Dicembre 20th, 2023 Riccardo Fucile
FRANCIA E GERMANIA TROVANO L’ACCORDO SUL NUOVO PATTO DI STABILITA’, L’ITALIA SI ACCODA A MALINCUORE… POCHE LE CONCESSIONI A NOSTRO FAVORE, IL TEDESCO LINDNER E’ IL VEO VINCITORE DI UNA PARTITA CHE PER L’ITALIA NON E’ MAI INIZIATA… LA MELONI IN EUROPA NON CONTA UNA MAZZA, ALTRO CHE MINACCIARE VETI
La dinamica sul come si è arrivati al sospirato accordo sul nuovo Patto di stabilità e crescita si capisce anche dai tempi, oltre che dai modi, di reazione.
I ministri finanziari di Francia e Germania esultano un minuto dopo la fine della riunione straordinaria dell’Ecofin, oggi in videoconferenza. “Le nuove regole di bilancio per i Paesi membri dell’Ue sono più realistiche ed efficaci allo stesso tempo. Combinano cifre chiare per deficit inferiori e rapporti debito/Pil in calo con incentivi per investimenti e riforme strutturali. La politica di stabilità è stata rafforzata”, dice il tedesco Christian Lindner.
“Dopo due anni di negoziati abbiamo raggiunto un accordo storico a 27 sulle nuove regole del Patto di stabilità e crescita. È un’ottima notizia per la Francia e per l’Europa perché garantirà la stabilità finanziaria e il buon andamento dei conti pubblici in tutta Europa negli anni a venire”, festeggia il francese Bruno Le Maire, in un video messaggio subito dopo la riunione con i colleghi europei.
Giancarlo Giorgetti ci mette un po’ di più per trovare le parole adatte a spiegare perché, dopo le minacce di usare il veto per bloccare una riforma non convincente, dopo la dichiarazione sull’inopportunità di chiudere un accordo così storico in videoconferenza, il governo Meloni ha deciso di dire sì.
Il ministro dell’Economia non esulta. Più che esaltare l’intesa, Giorgetti lascia intendere che Roma non se l’è sentita di usare il veto. Anzi, a giudicare dal bottino magro che l’Italia porta a casa in termini di flessibilità e fine della contestata austerity che ha segnato l’Ue degli ultimi anni, la scelta di approvare l’accordo chiuso ieri sera da Lindner e Le Maire a Parigi è maturata più per l’opportunità di evitare l’effetto stigma che un no avrebbe avuto sull’Italia, sulla premier e il suo governo, che per la convinzione di aver ottenuto un buon compromesso.
E così Giorgetti si limita a sottolineare che nel nuovo Patto di stabilità ”ci sono regole più realistiche di quelle attualmente in vigore”. Ma poi lascia intravedere tutto il suo scetticismo: “Le nuove regole naturalmente dovranno sottostare alla prova degli eventi dei prossimi anni che diranno se il sistema funziona realmente come ci aspettiamo”.
L’ammissione: “Ci sono alcune cose positive e altre meno. L’Italia ha ottenuto però molto e soprattutto quello che sottoscriviamo è un accordo sostenibile per il nostro Paese volto da una parte a una realistica e graduale riduzione del debito mentre dall’altra guarda agli investimenti specialmente del Pnrr con spirito costruttivo”. Di fatto, “abbiamo partecipato all’accordo politico per il nuovo patto di stabilità e crescita con lo spirito del compromesso inevitabile in un’Europa che richiede il consenso di 27 Paesi’’.
Più chiaro di così. Pur avendo considerato di dire no, Roma non poteva sottrarsi. Del resto, da ieri, quando Lindner ha deciso di partire per Parigi per chiudere l’intesa con Le Maire, è partito anche un deciso pressing sull’Italia, spalle al muro affinché non si assumesse la responsabilità di far saltare l’accordo e riportare in vigore le vecchie regole sospese per pandemia.
E dunque, tra il sì con poco incasso e un no con conseguenze incalcolabili ma potenzialmente gravi per un governo sovranista che cerca di farsi strada in Ue, Giorgetti, d’accordo con la premier, ha scelto la prima via. “Consideriamo positivo il recepimento delle nostre iniziali richieste di estensione automatica del piano connessa agli investimenti del Pnrr, l’aver considerato un fattore rilevante la difesa, lo scomputo della spesa per interessi dal deficit strutturale fino al 2027”, elenca il titolare del dicastero di via XX Settembre.
In effetti, l’Italia non ha ottenuto molto di più. Il primo punto, quello relativo agli investimenti del Pnrr, è forse la concessione più significativa. Per difenderli, insieme alle riforme richieste dal piano di ripresa e resilienza, Roma potrà programmare il piano di aggiustamento in 7 anni piuttosto che nei canonici 4 previsti dalla riforma. L’estensione è automatica. Ma qui finiscono le buone notizie.
