Dicembre 11th, 2023 Riccardo Fucile
LA DUCETTA RISCHIA DI RESTARE COL CERINO ACCESO, L’UNICO PAESE CHE RISCHIA IL DEFAULT, DALL’ALTO DI UN DEBITO PUBBLICO MOSTRUOSO (2.844 MILIARDI DI EURO) SAREBBE L’ITALIA. E SENZA MES, I MERCATI LA PUNIREBBERO CON LO SPREAD IN SALITA
Dal 1 gennaio del 2024, se il governo Meloni non ratifica il Mes, tutti gli Stati membri dell’UE sarebbero senza ombrello di salvataggio in caso di default. Portando avanti, come se fosse al mercatino di Porta Portese, la contrattazione di scorporare nel Patto di Stabilità alcuni investimenti in cambio della ratifica del Fondo Salva Stati (Mes), l’Evita Peron di Colle Oppio rischia di rimanere col cerino acceso in mano.
Cotonandosi l’ego di arroganza mista a incoscienza, il duplex Meloni-Fazzolari ha cogitato che non era il caso di presentarsi al Consiglio Europeo del 15 dicembre con le armi spuntate, cioè col Mes approvato, meglio, molto meglio ingaggiare una tosta battaglia contro gli euro-burocrati e far vedere quante palle ha l’Italia della destra-destra.
Non siamo per niente Gentiloni, da una parte. Dall’altra, per il duplex Meloni-Fazzolari la riuscita della trattativa sarebbe l’unica via d’uscita per cantar mediaticamente vittoria e contemporaneamente nascondere sotto il polverone la firma di un trattato internazionale che ieri l’ex compagna di Giambruno liquidava come “anticamera della troika” e “cappio al collo”.
Ecco perché, in barba alla calendarizzazione in Parlamento fissata per il 14 dicembre, lo stop al Mes arrivato dalla Lega per bocca del capogruppo alla Camera Riccardo Molinari, non ha creato alcun dispiacere ai Fratellini d’Italia. Anzi: Giorgetti è troppo tonto per riuscire a trasformare una sconfitta in un successo, qui ci vuole l’eloquio coattello della Sora Giorgia, una capace di mutare la Coca Cola in Pepsi, il fascismo in un fascio di rose, un cognato in un ministro.
Il camaleonte Meloni, ingranata la modalità democristiana, sa bene come gestire davanti alle telecamere la comunicazione di una tale dirompente “rogna”, evitando di così di venir sbertucciata come “Giorgia Zelig” – o peggio: “la cazzara della Fiamma” – non solo dall’opposizione (si fa per dire) ma soprattutto infilzata come un tordo dal suo nemico più intimo Matteo Salvini, che sulla ratifica del Mes non aspetta altro per sputtanarla e riacchiappare i voti perduti.
Per gli euro-poteri di Bruxelles, che non vogliono sentir parlare del “pacchetto Meloni”, quella del governo italiano è una mera minaccia da mercatino arabo, che regge poco, in quanto nell’Unione sanno che l’unico paese a correre un serio rischio di default, dall’alto di un debito pubblico mostruoso (2.844 miliardi di euro), sarebbe l’Italia. E senza la ratifica, i mercati la punirebbero con lo spread in salita e conseguente aumento del debito pubblico.
La furbetta della Garbatella, scrivono oggi “La Stampa” e “Repubblica”, potrebbe siglare il trattato a gennaio, nella bolgia delle feste tra capodanno e l’Epifania, con l’opinione pubblica in prognosi riservata sul divano per overdose di panettoni e cotechini, ma avrebbe contro i ventisei paesi incazzati che hanno già firmato.
A questo punto, la domanda sorge spontanea: fino a quando può andare avanti il poker con bluff di Giorgia Meloni con l’Unione Europea?
(da Dagoreport)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 11th, 2023 Riccardo Fucile
DOPO AVER FATTO CHIUDERE DUE CENTRI CULTURALI, ORA VIETA ANCHE L’USO DI UN PIAZZALE… DATO CHE LA COSTITUZIONE GARANTISCE LA LIBERTA’ DI CULTO, IN UN PAESE NORMALE IL COMUNE SAREBBE GIA’ STATO COMMISSARIATO
A Monfalcone è vietato pregare. È l’accusa dei fedeli islamici alla sindaca leghista Anna Maria Cisint, che negli ultimi mesi ha lanciato una battaglia contro la “islamizzazione e sostituzione” degli italiani.
