Dicembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
GLI ALTRI PAESI HANNO BOCCIATO LA PROPOSTA DI URSULA VON DER LEYEN, CHE ANDAVA INCONTRO ALL’ITALIA SUI MIGRANTI. RISULTATO? CI SARANNO QUATTRO MILIARDI IN MENO PER IL DOSSIER IMMIGRAZIONE (CARO ALL’ITALIA), E SPARISCONO ANCHE DIECI MILIARDI DI AIUTI ALLE IMPRESE
La strada per il negoziato sulla revisione del bilancio pluriennale dell’Unione europea parte tutta in salita per l’Italia. E il bottino che la premier Giorgia Meloni punta a portare a casa dalla missione a Bruxelles rischia di essere molto magro.
Rispetto alla proposta avanzata nei mesi scorsi da Ursula von der Leyen, quella che finirà sul tavolo del Consiglio europeo va a ridurre sensibilmente le due poste di bilancio considerate prioritarie da Roma.
I 12,5 miliardi aggiuntivi previsti dalla Commissione per le politiche migratorie sono già diventati 8,6: di questi, soltanto 6,6 sono per la dimensione esterna e dovranno essere ridistribuiti tra tutte le rotte. Ma non è finita: i 10 miliardi per il fondo “Step”, lo strumento finanziario per sostenere la competitività delle imprese europee, sono praticamente spariti. È rimasto solo un miliardo e mezzo, ma destinato esclusivamente all’industria della Difesa.
L’esito finale della revisione dipenderà dalla trattativa tra i leader, che dovranno dare il loro via libera all’unanimità. Ma il punto di partenza si è già allontanato sensibilmente da quelle che erano le esigenze e le richieste italiane.
L’attuale bilancio comune dell’Ue ha un valore totale che supera di poco i mille miliardi e copre un periodo di sette anni, dal 2021 al 2027. Era stato negoziato nel luglio del 2020 e da allora molte cose sono cambiate: la crisi legata alla pandemia si è inasprita, la guerra in Ucraina ha avuto conseguenze devastanti, i flussi migratori hanno toccato un nuovo record.
Per questo motivo, prima dell’estate, la Commissione ha proposto uno scostamento per i restanti quattro anni (2024-2027) attraverso un’iniezione di 99 miliardi di euro, di cui 66 attraverso un aumento dei contributi (i restanti 33 sono prestiti all’Ucraina che poi verranno restituiti). Ma diversi Stati membri, su tutti la Germania, si sono opposti e hanno chiesto di tagliare.
Nell’ultimo testo di compromesso, elaborato da Charles Michel, sono confermati i 50 miliardi di euro per l’Ucraina (33 sotto forma di prestiti e 17 a fondo perduto).
«Quando ci sono di mezzo i soldi e l’unanimità – prevede una fonte Ue – dobbiamo essere pronti a tutto». Nell’ultima “negobox” (la tabella con tutte le cifre per i negoziati), il totale del capitolo dedicato alle politiche migratorie non va oltre gli 8,6 miliardi di euro, quasi quattro in meno di quelli proposti dalla Commissione.
Da questi bisogna togliere i due miliardi di euro per la dimensione interna (800 milioni per il Fondo asilo e migrazioni; un miliardo per la gestione delle frontiere e 200 milioni per l’agenzia europea per l’asilo). Per la dimensione esterna restano dunque 6,6 miliardi (di cui solo 1,2 miliardi di risorse “fresche”, il resto sarà recuperato attraverso una ridistribuzione) e questi fondi andranno poi suddivisi essenzialmente tra tre aree geografiche che rappresentano altrettante rotte: la fetta più grossa dovrebbe essere destinata per i rifugiati siriani, soprattutto quelli che si trovano in Turchia; poi ci sarà una quota per i Paesi dei Balcani Occidentali e infine una per quelli del vicinato Sud e più in generale dell’Africa, con i quali l’Italia vorrebbe stipulare accordi simili a quello firmato con la Tunisia.
Ancor più complicata la trattativa per finanziare con risorse comuni il sostegno alla competitività delle imprese europee. Accantonata l’idea di un Fondo Sovrano, pur evocata da Ursula von der Leyen in un primo momento, già in estate la Commissione aveva ridimensionato le aspettative mettendo soltanto 10 miliardi nella nuova piattaforma “Step”.
Secondo l’esecutivo europeo, l’effetto-leva provocato dall’intervento dei privati avrebbe generato 160 miliardi di euro.
C’è infine il capitolo legato agli interessi del Next Generation EU, il cui costo è aumentato significativamente in seguito all’impennata dei tassi. La Commissione aveva stimato 19 miliardi di euro in più […]. Diversi Paesi si sono opposti all’idea e l’ultima versione prevede di stanziare solo 9 miliardi per coprire i costi aggiuntivi e andare a recuperare eventuali risorse aggiuntive all’interno dello stesso bilancio. Al tavolo negoziale alcune delegazioni hanno anche avanzato l’ipotesi di dedurre il costo degli interessi dal pagamento delle prossime rate del Pnrr: uno scenario da incubo per l’Italia che però, a quanto pare, non sta trovando sostegno.
(da La Stampa)
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Dicembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
MA CHE GUERRIERI A CAVALLO, AL MASSIMO SERVI DELLE LOBBY SU UN RONZINO… LE OPPOSIZIONI ATTACCANO TELEMELONI
Ore 20, Tg1 della Rai. Il servizio si apre con la scena del film: un ragazzo in sella a un cavallo al galoppo, “un ragazzo guerriero in lotta contro il nulla. È Atreju il protagonista della Storia infinita e dal 1998 il nome della festa di Azione giovani, i ragazzi di Alleanza nazionale e oggi la festa di Fratelli d’Italia”.
E via due minuti di immagini recenti e passate per annunciare la kermesse del partito di Giorgia Meloni in programma da giovedì 14 a domenica 17 dicembre a Castel Sant’Angelo a Roma.
Più che un servizio giornalistico, “uno spot per celebrare una manifestazione dei giovani di un partito” che “non si era mai visto in un tg – attaccano i componenti Pd della Vigilanza Rai – No alla propaganda. Il Tg1 è e deve essere informazione, non è di un partito. Chiediamo ai vertici di vigilare su quanto accaduto”. Facendo esplodere così il nuovo caso in Rai, ormai ribattezzata TeleMeloni dopo i tanti cambi voluti dal nuovo esecutivo e dopo le scelte di programmazione che in alcuni casi si sono rivelate dei flop.