Un altro scampolo di flessibilità riguarda le spese nel settore ‘difesa’. Ma non si tratta dello scomputo chiesto da Giorgetti e inizialmente anche dal collega francese Le Maire. La difesa figura solo tra i ‘fattori rilevanti’ che possono consentire ad uno Stato con alto debito come l’Italia di evitare la procedura per squilibri eccessivi, situazione nella quale Roma si ritroverà sicuramente in primavera, insieme a Parigi.
Solo per gli interessi sul debito c’è un vero e proprio scomputo dal calcolo del deficit, ma solo per tre anni, dal 2025 al 2027. Qui l’aspettativa europea è che i tassi di interesse si abbasseranno prossimamente, dopo l’impennata decisa dalla Bce per combattere l’inflazione. Giorgetti ne è meno convinto. Infatti inizialmente insieme a Le Maire chiedeva che la golden rule sugli interessi fosse permanente. Non è andata.
Lindner è il vincitore della partita sulle nuove regole fiscali dell’Ue, che entreranno in vigore “prima delle europee”, sottolinea il vice presidente della Commissione Ue Valdis Dombrosvkis. La Germania è riuscita a stravolgere la proposta iniziale di Bruxelles, che era improntata su una flessibilità decisamente maggiore. Anzi, quella del commissario Paolo Gentiloni era una proposta nata proprio dalla critica e dal revisionismo degli anni in cui l’austerity ha sferzato la Grecia, scandendo il ritmo della crisi del debito di Atene.
Fino alla guerra in Ucraina sembrava che questa impostazione fosse condivisa anche a Berlino. Ma sono arrivati gli impegni di spesa per Kiev, i costi della transizione energetica sono aumentati, l’estrema destra di Alternative fur Deutschland ha conquistato la vetta dei sondaggi a danno dei partiti di governo.
In Germania l’opinione pubblica fa sempre meno sconti ai paesi ad alto debito, a stento è disposta ad accettare la scelta obbligata del governo federale di sospendere il freno all’indebitamento per necessità domestiche. Lindner è diventato il mastino della trattativa sul Patto di stabilità.
Il liberale tedesco è riuscito a ottenere percentuali fisse di riduzione del debito annuali per i paesi con un deficit sotto il 3 per cento: devono ridurre il debito dell’1 per cento se superano il 90 per cento in rapporto al pil, dello 0,5 per cento per chi supera la soglia del 60 per cento. Numeri che non c’erano nella proposta di Gentiloni.
Su questo punto, il dibattito tra i ministri finanziari dell’Ue è stato molto accesso alla riunione informale dell’Ecofin in Svezia, la scorsa primavera, durante il semestre di presidenza svedese dell’Ue, quando Giorgetti voleva una “golden rule per tutti gli investimenti chiesti dall’Europa”, dal verde, al digitale, la difesa, il sociale.
Parole rimaste tali. L’unico sconto è che la salvaguardia sul debito non si applica a chi deve ancora ridurre il deficit sotto il 3. In questo caso, i paesi interessati devono rispettare anche la salvaguardia sul debito. Anche su questo Lindner ha colpito. Oltre che sul debito, è riuscito a ottenere anche un’altra limitazione che riguarda il deficit: 1,5 per cento è la soglia di salvaguardia che di fatto diventa la nuova regola. I paesi che sono sotto il 3 per cento di deficit dovrebbe avvicinarsi all’1,5 per garantire che in tempi di malaugurato shock economico non si superi il 3 per cento.
Complicatissimo per l’Italia, cui è concesso l’unico respiro di sollievo dello scomputo degli interessi sul debito dal deficit. Un’altra piccola boccata d’aria arriva dalla riduzione dell’aggiustamento sul deficit da 0,4 per cento a 0,25 per cento in considerazione di riforme e investimenti. Di fatto, spiegano i tecnici, all’Italia verrebbe chiesto uno “0,5 per cento di aggiustamento sul deficit in termini strutturali, ma poi c’è lo scomputo del costo degli interessi sul debito e le altre voci…”.
Ecco perché Dombrovskis non si sbilancia. “Sarà l’Italia a stabilire il suo percorso strutturale di bilancio, la Commissione fornirà una traiettoria tecnica, prima che venga presa la decisione sull’approvazione” del bilancio, spiega Dombrovskis in conferenza stampa. Il raggiungimento del fatidico 1,5 per cento del deficit da parte italiana, “dipende anche dalla situazione esatta dello stesso deficit di bilancio, se è sopra o sotto il 3 per cento”, abbozza il vicepresidente della Commissione europea. “Ci sono tanti parametri per cui non è possibile ora dare una risposta semplice” sullo sforzo fiscale che l’Italia sarà chiamata a fare nei prossimi anni, “dobbiamo completare il lavoro a livello di procedura. Non entrerei ora nelle cifre specifiche perchè il sistema presenta tutta una serie di parametri. Ciò che posso dire in termini di processo è che se le cose ora vanno secondo il piano, e penso che dopo oggi possiamo avere più fiducia, avremo regole fiscali durante questo ciclo politico, prima delle elezioni europee. Poi la Commissione europea fornirà le linee guida fiscali per il 2025 agli Stati membri già sulla base delle nuove regole e quello sara’ il momento in cui saremo in grado di fornire una risposta in termini quantitativi” alla domanda sullo sforzo fiscale che l’Italia dovrà compiere.