Lo riporta La Repubblica dopo che nella città giuliana, in cui mancano le moschee. sono stati chiusi due centri culturali islamici.
Negli scorsi giorni, secondo il quotidiano, un gruppo di musulmani è stato anche raggiunto da una ordinanza di diffida dopo che si era raccolto in preghiera nel parcheggio di un ex supermercato.
La sindaca Cisint era tra i partecipanti al raduno voluto da Matteo Salvini a Firenze, dove ha descritto il suo comune come la frontiera di uno scontro di civiltà. “Se non siamo combattenti siamo finiti. Quello che succede a Monfalcone, che è una città che governiamo da sei anni e mezzo, è quello che potrà succedere nel Friuli Venezia Giulia e in tutta Italia. Noi su 30 mila abitanti abbiamo il 30% di stranieri, la cui maggioranza è islamica”, ha detto il 2 dicembre scorso Cisint, che ha difeso la scelta di chiudere i centri culturali per violazione delle norme sulla destinazione d’uso e la capienza.
La decisione di chiudere i battenti del “Darus Salaam” e del “Baitus Salat” è arrivata dopo 14 ispezioni consecutive dei vigili urbani, sempre di venerdì, giorno di preghiera. A seguito di queste, riporta Repubbilca, il comune ha accertato che l’attività prevalente era la preghiera, rendendole luogo di culto. “Noi sappiano che sono ragioni politiche quelle che la muovono, perché le nostre preghiere sono di 5 minuti per 5 volte al giorno e quindi sporadiche nei centri culturali”, ha dichiarato Bou Konate, uno dei responsabili del centro culturale islamico ed ex assessore ai Lavori pubblici di Monfalcone. Secondo quanto dichiarato da Cisint a Firenze, “in quei luoghi non si parla italiano, non sappiamo se predicano l’odio”.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 11th, 2023 Riccardo Fucile
I DATI REALI DELLA CORTE DEI CONTI: 352.068 ASSUNTI
Appena 1.500 assunti in 4 anni, costati agli italiani 34 miliardi di euro. Questa, secondo il direttore generale dell’Inps, Vincenzo Caridi, intervistato da Repubblica, la sintesi del fallimento del Reddito di cittadinanza.
Le cose non stanno così: lo dice la Corte dei conti che, già in piena pandemia, contava 352.068 persone “con almeno un rapporto di lavoro successivo alla domanda di Rdc”.
Ma chi li legge i rapporti della Corte? Così, se Repubblica fa il buco, i giornali di destra lo allargano a piacere, certi che ogni contratto sia costato alle casse pubbliche 22 milioni di euro, nemmeno avessimo assunto le stelle del basket Nba. Ormai siamo praticamente al vilipendio di cadavere, visto che il Rdc ha i giorni contati: dal primo gennaio sarà sostituito dall’Assegno di inclusione voluto dal governo Meloni. Tuttavia si decide di riaprire la stagione di caccia ai fannulloni divanati. Perché? C’è da coprire il flop dell’alternativa messa in campo dal governo. Che non funziona, stavolta nel senso letterale del termine.
Interpellata nell’inchiesta del Fatto sugli “occupabili” che non ricevono i 350 euro del Supporto formazione e lavoro (Sfl), la dirigenza dell’Inps ha trovato asilo sulle pagine di Repubblica di sabato 9 dicembre. La speranza era di leggere il dato nazionale sull’effettiva erogazione del Sfl, così da confermare, o perché no smentire, utenti, centri per l’impiego, enti di formazione e regioni, tutti a dire che la piattaforma nazionale lanciata dal governo non funziona e i 350 euro dell’indennità non arrivano. Niente da fare, il direttore generale dell’Istituto preferisce lasciare il lettore col fiato sospeso: “Renderemo noti i dati alla fine di questo mese o all’inizio del prossimo. Non ha senso fare il punto su una misura nuova, partita l’1 settembre, prima dei tre mesi di implementazione”.
Con buona pace di chi rispetta i criteri previsti e non ha ancora visto un soldo, né sa come andare avanti. Il Reddito, dicevamo. L’occhiello a centro pagina la spara così: “Il sussidio dal 2019 ad oggi è costato 34 miliardi di euro, ma soltanto 1.500 percettori sono stati assunti“. Nell’attacco dell’intervista se non altro si specifica che trattasi di “contratti incentivati”, cioè dei soli che hanno beneficiato degli sgravi contributivi previsti per l’assunzione di percettori di Rdc.
