Dicembre 23rd, 2023 Riccardo Fucile
DONNE IN PRIMA FILA: “DICIAMO NO ALL’ISLAMOFOBIA”… INDEGNO E ANTICOSTITUZIONALE NEGARE LA POSSIBILITA’ DI UN LUOGO DI PREGHIERA
Questa mattina, poco dopo le 10.15, una folla pacifica di almeno 8mila persone ha riempito alcune strade della città in occasione del corteo che ha manifestato contro tutte le divisioni sociali, culturali e religiose a Monfalcone.
Una marea di bandierine tricolori ed europee hanno colorato il percorso dell’evento partito dall’area dell’ex Gaslini, passato per via Matteotti, una parte di viale San Marco, via Carducci per poi fare rientro in Piazzale Salvo d’Acquisto. È il 23 dicembre, siamo vicini a Natale. In testa ci sono le donne, madri con i loro piccoli e tante adolescenti studentesse.
Davanti allo striscione due lunghe ali di ragazzi si prendono per mano tracciando il percorso della marcia e prendendosi cura degli aspetti organizzativi. “Dio è unico per i Cristiani, i Musulmani e per gli Ebrei – sono le parole dell’Imam Abdoul Madjid Kinani – oggi diciamo al sindaco Cisint che siamo parte integrante della città. Qui diamo il nostro contributo per lo sviluppo di Monfalcone. Non può tagliarci fuori. I nostri figli fanno parte del futuro della città dove il sindaco non può confondere politica e religione”.
In città sono stati in tanti gli esponenti islamici provenienti dall’estero ma anche da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Monfalcone finisce così, ancora una volta, su tv e media nazionali ed internazionali. “Chiediamo di poter pregare come fanno i Cristiani – continua Kinani – siamo disponibili a metterci in regola con le strutture che sono state chiuse, ma l’intervento operato dal sindaco è tardivo dopo 7 anni”. Uno dei primi posti in corteo è anche quello di Bou Konate, il presidente onorario del centro “Darus Salaam” di via Duca d’Aosta.
“Bisogna che ci sia equità nel gestire la città – afferma Konate – non si può pensare di governare due cittadini su tre. Le nostre porte sono aperte per ragionare in modo da avviare processi di miglioramento nei rapporti tra le comunità. Non siamo i primi a vivere fasi del genere. Altre città europee sono un esempio”. E sulle donne che hanno aperto il corteo, l’ex assessore ha dichiarato: “Loro sono state sempre in prima linea. Quanto si sente dire è frutto di preconcetti occidentali che fanno accuse false. Chi dice che gli uomini musulmani discriminano le loro donne, non ci conosce”.
Il presidio delle forze dell’ordine impegnate a garantire la sicurezza durante l’evento è stato importante: 20 gli agenti della Polizia Locale ed un centinaio di uomini tra Polizia di Stato e Carabinieri.
“Siamo tutti monfalconesi – ricorda il consigliere regionale Enrico Bullian – la manifestazione ha tutto il nostro sostegno perché i diritti costituzionali vanno garantiti a tutte e tutti. Chi lavora e vive in città ha il pieno diritto alla cittadinanza, alla tutela dei diritti, ai servizi, all’adesione alle attività sportive e alla libertà di culto”.
Si è ribadito che la città non ha bisogno di divisioni, né di scontri. Konate ha preso la parola tra i primi. “Ringrazio tre donne che sono state per me fondamentali nell’organizzazione di questa giornata – dichiara l’ex assessore – sono Cristiana Morsolin, Fatou Saar e mia moglie Ouleye. Spero che la situazione ritorni alla normalità, non possiamo lasciare che i rapporti peggiorino e che le nostre vite siano limitate e condizionate”.
Anche se la partecipazione dei cittadini “nostrani” è stata modesta, non sono mancate alcune opinioni. “Queste persone si sono sentite vessate ed hanno reagito – testimonia Paolo che vive in centro città – hanno saputo guardarsi intorno e hanno dimostrato di essere una comunità viva e unita”. Dal rione di Aris, ha partecipato Emanuele memore dei tempi delle manifestazioni a favore i diritti dei lavoratori che si sono viste in città negli anni’70.
“Non si vedeva una cosa del genere da quei tempi, credo che si siano superati i numeri di quella volta. Sono qui anche io per chiedere il superamento di qualsiasi divisione. Esprimo solidarietà per questa gente. Hanno subito degli attacchi d’odio insopportabili”.
A dire basta a insulti, insinuazioni e divisioni è stato pure Jahirul Islam, responsabile del centro culturale di via Duca d’Aosta. “Diciamo no all’islamofobia, si avvii una collaborazione” così Jahirul. “Siamo parte di questa città – aggiunge Rejaul Haq Raju, del centro di via don Fanin – mi sento orgoglioso di essere italiano e musulmano. La vostra presenza qui dice tutto”.