“Nonostante le differenze significative rispetto alla nostra proposta, le nuove regole garantiscono un migliore equilibrio tra stabilita’ e crescita con incentivi per gli investimenti e le riforme e una maggiore titolarità. E’ una buona notizia per l’economia europea”, si limita a dire Gentiloni. “Per la prima volta in 30 anni questo Patto di stabilità riconosce l’importanza degli investimenti e delle riforme strutturali” che saranno “essenziali nei prossimi decenni”, evidenzia Le Maire. Anche Parigi ha problemi di alto deficit e debito, anche se minori che l’Italia. Eppure la Francia esalta l’accordo, perché nel frattempo ha ottenuto il disco verde di Berlino su una questione prioritaria per i francesi: il nucleare come energia pulita, dunque possibile oggetto di sovvenzioni e aiuti di Stato. Roma è finita nell’angolo. Non quello del veto, ma quello di una trattativa finita male o forse mai iniziata davvero, visto che è stata condotta principalmente dalla Francia e dalla Germania.
(da Huffingtonpost)
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Dicembre 20th, 2023 Riccardo Fucile
UN ALTRO EPISODIO CHE ATTESTA IL SENSO DELLE ISTITUZIONI DELLA CORTE DEI MIRACOLATI … IL BELLO E’ CHE IL SINDACO E’ PURE DI CENTRODESTRA
Tensione alle stelle in Consiglio comunale. Il consigliere Giuseppe Milazzo, al culmine di un’accesa discussione, stamattina è saltato sul tavolo della presidenza di sala Martorana, a Palazzo Comitini, provando anche a strappare il microfono dalle mani del vicepresidente vicario Giuseppe Mancuso, che in quel momento stava guidando l’assise, in assenza del presidente Giulio Tantillo.
Una scena che fotografa il momento attuale della maggioranza che non riesce a mettere in calendario i lavori d’aula. Tra regolamento della movida, riconoscimento della genitorialità, Imu, Irpef, Tari, variazioni di bilancio la carne al fuoco è tanta e non si riesce a trovare un accordo su quale delibera discutere prima.
In questo contesto oggi è nato il diverbio tra Milazzo e Mancuso, col primo che in assenza di presidente e vice, si è ritrovato da consigliere anziano per voti a chiamare l’appello e, una volta constatata la mancanza del numero legale, a dichiarare chiusa la seduta.
Successivamente Mancuso, però, è rientrato in aula e ha deciso di richiamare l’appello, suscitando le proteste di Milazzo che prima ha invocato un “richiamo alla legge” e poi è balzato sulla cattedra, colpendo anche la mano di Mancuso che stava reggendo il microfono. “Tu devi essere corretto”, ha gridato Milazzo. “Tu ha calar’i manu”, ha risposto Mancuso, invitando il collega con un’espressione dialettale a togliere le mani di dosso.
“Seduta odierna del Consiglio comunale di Palermo, una sola parola: vergogna”, scrive su Facebook Leopoldo Piampiano, consigliere di Forza Italia. “Questo è il livello umano e politico espresso dalla maggioranza che oggi guida la nostra città a sostegno del sindaco Lagalla.
Solidarietà alle consigliere e ai consiglieri di Progetto Palermo, del Partito Democratico e dei 5 Stelle, che cercano di mantenere il decoro istituzionale “con scrupolo e coscienza”, profanato quotidianamente da questa brutta Destra al governo”, afferma sempre sui social Valentina Chinnici, ex consigliera di Progetto Palermo che si è dimessa a febbraio scorso per ricoprire l’incarico di deputata all’Ars.
(da agenzie)
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Dicembre 20th, 2023 Riccardo Fucile
LAV: “FUGATTI INCASSA LA PRIMA SCONFITTA”… L’11 GENNAIO L’UDIENZA PER DECIDERE IL TRASFERIMENTO DI JJ4 NEL SANTUARIO IN ROMANIA
Il Tar di Trento ha sospeso i giudizi relativi all’abbattimento degli orsi JJ4 e MJ5, rimettendo gli atti alla Corte di giustizia europea. Resta fermo — quindi — il provvedimento di cattura di entrambi gli esemplari: nel primo caso, JJ4 è attualmente rinchiusa al centro di recupero faunistico del Casteller di Trento, ed è responsabile dell’aggressione mortale del 26enne Andrea Papi mentre faceva running sui sentieri del monte Peller.
Nel secondo, invece, MJ5 —ancora libero — si sarebbe reso responsabile dell’aggressione di Alessandro Cicolini, escursionista in passeggiata con il suo cane nei boschi di Malè, in Val di Rabbi.
