disse Milley, descrivendo in termini essenziali il nocciolo della strategia “pluriarmata” della controffensiva, che richiedeva di manovrare una forza immane di fanti, carri armati, mezzi corazzati, genieri e artiglieri. Se si fosse trattato degli Stati Uniti o della NATO, l’operazione avrebbe previsto anche una potenza area devastante per indebolire il nemico e proteggere le truppe, cosa di cui gli ucraini avrebbero invece dovuto fare, quasi o del tutto, a meno.
La 47ma era stata selezionata per essere una “forza di sfondamento” in punta alla controffensiva e per essere equipaggiata con armi occidentali. Ma mentre Milley continuava il suo giro di conversazioni con i soldati ucraini – che andavano dai giovani sui vent’anni alle reclute di mezz’età – molti gli dissero di aver lasciato solo recentemente la vita civile e di non avere alcuna esperienza di combattimento.
Milley tacque. Ma più tardi, in riunione con gli addestratori USA, egli parve riconoscere la portata della sfida che li attendeva. “Date loro tutto ciò che avete qui” disse.
La 47ma era una neonata unità chiamata ad addestrarsi in Germania. La leadership militare ucraina aveva deciso che le brigate più esperte avrebbero tenuto a bada i russi durante l’inverno, mentre i soldati più freschi avrebbero formato nuove brigate, addestrandosi all’estero per poi condurre la battaglia in primavera e in estate. Oltre un anno di guerra – con fino a 130mila soldati morti o feriti, secondo le stime occidentali – era costato carissimo alle forze armate ucraine. Perfino le brigate più combattive erano ormai largamente composte di sostituti chiamati alle armi.
Secondo un comandante della brigata, circa il 70% dei soldati della 47ma non aveva alcuna esperienza sul campo di battaglia,
La stessa leadership della 47ma era sorprendentemente giovane – il suo comandante, seppur estremamente combattivo, aveva solo 28 anni e il suo vice 25. La loro giovinezza era giudicata un vantaggio; gli ufficiali giovani avrebbero assimilato le tattiche della NATO senza essere influenzati dalla tradizione militare sovietica che ancora in parte permeava l’esercito ucraino
A parere di alcuni soldati ucraini, gli addestratori americani non afferravano la portata del conflitto contro un nemico più potente.
“La presenza massiccia di droni, fortificazioni, campi minati e così via non era presa in considerazione”, ha dichiarato un soldato della 47ma dal nome in codice Joker. I soldati ucraini portarono i loro droni per impratichirsi ulteriormente, ha raccontato Joker, ma all’inizio gli addestratori respinsero con forza l’offerta d’integrare gli apparecchi nel training perché i programmi di addestramento erano già prestabiliti. L’utilizzo dei droni fu aggiunto in seguito seguendo i feedback ucraini, dichiarò un ufficiale USA.
Il programma USA aveva i suoi vantaggi, ha osservato Joker, i soldati erano perfino sottoposti a un addestramento avanzato per i climi freddi e veniva loro insegnato a regolare il fuoco di artiglieria. Ma molto di ciò che avevano appreso fu scartato non appena volarono i proiettili veri. “Fummo costretti a perfezionare le tattiche durante la battaglia stessa” ha ammesso Joker. “Non potevamo metterle in pratica come ci avevano insegnato”.
A detta degli ufficiali USA e ucraini, non si erano mai aspettati che, in due mesi di addestramento, questi soldati si sarebbero trasformati in una forza analoga alla NATO. L’intenzione era invece quella d’istruirli a utilizzare adeguatamente i loro nuovi carri armati e i mezzi da combattimento occidentali e, come ha dichiarato un alto ufficiale americano, “insegnargli le tecniche essenziali per fare fuoco in movimento”.
Nessun ordine di attaccare
Quando, in primavera, I soldati della 47ma tornarono in Ucraina, si aspettavano che la controffensiva iniziasse quasi immediatamente.
Ai primi di maggio, la brigata si trasferì più vicino alla linea del fronte, nascondendo i Bradley e gli altri equipaggiamenti occidentali al limitare dei boschi nelle campagne di Zaporizhzhia. Le mostrine della 47ma sui mezzi furono coperte nel caso in cui gli abitanti filorussi della zona potessero rivelarne la posizione.