Il servizio del telegiornale continua. Vengono elencati i nomi dei politici, “non solo di destra”, viene sottolineato, che in passato hanno preso posto sul palco “diventato appuntamento fisso” iniziando proprio da Bertinotti tirato in ballo dopo il ‘no’ di Elly Schlein a partecipare alla kermesse di quest’anno. E ancora D’Alema, Veltroni, Violante, Di Maio, Conte. “Perché l’imperativo per gli organizzatori è sempre stato ‘confrontarsi’”, come a rimarcare l’assenza della segretaria dem e del leader del M5S nell’edizione 2023, la prima al governo. E ancora: immagini di archivio, aneddotti passati, scherzi, come racconta Giovanni Donzelli intervistato che parla anche del villaggio di natale allestito.
Neanche una parola però nel servizio sull’imbarazzo creato con l’invito per domenica al leader di Vox Santiago Abascal, grande amico di Giorgia Meloni. Che ieri ha evocato piazzale Loreto per il premier spagnolo Pedro Sanchez: “Verrà il giorno in cui lo impiccheranno per i piedi”. Meglio elencare i nomi dei prossimi ospiti: da Calenda a Renzi, da Sunak a Spalletti fino a Concia, “di recente al centro di una polemica sull’educazione alle relazioni nelle scuole”. Stop. Valditara che ha dato e ritirato la nomina all’ex parlamentare dem non viente citato.
L’opposizione insorge. “La propaganda meloniana sulle reti Rai ha raggiunto un punto di non ritorno – dichiara Sandro Ruotolo, responsabile informazione del Partito democratico – Così si confonde la propaganda con l’informazione. Non se ne può più. La Rai è diventa cosa loro e invece ha bisogno per vivere di punti di vista diversi”.
Mentre a Riccardo Magi, segretario di + Europa non sfugge un particolare mostrato nel servizio: “Quando ad Atreju avevano messo al bando l’euro. E meno male che Meloni non ricordava di aver mai detto di uscire dalla moneta unica! Per fortuna il servizio celebrativo del Tg1Rai svela questa ennesima bugia della nostra premier: chissà se quest’anno accetteranno pagamenti in euro!”.
(da La Repubblica)
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Dicembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
IN BALLO C’È SOPRATTUTTO IL VENETO, CON ZAIA CHE SI VUOLE RIPRESENTARE E FORZA ITALIA CHE PUNTA SU TOSI, MA ANCHE FEDRIGA E TOTI SCALPITANO….LA MELONI PUNTA SUL RICAMBIO PER INDEBOLIRE IL CARROCCIO. MENTRE CROSETTO APRE AL TERZO MANDATO
Non solo il Mes, il premierato, l’autonomia o la Manovra, sullo scacchiere del centrodestra c’è un’altra partita che agita le acque di FdI, Lega e FI: il limite a due mandati per i presidenti delle Regioni. A fare la prima mossa è stato stavolta il leader azzurro Antonio Tajani che, al Messaggero, ha definito «sano» garantire «un ricambio nella leadership delle Regioni dopo 10 anni».
E’ evidente come l’attuale normativa consentirebbe di rimettere in discussione anche territori come Veneto, Lombardia e Friuli Venezia Giulia (la prima “in scadenza” nel 2025, le altre nel 2028) in cui la Lega governa da anni. Tant’è che non si è fatto attendere il fuoco incrociato del Carroccio. In primis dell’altro vicepremier Matteo Salvini che si è detto pronto a modificare la legge per consentire il terzo mandato ai governatori «anche domani mattina».
Reazioni dello stesso tenore sono arrivate dal Veneto con Luca Zaia che (già al terzo mandato, ma il primo non viene conteggiato perché antecedente all’imposizione del limite) si è lasciato andare ad un lungo sfogo subito dopo aver definito lo “stop” «anacronistico»: «La figura centrale, l’attore protagonista» in questo Paese deve essere il cittadino «chiamato» a scegliere la classe dirigente «quindi» bisogna sbloccare i mandati» ha spiegato. «Se poi si vuole lasciare tutto in mano alla politica ne prendo atto. Mi chiedo però come mai non si propone mai il blocco dei mandati ai parlamentari».
Del resto proprio l’attuale poltrona dell’ex ministro dell’Agricoltura è quella su cui si allungano le mire azzurre, che da tempo ha lanciato un opa in Veneto sotto l’egida dell’ex leghista Flavio Tosi.
Il silenzio di FdI sulla questione è rotto invece solo dal ministro della Difesa Guido Crosetto che, però, su vicende di questo tipo vanta una certa autonomia rispetto alle posizioni strettamente meloniane. «Io non ho mai pensato servissero regole tecniche quando devi confrontarti col giudizio popolare» spiega premettendo di non occuparsi di riforme istituzionali nel suo partito.
Un’accortezza, al pari del sostanziale non intervento nella partita da parte di FdI, che è motivata non solo dalla volontà di tenere i toni bassi in una fase già resa delicata dall’avvio della campagna elettorale verso il voto europeo di giugno, quanto da un necessario equilibrismo. Perché se da un lato si teme che affossare del tutto i governatori leghisti più rappresentativi (Zaia e Fedriga) possa scatenare reazioni non proprio controllabili all’intero e all’esterno del Carroccio, dall’altro il limite al terzo mandato ben si sposa con la volontà mai celata di via della Scrofa di ribaltare una situazione poco lusinghiera sui territori per un partito che ha sfiorato il 30% dei consensi alle Nazionali (3 governatori su 14 del centrodestra).
Il tema del terzo mandato fa ovviamente discutere, anche se si voterà solo nel 2025 per le regioni che potrebbero essere interessate (Veneto, Campania, Liguria). Ma Tajani tocca anche un appuntamento più immediato: il prossimo voto di primavera, quando oltre a vari Comuni andranno rinnovate le presidenze di Abruzzo, Basilicata e Sardegna, mentre a luglio toccherà al Piemonte.