Il Tribunale amministrativo regionale era chiamato a sentenziare sul futuro dei plantigradi considerati «problematici» su cui pendono due diverse ordinanze di abbattimento firmate dal presidente della Provincia, Maurizio Fugatti.
«Siamo felici di questo nuovo, eccezionale risultato che ancora una volta salva la vita di due orsi condannati a morte, mentre Fugatti incassa la prima sconfitta a poche settimane dalla sua rielezione», dichiara Massimo Vitturi, responsabile Lav- Animali Selvatici.
«Grazie al ricorso depositato dalla Lav, il Tar di Trento ha anche deciso di chiarire, rimettendo nelle mani della Corte di Giustizia europea, l’interpretazione del principio di proporzionalità e gradualità rispetto alla scelta delle azioni previste dall’Accordo interregionale Pacobace (Piano d’azione interregionale per la conservazione dell’orso bruno nelle Alpi centro-orientali) nei confronti degli orsi considerati problematici o pericolosi», aggiunge.Ora l’attenzione si sposta sull’udienza del Tar di Trento dell’11 gennaio 2024, nella quale si deciderà finalmente del trasferimento di JJ4 nel santuario in Romania a spese esclusive della Lav. Dopo le «continue sconfitte giudiziarie subite dal “metodo Fugatti”, chiediamo alla vicepresidente Gerosa un suo autorevole intervento per riportare un po’ di raziocinio nelle sale della Provincia, sospendendo le attività di cattura di MJ5 e avviando una fase di confronto per aprire una nuova stagione fondata sulla convivenza pacifica con gli orsi», conclude la Lav.
Se da una parte «siamo soddisfatti che le conclusioni del Tar sul nostro ricorso permettano la sospensione dell’uccisione degli orsi JJ4 e MJ5», dall’altra «ci sorprende la decisione assunta di rimettere alla Corte di Giustizia Europea gli atti relativi agli orsi JJ4 e MJ5», scrivono in un comunicato congiunto Enpa, Leidaa e Oipa.
Il Consiglio di Stato — ricordano — «era intervenuto concedendo la sospensiva da noi richiesta rispetto a decisioni, appunto, irreparabili. Ma anche i fatti erano a nostro parere: MJ5 era stato sorpreso alle spalle, in un luogo isolato, di mattina molto presto, da un uomo accompagnato da un cane, fattore causa di grande stress per gli orsi e in generale per gli animali selvatici. Così nella vicenda di JJ4, con la tragica morte di Papi, l’orsa, accompagnata dai suoi cuccioli, si trovava in un luogo parimenti isolato e in una curva cieca. Non c’erano le condizioni per procedere né all’uccisione né alla cattura dei due orsi». Senza dimenticare di sottolineare come JJ4 debba «essere destinato a una struttura più adatta, che assicuri condizioni di vita consone alle sue esigenze etologiche».
(da Il Corriere della Sera)
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Dicembre 20th, 2023 Riccardo Fucile
NEL PRIMO GIORNO DELLA NUOVA MISURA INTRODOTTA DOPO L’ABOLIZIONE DEL REDDITO DI CITTADINANZA PRESENTATE SOLO 106.604 DOMANDE
Per il governo è un successone. In realtà i dati sono piuttosto esigui e segnano una partenza decisamente a rilento del Reddito di Inclusione. Alle 13 di ieri risultavano acquisite dal nuovo Sistema informativo per l’inclusione sociale e lavorativa, 106.604 domande di “assegno di inclusione”.
Di queste, 50.026 istanze sono state presentate in autonomia dai cittadini attraverso il portale dell’Inps, mentre quelle inviate per il tramite dei Patronati risultavano essere 56.578. Lo ha reso noto il ministero del Lavoro, guidato oggi da Marina Calderone. Il numero delle domande presentate da nuclei familiari già percettori di Reddito di Cittadinanza è pari a 96.192 istanze.
Al di là dei dettagli, però, è bene ribadire il numero complessivo delle domande: 106.604. Se consideriamo gli oltre 2,5 milioni di italiani che invece percepivano il Reddito di cittadinanza, si capisce la profonda distanza. E, anche e soprattutto, come più di qualcosa probabilmente non torni nei calcoli del governo. Il punto, infatti, è – checché ne dica la ministra – c’è il serio rischio di lasciare a casa, e senza lavoro, 900 mila famiglia italiane, come sottolineato anche da Bankitalia. Dunque non proprio un’associazione sovversiva e di opposizione.
“Si stima che i requisiti anagrafici ed economici più restrittivi dell’AdI riducano la platea dei potenziali beneficiari da 2,1 a 1,2 milioni rispetto all’RdC”, è scritto, è scritto per nel report di Palazzo Koch.
Dinanzi al quale, però, la ministra ha risposto picche. In maniera puntuale e dati alla mano? Niente affatto. Ha semplicemente spiegato: “Non sono affatto convinta dell’analisi fatta da Bankitalia”.