(da agenzie)
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Dicembre 23rd, 2023 Riccardo Fucile
I RISCHI PER I LAVORATORI E I PENSIONATI ITALIANI… RENZI: “MELONI HA DETTO CHE FAZZOLARI È LA PERSONA PIÙ INTELLIGENTE CHE HA INCONTRATO? PENSA GLI ALTRI…”
In gennaio buona parte dello staff del Meccanismo europeo di stabilità di Lussemburgo e del Consiglio unico di risoluzione di Bruxelles aveva pronte le prime simulazioni.
Prove generali simili a quelle che per gli eserciti sono le esercitazioni sul campo. Si sarebbe messa in atto un’immaginaria crisi di liquidità di una banca grande come Crédit Suisse, che nove mesi fa le autorità svizzere hanno salvato facendola acquisire dalla rivale Ubs.
Visto da Bruxelles, questo sembra solo l’ultimo dei paradossi della tortuosa vicenda di questo organismo con 81 miliardi di euro di capitale versato dai venti governi dell’area e 708 miliardi di capitale sottoscritto. Lo è perché al Mes già oggi si può attingere per contrastare le crisi bancarie, non solo per le crisi di debito sovrano o per i prestiti per il sistema sanitario. Solo che, senza riforma, gli interventi del Mes per le banche mettono più a rischio il capitale fornito dai contribuenti (italiani inclusi).
Oggi infatti l’organo di Lussemburgo può agire solo con aumenti di capitale azionario negli istituti di credito in crisi, la forma di intervento che mette più a rischio i fondi del salvataggio. Con la riforma, invece, il Mes potrebbe tamponare le crisi creditizie tramite prestiti al Fondo unico di risoluzione (finanziato dalle banche dell’area euro), il quale poi è tenuto a rimborsare entro tre o cinque anni. In sostanza, sembra tecnicamente l’opposto del vero quanto affermato venerdì dal vicepremier Matteo Salvini: «Pensionati e lavoratori italiani non rischieranno di pagare il salvataggio delle banche straniere».
Ha colpito nei circoli finanziari anche l’affermazione di venerdì da parte di Gianbattista Fazzolari, quando il sottosegretario di Palazzo Chigi ha detto: «Il nostro sistema bancario è tra i più solidi in Europa e non abbiamo bisogno del Mes per salvare grandi banche in difficoltà di altri Stati».
Un approccio che rifiuta la solidarietà da parte di un responsabile italiano ha colpito dunque molti in Europa. Di certo lo stop al Mes di venerdì è stato una sorpresa fuori dall’Italia. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti aveva spiegato ai colleghi a Bruxelles che la ratifica spettava al Parlamento e — si fa sapere — restava scettico.
Alcuni ministri europei ritenevano che comunque il nodo si sarebbe sciolto dopo l’accordo sul patto di Stabilità, altri avevano capito o si aspettavano che Giorgetti si sarebbe impegnato per cambiare l’opinione sul Mes nella sua maggioranza. E hanno preso atto che venerdì Giorgetti non era in Aula. Poco o per niente sostenuto dal suo governo, questi a Bruxelles non avrà un 2024 in discesa.
Secondo Fazzolari il no al Mes è giusto, perché all’Italia non serve un Fondo salva-banche.
«Meloni ha detto che Fazzolari è la persona più intelligente che ha incontrato. Se Fazzolari è il più intelligente, non oso pensare chi siano gli altri. Io spero che non serva mai, ma come si fa a dire che il Mes non è utile proprio al Paese più indebitato dell’Eurozona?».
(da Il Corriere della Sera)
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Dicembre 23rd, 2023 Riccardo Fucile
“LA PREMIER HA CONSUMATO IL PRIMO SERIO STRAPPO CON LA UE, CHE RISCHIA DI ESSERE GRAVIDO DI CONSEGUENZE NEFASTE: DALLA PROCEDURA D’INFRAZIONE AL PNRR, DALLE POLITICHE MIGRATORIE AL COMPLETAMENTO DELL’UNIONE BANCARIA”
“La lira è veramente la mia ossessione”, scriveva Benito Mussolini a Gabriele D’Annunzio il 29 agosto 1926, subito dopo il famoso discorso di Pesaro sulla “battaglia per Quota 90”, il tasso di cambio sulla sterlina inglese da raggiungere a ogni costo, per rimettere in riga la perfida Albione.
Quasi un secolo dopo, Giorgia Meloni ha trasformato il Mes nella sua ossessione, e il gran rifiuto alla ratifica del Meccanismo Europeo di Stabilità nella nuova “Quota 90” alla quale ha infine impiccato il Paese, credendo di dare così una lezione alla Perfida Unione.