Tutte Regioni governate dal centrodestra, con presidenti al primo mandato, ma dove due ricandidature sono a rischio: quella di Bardi, forzista, in Basilicata e quella di Solinas, autonomista-leghista, in Sardegna, mentre su Marsilio e Cirio per Abruzzo e Piemonte non ci sono dubbi.
Nessuno si muove dalla propria posizione: FdI a livello regionale continua a dire no ad una ricandidatura di Solinas e punta sull’uscente sindaco di Cagliari, il meloniano Paolo Truzzu. La Lega non molla però, e come Tajani insiste per la ricandidatura degli uscenti, regola che secondo i vertici di FdI è saltata ai tempi di Musumeci, costretto a lasciare il posto all’azzurro Schifani.
Più lontano ma delicato il tema del terzo mandato. La regola è che si possa correre per soli due mandati consecutivi. L’uscita di Tajani quindi ha messo già in allarme la Lega, visto che non si tratta di un candidato qualsiasi né di una Regione defilata. Tra l’altro collegata a un altro capitolo: la rappresentazione numerica dei partiti rispetto alle Regioni. È ammesso da tutti che FdI è sottorappresentata rispetto alla propria forza elettorale, visto che regioni di peso come Lombardia e Veneto sono governate dalla Lega e il Piemonte da FI, anche se Maurizio Gasparri fa notare come «quando Berlusconi aveva 3-4 volte i voti degli alleati ha sempre concesso loro moltissimo, perché il partito più grande fa più sacrifici…».
L’azzurro Flavio Tosi già scalpita: «Zaia definisce anacronistico il limite ai mandati ai presidenti, ma gli ricordo che è stata proprio la Regione Veneto nel 2012, quindi con lui presidente, a fissare il limite dei due mandati per gli assessori regionali… Da questo punto di vista, non mi sembra un campione di coerenza. Per gli assessori vale e per lui no?».
(da Corriere della Sera)
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Dicembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
A RIBELLARSI SONO I PARROCI: “LA LIBERTA’ DI CULTO E’ UN VALORE DA RISPETTARE”… INDEGNO CHE SI PERMETTA A UN SINDACO DI VIOLARE LA COSTITUZIONE, QUEL COMUNE VA COMMISSARIATO
Da sindaca leghista nell’ex Stalingrado rossa dell’Italia, ad aspirante Marine Le Pen del Nordest, sorpassando a destra gli stessi vertici del Carroccio in vista del voto europeo. Anna Maria Cisint, storica pasionaria xenofoba con una carriera politica fondata sul rifiuto dell’accoglienza nella città giuliana più multiculturale del Paese, apre a modo suo la personale campagna elettorale.
Prima chiude improvvisamente due centri islamici aperti da vent’anni. Poi sui social attacca “Repubblica” e la “stampa di sinistra” perché riporta la notizia. Infine alza i toni annunciando di voler anche vietare, assieme alle preghiere comunitarie, il velo alle donne musulmane che vivono sul suolo comunale.
Risultato? Per la prima volta il dormitorio di Fincantieri, esploso a 30mila abitanti e poco meno di 10mila stranieri che parlano 83 lingue, si ribella e dice basta alla propaganda dell’odio e della paura.
«Sabato 23 dicembre – annuncia l’imam Abdel Majid Kinani nel centro Darus Salaam oggi deserto – invitiamo a Monfalcone tutti i rappresentanti spirituali dei centri islamici d’Italia e le persone che difendono la libertà di culto tutelata dalla Costituzione italiana. Sarà una manifestazione nazionale pacifica, dopo che la sindaca Cisint ha chiesto agli altri primi cittadini della nazione di seguire il suo esempio. Pretendere solo per noi il rispetto di normative riservate ai grandi luoghi di culto è un modo per armare la burocrazia a fini politici».
L’ultimo attacco dell’allieva dell’ex sindaco di Treviso Giancarlo Gentilini, noto per incitare a «sparare agli immigrati come ai leprotti» e per segare le panchine pur di non farvi «posare il sedere agli extracomunitari», minaccia di rivelarsi un boomerang.
Contro le ordinanze di stop e al fianco di una comunità islamica «sorpresa, spaventata e arrabbiata», si schierano i parroci cattolici e le associazioni che da decenni operano per la convivenza.
L’incubo dello scontro è tale che anche don Flavio Zanetti e don Paolo Zuttion hanno scritto ai fedeli per «invitare alla pacificazione». «La libertà di culto – dicono – è un valore da rispettare. I problemi non si risolvono aizzando gli uni contro gli altri».
(da agenzie)
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Dicembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
“UN GOVERNO ALLERGICO ALLE CRITICHE IN UN MIX DI CATTIVISMO E VITTIMISMO”
Quando spunta un’inchiesta la politica puntualmente reagisce in modo scomposto. Marco Revelli, storico e politologo, dov’è finita la questione morale in questo Paese?
“Occorre premettere una valutazione dei comportamenti di questo governo, della presidente del Consiglio in primis e di un buon numero di suoi ministri, di fronte alle critiche. Appare evidente un’insofferenza radicale di fronte alle critiche che sintetizzerei con la formula ‘cattivismo e vittimismo’. Sono aggressivi perché prendono decisioni e compiono atti nelle loro funzioni di governo che sono ben oltre i limiti della decenza, penso a misure come il sadismo sociale nei confronti degli strati più disagiati a partire dalla cancellazione del reddito di cittadinanza o all’ostracismo nei confronti del salario minimo. Si tratta di comportamenti che ricordano gli atteggiamenti dei nuclei neofascisti del passato per linguaggio e anche per contenuto. E di fronte a chi li critica ricorrono alla polizia politica, alle denunce e a forme di repressione che non appartengono alla concezione liberale dello Stato di diritto. Emblematico è l’episodio avvenuto alla Scala che è estremamente preoccupante perché è oltremodo grave che la polizia politica identifichi una persona per aver fatto apologia di antifascismo. Siamo davanti a qualcosa che è al di là del bene e del male al punto che avrebbe meritato una reazione da parte delle opposizioni ben più dura di quella che c’è stata. Altro caso è quello di Tomaso Montanari che per un articolo in cui ha criticato le esternazioni politiche del ministro Lollobrigida, in particolare quelle sulla sostituzione etnica di cui ne ha rivelato le radici nel linguaggio e nella cultura fascista a cui si rifanno, si è preso una querela. È un fatto estremamente grave che rientra in una serie di episodi simili che rivelano un istinto aggressivo e repressivo a cui non eravamo preparati. La realtà è che il berlusconismo è stato un momento di profondo degrado della nostra vita politica ma non è mai arrivato a tanto”.