Ma passavano le settimane e gli ordini di attaccare non arrivavano. In seno all’unità, erano in molti a ritenere che si fosse perduto l’elemento sorpresa. La leadership politica “non avrebbe dovuto annunciare la nostra controffensiva per quasi un anno”, ha commentato il comandante di un’unità della 47ma. “Il nemico sapeva da dove saremmo arrivati”.
Milley e altri alti ufficiali USA coinvolti nella pianificazione dell’offensiva erano dell’idea che le forze ucraine dovessero convergere in un punto chiave di Zaporizhzhia, così da prevalere sulle robuste difese russe e garantirsi il successo nell’incursione verso Melitopol e il Mar d’Azov.
Il piano ucraino, invece, era quello di portare avanti un’offensiva su tre assi – a sud lungo due itinerari distinti verso il Mar d’Azov, nonché nell’Ucraina orientale nei dintorni della città assediata di Bakhmut, caduta nelle mani dei russi in primavera dopo una battaglia durata quasi un anno.
I leader militari ucraini si convinsero che impegnare troppi soldati in un solo punto a sud avrebbe reso vulnerabili le forze a est mettendo così in condizione i russi di conquistare territori in quella zona e, potenzialmente, a Kharkiv a nordest.
Per spaccare le forze russe a Zaporizhzhia, le brigate marine ucraine al margine occidentale della vicina regione del Donetsk avrebbero effettuato un’offensiva a sud verso la città costiera di Berdyansk. Lasciando così alla 47ma e ad altre brigate, parte di quella che l’Ucraina chiama la Nona Armata, il compito di attaccare lungo l’asse principale della controffensiva, verso Melitopol.
Il piano richiedeva alla 47ma e alla Nona Armata di sfondare la prima linea di difesa russa e d’impadronirsi di Robotyne. Dopodiché la Decima Armata, composta di parà ucraini, si sarebbe unita alla battaglia in una seconda ondata facendosi strada verso sud.
“Pensavamo che prendere Robotyne sarebbe stata questione di due giorni soltanto” ha ammesso il comandante di un mezzo da combattimento Bradley dal nome in codice Frenchman, “il francese”
Minare tutti gli accessi
Qualche giorno dopo il lancio della controffensiva, Oleksandr Sak, allora comandante della 47ma, fece visita a una postazione russa conquistata dalle sue truppe. In mezzo ad altro materiale abbandonato, notò dei cannoni anti-drone, dei visori termici e dei piccoli droni da sorveglianza. “Mi resi conto che il nemico si era preparato” ha dichiarato. “Non li avevamo colti alla sprovvista; sapevano che stavamo arrivando.”
Erano inoltre stati lasciati indietro dei manifesti di propaganda russa. Uno recava l’immagine di due uomini che si baciavano in pubblico con sopra una “X” rossa, accanto all’immagine di un uomo e una donna con due bambini. “Combattiamo per le famiglie tradizionali” diceva il manifesto.
Sak trovò anche una mappa utilizzata dai russi per contrassegnare i loro campi minati. Per una sola parte del fronte – lunga circa quattro miglia e profonda altrettanto – erano riportate più di ventimila mine.
“Non direi che non ce l’aspettavamo, ma avevamo sottovalutato quell’aspetto” ha ammesso Sak. “Effettuammo delle perlustrazioni con il genio militare e con ricognizioni aeree, ma molte mine erano camuffate o sepolte. Oltre a quelle in prossimità del fronte, vi erano delle mine nelle profondità delle postazioni nemiche. Oltrepassavamo le postazioni nemiche e c’imbattevamo in ulteriori mine laddove pensavamo che non ve ne fossero più.”
Un sergente maggiore della 47ma, esperto di droni, ha riferito che solo a piedi trovavano le trappole a detonazione remota, descrivendo la loro scoperta come una “sorpresa”.
Gli ufficiali USA ritenevano che l’Ucraina avrebbe potuto effettuare un’avanzata ben più significativa ricorrendo a un più ampio utilizzo di unità di perlustrazione del territorio e affidandosi in misura minore alle immagini trasmesse dai droni, che non erano in grado d’individuare mine sepolte, fili d’inciampo o trappole esplosive.