Corsi e ricorsi storici. Del resto era un anno fa esatto, il 22 dicembre 2022, quando la premier comodamente seduta sui divani bianchi di Bruno Vespa annunciava ai sudditi di Raiuno “non accederò al Mes, posso firmarlo col sangue”. La stessa epica guerresca del Duce, che novantasette anni prima, affacciato al balcone del Palazzo delle Poste, giurava ai pesaresi festanti “difenderò la lira fino all’ultimo sangue”.
Cosa resta di cotante irriducibili promesse forgiate sempre nel sangue del “meraviglioso popolo italiano”, dopo una settimana in cui il governo ha detto sì al nuovo Patto di Stabilità e no alla riforma del Fondo Salva Stati? Solo macerie. Ha vinto “la follia”, come dice giustamente Romano Prodi. E ha perso l’Italietta, che in due giorni ha rivisto risorgere i suoi peggiori fantasmi. La Cosa Nera, cioè l’impasto autarchico e ultra-sovranista incarnato dai Fratelli di Giorgia. E la Cricca Gialloverde, cioè l’impiastro eurofobico e turbo-populista assemblato dalla Lega e dal Movimento 5Stelle, che già “sgovernò” il Paese tra il giugno 2018 e l’agosto 2019.
Ciò detto, è ovviamente Meloni che porta sulle spalle la responsabilità di questa scelta suicida. Era stata lei ad alzare la posta, rilanciando la strampalata logica della trattativa “a pacchetto”, ventilando un “possibile veto” sulla revisione del Patto di Stabilità e ripetendo che prima di decidere sul Fondo Salva Stati bisognava “valutare il contesto”. Non rimane nulla, di tutti questi fumosi preamboli: solo velleitarismo travestito da patriottismo, molto “ducesco” ma molto farsesco.
Se la presidente del Consiglio ha creduto davvero alla trattativa “a pacchetto”, allora il governo ha per forza considerato l’accordo franco-tedesco sul Patto di Stabilità una sonora sconfitta per noi (applicarlo dal 2025 comporterà una correzione di bilancio automatica da 15 miliardi l’anno). E dunque ha pensato bene di vendicarsi con i partner comunitari affossando definitivamente il Mes (ratificarlo non ci sarebbe costato un centesimo, averlo bocciato ci espone a tutte le ritorsioni economiche possibili).
Come gli alunni impreparati a scuola, prima del voto alla Camera la premier è scomparsa “causa influenza”. Dopo il voto, tartufescamente, si è nascosta dietro al verdetto del “Parlamento sovrano”. Come se una questione cruciale come quel Trattato, che ci portiamo dietro da anni, non riguardasse l’esecutivo o lo potesse lasciare “neutrale”. La verità è purtroppo tutt’altra.
Ricattata da un Salvini in modalità Papeete Natalizio, la Sorella d’Italia non ha resistito al richiamo della foresta. Ha lasciato che i Fratelli inseguissero il Capitano e gli impedissero l’ennesimo sorpasso a destra. Ha condiviso la spudorata menzogna con la quale il suo vicepremier ha spacciato agli elettori la rottura sul Mes: “Non lasceremo che i lavoratori e i pensionati italiani paghino il salvataggio delle banche tedesche”. E così – dopo oltre un anno di doppiezza manovriera fatta di sorrisi a Von der Leyen e Metsola di abbracci a Victor Orbán e Abascal – Meloni ha consumato il primo, vero e serio strappo con la Ue, che rischia di essere gravido di conseguenze nefaste: dalla procedura d’infrazione per disavanzo eccessivo alle prossime rate del Pnrr, dall’attuazione delle politiche migratorie al completamento dell’Unione bancaria.
Meloni poteva scegliere tra vincere la partita o perdere la faccia. Ha scelto di perdere la partita, e ha perso anche la faccia. Lo ha fatto per un’anacronistica e autolesionistica “questione di principio”, che attinge al suo immaginario patriottardo e post-missino. E se ancora non ha pagato pegno fino in fondo, per queste sue palesi irresolutezze identitarie, è solo per la drammatica crisi che squassa l’intera Europa, e che induce persino un “estremista di centro” come Emmanuel Macron a far passare la sua dura legge sui migranti con il soccorso nero di Marine Le Pen.
Geometrie variabili a Parigi, uguali e contrarie a quelle di Roma sul Mes. Ma con una differenza sostanziale: le loro non costano un euro in più ai francesi, le nostre finiremo per pagarle care noi italiani.