Santanché, Delmastro e Sgarbi sono i casi che agitano il governo. Eppure Meloni non sembra curarsene perché non sono stati presi provvedimenti e i rispettivi interessati sono rimasti ancorati alle poltrone. È solo garantismo?
“No guardi, questo non è garantismo ma è la cultura di una setta che è chiusa a riccio su sé stessa, difendendo a oltranza i propri associati. Non siamo in presenza di un comportamento di una classe politica di un Paese democratico ma di quello di un piccolo gruppo, per giunta omertoso, che difende i propri consoci in quanto tali e a prescindere da tutto”.
Proprio in relazione a questi casi, il leader M5S Giuseppe Conte ha chiesto alla Meloni di prendere provvedimenti. Ma è normale che si debba arrivare a una simile richiesta?
“Conte ha fatto benissimo a chiederlo perché è coerente con quello che deve fare un leader di opposizione. Detto questo non posso che constatare che è una richiesta ingenua perché Meloni, la quale non è minimamente super partes, dovrebbe smentire sé stessa. Davanti a ministri che si macchiano di presunte nefandezze o su cui pesano dei dubbi sul loro comportamento, in qualunque Paese democratico la soluzione naturale sarebbe quella di metterli in quarantena, ma chiederlo alla Meloni non produrrà alcun risultato. Questo perché la presidente del Consiglio non farà mai quello che sarebbe il dovere di un leader democratico in quanto, molto banalmente, lei non appartiene a questa categoria per via delle sue stesse radici politiche”.
Il fatto che le destre hanno più di uno scheletro nell’armadio può essere il motivo per il quale diversi esponenti del governo hanno dato il via a un attacco alla magistratura?
“Ho letto molti commenti di osservatori moderati e non schierati pregiudizialmente convinti che alcuni attacchi alla magistratura abbiano il carattere di ‘misure preventive’, mi passi il termine, per ipotecare un futuro che viene temuto. A mio avviso si tratta di una tecnica usata molto frequentemente da partiti che praticano una politica corsara e che, nella loro tradizione, sono sempre state forze di assoluta minoranza e per questo abituate a tecniche di ‘guerriglia politica’. Insomma rientra nei loro manuali di comportamento perché, inutile girarci intorno, si tratta di forze che mai avrebbero immaginato di arrivare al potere. Il problema è che ci sono arrivate”.
Per queste destre la stampa è libera solo se compiacente e quando non lo è, partono querele. Come giudica questo atteggiamento
“Anche questo appartiene a un universo mentale totalmente estraneo alla dialettica politica democratica. Per quest’ultima chi ha l’onore di ricoprire posti di potere, ha anche l’onere di esporsi alle critiche. In altre parole fa parte del gioco e delle caratteristiche della professione di presidente del Consiglio, ministro o parlamentare. Non solo è giusto ma è doveroso che il loro operato sia oggetto di valutazione e critica. Tuttavia questo governo ha dimostrato in più occasioni la propria insofferenza di fronte alla critica, dando vita a un mondo al contrario in cui si può criticare il poveraccio ma non si può proferire parola su un uomo o una donna di potere, un po’ come se la loro carica funzionasse da scudo con una sorta di cupola di piombo che impedisce la vista e la critica a chi sta fuori. Siamo davanti a qualcosa di estremamente preoccupante perché è una distorsione grave del rapporto democratico”.
Intanto la politica si appresta a eliminare il carcere per i giornalisti e dall’altro aumenta le sanzioni pecuniarie. Siamo davanti a un bavaglio mascherato?
“È un bavaglio tutt’altro che mascherato”.
(da La Notizia)
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Dicembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
L’INCONTRO NELL’AULA DEI GRUPPI DI MONTECITORIO
«Costituzione, Parlamento e democrazia». È il titolo dell’incontro organizzato dall’Associazione degli ex parlamentari della Repubblica. Ma sono anche le parole chiave che si ripetono negli interventi, unanimi nel bocciare la proposta di riforma costituzionale del governo Meloni. E il biasimo, oggi 12 dicembre, non ha colore politico. Forse la reprimenda più dura è quella di Giuseppe Gargani, sei volte deputato e tre volte europarlamentare. Attualmente, il politico con un lungo corso in Forza Italia, presiede l’Associazione. E afferma: «Dobbiamo reagire alla crisi progressiva del Parlamento, che mette in pericolo la consistenza della democrazia. Oggi il governo controlla il Parlamento, esercitando un potere patologico». Come esempio, Gargani ricorda che dal 2001 al 2021 i decreti approvati sono stati 553, di cui 517 con la fiducia. Da ottobre 2022 a oggi, poi, «sono stati presentati ben 59 decreti legge. Le richieste di fiducia hanno avuto un aumento progressivo da parte del governo per blindare i propri provvedimenti e assicurandoli dall’intervento parlamentare». Per Gargani, negli ultimi anni, «il portato della democrazia costituzionale, che è la rappresentanza politica, si è sgretolato. I cittadini non concorrono più con metodi democratici a determinare la politica nazionale ed è offuscata la libertà del Parlamento di indirizzare la politica del Paese».
L’ex deputato rileva come il governo abusi di uno squilibrio legislativo al quale, per porre rimedio, «basterebbe iniziare dalle modifiche dei regolamenti parlamentari. E cambiare la legge elettorale, che ha caratteri truffaldini». Gargani ammonisce dalla modifica del sistema costituzionale in un momento di crisi e di tensioni sociali come quello attuale. E aggiunge: «Le leggi oggi risultano settoriali, corporative, si potrebbe dire “ad personam” e per questo hanno un valore provvisorio. Non si riesce ad avere un quadro di prospettive». Per Gargani, «la consistenza della Costituzione è concentrata sul fatto che il popolo è sovrano, ma non con potere assoluto. La società è mediata dai partiti e quindi dal Parlamento. Si deve concentrare il potere, di pesi e contrappesi, nei corpi intermedi, non ai vertici dello Stato né alla base». Premessa per l’attacco che Gargani riserva ai leader attuali del Paese: «Il populismo moderno, simbiotico con l’individualismo, fa il deserto in mezzo per far crescere la base, il popolo sovrano, e il capo carismatico». E approfondisce il tema ricordando che la Costituzione prevede che il popolo abbia una sovranità limitata. Perciò, «avrebbe più senso eleggere il presidente della Repubblica, che ha contrappesi, e non un presidente del Consiglio, il cui rapporto organico con il Parlamento rende molto più difficile la creazione di contrappesi».