La regione di Zaporizhzhia è perlopiù caratterizzata da pianure e campi aperti, e i russi avevano scelto ogni altura a disposizione nella zona per costruirvi delle difese chiave. Da quei punti privilegiati, come hanno riferito soldati e ufficiali, le unità russe armate di missili anticarro attendevano i convogli dei mezzi da combattimento Bradley e dei carri armati Leopard tedeschi. Di norma in testa al gruppo c’era un dragamine – ed era il primo a essere bersagliato con l’aiuto dei droni di ricognizione.
“Affrontavamo costantemente il fuoco anticarro e distruggevamo fino a dieci sistemi missilistici guidati anticarro al giorno” ha dichiarato Sak. Ma, aggiunse, “di giorno in giorno ne tiravano fuori altri”.
Secondo un alto ufficiale della Difesa di Kiev, circa il 60% dell’attrezzatura di sminamento ucraina rimase danneggiata o distrutta nei primi giorni. “La fiducia che i nostri alleati riponevano nelle manovre con i mezzi corazzati e in una svolta significativa non dava i suoi frutti” ha riferito l’ufficiale. “Dovevamo cambiare tattica.”
Entro una settimana dall’inizio della controffensiva, le squadre di sminatori lavoravano al crepuscolo, quando avevano a disposizione luce sufficiente per riuscire a sminare ma non eccessiva da poter essere individuati dai russi. Una volta messo in sicurezza un piccolo sentiero, seguiva la fanteria – una lenta ed estenuante avanzata.
Spesso, quando i soldati ucraini raggiungevano un avamposto russo, scoprivano che anche quello era stato tappezzato di mine o di trappole esplosive. E anziché ritirarsi, le forze russe mantenevano le proprie postazioni anche sotto un pesante bombardamento di artiglieria, costringendo così gli ucraini a ingaggiare un combattimento ravvicinato con armi leggere per poter avanzare
In tutta la regione di Zaporizhzhia, i russi avevano dislocato nuove unità chiamate “Storm Z”, composte da combattenti reclutati dalle prigioni. Gli ex detenuti attaccavano a ondate umane chiamate “carne da macello” e venivano utilizzati per preservare le forze più elitarie. Nei dintorni di Robotyne – il villaggio che si supponeva dovesse essere raggiunto dalla 47ma il primo giorno della controffensiva – erano mischiati con la 810ma Brigata di Fanteria Marina russa e con altre formazioni militari regolari.
“Robotyne fu una delle nostre missioni più difficili” ha raccontato un geniere della 810ma unità in un’intervista rilasciata a un blogger russo favorevole alla guerra. “Dovemmo impegnarci al massimo per impedire al nemico di fare breccia. Da sminatori e genieri quali eravamo, fummo costretti a minare tutti gli accessi sia per la fanteria sia per i loro mezzi.
“I famosi Leopard stanno bruciando, e abbiamo fatto del nostro meglio perché brucino a dovere.”
Flotte di droni
Nei primi momenti dell’attacco a Robotyne, un covo di mitragliatrici russe ricavato in un edificio impedì l’avanzata della fanteria ucraina. Una compagnia della 47ma fece partire due droni da corsa modificati e imbottiti di esplosivi. Uno dei due entrò da una finestra ed esplose. Il secondo, guidato da un pilota dal nome in codice Sapsan, penetrò in un’altra stanza e, come ha raccontato l’uomo, fece detonare le munizioni all’interno uccidendo anche diversi soldati nemici.
Quello fu il primo momento clou nell’utilizzo di piccoli droni come artiglieria ad altissima precisione. Gli operatori – provvisti di visori che ricevevano immagini in tempo reale trasmesse dall’apparecchio – andavano a caccia di mezzi corazzati usando i droni con visuale in prima persona, noti come FPV. A detta degli operatori, gli FPV sono così precisi e veloci da poter bersagliare le parti deboli dei veicoli, come il vano motore e i cingoli.