Tanto che ci si attenderebbe una smentita dati alla mano. Non proprio: “Si tratta di serie numeriche di cui non è enunciata la metodologia di rilevazione“, ha continuato Calderone, che ha condiviso una sua “sensazione”.
Parole che, secondi molti analisti, sanno di giustificazione e nulla più. Anche perché i dati dicono decisamente altro.
Come noto, la narrazione di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia si basa sul fatto che nel nostro Paese gli occupati aumentano anche grazie all’abolizione del Reddito di cittadinanza. Tutto falso, in realtà.
A far notare il dettaglio è stato il presidente di Adapt Francesco Seghezzi: “Un dato interessante – ha scritto su X – è il calo del tasso di occupazione per chi ha il titolo di studio più basso” che “cozza con l’idea che gli ex percettori di reddito di cittadinanza possano aver trovato lavoro al termine del sussidio”.
ASSEGNO DI… ESCLUSIONE. CALDERONE LASCIA 900MILA FAMIGLIE ALLA FAME
Come sottolineato già dal nostro giornale alcuni giorni fa, difatti, dall’ultimo aggiornamento Istat si evince che rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso il tasso di occupazione di chi ha come titolo di studio la licenza media ha fatto registrare una diminuzione dello 0,4% per gli uomini e dello 0,1% per le donne. Come noto, nel 70,8% dei casi i percettori del Reddito “occupabili” non vanno oltre la terza media: se la tesi della destra fosse stata vera, dunque, avremmo dovuto leggere tutt’altre cifre.
Insomma, trattasi di una fake news che fa il paio con quella che alcuni meloniani vanno ripetendo dopo l’intervista a Dg dell’Inps Vincenzo Caridi. Quest’ultimo ha rilevato che il Reddito di cittadinanza è costato in tutto 34 miliardi di euro a fronte di 1.500 contratti “agevolati” sottoscritti dai beneficiari. Tali contratti sono solo quelli che gli imprenditori hanno attivato sfruttando gli sgravi contributivi previsti dalla legge istitutiva del Reddito; non stiamo parlando, quindi, del totale delle assunzioni degli stessi beneficiari. Balle, insomma. E nulla più. I numeri, argomenti testardi, dicono tutt’altro.
(da La Notizia)
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Dicembre 20th, 2023 Riccardo Fucile
MEDIAMENTE IN UE SI SPENDONO 3.562 EURO PRO CAPITE PER LA SANITA’, IN ITALIA SOLO 2.837
L’accesso alla sanità, di tipo curativo ma anche preventivo, è uno dei diritti fondamentali riconosciuti dall’Unione europea e tutti gli stati membri dovrebbero garantire dei servizi gratuiti e di qualità ai propri cittadini.
Ancora oggi però si possono notare ampi divari da questo punto di vista. Nei paesi dell’Europa occidentale e settentrionale la spesa sanitaria è elevata ed è in buona parte direttamente gestita dallo stato piuttosto che privatamente. Mentre nell’Europa meridionale e orientale è ancora bassa e pesa fortemente sulle famiglie.
Quanto spendono i paesi europei per la sanità
In termini assoluti la Germania è il primo paese nell’Unione europea per spesa sanitaria: quasi 466 miliardi di euro nel 2021. Segue la Francia con circa 308 miliardi e poi l’Italia con circa 168. Ultimi invece alcuni piccoli stati come Malta, Cipro e Lussemburgo, ma anche le repubbliche baltiche e alcune nazioni dell’Europa centrale (in particolare Croazia e Slovenia). Mediamente, in un anno si parla di circa 3.500 euro per abitante.
3.562 euro pro capite, la spesa sanitaria media in Ue (2021).
Tuttavia la situazione appare molto diversificata. In generale, i paesi dell’Europa occidentale e settentrionale, con livelli più elevati di sviluppo economico, una maggiore ricchezza interna e, in alcuni casi, una tradizione di stato sociale, registrano valori pro capite più elevati. Si può inoltre notare che i divari cambiano se si considerano le uscite in rapporto al prodotto interno lordo (Pil).
I dati si riferiscono al rapporto tra spesa sanitaria e prodotto interno lordo e popolazione residente . Sono considerati tutti gli schemi di finanziamento della spesa sanitaria: quello pubblico, le assicurazioni sanitarie e la spesa privata delle famiglie.
La Germania registra, ancora una volta, il valore più elevato: il rapporto tra spesa sanitaria e Pil sfiora il 13%. Seguono Francia e Austria, anch’esse sopra il 12%. All’ultimo posto invece si trova il Lussemburgo (5,7%, per via del suo prodotto interno lordo molto elevato), alcuni paesi dell’est Europa (in particolare Polonia e Romania) e l’Irlanda, con meno del 7%.