Toni forti anche quando dice che la proposta del governo Meloni va «contro la logica giuridica e costituzionale», nel passaggio in cui si parla di un secondo premier da nominare qualora cada il primo, eletto direttamente dal popolo: «Una previsione molto fumosa e irrealistica sul piano politico». Altra critica riguarda il premio di maggioranza al 55%: «La Corte costituzionale ha già sanzionato in passato leggi che prevedevano premi di maggioranza cervellotici. Prevederli in Costituzione senza indicare una soglia di sbarramento è davvero pericoloso. Così come indicare nella stessa Costituzione il sistema elettorale maggioritario è in netto contrasto con un criterio complessivo proporzionale che ispira lo spirito della Carta costituzionale». Una modifica che dispiacerebbe, afferma Gargani, ai padri costituenti. E dice: «Ho sempre espresso perplessità sull’iniziativa del governo in materia costituzionali. Le questioni che attengono alle leggi delle legge hanno bisogno di un largo consenso: dovrebbe essere il Parlamento a fare proposte, non il governo. Il quale, con gli attuali sistemi elettorali, rappresenta una percentuale minima dei cittadini aventi diritto di voto. Una proposta di questo esecutivo non può che essere di parte e divide tanto il Parlamento quanto il Paese». L’iniziativa di Giorgia Meloni, per Gargani, «è un’anomalia come nel 2016».
In conclusione, «questa riforma del premierato priva il presidente della Repubblica di prerogative importanti» e, sentenzia Gargani, «la domanda di fondo è se la proposta di riforma potenzia o deprime i ruoli del Parlamento e del presidente della Repubblica. E la risposta, amici miei, non può arrivare dal governo, ma dal Parlamento e dalla scuola giuridica italiana». Un intervento che l’autore stesso definisce in difesa del Parlamento. Dopo di lui, segue il costituzionalista Enzo Cheli, secondo cui bisognerebbe puntare, più che altro a un ammodernamento della forma di governo parlamentare di cui già disponiamo. «La critica di fondo che va rivolta a questo disegno è che attraverso la contestuale elezione del Parlamento e del presidente del Consiglio si viene a instaurare una forma di dipendenza del Parlamento rispetto al governo e, in particolare, rispetto ai vertici del governo. Un modello del tutto inedito che rischia non di aumentare ma di ridurre la stabilità di governi, ove si pensi a quello che sarà lo scompenso tra un potere formale di vertice che si rafforza con un artificio elettorale, e la rappresentanza sostanziale della forza governativa».
Inoltre, biasima il giurista «c’è un’evidente riduzione dei poteri del capo dello Stato che da liberi diventano vincolati». E in chiusura, anche Cheli ricorda che il governo non osò intromettersi nei lavori della Costituente, proprio perché le Carte nascono per unire e non per dividere. Dopo di lui, interviene nell’Aula dei gruppi di Montecitorio il presidente emerito della Consulta, Cesare Mirabelli. «L’elezione diretta del presidente del Consiglio ha degli obiettivi che possono essere condivisibili: la stabilità dei governi, il rafforzamento dell’azione dei governi, il limite ai cambi di casacca. Ma c’è da chiedersi se lo strumento proposto è quello pienamente idoneo e se ve ne siano altri meno intrusivi nei confronti della Costituzione e se i benefici e i costi si equivalgano. È vero, è un intervento chirurgico che tocca poche disposizioni della costituzione, non parla mai del presidente della Repubblica. Ma ne mantiene i poteri? Forse nominalisticamente, sostanzialmente li svuota, sia per la nomina del governo, sia per la possibilità di sciogliere il parlamento, sia per la nomina dei ministri, riducendo la sua posizione a un atto formale».
Mirabelli si domanda se questa riforma rafforzi il Parlamento o meno. «Il rapporto di fiducia esiste e viene mantenuto, ma con gli strumenti dell’elezione diretta congiunta del parlamento e del capo del governo e il meccanismo elettorale che viene annunciato», con il premio di maggioranza del 55%, «altera il rapporto tra Parlamento e governo». E spiega: «Non è più il Parlamento a esprimere il governo. Ma c’è un rischio di un circuito invertito nel quale è il governo a dare l’indirizzo politico al “suo” Parlamento». Mirabelli ricorda che nei Paesi dove esiste un vero premierato, «quello Doc è nel Regno Unito», il Parlamento è davvero sovrano e ha il potere di scalzare il premier nel giro di un mese. E conclude: «Il governo, anche se eletto, non potrà mai avere la forza del Parlamento. Il primo è espressione di una maggioranza, il secondo è espressione di un’unità più rappresentativa dei cittadini. Siamo sicuri che la stabilità non diventi immobilismo, con coalizioni coatte per non tornare la voto? È illusorio. È dannoso ingabbiare in schemi rigidi, istituzionali, quello che è il dinamismo della politica. Che certamente va corretto nelle sue espressioni negative, ma ci sono alternative a questo meccanismo di riforma costituzionale che possono perseguire gli stessi obiettivi». Ad esempio, «intervenendo sul sistema elettorale» e modificando i regolamenti parlamentari.
A questo punto c’è un passaggio di Giorgio Mulè. Il vicepresidente della Camera, tuttavia, decide di non rispondere a nessun attacco mosso da chi lo ha preceduto verso la riforma della maggioranza di cui è parte. Ringrazia l’Associazione degli ex parlamentari per il suo contributo e torna nel palazzo principale di Montecitorio.