E tuttavia, anche la Russia sta impiegando flotte di quegli stessi droni d’assalto realizzati a mano, che costano meno di mille dollari ciascuno e che sono in grado di mettere fuori uso un carro armato da molti milioni di dollari. A differenza delle munizioni di artiglieria che rappresentano una risorsa preziosa sia per la Russia sia per l’Ucraina, gli economici FPV usa e getta possono essere impiegati per colpire piccole formazioni di fanteria – pilotandoli direttamente nelle trincee o fra i soldati in movimento.
Anche l’evacuazione dei feriti o il trasporto di nuovi rifornimenti al fronte divennero compiti strazianti e potenzialmente letali, spesso riservati alle ore notturne a causa della minaccia dei droni.
“All’inizio il nostro problema erano le mine. Adesso sono i droni FPV” ha osservato Sentsov, comandante di plotone della 47ma. “Colpiscono il bersaglio con precisione causando gravi danni. Sono in grado di mettere fuori uso un Bradley e, potenzialmente, anche di farlo saltare in aria. Non si tratta di un’esplosione diretta, ma riescono a colpirlo in modo da fargli prendere fuoco – non fermano soltanto il mezzo, ma lo distruggono.”
Gli ufficiali USA, attingendo alla loro dottrina, richiesero che l’artiglieria fosse impiegata per sopprimere il fuoco nemico mentre le forze automatizzate di terra avanzavano verso il proprio obiettivo.
“Bisogna muoversi mentre l’artiglieria spara” ha osservato un alto ufficiale americano. “Detta così, sembra una cosa basilare, e lo è, ma è così che si deve combattere. Altrimenti non si può sostenere la quantità di artiglieria e di munizioni necessarie.”
Ma, a parere degli ufficiali ucraini, il fattore più determinante che ha impedito per mesi agli ucraini o ai russi di guadagnare territori significativi sono state l’ubiquità e la letalità delle diverse tipologie di droni da ambedue le parti del fronte.
“A causa dello sviluppo tecnologico, è tutto finito a un punto morto”, ha commentato un altissimo ufficiale ucraino. “Gli equipaggiamenti che compaiono sul campo di battaglia hanno perlopiù un minuto di vita.”
Caos sul campo di battaglia
La 47ma rivendicò la liberazione di Robotyne il 28 agosto. A quel punto, in seno ala Decima Armata ucraina, subentrarono delle unità d’assalto aereo, che però non sono state in grado di liberare altri villaggi
Anche il fronte è divenuto sempre più statico lungo la linea d’incursione parallela a sud, dove i marines ucraini hanno guidato l’avanzata verso la città di Berdyansk sul Mar d’Azov. Dopo aver riacquisito i villaggi di Staromaiorske e Urozhaine a luglio e agosto, non vi sono state ulteriori conquiste, e le forze ucraine sono rimaste distanti sia da Berdyansk sia da Melitopol.
Per tutta l’estate, entro le poche miglia quadrate al di fuori della città orientale di Bakhmut, lungo il terzo asse della controffensiva, hanno avuto luogo alcuni fra gli scontri più feroci. Secondo gli ucraini, riconquistare il controllo del minuscolo villaggio di Klishchiivka era la chiave per conseguire la superiorità di fuoco nei dintorni dei margini meridionali della città e interrompere così le vie di rifornimento russe.
A luglio, nella zona sono stati dislocati gli agenti di polizia appartenenti alla neonata Brigata Lyut, o “Furia” – una delle brigate create lo scorso inverno in anticipo sulla controffensiva. Alla suddetta brigata, composta da un miscuglio di poliziotti esperti e di reclute, fu assegnato il compito di prendere d’assalto le postazioni russe a Klishchiivka, facendo largo uso di armi da fuoco e granate.
Un video che documenta le operazioni della Brigata Lyut pervenuto al Washington Post, e le interviste agli ufficiali che presero parte allo scontro, rivelano la violenza e le condizioni a tratti caotiche del campo di battaglia.
In un video di settembre realizzato con la bodycam, i soldati entrano ed escono dalle case distrutte mentre tutt’attorno a loro infuriano i bombardamenti. Spostandosi da una casa bombardata all’altra, le forze ucraine setacciano le rovine in cerca di eventuali soldati russi rimasti – urlando loro di arrendersi, per poi lanciare granate negli scantinati.
Qualche giorno più tardi, il 17 settembre, l’Ucraina annunciò di aver riconquistato Klishchiivka. Ma da allora la sua riconquista non ha cambiato significativamente la situazione al fronte nei dintorni di Bakhmut.