(da La Repubblica)
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Dicembre 23rd, 2023 Riccardo Fucile
IN 15 ANNI DI SERVIZIO HA OTTENUTO UN AUMENTO DI SOLI 137 EURO
«Amo il mio lavoro e non lo cambierei, ma capisco i motivi che tengono tanti giovani lontani dalla guida di un autobus». A parlare è Alberto Magni, 41 anni, di cui 15 alla guida degli autobus per l’Atm di Milano. Di entusiasmo ne ha ancora parecchio, ma non si dice sorpreso del fatto che le aziende di trasporti di tutta Italia facciano sempre più fatica a trovare lavoratori. «In questo settore i problemi ci sono eccome. E per chi magari non ha la mia stessa passione, possono esserci buoni motivi per starne alla larga», racconta Magni in un’intervista al Corriere della Sera. I motivi sono soprattutto economici. Magni racconta infatti di aver iniziato a guidare autobus nel 2008, quando il suo stipendio era di 1.349 euro al mese. Oggi in busta paga ne prende 1.484, un aumento di soli 137 euro in 15 anni. «È inutile girarci intorno, c’è una questione economica – spiega l’autista Atm -. Io alla fine delle mie giornate sono contento di aver contribuito a offrire un servizio alle persone, però nessuno lavora per la gloria. E le buste paga del mio settore non sono cresciute molto negli ultimi anni».
I turni troppo lunghi
Gli stipendi troppo bassi, soprattutto in una città come Milano, non sono l’unico problema per i lavoratori del settore dei trasporti. Tra gli altri, come raccontato in una recente intervista di Open, ci sono anche le condizioni di lavoro non sempre ottimali. Un esempio? Ancora oggi ai dipendenti Atm è richiesto di pagare per i parcheggi di corrispondenza dove lasciano l’auto a inizio turno, anche se in molti casi – per esempio per chi lavora di notte – non ci sono altri modi di arrivare sul luogo di lavoro se non con un mezzo privato. «C’è da considerare che complessivamente si può rimanere impegnati per 12-14 ore in una stessa giornata – racconta Magni -. Anche perché non è che si inizia e si finisce sempre in rimessa, anzi può darsi che il cambio avvenga lungo la linea, quindi prima o dopo c’è il trasferimento al punto in cui hai lasciato la tua auto o comunque per tornare a casa».
«Siamo noi che facciamo muovere le città»
Salari troppo bassi, turni troppo lunghi. Tra i motivi che spaventano nuovi potenziali conducenti, Magni ne aggiunge altri due: «lo stress» e «la pressione che si percepisce negli ultimi tempi da parte dell’utenza, sempre più arrabbiata». Eppure, pur riconoscendo tutte queste difficoltà, l’autista Atm non ha alcuna intenzione di cambiare lavoro: «Non è che io non veda i problemi e le difficoltà, però finché ci posso stare mi godo un lavoro che mi piace e che mi fa sentire socialmente utile: Noi facciamo muovere una città come Milano, che prima mi faceva paura e adesso è anche un po’ mia». E anche sul rapporto con l’azienda, Magni ha buone parole da spendere: «Anche in questa fase di crisi del trasporto pubblico, Atm resta una bella azienda, che non lascia mai solo chi è per strada alla guida di un mezzo».
(da Open)
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Dicembre 23rd, 2023 Riccardo Fucile
EX ASSESSORE DI FITTO BENEFICIATO DELL’INDULTO
“Siamo virtuosi, gli unici in Italia”. Era il 30 novembre 2012 quando il Consiglio regionale pugliese annunciò l’abolizione del vitalizio e dei costi della politica. Undici anni dopo, con il favore della tenebre e di una lunga e sfiancante seduta del Consiglio, pian piano ecco tornare molti benefit. Trattamento di fine mandato, contributi pieni anche senza i cinque anni di mandato e blindatura totale dei vitalizi ai condannati. Tutto in una notte. O quasi. Il primo colpo messo a segno riguarda i contributi. In buona sostanza, con un emendamento alla manovra di bilancio, passato all’unanimità, gli eletti che sono subentrati a legislatura iniziata o – con una buona previsione – che interromperanno il mandato a meno di 30 mesi, per saltare su treni nazionali o europei, potranno riscattare l’intero quinquennio, così da maturare la pensione contributiva. Tutto regolare, si dirà. Non tanto. Perché, è vero che il consigliere regionale verserà di tasca propria circa 600 euro al mese, ma da ora la restante parte da 1.600 euro mensili sarà a carico della Regione. Insomma, le casse pubbliche verseranno i contributi agli eletti anche per il periodo in cui non erano in carica e facevano tutt’altro nella vita. “Funziona così in tutte le Regioni – dicono – anche in Parlamento, perché qui no?”.
Il secondo colpo che si sta tentando di mettere a segno – in questo caso con qualche difficoltà in più, viste le rumorose proteste di Confindustria e sindacati – , riguarda la liquidazione. Con una clausola aggiuntiva: la retroattività. A guadagnarne maggiormente saranno i veterani del Consiglio regionale, quelli arrivati alla terza o quarta legislatura che potranno sommare 15 o 20 anni di mandato incassando un assegno di tutto rispetto. La spesa già preventivata è di 3 milioni e 700 mila euro. “È un nostro diritto” tuonano. La tesi è che alcuni degli eletti sono in aspettativa dal loro vero lavoro e la liquidazione sarebbe una sorta di ristoro per l’accantonamento del Tfr sospeso. Essendo ritenuti insufficienti, evidentemente, gli 11 mila euro lordi che percepisce un consigliere regionale pugliese, senza altri incarichi. Ma questo non varrebbe per la libera professione che in molti portano ugualmente avanti. Il presidente della Regione Michele Emiliano ha chiesto alla sua maggioranza quantomeno di “spiegarlo bene ai pugliesi, di essere chiari”.