La giurista ed ex deputata Paola Balducci, dopo il forzista, esprime il suo stupore perché è il governo ad aver proposto questa riforma del sistema Stato, mentre «in questa prima fase si sarebbe dovuto astenere, delegando al Parlamento il dibattito e la verifica» di eventuali modifiche costituzionali. I primi applausi scroscianti arrivano durante l’intervento di Mariapia Garavaglia, già deputata e senatrice che ha ricoperto diversi incarichi di governo. «Fa chic sentire che un governo che dura di più produce di più. Invece, adesso abbiamo un governo che ha la maggioranza assoluta, eppure mette sempre la questione di fiducia: cos’è, non si fida della sua stessa maggioranza?».
Duro l’affondo alla leader di Fratelli d’Italia: «Quando Meloni, nel suo discorso di insediamento, ha citato Tina Anselmi e Enrico Mattei mi sono commossa e anche stupita. Sono stati due partigiani, Mattei è stato un grande capo partigiano e hanno combattuto affinché avessimo questa Costituzione che dà la sovranità al popolo, che con il voto libero può scegliere i suoi rappresentanti. Allora chi cita Tina Anselmi e Enrico Mattei sappia che la sovranità popolare è nel Parlamento. Se si taglia alla radice la Costituzione, non si lo faccia nel nome né di Anselmi né di Mattei. E neanche nel nostro nome sarà fatta questa sciancata riforma». Il giurista Francesco Saverio Marini, consigliere della presidente del Consiglio e che ha lavorato al progetto di legge in discussione, chiamato per intervenire sul palco, non si presenta. Dopo qualche momento di imbarazzo, allora, si procede con l’ultima fase dell’evento, quella che prevede una tavola rotonda tra gli ex presidenti di Camera e Senato Fausto Bertinotti, Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini e Carlo Scognamiglio. Inizia l’ex segretario di Rifondazione comunista: «Chiedere al Parlamento di non presentare emendamenti alla legge di Bilancio significa sancirne l’eutanasia politica, per me il Parlamento è sotto schiaffo, in Italia non c’è il primato del Parlamento ma del governo». E ancora: «Siamo di fronte a un democrazia autoritaria e secondo me con una forte tendenza oligarchica. O portiamo avanti questa tendenza, e la proposta del governo secondo me la accentua, oppure invertiamo il ciclo e riprogettiamo un diverso futuro».
Meno drastico Casini: «Possiamo fare tutto, non è un colpo di stato dire “facciamo una repubblica presidenziale”. Io non sono d’accordo ma ci sono tanti Paesi che lo hanno fatto. Il punto è che ci viene spiegato che non cambia nulla, che non vengono toccati i poteri del capo dello Stato. No, è una questione di lealtà! Non si può sostenere che non si cambia nulla, si cambia tutto a partire da funzione di terzietà del capo dello stato, perché una terzietà senza unghie è nulla, è da “taglio del nastro”. Il rischio è una distorsione sostanziale delle regole democratiche. Non mi scandalizzo se si vuol fare una repubblica presidenziale ma non si dica che con l’escamotage individuato le cose rimangono così. Assumetevi la responsabilità di rappresentare le cose per quel che sono. Si ritiene che sia intelligente procedere a colpi di maggioranza con un eventuale referendum che lacererà il tessuto del Paese? Se è un’idea reale io credo che bisogna invitare alla cautela. Meloni personalmente si sta muovendo con qualche ragionevolezza ed è a lei che bisogna rivolgersi», chiosa Casini.
Fini replica a chi ha parlato prima di lui, difendendo l’idea del governo di procedere con una riforma degli assetti istituzionali. Ma il suo discorso non è scevro di critiche: «Io non ho cambiato opinione, ero un convinto sostenitore di un modello semipresidenzialista francese e non ho cambiato idea, per me sarebbe garanzia di una democrazia governante e con un giusto equilibrio di poteri. Io non ho tessere in questo momento, ho una storia politica, credo di dire la verità dicendo che c’è una ragione se un governo di destra, un partito che aveva messo il presidenzialismo nel programma, abbia dovuto prendere atto che non c’erano le condizioni. Probabilmente perché all’interno della coalizione le altre forze hanno mostrato dissenso: la politica è realismo, Meloni ne ha preso atto e ha proposto un altro modello. Mi dispiace che, non avendo guardato a Parigi nel lodevole intento di rafforzare le prerogative del capo del governo, l’esecutivo non abbia guardato a Berlino».
Del testo, «ci sono alcune cose che vanno cambiate, ma non mi riconosco nella critica aprioristica di chi dice che si va verso una forma di democrazia autoritaria. Si va verso una nuova Repubblica? Magari».
(da agenzie)
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Dicembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
“LA CORTE COSTITUZIONALE NON PUÒ CHE ESSERE PREOCCUPATA. STIAMO ATTENTI A NON TRASFORMARE ESPERESSIONI DI DEBOLEZZA IN PREVARICAZIONI”… “L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA? È UNA SCELTA POLITICA” – “PER LA MAGGIORANZA È IMPOSSIBILE OCCUPARE LA CONSULTA”
” La richiesta del voto di fiducia è espressione di una debolezza della maggioranza . I maxi emendamenti sono obbrobriosi perchè raccolgono istanze, interessi e progettini che i parlamentari non riescono nemmeno a conoscere e su cui si chiede la fiducia. Tutto questo crea problemi e la Corte costituzionale non può che essere preoccupata da questa alterazione. Stiamo attenti a non trasformare espressioni di debolezza dei governi in espressioni di prevaricazioni”.
Lo ha detto il nuovo presidente della Consulta Augusto Barbera rispondendo alle domande dei giornalisti.
“Vari commentatori scrivono che ci sarà assalto all’ indipendenza della Corte da parte della maggioranza. E’ un allarmismo di un costituzionalismo ansiogeno che non è in linea con le regole vigenti. Oggi non è possibile nessuna occupazione della Corte costituzionale”.
“Se questa maggioranza vuole eleggere il giudice deve mettersi d’accordo con altre forze politiche o presentare un candidato che abbia un successo personale tale da spingere tutte le forze politiche votarlo. La Corte non può occuparla nessuno”, ha ribadito
“E’ una scelta politica che appartiene tutta quanta alla politica”: così il presidente della Consulta Augusto Barbera ha risposto a una domanda dei giornalisti sull’autonomia differenziata.