“Al momento, Klishchiivka è di fatto un cimitero di armamenti e soldati russi” ha dichiarato il comandante della Brigata Lyut, il colonnello della polizia Oleksandr Netrebko. Ma ha anche ammesso: “Ogni metro quadro di terra liberata è bagnato del sangue dei nostri uomini”.
Cresce lo sconforto
In assenza di svolte significative, durante l’estate, gli ufficiali USA erano sempre più preoccupati che l’Ucraina non stesse impegnando un numero sufficiente di forze in uno degli assi meridionali, malgrado il valore strategico che esso aveva secondo gli americani.
A nord e a est, il generale Oleksandr Syrsky controllava metà delle brigate ucraine, da Kharkiv a tutta Bakhmut e giù fino a Donetsk. Mentre, nel frattempo, l’altra metà delle brigate attive che combattevano lungo I due assi principali a sud era controllata dal generale Oleksandr Tarnavsky.
Per i militari USA era un errore dividere quasi a metà le forze ucraine, e volevano che ne fosse trasferito un numero superiore a sud. “Naturalmente il nemico proverà a distruggere i nostri dragamine” ha dichiarato l’alto ufficiale americano, aggiungendo che esistevano dei metodi per camuffarle, fra cui l’utilizzo del fumo
Ma valutare la linea di condotta di Kiev e sollecitare dei cambiamenti era un’impresa delicata. A farlo fu il generale Christopher Cavoli, che – da capo del Comando Europeo USA qual era – sovrintendeva a gran parte dell’impegno del Pentagono per addestrare ed equipaggiare l’esercito ucraino. Milley, al contrario, usava spesso un tono più ottimistico e incoraggiante.
Tuttavia come hanno dichiarato tre persone al corrente dei fatti, per parte dell’estate, una fase critica della controffensiva, Cavoli non riuscì a mettersi in contatto con Zaluzhny. Cavoli evitò di commentare in merito. Un alto ufficiale ucraino ha fatto notare che, per tutta la campagna, Zaluzhny parlò con Milley, la sua diretta controparte.
Ad agosto, però, anche Milley aveva incominciato a manifestare un certo sconforto. Come ha riferito un alto ufficiale dell’amministrazione Biden, Milley “iniziò a dire a Zaluzhny: ‘Che cosa state facendo?’”.
Gli ucraini, dal canto loro, insistevano che l’Occidente non stesse garantendo loro la potenza aerea e le altre armi necessarie alla riuscita di una strategia pluriarmata. “Volete che procediamo con la controffensiva, volete che mostriamo brillanti avanzate sul fronte” disse Olha Stefanishyna, vice primo ministro per l’integrazione europea ed euro-atlantica dell’Ucraina. “Ma noi non abbiamo gli aerei da caccia, e quindi voi volete che mandiamo i nostri soldati allo sbaraglio accettando il fatto di non poterli proteggere.”
Quando gli alleati risposero picche, la donna osservò: “Fu come se ci avessero detto: “A noi va benissimo che i vostri soldati muoiano senza supporto aereo””.
In una videoconferenza di agosto, presto seguita da un meeting di persona nei pressi del confine tra Polonia e Ucraina, gli ufficiali USA ribadirono la propria posizione. Dissero di comprendere la logica di tenere impegnate le forze russe in differenti punti del fronte, ma obiettarono che non vi sarebbero stati significativi passi avanti a meno che gli ucraini non avessero ammassato ulteriori forze in un singolo punto per muoversi in fretta e in maniera decisiva.
Zaluzhny, a tutta risposta, illustrò le problematiche con brutale sincerità: nessuna copertura aerea, un numero maggiore di mine rispetto a quanto si pensasse, e una forza russa sbalorditivamente trincerata e in grado di spostare le sue riserve in maniera efficace per colmare gli spazi spresidiati.