L’ultimo tassello riguarda il vitalizio ai condannati. Il capogruppo di Fratelli d’Italia, Francesco Ventola, ha proposto la sospensione della pensione d’oro agli ex consiglieri regionali condannati in via definitiva per reati contro la Pubblica amministrazione, anche se la pena è stata condonata da indulto. Non un caso ipotetico, in Puglia ne esiste uno specifico. Si tratta di Andrea Silvestri, ex assessore alla Formazione professionale quando a capo del governo regionale c’era l’attuale ministro Raffaele Fitto. Silvestri nel 2004 fu indagato, e arrestato, dalla Procura di Bari con l’accusa di truffa e peculato per viaggi, soggiorni e acquisti personali a spese della Regione. Patteggiò risarcendo alle casse pubbliche 9mila euro di spese indebite e, nel 2006, usufruì dell’indulto concesso dal governo Prodi. Silvestri nel frattempo ha anche raggiunto i 55 anni di età – requisito minimo richiesto – e da 7 anni percepisce il vitalizio da 2 mila euro per i cinque anni di mandato. E il mirino di Ventola è puntato proprio sul caso pugliese. Ma il centrosinistra ha fatto muro, respingendo la richiesta e considerando la pena e l’indulto come riabilitazione. Silvestri, interpellato dal Fatto Quotidiano, annunciando querele per diffamazione, ritiene tutta la vicenda mossa da “finalità estorsive”. Ma Ventola non sente ragioni: “Consentiamo a chi ha rubato soldi e tradito un mandato elettorale – ha detto – di vivere con un vitalizio, che è e resta un privilegio. Una bella lezione di vita”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Dicembre 23rd, 2023 Riccardo Fucile
“L’UNIONE EUROPEA SI BASA SULLA FIDUCIA NEGLI IMPEGNI PRESI E SOTTOSCRITTI”
Come si spiega il no al Mes quando il consenso sembrava acquisito?
«È inspiegabile. L’accordo sul Mes era stato firmato dal governo Conte 1. Ora il M5S e la Lega, che sostenevano quel governo, votano contro la ratifica. Poi il governo Meloni aveva annunciato che la ratifica del Mes avrebbe fatto parte di un pacchetto, insieme alla riforma del Patto, ma alla fine si è firmato quest’ultimo ma non il Mes. Il danno principale è all’affidabilità del paese».
La mentalità del “pacchetto” quali conseguenze nefaste può portare?
«Se questa è la strategia negoziale dell’Italia in Europa, gli altri si adegueranno. E su molti dossier, a cominciare da quello sull’immigrazione o degli aiuti di Stato, per non parlare del Pnrr dove ci sono stati riconosciuti ben 50 miliardi a fondo perduto, come facciamo a chiedere la solidarietà se siamo i primi a negarla? Non ci sorprendiamo poi che altri, in particolare Francia e Germania, si mettano d’accordo prima tra di loro senza coinvolgerci».
Il voto sul Mes è stata una ritorsione per un Patto di stabilità insoddisfacente, anche se in verità era stato venduto come un successo?
«La riforma del Patto è stata firmata dal ministro Giorgetti. Significa che all’Italia andava bene e che ha ottenuto ciò che voleva, anche se si tratta di un compromesso. Ci si era impegnati a firmare il Mes una volta raggiunto l’accordo sul nuovo Patto. Non farlo non può che compr
Fino a che punto i partner e la Commissione sono “irritati” per il mancato ok? Davvero fra qualche mese si potrà riaprire la partita?
«Se ci si mette nei panni dei nostri partner non si può che rimanere sconcertati. Anche perché nel negoziato sul Mes alcuni avevano accettato il compromesso partendo da posizioni molto diverse dalle nostre. Il rischio è che si riducano i nostri margini negoziali su altri dossier importanti, perché le nostre controparti non si fidano più dell’Italia».
I mercati “ce la faranno pagare” come avrebbe detto Giorgetti, o le paure sono sopravvalutate?
«Il Mes è un’assicurazione, da attivare in caso di incidente grave. Fin quando l’incidente non arriva, può sembrare che l’assicurazione non serva. Ma non avere nessuna assicurazione può alimentare le paure in caso di instabilità finanziaria e favorire la speculazione».
Quanto è grave il colpo al processo di integrazione/unione bancaria, un aspetto fondante dell’euro?