La differenza è enorme. Quanto? Lo ha detto più volte la Corte dei conti e già ai tempi della pandemia: “A ottobre 2020 il numero complessivo dei beneficiari soggetti alla sottoscrizione del Patto per il lavoro (i cosiddetti Work Ready) era pari a 1.369.779, mentre coloro che hanno avuto almeno un rapporto di lavoro successivo alla domanda di RdC era di 352.068, di cui 192.851 ancora attivo”. E pazienza se gli altri sono riusciti a mangiare, visto che si tratta di misure di contrasto alla povertà. Ma attenzione, i contratti incentivabili, quelli che possono approfittare degli sgravi contributivi, sono solo quelli a tempo indeterminato e gli apprendistati. Scrive la Corte: “Il 15,4% ha firmato un contratto a tempo indeterminato e il 4,1 % un contratto di apprendistato”. Tutti gli altri sono contratti a tempo determinato, che non accedono agli sgravi.
Di questi, “il 69,8% ha una durata inferiore ai 6 mesi”, precisano i magistrati contabili. In altre parole, dire che in 4 anni solo 1.500 percettori sono stati assunti è una menzogna. Ciò che è peggio è che si parla di persone in condizione di povertà, molte delle quali avevano già un lavoro prima di ricevere il sussidio, perché lo stipendio non è sufficiente a emanciparle dall’indigenza.
Ma siamo in Italia e non c’era alcun dubbio che la palla avvelenata sarebbe stata schiacciata l’indomani dai giornali di destra. Hanno fatto la fatica di dividere i 34 miliardi di euro per i 1.500 contratti incentivati. E infatti Libero titola “Ogni assunzione ci è costata 22 milioni”, precisando che l’incredibile bilancio è eredità del governo grillino, “quando nella gestione della finanza pubblica la fantasia contava più del portafoglio”. Anche se la “notizia” arriva dall’odiata Repubblica, copia e incolla anche Il Giornale di Alessandro Sallusti, che titola “Disastro Reddito, ogni contratto costato 22 milioni”. Infine Il Tempo – “Col Reddito creati 1.500 posti di lavoro, ci sono costati 22 milioni ciascuno” – che non si lascia scappare l’occasione per una battuta di Osho, stampata sulla foto di un centro per l’impiego dove l’operatore avverte l’utente: “Tiettelo stretto sto lavoro che ce costi più de Cristiano Ronaldo”.
Tanto fiato ma una cosa si guardano bene dal dirla. Come dimostrano i numeri della Corte dei conti, se c’è un fallimento è quello degli sgravi per chi assume percettori Rdc. Allora perché nella scorsa legge di bilancio il governo Meloni ha chiesto all’Europa i fondi per rifinanziare gli stessi incentivi? Sta scritto sul sito del ministero del Lavoro dallo scorso 3 novembre: “La Commissione Europea ha approvato, su richiesta del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, l’Aiuto di Stato finalizzato alla promozione dell’inserimento stabile nel mercato del lavoro dei beneficiari del Reddito di cittadinanza, ex art. 1, comma 294 e ss., Legge di Bilancio 2023”.
Perché dunque accanirsi, e sparare sull’ormai moribondo Reddito di cittadinanza? Qualcosa da nascondere? Magari gli effetti della riforma dalla ministra del Lavoro Marina Calderone e dalla premier Giorgia Meloni? Che le cose non stiano funzionando lo dicono gli “occupabili” ai quali il governo ha tolto il Reddito promettendo, a patto di frequentare corsi e orientamento, il Supporto formazione e lavoro (Sfl), poi erogato col contagocce.
Lo dicono gli operatori dei centri per l’impiego, testimoni del cortocircuito tra le piattaforme regionali e il Sistema informativo per l’inclusione sociale e lavorativa (Siisl), voluto dalla ministra e targato Inps. Lo ribadiscono gli enti di formazione, perché gli ex Rdc che seguono i loro corsi non hanno visto un euro. Lo dicono le Regioni, che in Conferenza unificata hanno dovuto smentire la ministra raccomandandole di sistemare tutti i problemi informatici della piattaforma Siisl.