Se invece consideriamo le uscite in rapporto agli abitanti, il Lussemburgo, ultimo come abbiamo detto per spesa in rapporto al Pil, arriva al primo posto con oltre 6mila euro pro capite. Seguono due paesi scandinavi (Danimarca e Svezia, con rispettivamente 6.223 e 5.813 euro pro capite). Ultime Bulgaria, Romania e Polonia con valori inferiori a mille.
L’Italia è sotto la media Ue.
Per quanto riguarda l’Italia, si trova al di sotto della media europea in entrambi i casi. Il rapporto tra spesa sanitaria e Pil si attesta, nel nostro paese, al 9,2%, contro una media pari al 10,9%. Le uscite pro capite invece sono di 2.837 euro, inferiori ai già citati 3.562.
Quanto pesa la sanità sui bilanci familiari
In Europa la sanità è perlopiù gestita a livello pubblico. Nei dati analizzati abbiamo considerato tutti gli schemi di finanziamento, che comprendono sia la sanità nazionale (finanziata grazie alla tassazione) che le assicurazioni private che le spese effettuate direttamente dai cittadini per le singole prestazioni.
Complessivamente oltre l’80% delle uscite in questo settore sono riconducibili a finanziamenti statali, anche se la quota varia passando dall’86% di Repubblica Ceca e Lussemburgo fino al 62% della Grecia.
Ma i costi per le famiglie sono notevoli. Mediamente in Ue parliamo del 14,5%: più di 231 miliardi di euro che le famiglie spendono direttamente, senza l’intermediazione di assicurazioni, per ottenere servizi sanitari.
In Bulgaria e Grecia la quota di spesa sanitaria che proviene direttamente dalle famiglie pesa per oltre il 33% del totale. L’Italia, con il 21,9%, è anch’essa ben al di sopra della media Ue (14,5%), mentre agli ultimi posti si trovano Lussemburgo e Francia, entrambi con l’8,9%.
(da OpenPolis)
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Dicembre 20th, 2023 Riccardo Fucile
IL PRINCIPIO DELLA “SOLIDARIETA’ OBBLIGATORIA”: TUTTI I PAESI UE SARANNO OBBLIGATI A DARE UN CONTRBUTO A CHI E’ MAGGIORMENTE ESPOSTO AI FLUSSI
«Il 20 dicembre 2023» passerà alla storia, dice la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola. Le tre istituzioni dell’Unione europea hanno infatti trovato l’accordo su una delle riforme più difficili, più importanti e più attese di questa legislatura, dopo che il tentativo era fallito durante la precedente: il Patto migrazione e asilo, vale a dire l’insieme di norme che regoleranno la gestione interna dei flussi, i controlli alle frontiere e anche la solidarietà tra gli Stati membri, modificando le disposizioni di Dublino.
L’elemento più importante è infatti l’introduzione di una «solidarietà obbligatoria»: tutti i Paesi Ue saranno obbligati a dare un contributo a chi è maggiormente esposto ai flussi, anche se potranno scegliere se accogliere i richiedenti oppure versare un contributo finanziario. Secondo Ursula von der Leyen, presidente della Commissione, le nuove norme «proteggono chi ha bisogno», ma al tempo stesso «saranno gli europei a decidere chi arriva e chi può restare nell’Ue, non i trafficanti».
Il Patto è un pacchetto formato da cinque diversi regolamenti. Il primo riguarda appunto le misure di solidarietà per ridistribuire «l’onere» della gestione dei flussi. Accanto a questo, c’è anche un apposito regolamento sulle situazioni di crisi o di forza maggiore e che riguarda anche i casi di strumentalizzazione dei migranti da parte di Stati terzi oppure di attori non statali: in questo caso si rafforzano le misure di solidarietà, ma – al contrario di quanto chiedeva il Parlamento – non è prevista la ridistribuzione obbligatoria.
C’è poi il regolamento sulla «responsabilità», che fissa i doveri per i Paesi di primo ingresso e che introduce la procedura di frontiera, il sistema per l’esame accelerato delle domande d’asilo.
Il regolamento sullo screening stabilisce invece le modalità per l’identificazione dei migranti, attraverso controlli sanitari, di sicurezza e raccolta di dati biometrici. Quello su Eurodac riguarda invece la banca dati delle impronte digitali.
(da agenzie)
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Dicembre 20th, 2023 Riccardo Fucile
L’ESPEDIENTE DI PARAGONARE SOLO I CANALI GENERALISTI
“In queste settimane sono circolate delle vere e proprie “fake news”, che oltre a creare un danno ad un patrimonio comune a tutti gli italiani non rendono merito al lavoro straordinario dei tanti professionisti della Rai”. Lo ha detto l’amministratore delegato Rai, Roberto Sergio, in audizione in commissione di Vigilanza.