A luglio, mentre l’Ucraina si trovava sempre più a corto di munizioni di artiglieria e la controffensiva vacillava, l’amministrazione Biden cambiò la sua posizione in merito alla fornitura di munizioni a grappolo all’Ucraina. Il presidente, di fatto, respingeva al mittente i timori del Dipartimento di Stato che i rischi per il buon nome dell’amministrazione fossero troppo alti visti i tanti civili uccisi e feriti in passato da quell’arma. La decisione chiave e definitiva sul trasferimento delle armi giunse a settembre, quando l’amministrazione accettò di fornire una variante dell’Army Tactical Missile System, meglio noto come ATACMS. I missili non erano la potentissima variante richiesta da Kiev, perché gli Stati Uniti optarono per un’arma a raggio più corto che rilasciasse submunizioni a grappolo.
Benché utili, come dissero gli ufficiali ucraini, né i lanciamissili ATACMS né le armi a grappolo hanno spezzato lo stallo sul campo di battaglia.
Né l’hanno fatto altre strategie. Per tutta la controffensiva, l’Ucraina ha continuato a colpire nelle lontane retrovie delle linee nemiche con l’intento d’indebolire le forze russe e di seminare il panico nella società civile russa. A Kiev non è consentito l’utilizzo delle armi occidentali per colpire la Russia, quindi è stata invece impiegata una flotta di droni. Alcuni di essi sono riusciti a raggiungere dei bersagli a Mosca, mentre altri hanno danneggiato depositi petroliferi russi sul Mar Nero. Droni marini sono riusciti anche a colpire delle navi appartenenti alla Flotta del Mar Nero russa.
Poco tempo fa l’Ucraina ha guadagnato terreno nella regione meridionale del Kherson, stabilendo postazioni militari sulla sponda orientale del fiume Dnepr, ma non è chiaro quali e quanti armamenti – in particolar modo l’artiglieria – siano stati trasferiti dall’altra parte del fiume per minacciare le linee di rifornimento russe provenienti dalla Crimea.
L’Ucraina ha smesso di chiedere ulteriori carri armati e mezzi da combattimento, malgrado per tutto il primo anno di guerra abbia fortemente insistito per averli.
“Gran parte delle armi” ha dichiarato un altissimo ufficiale ucraino, “erano importanti lo scorso anno.”
Fronte bloccato
A settembre inoltrato, durante un meeting con il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg, al presidente ucraino Volodymyr Zelensky fu chiesto come mai il suo esercito continuasse a impegnare così tante forze a est anziché a sud. Zelensky, secondo una persona informata della conversazione, rispose che, se i russi avessero perduto la parte orientale, avrebbero perso la guerra.
Sempre secondo la stessa persona, Zelensky riconosceva una disparità di vedute tra alcuni suoi comandanti. Ma la gran parte degli alti ufficiali ucraini continuava a ritenere che lo schieramento di ulteriori soldati in una parte del fronte non avrebbe portato a una svolta significativa.
Poi, a metà ottobre, i russi tentarono di fare esattamente questo in un attacco feroce alla città orientale ucraina di Avdiivka, sita in una posizione geograficamente strategica nelle vicinanze della città di Donetsk occupata dai russi. Adesso erano i russi a scatenare l’offensiva, con quattro brigate che si spostavano con colonne di carri armati e veicoli da trasporto truppe, discendendo su una stretta striscia del fronte.
A guidare l’assalto erano i mezzi del genio con i dragamine. Proprio come gli ucraini avevano iniziato la loro controffensiva. E in maniera simile, i russi subirono gravi perdite – gli ufficiali ucraini hanno asserito che, nelle prime tre settimane dell’attacco, rimasero uccisi più di quattromila soldati – prima di passare, esattamente come avevano fatto gli ucraini, ad attaccare a piedi.
Ai primi di ottobre, dopo una breve tregua dal combattimento, fu di nuovo il turno della 47ma Brigata di prender parte alla controffensiva. Zelensky aveva giurato pubblicamente che l’Ucraina avrebbe continuato la sua avanzata durante l’inverno, quando le condizioni climatiche avrebbero reso ancor più difficile ogni progresso.
A fine ottobre, tuttavia, le truppe della 47ma furono all’improvviso spostate a est, per difendere il fianco settentrionale di Avdiivka. Le armi occidentali della brigata – carri armati Leopard tedeschi e mezzi da combattimento Bradley americani— andarono con loro.