Lo ha scritto il Fatto Quotidiano, accusato di “strumentalizzare le informazioni” dalla ministra, che minaccia di sguinzagliare i suoi ispettori se altri avessero ancora voglia di denunciare (video). E poco importa se le richieste di aiuti alimentari segnano +12% a Milano e +34% a Roma nel 2023, con la povertà assoluta che ormai riguarda 5,6 milioni di italiani, tre volte il dato degli anni ’90, e una famiglia su dieci al Sud.
(da Il Fatto Quotidiano)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 11th, 2023 Riccardo Fucile
GAZPROM PERDE IL 36%, CROLLANO ANCHE I RICAVI DELLE ESPORTAZIONI
Vladimir Putin ha appena annunciato la vittoria della economia russa sull’«attacco di sanzioni lanciato dall’Occidente», e ha espresso la speranza che la crescita reale supererà quel 3,2% annuo che promette il Comitato statale per la statistica. L’annuncio della ricandidatura del leader russo per un quinto mandato di sei anni al Cremlino, la settimana scorsa, ha dato il via a una serie di iniziative dai toni trionfalistici. L’esercito di Mosca sta lanciando un contrattacco nel Donbass, con l’evidente obiettivo di annunciare la “conquista” di qualche città Ucraina ormai rasa al suolo in tempo per il 14 dicembre, quanto il presidente tornerà a rispondere alle domande dei russi in diretta televisiva, dopo due anni di silenzio.
Il leader del Cremlino appare alla mostra “Russia” per vantare successi e mostrare le prospettive del futuro, e il suo ministro degli Esteri Sergey Lavrov ieri ha annunciato niente meno che «la fine di 500 anni di dominio del mondo da parte dell’Occidente», mentre la Russia grazie alla guerra in Ucraina è diventata «più forte, proprio come aveva fatto sconfiggendo Hitler e Napoleone». Una retorica che sposta la Russia dai colonizzatori alle vittime della colonizzazione occidentale, secondo la nuova linea del Cremlino che punta a guidare una nuova coalizione del “Sud globale”.
In questo sfoggio di sicurezza neoimperiale, con il quale la propaganda putiniana si sta avviando alla campagna elettorale di primavera, tra la miriade di dati statistici di fine anno, si nascondono però alcune notizie come quelle riportare dal giornale russo Izvestia, che si basa su un rapporto della agenzia delle entrate russa: i ricavi delle grandi società russe nei primi sei mesi del 2023 si sono ridotti quasi della metà, da 694 a 342 trilioni di rubli. La Banca centrale russa contestualmente nota la riduzione dei ricavi dei maggiori esportatori russi del 41%.
Izvestia ha approfondito la situazione con i dati società per società nei primi nove mesi dell’anno: il gigante del metano Gazprom è collassato del 36%, la major petrolifera statale Rosneft si è accontentata del meno 8%, Lukoil del 12%, la società elettrica Inter RAO del 43%, il gigante dei fertilizzanti Akron è a meno 34%. Izvestia è un quotidiano allineato al regime, e gli esperti che sono stati interrogati sul fenomeno usano spiegazioni arrotondate come «congiuntura internazionale», «riduzione dei prezzi sull’energia», «interruzione delle catene logistiche», «ristrutturazione dei processi produttivi» e «riduzione del potere d’acquisto».
Tutte queste spiegazioni si possono riassumere con una sola parola, guerra, e l’unico ad ammetterlo è il consorzio dell’alluminio RusAl, che giustifica il suo meno 16,9 % con le sanzioni internazionali, e i nuovi dazi introdotti dal Cremlino, per definire la situazione del settore come «grave». Una ammissione che passa quasi inosservata in mezzo agli strombazzanti titoli su Putin, che rivendica un’emancipazione dalla dipendenza dagli idrocarburi: «Abbiamo smesso di essere un Paese-pompa di benzina», ha esclamato, annunciando tassi di crescita vertiginosi nell’industria e una riduzione della disoccupazione al minimo storico, 2,9%.
In realtà, sostiene l’economista d’opposizione Sergey Aleksashenko, le entrate russe continuano a venire finanziate per un terzo dalle esportazioni di petrolio e gas, e se la loro quota nella formazione della ricchezza si è ridotta è il risultato delle sanzioni, più che dello sviluppo industriale. La flotta di petroliere fantasma che ha venduto quantità record di greggio soprattutto a Cina e India (da cui il crollo delle entrate di Gazprom, legata molto di più ai gasdotti dei consumatori europei) ha riempito i forzieri di Putin, aggirando le sanzioni. E questi soldi sono stati investiti nella guerra.