(da agenzie)
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Dicembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
“IL FATTO CHE NON SI SIA DIMESSO È UN AFFRONTO ALLA DECENZA, LA PROVA CHE GLI INVERTEBRATI POSSONO FORMARE UN GOVERNO”
Il fatto che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu non si sia ancora dimesso è un affronto alla decenza. Il fatto che nessun membro della sua coalizione di sicofanti al governo non gli abbia chiesto di farlo – o non lo abbia fatto lui stesso – è la prova scientifica che gli invertebrati possono formare un esecutivo. È un triste profilo di vigliaccheria di gruppo.
Il disinvolto rifiuto di Netanyahu di prendere anche solo in considerazione questa possibilità è un cinico ripudio dell’integrità e un insensibile disprezzo per i principi fondamentali della responsabilità e dell’affidabilità. Più di ogni altra cosa, è un insulto all’intelligenza del pubblico israeliano. Questa nazione merita di meglio. La sua arrogante e compiaciuta promessa che “tutto sarà indagato dopo la guerra” è una tipica ma non meno rivoltante menzogna volta a prendere tempo, ritardare e ingannare.
So di averlo già scritto diverse volte, come molti altri, ma vale la pena ripeterlo. È come disse Catone il Censore nel Senato romano prima della Terza Guerra Punica nel II secolo a.C.: Carthago delenda est (Cartagine deve essere distrutta) – una versione abbreviata di una frase che usava alla fine di tutti i suoi discorsi.
Sì, sappiamo che la responsabilità e il senso di responsabilità sono termini estranei al premier israeliano. Gli sono stati estranei per tutta la sua vita politica, quindi non c’è da sorprendersi. Sì, sappiamo che non fanno parte del suo DNA politico. Sì, sappiamo che è guidato non solo dal carattere, ma da un cocktail tossico di vulnerabilità politiche, dal processo per corruzione in corso e dalle sue manie di grandezza di essere una figura storica posta dalla provvidenza per salvare Israele e la civiltà occidentale dall’islamofascismo, e che non può essere disturbato da nozioni terrene di fallimento e responsabilità.
Sì, sappiamo che non ha un’etica e dei valori fondamentali, né una bussola morale, altrimenti non si sarebbe presentato alle elezioni per quattro volte tra il 2019 e il 2021 mentre era sotto accusa. Eppure vale la pena ribadirlo: Netanyahu Delenda est. Netanyahu deve essere distrutto politicamente, altrimenti Israele affonderà con lui.
La sua responsabilità per la debacle del 7 ottobre, il giorno peggiore della storia di Israele, è stata e sarà sempre più ampiamente affrontata. Lo stesso vale per la sua gestione della guerra, che era legata alla sua sopravvivenza politica.
Tuttavia, c’è un altro aspetto che merita di essere esaminato più da vicino: il suo curriculum in politica estera. Dopo tutto, si tratta di un uomo che ha costruito una carriera sulla falsa premessa di essere un astuto statista, sostenendo ancora oggi che la sua esperienza è fondamentale per vincere la guerra.
Anche i suoi critici più severi sono caduti in questa trappola e, pur criticandolo politicamente, hanno mostrato un’inspiegabile venerazione per il suo acume nelle relazioni estere contro ogni evidenza.
Diamo un’occhiata al suo curriculum. Ci sono sette errori fondamentali e concettuali di politica estera che ha commesso nel corso degli anni.
Il primo – e la sua fama – è l’Iran. Le sue critiche all’accordo sul nucleare iraniano (noto anche come JCPOA) e il suo discorso al Congresso degli Stati Uniti nel 2015 contro il presidente Barack Obama e il vicepresidente Joe Biden sono state accompagnate da promesse di “un accordo migliore”, che ovviamente non ha mantenuto. Ha isolato Israele, rendendo di fatto l’Iran una questione israeliana agli occhi del mondo.
Poi, nel 2018, ha incoraggiato l’allora presidente Donald Trump a ritirarsi dall’accordo, non riuscendo a proporre una politica sostitutiva. Il risultato: l’Iran, sotto il suo controllo, ha arricchito più uranio e accumulato più materiale fissile che mai, diventando praticamente uno Stato sulla soglia nucleare.
In secondo luogo, il suo sostegno all’invasione statunitense dell’Iraq. Nel 2002, fuori dal governo, si presentò a un’audizione alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti e spiegò che rovesciare Saddam Hussein avrebbe avuto un “riverbero” positivo in tutto il Medio Oriente e avrebbe contribuito alla stabilità e alla democratizzazione. Il risultato: lo Stato Islamico.
Terzo, Hamas. La sua “strategia” di rafforzare Hamas, consentendogli di incanalare centinaia di milioni di dollari per indebolire l’Autorità Palestinese e dimostrare che nessun processo politico è sostenibile, ha creato in Israele la falsa impressione che Hamas fosse scoraggiato, avverso al rischio e impegnato a governare Gaza. Per quanto riguarda i palestinesi in generale, per 14 anni (esclusi i 18 mesi del 2021-2022 in cui non è stato primo ministro), ha clamorosamente trascurato, ignorato e liquidato la questione palestinese.
Da quando ha formato il suo nuovo governo nel dicembre 2022, si è impegnato ad annettere ampie zone della Cisgiordania. Il risultato: il 7 ottobre.
Quarto, l’Arabia Saudita. Prima ha elaborato una teoria errata secondo cui un asse israelo-saudita sarebbe il nucleo di una coalizione musulmana israelo-sunnita contro l’Iran (sciita). Cosa è successo? Un riavvicinamento saudita-iraniano mediato dalla Cina. Poi ha rielaborato e reintrodotto un’interpretazione del conflitto arabo-israeliano, sottolineando che i palestinesi, contrariamente a quanto il mondo ha creduto per decenni, non sono realmente il centro del conflitto. Pensava di poter stringere accordi di pace con l’Arabia Saudita ignorando e marginalizzando totalmente i palestinesi. Il risultato: il 7 ottobre.
Quinto, le relazioni con gli Stati Uniti, il principale alleato di Israele. Gli Stati Uniti forniscono a Israele 3,8 miliardi di dollari di aiuti militari ogni anno (oltre 150 miliardi di dollari in totale nel corso degli anni) ed estendono un vasto ombrello diplomatico che protegge Israele nei forum internazionali.