Il trasferimento ad Avdiivka fu una sorpresa per la brigata, ma fu anche il segnale che l’operazione a Zaporizhzhia si era bloccata lungo linee ampiamente fissate. E dietro le proprie linee, secondo le immagini satellitari, i russi avevano continuato in estate e in autunno a costruire fortificazioni difensive. Nei dintorni del villaggio di Romanivske, a sud est di Robotyne, triple file di fossati e di piramidi di cemento anticarro smorzavano ogni ulteriore tentativo di avanzare da parte degli ucraini.
Il primo novembre, in un’intervista all’Economist, Zaluzhny ammise quel che fino a poco prima era indicibile – la guerra aveva raggiunto “una fase di stallo”.
“È alquanto plausibile” disse, “che non potrà esservi una svolta significativa né positiva.”
(da La Repubblica)
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Dicembre 9th, 2023 Riccardo Fucile
IL REPORT DELLA POLIZIA POSTALE
Nel 2022 347 donne hanno denunciato di aver ricevuto minacce online, nei primi dieci mesi del 2023 sono già 371 le vittime della violenza di genere in rete. Un incremento pari al +24%. I numeri segnalati nel report della polizia postale “Free and s@fe online” raccontano un fenomeno complesso, che “si traveste spesso da amore geloso” e si trasforma in una spirale “che intrappola la vittima e la costringe all’isolamento e alla paura”, spiegano gli autori dello studio. Spesso le minacce online sono solo il primo passo. La dinamica tra reale e virtuale è simile. Le molestie in rete infatti sono caratterizzate da azioni lesive ripetute nel tempo, portate avanti sulle app di messaggistica (38%) e sui social network (33%). Spesso gli autori delle violenze sono conoscenti o persone con le quali si è condiviso un percorso di vita comune, come colleghi di lavoro o ex partner. A livello nazionale nei primi dieci mesi del 2023 sono stati 826 i casi di violenza di genere online contro le donne gestiti dalla polizia postale.
“Le violazioni fatte di post che insultano, di indiscrezioni diffuse sui social, di incursioni nei profili personali, vengono considerate talvolta un male minore, qualcosa di fastidioso ma che non sempre determina un senso di vulnerabilità e di pericolo urgente, come i pedinamenti e le minacce che avvengono sotto casa, sul posto di lavoro, o nel bar dove si fa colazione con le amiche”, hanno spiegato gli autori del report. “Eppure oggi i reati online sono strettamente legati alla violenza di genere.”
I campanelli di allarme
Ivano Gabrielli, direttore della polizia postale, ha commentato il report aggiungendo: “È importante saper riconoscere i primi segnali di controllo, e i tentativi di sottomissione che oggi possono passare dall’uso distorto di smartphone, app e social network. È imponendo un controllo psicologico, come nello stalking e nelle molestie online, che si realizzano aggressioni che, pur non toccando fisicamente le vittime ne travolgono la vita, cancellando ogni concreta traccia di serenità”.
Spesso la violenza online si traveste da amore geloso che cerca di invadere e controllare la vita della vittima. Per esempio, un partner che chiede di condividere i profili social come segno di fedeltà, o pretende di avere accesso alla geolocalizzazione della compagna per verificare da remoto gli spostamenti.
I casi di stalking e sextortion
Nel 2022 sono state 101 le donne vittime di stalking online, nei primi dieci mesi di quest’anno, sono state registrate già 87 denunce. Rimangono costanti le segnalazioni per i casi di sextortion, in totale 163, mantengono un andamento simile rispetto a quello registrato l’anno scorso. Le denunce sono però un dato parziale, visto che spesso le vittime per paura o per proteggere, per esempio i figli, scelgono di non segnalare gli abusi.
Denunciare però è fondamentale. Secondo l’Unità di Analisi del Crimine Informatico della polizia postale, composta da psicologi della Polizia di Stato, sempre più spesso gli atteggiamenti vessatori in rete sono solo un’anticipazione di violenze e persecuzioni nel mondo reale. Il report ha anche segnalato come sempre più spesso le vittime scelgono il portale istituzionale www.commissariatodips.it per chiedere aiuto contro ogni forma virtuale di aggressione.