“Ad esempio, rispetto a quanto letto di frequente anche nelle ultime settimane circa i dati di ascolto, vogliamo ribadire, anche in questa sede, che, fonte Auditel, i canali generalisti Rai mantengono salda la leadership di ascolti sia da inizio anno che in questa stagione televisiva – ha sottolineato ancora -. Rai Uno, Rai Due e Rai Tre nel periodo autunnale (1° ottobre – 16 dicembre) stanno totalizzando una share complessiva pari a oltre 3 punti in più rispetto ai comparabili tre canali generalisti dei competitor (Rai 30,0% e il il principale competitor 26,7%). La leadership aumenta ulteriormente nella prima serata, difatti a fronte di uno share del 30,8% di Rai, il gap sale a quasi 5 punti. Primato che si conferma sia per l’intera giornata che per la prima serata anche sull’anno (nel periodo 1° gennaio – 16 dicembre le generaliste RAI sono al 30,4% e il principale competitor al 26,3%)”.
“Complessivamente, dunque non possiamo che essere soddisfatti di questi risultati – ha proseguito Sergio.
L’espediente nel diffondere i dati
Nonostante l’ottimismo di Sergio, la realtà sembra essere molto diversa. Intanto nel diramare i dati d’ascolto è stato deciso di proporre il paragone fra i soli canali generalisti (le tre reti, più Rainews24), escludendo i tematici dove la concorrenza di Mediaset – che ha più canali – è più forte.
Si tratta dell’espediente utilizzato da Viale Mazzini per mascherare la crisi d’ascolti, che invece esiste eccome.
Secondo l’elaborazione dello Studio Frasi su dati Auditel, nelle prime sette settimane della stagione autunnale (dal 10 settembre al 28 ottobre) Mediaset ha fatto meglio della Rai nell’arco dell’intera giornata: 38,45 a 35,37% di share, dunque più di 3 punti sopra.
(da agenzie)
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Dicembre 20th, 2023 Riccardo Fucile
IL PONTEFICE METTE LA PAROLA FINE ALLE POLEMICHE SUI FINANZIAMENTI CHE VESCOVI E SACERDOTI HANNO DESTINATO ALLE ONG E ALLE PERSECUZIONI GIUDIZIARIE DI GIUDICI POLITICIZZATI
“Saluto anche il gruppo di Mediterranea Saving Humans, che è qui presente, e che va in mare a salvare i poveretti che fuggono dalla schiavitù dell’Africa. Fanno un bel lavoro questi: salvano tanta gente, tanta gente”. Dopo un mese di attacchi più o meno velati a vescovi e sacerdoti che nel tempo hanno sostenuto l’ong, il “sigillo” sul loro operato arriva direttamente da Papa Francesco.
Al termine dell’udienza generale di questa mattina, il Pontefice ha deciso di salutare personalmente Luca Casarini, presente in sala Nervi insieme ad un gruppo di utenti del centro diurno di salute mentale di Napoli, che per il Pontefice ha realizzato un presepe. È uno dei tanti che i ragazzi realizzano e vendono, per poi devolvere il ricavato a Mediterranea e alle attività di salvataggio in mare con la sua Mare Jonio.
“Papa Francesco come sempre dimostra il nostro affetto per noi e dimostra di pensare alle cose concrete. Il Mediterraneo è sempre più un cimitero senza croci. Sono oltre 2500 i morti accertati da inizio anno, ma nella realtà sono molto di più. L’ultimo naufragio nei giorni scorsi poteva essere evitato. Dal rapporto dell’Onu di oggi arriva la conferma che la Libia non è un porto sicuro. Queste persone vengono torturate. I famosi trafficanti vanno cercando in quei governi che noi purtroppo finanziamo”, dice Casarini al termine dell’incontro con il Pontefice, che con una frase secca ha messo la parola fine ad ogni speculazione sui rapporti fra il Vaticano, i suoi vescovi e sacerdoti e la ong.
Relazioni e contatti su cui per non ben precisato motivo ha indagato la procura di Ragusa, che contro Casarini altri cinque fra membri dell’equipaggio e attivisti di Mediterranea, procede per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violazione di alcune norme del codice di navigazione.
Insomma, nulla che abbia a che fare con le fonti di finanziamento dell’organizzazione, tanto meno con i rapporti con preti e vescovi, ma nonostante questo finite al centro di note investigative, informative e brogliacci depositate agli atti di un procedimento non ancora arrivato all’udienza preliminare.
“Alcuni non li abbiamo neanche noi”, hanno denunciato i legali di Mediterranea, Serena Romano e Fabio Lanfranca, quando sulla stampa hanno iniziato a filtrare interi passaggi di quei documenti – tecnicamente ancora riservati – utilizzati per dare a intendere che quel flusso di donazioni fosse stato utilizzato per scopi molto personali da Casarini e altri esponenti di Mediterranea. Tutte bugie, hanno ribattuto dall’ong, che bolla tutto come un “atto di dossieraggio per condizionare l’esito del procedimento e attaccare il Papa”.