Secondo le stime degli analisti raccolte dalla testata indipendente Meduza, le spese militari russe hanno raggiunto il numero record del 4% del Pil, e nel 2024 saliranno al 6%. Sommando le spese per la sicurezza, e quelle legate alla guerra in maniera meno diretta – dagli investimenti nell’edilizia dei territori ucraini occupati al pagamento dei risarcimenti alle famiglie dei militari uccisi – si arriva quasi al 40% della spesa pubblica. E stata l’invasione dell’Ucraina a risollevare le sorti di industrie pesanti obsolete, rinvigorite da commesse statali, ed è la guerra a spingere in basso la disoccupazione e in alto i salari: l’85% delle aziende russe soffre di forte carenza di personale.
Almeno un milione e mezzo di russi sono spariti dal mercato del lavoro – chi è stato chiamato al fronte, chi è fuggito all’estero – e un altro dato record è negativo: il -4,1% di produttività, dovuto all’emigrazione dei quadri più qualificati. Chi resta si vede aumentare i salari, ma crescono anche i prezzi: l’inflazione è al 7,5, quasi il doppio dell’obiettivo del 4% posto dalla Banca centrale, che per contrastarla ha aumentato di nuovo i tassi.
Il dollaro torna a sfiorare quota 100 rubli, e un altro dato mostra quanto i russi si fidino poco dell’ottimismo del governo: a novembre, la popolazione ha speso 160 miliardi rubli per acquistare dollari ed euro in contanti, una somma record pari soltanto a quella del febbraio 2022. Secondo la Banca centrale, i russi possiedono attualmente quasi 100 miliardi di dollari in contanti: nonostante la guerra contro l’Occidente, preferiscono tenere i loro risparmi in moneta europea e americana.
(da La Stampa)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 11th, 2023 Riccardo Fucile
I SOLDI RISPARMIATI VERRANNO TOLTI AI COMUNI… AL PRIMO RICORSO DAVANTI A UN GIUDICE, LA NORMA-TRUFFA SARA’ OVVIAMENTE DICHIARATA ILLEGITTIMA
Il governo ha deciso di fare cassa sul fondo per i migranti minori non accompagnati e da lì ricavare i fondi per la previdenza integrativa degli agenti di polizia e il personale delle forze armate.
E così un Fondo da 68 milioni di euro è stato decurtato di 15. «Per un governo di centrodestra, mi sembra una scelta logica e giusta politicamente», rivendica il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, Lega.
Per muovere i fondi da un capitolo di spesa all’altro, sempre nell’ambito del bilancio ministero dell’Interno, ci sono due decreti legge che si incastrano. Uno, il cosiddetto decreto Anticipi, aveva stanziato i famosi 68 milioni di euro a beneficio dei Comuni, che sono per legge tenuti ad accogliere i minori. L’altro, il decreto n. 133 del 5 ottobre cambia le carte in tavola e dichiara “quasi maggiorenni” gli ultrasedicenni non accompagnati.
È una vera beffa legale, un trucco. Secondo la legge, i minori non accompagnati hanno diritto a un percorso speciale, con mille garanzie, un trattamento particolare, dagli alti costi: si oscilla tra i 70 e i 100 euro di retta al giorno. Si consideri poi che i numeri sono imponenti. Nell’ultimo anno sono sbarcato 16 mila minori non accompagnati che si sommano ai 10 mila già sbarcati l’anno precedente.
«E con quei 68 milioni di euro – spiega Matteo Biffoni, sindaco dem di Prato, responsabile Anci per le questioni dell’immigrazione – avremmo avuto indietro dal governo solo una minima parte di quanto spendiamo. Ma ora con la mano destra ci tolgono quanto appena concesso con la sinistra. L’Anci sta rifacendo tutti i conti».
Però con il trucco di considerare “quasi maggiorenni” un gran numero dei minori non accompagnati, è ovvio che il governo risparmierebbe un sacco di soldi.
Biffoni non ci sta. «Eticamente e politicamente, sistemare i minori con gli adulti è una scelta inaccettabile. Ma davvero vogliono mescolare con gente grande dei ragazzi che sono stati pestati nei lager libici o ragazzine che sono state tutte stuprate?».