«Senza ulteriori progressi nell’integrazione finanziaria, a partire del sistema bancario, l’Europa non è in grado di finanziare gli impegni per la transizione ambientale e digitale né di far crescere le nostre aziende per competere con quelle cinesi o americane. Inoltre, senza un backstop comune, il sistema finanziario di tutti i Paesi europei è più a rischio. Lo si è visto negli Stati Uniti, che in poche ore hanno stoppato il contagio dopo il fallimento della banca californiana SVB, usando proprio un fondo federale simile al Mes. Senza uno schema simile a quello americano, l’Europa è molto più fragile ed esposta agli shock sistemici».
È vero, come dice il leader della Lega Matteo Salvini in puro stile sovranista, che quelle malate in Europa sono le banche tedesche e quindi si è voluto fare un dispetto alla Germania? L’asserita miglior tenuta delle banche italiane è solo un wishful thinking?
«Quando si scatena una crisi finanziaria la solidità dei sistemi bancari nazionali è strettamente legata a quella delle rispettive finanze pubbliche. Lo si è visto nel 2011. Non è un caso che il rating delle varie banche europee rifletta in gran parte quello dei rispettivi debiti sovrani. Per questo motivo è necessario uno schema europeo, che non lasci i singoli paesi alla mercè del contagio. Non rendersene conto, dopo tutto quello che è successo dopo la crisi finanziaria del 2008 è veramente sorprendente».
(da La Repubblica)
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Dicembre 23rd, 2023 Riccardo Fucile
IL CAPO DEL CONSIGLIO DI SICUREZZA RUSSO HA UN PASSATO NEL KGB CON “MAD-VLAD”, I DUE CONDIVIDONO ANNO DI NASCITA, CITTÀ NATALE E STUDI… L’INCHIESTA DEL WALL STREET JOURNAL
La preparazione del piano sarebbe iniziata già all’indomani del fallito ammutinamento di Wagner: una bomba sul jet privato del capo dei rivoltosi Evgenij Prigozhin. Vladimir Putin avrebbe dato il via libera all’attentato e Nikolaj Patrushev lo avrebbe portato a termine. Secondo il Wall Street Journal, sarebbe stato proprio l’influente capo del Consiglio di Sicurezza russo, nonché uno dei più stretti consiglieri del presidente russo, la mente della fine brutale del capo della oramai defunta compagnia militare privata.
«L’uomo più temibile della Russia», lo definì tempo fa l’esperto britannico Mark Galeotti. «Patrushev è un falco influente, di cui Putin si fida. È di fatto un consigliere per la sicurezza nazionale che condivide, modella e interpreta la visione del mondo di Putin». Un sodalizio che parte da lontano. I due condividono anno di nascita, città natale, studi, passato nel Kgb, ma soprattutto la stessa idea di un “mondo multipolare” e del posto che la Russia dovrebbe occupare in questo mondo.
Oggi, scrive il Wall Street Journal , Patrushev è «la seconda persona più potente in Russia». Che dietro alla morte di Prigozhin nello schianto aereo del 26 agosto ci fosse la longa manus di Putin lo avevano sospettato da subito in molti. Ora il giornale statunitense sostiene di averne avuto conferma da funzionari di intelligence occidentali e da un ex ufficiale dell’intelligence russa. Il Cremlino smentisce.
«Sfortunatamente — ha commentato il portavoce Dmitrij Peskov — il Wall Street Journal si dedica molto alle storie pulp». Lo scorso ottobre Putin aveva detto che nei corpi delle 10 vittime dello schianto aereo erano stati trovati «frammenti di granate» e aveva alluso al consumo di alcol e droghe a bordo. Nulla di più falso, secondo il Wall Street Journal . La verità è che Prigozhin era diventato troppo scomodo.
L’ex ristoratore a capo della “fabbrica dei troll” e dei mercenari Wagner, con l’offensiva russa in Ucraina aveva iniziato a vagheggiare il potere spingendosi a lanciare invettive quotidiane contro il ministro della Difesa Sergej Shojgu e il capo di stato maggiore Valerij Gerasimov. Patrushev avrebbe allertato Putin del pericolo già nell’estate del 2022, ma i suoi allarmi erano caduti nel vuoto fino a ottobre quando Prigozhin avrebbe chiamato Putin lamentatosi malamente della mancanza di rifornimenti.
Solo allora il presidente si sarebbe convinto che Prigozhin era diventato una minaccia e avrebbe iniziato a respingere le sue chiamate fino a ordinare all’inizio dello scorso giugno che Wagner si sottomettesse al ministero della Difesa. Un affronto per Prigozhin che, il 23 giugno, per tutta risposta, aveva guidato la “marcia della giustizia” su Mosca chiedendo la rimozione di Shojgu e Gerasimov.