Netanyahu, che si è sempre immischiato e ha manipolato la politica interna degli Stati Uniti, è riuscito in modo impressionante a trasformare Israele in un tema controverso a Washington, in contrasto con decenni di sacrosanto sostegno bipartisan.
Lo ha fatto deliberatamente allineandosi ai repubblicani, e in particolare alla loro base elettorale cristiana evangelica, e allontanando i democratici. Questo ha portato a frequenti attriti e animosità con i presidenti democratici Clinton, Obama e Biden.
Inoltre, e soprattutto, attraverso il rozzo e autoritario colpo di Stato costituzionale che ha lanciato a gennaio, ha preso le distanze dal concetto di “valori condivisi” che sta alla base delle relazioni tra Stati Uniti e Israele.
Ha preso le distanze anche dal Presidente Biden, una tendenza esacerbata dalla sua crescente affinità con autoritari come il Presidente russo Vladimir Putin, il Primo Ministro ungherese Viktor Orbán, l’allora Presidente brasiliano Jair Bolsonaro e altri. Il risultato: oltre la metà degli elettori democratici è critica nei confronti di Israele e di Biden per il suo sostegno percepito come sbilanciato verso Israele durante la guerra.
Sesto, la Russia. Venerdì, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la Russia ha accusato Israele di “crimini di guerra”, sostenendo che la strategia bellica di Israele è “disumana”. È un’affermazione coraggiosa per un Paese che ha barbaramente invaso l’Ucraina e che da quasi due anni bombarda e lancia missili senza sosta.
Ma non dimentichiamo che Netanyahu ammira Putin e considera il rapporto che ha magistralmente intrecciato con lui come “di un’altra lega”, come proclamavano gli enormi striscioni della campagna elettorale del 2019. In seguito si è rifiutato di sostenere l’Ucraina, una politica moralmente depravata e politicamente sciocca che, a dire il vero, è iniziata con il governo di Naftali Bennett. Il risultato: La Russia è una parte centrale dell’asse iraniano in Medio Oriente.
Settimo, la Cina. Pochi mesi prima dell’inizio della guerra, Netanyahu ha affermato di essere stato cordialmente invitato a visitare Pechino. La dichiarazione è stata seguita da una fonte senior dell’Ufficio del Primo Ministro che ha spiegato che “questo è un segnale a Biden che Israele ha altre opzioni”, sullo sfondo del fatto che Biden ha evitato di invitarlo alla Casa Bianca. Il risultato: Nessuna visita in Cina e un atteggiamento cinese di stallo nei confronti della guerra di Gaza.
Questo record abissale è di per sé una ragione giustificabile per le dimissioni di Netanyahu? Senza dubbio. Lo farà? No. Ma quando sarà politicamente incriminato, questi dati dovranno essere messi in evidenza.
Alon Pinkas per “Haaretz”
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Dicembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
L’ULTIMO SCAZZO È SUL SUPERBONUS, CON FORZA ITALIA CHE RILANCIA LA PROPOSTA DI UNA PROROGA E FRATELLI D’ITALIA CHE SEGUE A RUOTA. A ENTRAMBI, SI È OPPOSTO IL MURO DI GIORGETTI, CONTRARIO A NUOVE SPESE PER NON IRRITARE ANCORA L’EUROPA… DI RINVIO IN RINVIO, CON IL PROBABILE VOTO TRA NATALE E CAPODANNO, SI AGITA LO SPETTRO DELL’ESERCIZIO PROVVISORIO
L’altolà lo impone Giancarlo Giorgetti. Tre righe, veicolate attraverso un comunicato del ministero dell’Economia, per fermare l’ipotesi di una proroga del Superbonus. Il riferimento diretto è alle ricostruzioni che al mattino compaiono sulla stampa. Ma il messaggio è a Forza Italia. Che ieri ha rilanciato la proposta, già bocciata più volte dal Mef, per allungare il 110%. Ad aprile, per i condomini che al 31 dicembre di quest’anno saranno in grado di certificare un avanzamento dei lavori pari ad almeno il 60%.
La nota del Tesoro arriva negli stessi minuti in cui uno dei relatori alla Finanziaria, Guido Liris (FdI), annuncia un’altra proposta sul Superbonus. Allo studio c’è un emendamento dei relatori “non in termini di proroga, ma di Sal (stato di avanzamento dei lavori ndr) straordinaria, al 31 dicembre”. In pratica si darebbe ai condomini la possibilità “di arrivare ai primi dieci giorni di gennaio 2024 con tutta la documentazione per salvaguardare l’agevolazione sui lavori fatti entro fine anno”.
Anche Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, prova quindi a riaprire il dossier Superbonus. Ma Giorgetti, nelle ultime ore, avrebbe ribadito il concetto: niente emendamenti che prevedono una spesa, i saldi della manovra sono chiusi. E sono quelli inviati a Bruxelles.
La tensione intorno alla legge di bilancio resta altissima. I lavori in commissione Bilancio sono fermi. La seduta mattutina finisce peggio di quella di ieri, quando le opposizioni hanno denunciato il rischio dell’esercizio provvisorio, evocando la presenza al Senato di Giorgetti.
Non c’è ancora l’’emendamento del governo sugli investimenti, che comprende anche una rimodulazione dei fondi per il Ponte sullo Stretto. Quelli dei relatori sono addirittura da scrivere.
Le opposizioni non ci stanno. La senatrice del Pd Beatrice Lorenzin sbotta: “Non è possibile andare avanti così, abbandoniamo i lavori”. I 5 stelle, Italia Viva e Avs si uniscono alla protesta. I senatori della maggioranza restano qualche minuto in sala Koch, poi prendono atto dell’impasse. I colleghi delle opposizioni insistono. “Se la maggioranza pensa di tenerci così e giocare col Parlamento stile risiko, qui non si fa così, non è risiko nè Monopoli”, aggiunge Lorenzin.
Ma a sei giorni dalla scadenza, rinviata già tre volte, la Finanziaria è impantanata in commissione. E a Montecitorio, dove in mattinata circola l’ipotesi di un incontro tra la premier e i capigruppo della maggioranza, poi smentita, i deputati sono già rassegnati a tornare in aula tra il 27 e il 30 dicembre. A votare la manovra a un passo dall’esercizio provvisorio.
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