È finita con un esposto in procura, una richiesta di chiarimenti alla procura di Ragusa, mentre l’udienza preliminare – con il giudice chiamato a decidere se l’accusa sia stata in grado di mettere insieme elementi sufficienti per andare a processo – è stata rinviata a febbraio.
“Papa Francesco mi ha detto ‘Coraggio, andate, tornate in mare’”, spiega Casirini nel pomeriggio atteso all’Università gregoriana per parlare di Mediterranea e delle missioni di soccorso che negli anni sono state portate a termine.
Si ripartirà a breve, promettono dall’ong, che nel frattempo battaglia su un altro fronte giudiziario. Fermata e multata dopo l’ultima missione per non aver chiesto istruzioni e “porto sicuro” in Libia, quel provvedimento lo ha impugnato e lo discuterà in tribunale. Agli atti, ci sono anche le testimonianze dei 69 naufraghi soccorsi dall’equipaggio nel corso dell’ultima missione, che al medico di bordo e ai mediatori hanno raccontato di torture, violenze e abusi subiti in carceri e lager libici.
Una “mappa dell’orrore” che trova eco nell’ultimo rapporto della Nazioni Unite sulla Libia. “Durante una visita al centro di detenzione femminile di Judaydah, a Tripoli, il 13 agosto – spiega nel suo rapporto il segretario generale Antonio Guterres – Unsmil ha incontrato detenute che hanno riferito di essere state sottoposte a torture e maltrattamenti, violenza sessuale, isolamento e separazione dai figli”. Uno dei tanti lager libici, molti dei quali impossibili da monitorare per le agenzie internazionali che – si afferma nel report Onu – hanno poca o nulla possibilità di accesso nei “centri di detenzione per migranti sotto l’autorità del Ministero dell’Interno o nei centri di detenzione non ufficiali per immigrati sotto il controllo di gruppi armati”.
(da La Repubblica)
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Dicembre 20th, 2023 Riccardo Fucile
DOPO LA CONTESTATA GESTIONE DELL’ATTORE, CHE NEL 2014 SBORSO’ 7 MILIONI DI EURO PER RILEVARE IL TEATRO, IL GOVERNATORE DEL LAZIO SALDA I DEBITI DI BARBARESCHI USANDO I SOLDI PUBBLICI E ACQUISTANDO LA STRUTTURA AL TRIPLO DEL SUO VALORE: MAI VISTA UNA ROBA DEL GENERE
Un nuovo “salva Eliseo”. Il terzo in ordine cronologico. Ma qualcuno, nei corridoi della Regione Lazio, lo chiama già “salva Luca Barbareschi”, che da quasi due anni vorrebbe disfarsi del teatro ma non riesce.
E quindi nei meandri della legge di bilancio regionale, di soppiatto, viene infilato un emendamento che ha un peso di 24 milioni. Perché sono 24 i milioni che l’assessore al Bilancio Giancarlo Righini, firmatario del testo, vuole aggiungere in manovra per acquistare nel 2025 il teatro Eliseo di proprietà dell’attore romano.
Eletto nel 2008 deputato del Popolo della Libertà, Barbareschi ha poi seguito Gianfranco Fini in Futuro e libertà per poi approdare nel gruppo Misto. Da sempre, insomma, un esponente vicino al mondo della destra, ma anche un attore che nel 2014 ha deciso di comprare il complesso teatrale che si trova su via Nazionale, nel cuore di Roma.
Il costo era di sette milioni, come riepilogava lo stesso Barbareschi quando nel gennaio 2022 decise di venderlo. Il prezzo? Esattamente 24 milioni, quelli che oggi offre la Regione Lazio di Francesco Rocca per acquistarlo.
Tuttavia come riferiva l’attore sui social, ai sette milioni si sono aggiunti altri sette milioni per il restauro e quasi tre per coprire le perdite, per un totale di 17 milioni di euro. Ciononostante (e nonostante i 2,2 milioni percepiti dal Fondo unico per lo spettacolo in tre anni) il teatro nel 2017 aveva ancora il bilancio in rosso e rischiava di chiudere per fallimento.
Ed ecco che è sceso in campo il governo guidato da Paolo Gentiloni.
Con la manovra bis del 2017 sono stati assegnati al Teatro Eliseo quattro milioni di euro per ciascuno degli anni 2017 e 2018 «per spese ordinarie e straordinarie, al fine di garantire la continuità delle sue attività in occasione del centenario della sua fondazione».
Un contributo cosiddetto extra-Fus, perché le risorse sono attinte da fondi diversi da quello che ordinariamente sostiene il comparto dello spettacolo.
Anni dopo i giudici della Corte Costituzionale hanno ritenuto illegittimo questo finanziamento che poneva «un problema di differenziazione delle condizioni» tra operatori del mercato. Di questi soldi, comunque, non è mai tornato indietro nulla e malgrado ciò il complesso teatrale non ha navigato in buone acque, fino all’annuncio della vendita a cui però non hanno fatto seguito offerte.
(da La Repubblica)
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