Putin non si trovava nella capitale, scrive il Wall Street Journal , e fu Patrushev a gestire la crisi chiamando a raffica Prigozhin per convincerlo a desistere e chiedendo l’aiuto di Kazakhstan e Bielorussia. Al leader kazako Kassym-Jomart Tokaev, Patrushev avrebbe chiesto di inviare truppe se l’esercito russo non fosse riuscito a respingere i mercenari. Ma Tokaev avrebbe rifiutato, benché fosse in debito con Mosca che l’anno prima aveva inviato i suoi uomini a sedare le rivolte ad Astana. Il leader bielorusso Aleksandr Lukashenko avrebbe invece accettato di fare da mediatore, come ha poi rivendicato, e negoziato l’accordo per la resa di Prigozhin e degli altri ribelli in cambio dell’esilio in Bielorussia.
(da La Repubblica)
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Dicembre 23rd, 2023 Riccardo Fucile
LO ATTESTANO I NUMERI DELLA RAGIONERIA DI STATO
La spesa sanitaria pesa in maniera sempre più diretta sul portafoglio dei cittadini italiani. A testimoniarlo sono gli inequivocabili numeri pubblicati dalla Ragioneria dello Stato in un nuovo rapporto, che delineano uno scenario estremamente eloquente sulle criticità della sanità pubblica nel nostro Paese. In soli 6 anni, infatti, la spesa “out of pocket” – cioè quella pagata dagli italiani di tasca propria e non rimborsata dal Servizio Sanitario Nazionale – è cresciuta addirittura del 43%, passando dai 28,13 miliardi del 2016 alla cifra monstre di 40,26 miliardi nel 2022: circa un quarto della spesa sanitaria totale. Solo nell’ultimo anno, in Italia questa voce ha registrato un’impennata dell’8,3%. Esaminando le variazioni percentuali, si può attestare che a crescere in maniera assai significativa rispetto al 2021 sono state in particolare le spese relative all’acquisto di farmaci e alle cure psicologiche.
Le statistiche diramate dalla Ragioneria dello Stato raccontano come la spesa “out of pocket”, nel 2017, ammontasse a 30,48 miliardi, salendo poi a 32,29 miliardi nel 2018 e a 34,85 miliardi nel 2019. In seguito a un rallentamento registrato nel 2020 (30,79 miliardi), nel 2021 essa ha subito una nuova impennata, arrivando a 37,16 miliardi. In merito alla composizione della rilevazione della spesa sanitaria privata per tipologia di spesa nel 2022, viene confermata la prevalenza delle spese per visite specialistiche ed interventi, che rappresentano il 45,8% del totale. In tale insieme, spicca il dato sulle prestazioni degli odontoiatri – 30% delle visite specialistiche e degli interventi a carico dei privati -, per i quali gli italiani spendono 5,65 miliardi (+ 3,5% sul 2021). I cittadini hanno speso ben 12 miliardi per i farmaci (+9% sul 2021), 3 miliardi di ticket, 2,4 miliardi dall’ottico e 1 miliardo per lo psicologo (addirittura +14,9% sul 2021). La spesa sanitaria a carico dei privati è cresciuta su tutto il territorio nazionale, andando in doppia cifra a livello percentuale nella provincia autonoma di Bolzano (+17,5%), in Molise (+14,1%), nella Provincia autonoma di Trento (+12,8%) e in Sardegna (10,9%).
Solo due mesi fa, l’ultimo Rapporto della Fondazione GIMBE aveva evidenziato che il servizio pubblico e il diritto costituzionale alla tutela della Salute, di anno in anno, sono sempre più compromessi, mettendo nero su bianco che, tra il 2010 e il 2019, oltre 37 miliardi sono stati sottratti alla sanità pubblica italiana. La Fondazione ha rilevato inoltre che, nel giro di 10 anni, il Fabbisogno Sanitario Nazionale sia aumentato di 8,2 miliardi di euro, evidenziando le grandi problematicità riferite alla spesa sanitaria, ai Livelli Essenziali di Assistenza, alle disuguaglianze su base regionale e al personale. La criticità della situazione, comprovata dai dati oggettivi, ha poi un diretto effetto sulla percezione che gli italiani hanno del funzionamento del sistema: in un sondaggio uscito a inizio dicembre su Termometro Politico, alla domanda “Qual è il suo peggior timore per il futuro?”, quasi il 30% dei cittadini ha risposto “La crisi della Sanità pubblica con il pericolo di non essere più curati”.
(da lindipendente.online)
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Dicembre 23rd, 2023 Riccardo Fucile
DAVIGO INTERVIENE SUL DIVIETO DI PUBBLICARE LE ORDINANZE
In nome della tutela della presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva di condanna, il Parlamento si accinge ad approvare una legge delega con la quale si autorizza il governo a vietare la pubblicazione integrale o per stralci delle ordinanze di custodia cautelare.