Le raccomandazioni della polizia postale
Il report della polizia postale ha anche raccolto una lista di raccomandazioni. Non bisogna condividere le proprie password, ed è sempre meglio impostare come chiave di accesso il riconoscimento facciale o l’impronta digitale. Non solo, i profili devono essere intestati e impostati personalmente scegliendo password robuste da cambiare ogni tre mesi per aumentare la sicurezza.
È consigliabile anche utilizzare diverse chiavi d’accesso per ogni social, e soprattutto disattivare la localizzazione automatica per non essere rintracciabili da remoto.
(da Fanpage)
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Dicembre 9th, 2023 Riccardo Fucile
L’ATTIVISTA LGBTQ+: “E’ MANCATO IL CORAGGIO”… LE CRITICHE DEGLI AYATOLLAH SOVRANISTI HANNO FATTO CAMBIARE IDEA AL MINISTRO
Niente nomina per Paola Concia all’educazione alle relazioni nella scuola. Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ci ripensa: “Troppe polemiche, la scuola ha bisogno i serenità”. E decide di procedere senza nessun garante. Saltano anche i nomi di suor Monia Alfieri e dell’esponente del Popolo della famiglia, Paola Zerman. “Nel suo svolgimento concreto si continuerà il dialogo con le associazioni rappresentative dei genitori, dei docenti e degli studenti”, precisa il ministro.
“Lo capisco”, la replica dell’attivista Lgbtq+ ed ex parlamentare dem che, ringraziando “per la fiducia” accusa “ambienti massimalisti della destra e della sinistra”. E conviene con il ministro, da cui era stata informata della decisione: “Non ci sono le condizioni”.
“Resto convinta – continua – che solo il confronto tra matrici culturali differenti possa produrre linee guida efficaci e non divisive sul tema del rispetto della libertà delle donne”. Poi l’amara constatazione: “Credevo davvero che l’orribile femminicidio di Giulia Cecchettin avesse segnato uno spartiacque”.
“Siamo soddisfatti dalla retromarcia”, ha commentato l’associazione Pro Vita e Famiglia che con FdI e Lega avevano criticato la nomina del ministro che presto entra nel mirino delle opposizioni.
Per la dem Debora Serracchiani, “il voltafaccia svela ancora una volta chi comanda nel governo Meloni”. Mentre sempre dal Nazareno, Simona Malpezzi lo accusa di “mancanza di coraggio che rattrista”. “Di occasione persa,” parla la portavoce di Azione Mariastella Gelmini. Per Davide Faraone, Italia Viva, il passo indietro “è un brutto segnale”. “Vile retromarcia”, attacca Sandro Gozi (Renew).
Concia ha comunque incassato la solidarietà del presidente del Senato Ignazio La Russa che in una telefonata le ha espresso “vicinanza” e l’ha invitata al concerto di Natale di Palazzo Madama, previsto per domani. A cui comunque Concia non presenzierà perché fuori dall’Italia.
Le critiche alla nomina
Critiche per la nomina di Concia, erano pervenute da FdI e Lega. “Non siamo d’accordo con la nomina”, la posizione del partito di Giorgia Meloni. “No a nomi divisivi”, aveva tuonato il Carroccio. Una presa di distanze è arrivata anche da Forza Italia. Una petizione online era stata annunciata da L’associazione “Pro Vita & Famiglia”: “Il problema – si legge nell’appello – non è la persona ma la visione politica della Concia sui temi della famiglia, della filiazione e della libertà educativa dei genitori radicalmente incompatibile coi valori della stragrande maggioranza degli elettori che hanno votato i partiti che sostengono il Governo Meloni”.
Di segno opposto la critica di Sinistra italiana, che mette nel mirino la scelta di una religiosa. “Ricordo sommessamente a Valditara che l’Italia è un paese laico e che chiamare una suora a gestire l’educazione alle relazioni nelle scuole stride e non poco”.
Mentre Concia aveva commentato: “Bisogna avere pazienza, domani avranno altro su cui vomitare odio”.
Niente lavoro in comune dunque, a partire dalle differenti sensibilità delle tre donne prescelte che avevano “accettato di metterci al servizio di un progetto equilibrato, serio e utile per le ragazze e i ragazzi, basato sul dialogo. A partire da noi tre, tre donne così diverse”.
(da La Repubblica)
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