La Corte costituzionale però ha più volte avvertito che la sua giurisprudenza “pur in mancanza di una specifica disciplina costituzionale, ha sempre ricondotto il diritto dell’informazione nell’àmbito di tutela della libertà costituzionale di manifestazione del pensiero, ricomprendendolo tra le libertà fondamentali proclamate dalla Costituzione. L’art. 21 Cost. infatti solennemente proclama uno tra i princìpi caratterizzanti del vigente ordinamento democratico, garantendo a ‘tutti’ il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero ‘con ogni mezzo di diffusione’ e detta per di più ulteriori e specifiche norme a tutela della stampa, quale mezzo di diffusione tradizionale e tuttora insostituibile ai fini dell’informazione dei cittadini e quindi della formazione di una pubblica opinione avvertita e consapevole. A tale riguardo, il ‘diritto all’informazione’ deve essere qualificato e caratterizzato dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie – che comporta, fra l’altro, il vincolo al legislatore di impedire la formazione di posizioni dominanti e di favorire l’accesso del massimo numero possibile di voci diverse – in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti. In questo senso, l’informazione esprime non tanto una materia, quanto ‘una condizione preliminare’ per l’attuazione dei princìpi propri dello Stato democratico”.
(così la massima relativa alla sentenza n. 206 del 2019).
In materia di diritti costituzionali, nessuno è illimitato e va contemperato con diritti e doveri contrastanti.
Il diritto alla presunzione di innocenza, che vieta alle pubbliche autorità di indicare come colpevoli gli imputati, esclude da tale divieto gli atti valutativi: altrimenti non potrebbe mai essere disposta la custodia cautelare o chiesta una condanna o pronunciata una sentenza di condanna prima della sua definitività. Infatti, l’art. 115-bis del codice di procedura penale “Garanzia della presunzione di innocenza” (introdotto dal D. Lgs. 188 del 2021, “legge Cartabia”) stabilisce:
1. Salvo quanto previsto dal comma 2, nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato, la persona sottoposta a indagini o l’imputato non possono essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili. Tale disposizione non si applica agli atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato.
2. Nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato, che presuppongono la valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza, l’autorità giudiziaria limita i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento.
L’idea di vietare la pubblicazione delle ordinanze in materia cautelare personale (che rientrano negli atti sopra indicati) sottrae al controllo dell’opinione pubblica l’operato delle autorità, dimenticando che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte chiarito, anche a proposito della pubblicità delle udienze, che la pubblicità è di per sé una garanzia. E ha anche condannato l’Italia, in alcuni casi, per le disposizioni che prevedono udienze camerali (e quindi non pubbliche).
Per quanto è dato comprendere, non vi è il divieto di dare notizia che una persona è stata privata della libertà personale in conseguenza di un provvedimento del giudice (altrimenti avremmo i desaparecidos). Tuttavia, non potranno essere riferiti i fatti, gli indizi e le ragioni che hanno indotto il giudice a emettere il provvedimento. Quindi si saprà che una persona è stata privata della libertà personale, ma sarà vietato spiegare perché, con buona pace del diritto dell’opinione pubblica di essere informata di ciò che fanno le pubbliche autorità, anche al fine di esercitare la sovranità popolare tramite il diritto di voto.
Si tratta di una grave violazione dei principi fondamentali che presiedono alla vita di uno Stato di diritto e del diritto dei cittadini di conoscere e valutare l’operato delle autorità, che rischia di cadere davanti a sentenze della Corte costituzionale o della Corte europea dei diritti dell’uomo.
È difficile comprendere le ragioni di una simile scelta legislativa e soprattutto giustificarla alla luce della tutela della presunzione di non colpevolezza. È probabile anzi che, sapendo che una persona è stata privata della libertà personale, ma non per quali ragioni, l’opinione pubblica possa pensarne il peggio possibile, anche in base al chiacchiericcio che si scatenerà in assenza di dati certi.
Se il fine fosse quello, ipotizzato da Marco Travaglio, di tenere celate le malefatte degli appartenenti alla classe dirigente di questo Paese, lo strumento è inidoneo allo scopo.
Infatti frequentemente, prima o poi, chi finisce in custodia cautelare viene scarcerato e il disegno di legge delega non prevede il divieto di pubblicare le ordinanze che dispongono la scarcerazione. Poiché sovente la revoca della misura cautelare avviene per cessazione o affievolimento delle esigenze cautelari, da tali atti sarà possibile desumere le ragioni per le quali la persona era stata privata delle libertà personale.
In ogni caso anche atti come i decreti di perquisizione e sequestro contengono spesso motivazioni che riferisco i fatti attribuiti a una persona.
Spero, con ciò, di non aver suggerito di vietare anche la pubblicazione delle ordinanze di scarcerazione e di atti ulteriori.
Spero che ci ripensino, ricordando che il segreto è tipico dei regimi autoritari, mentre la trasparenza caratterizza quelli democratici.
Pier Camillo Davigo
(da Il Fatto Quotidiano)
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