E poi ci sono enormi problemi giuridici. I minori hanno diritti diversi e più delicati. E ci sono leggi nazionali come convenzioni internazionali che vanno rispettate. «Io penso – dice ancora Biffoni – che al primo minore lasciato volutamente tra gli adulti con l’atto di un prefetto, scatterà immancabilmente qualche ricorso. E la magistratura non potrà fare altro che dichiarare illegittima questa norma voluta dal governo Meloni».
Di fatto, però, il governo si appresta a creare dei percorsi differenziati. Quello classico dei minori per gli adolescenti sotto i 16 anni. Quello di nuova concezione, per la fascia tra 16 e 18 anni, nell’ambito dei centri di accoglienza per adulti, sia pure con l’accortezza di definirlo «circuito dedicato». E poi il percorso di massa per i migranti adulti.
E se quest’anno sono sbarcati 16 mila minori, tutti accolti nei centri specializzati, con rette da 100 euro al giorno, il vero obiettivo a cui il governo mira è il consistente risparmio che potrebbe ottenere lasciandone la metà nei centri per adulti, dove la retta costa 70 euro in meno. In questa prospettiva, i 15 milioni tolti al fondo per i minori che ora il governo vuole usare per la previdenza integrativa del personale in divisa è solo l’antipasto di quel che verrà.
Si consideri che in complesso il Viminale spenderà quest’anno 700 milioni di euro per il Fondo migranti, a cui sommare i 30 milioni residui per ristorare i Comuni. «Quel Fondo da 46 milioni che ora riducono a 30 non sarebbe stato sufficiente, ma almeno era una boccata di ossigeno», insiste Biffoni.
La grande ondata di arrivi ha infatti messo in crisi molti Comuni del Nord, da Milano a Bologna, Firenze, Torino, Cremona, dove i sindaci fanno i salti mortali per garantire ai minori non accompagnati quel trattamento che la legge prevede e che il senso di umanità impone. Poi, certo, se basterà un tratto di penna per dichiarare “quasi maggiorenne” chi non ha la maggiore età, un effetto sulla spesa ci sarà di sicuro.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 11th, 2023 Riccardo Fucile
TRA CHI VOTA PER I PARTITI DI MAGGIORANZA, UNA CERTA DIFFIDENZA VERSO IL FUTURO TRASPARE TRA CHI VOTA LEGA (48,2% OTTIMISTI CONTRO IL 45% DI PESSIMISTI)
Alla fine di dicembre dello scorso anno avevamo lasciato un Paese in attesa. Con l’elezione del nuovo governo un italiano su 3 in un mix di ottimismo (15,9%), rassegnazione (17,6%) e paura (16,2%). Oggi, a poco meno di un anno di distanza con una nuova guerra in Medio Oriente e altri fronti di nuove instabilità geopolitiche, il sentimento dell’attesa rimane ancora vivo per un italiano su 4 (25,3%), crescono ottimismo e fiducia (17,8%) ma aumentano anche rabbia (10,3%) e paura (17%). […] solo il 36,5% degli intervistati oggi afferma di guardare il 2024 con fiducia, contro il 37,3% di gennaio.
Sono i più giovani a dichiarare un sentimento contraddistinto dalla positività, mentre gli over 65 guardano al 2024 con una certa diffidenza l’attesa prevale soprattutto per chi ha un’età compresa tra i 30 e i 60 anni. Sono le generazioni che si affacciano alla vita nella costruzione di una nuova famiglia, di un nuovo percorso lavorativo, o che devono mantenere o migliorare la stabilità conquistata e che hanno figli da indirizzare nel mondo supportandoli nel percorso che li porterà all’autosufficienza.
Ci troviamo di fronte a quello che è sempre stato definito “ceto medio” e che oggi sta tentennando nella complessità di identificarsi tra coloro che potranno dire di appartenere ad una classe medio-alta o nel vedersi impoverire e indietreggiare nel loro percorso verso una classe sociale medio-medio-bassa. E come non avere paura? Chi ha un reddito più alto sfida il nuovo anno a testa alta con una certa fede (36,6%); mentre i meno fortunati sono rassegnati (23,6%) alla paura (22,8%) e alla rabbia (13,4%) leggendo con grande pessimismo il futuro (57,7%).
L’ottimismo verso il nuovo anno appartiene, oltre che ai più giovani (48,2%), principalmente a chi possiede beni e mezzi di sussistenza in maniera maggiore rispetto a quanto possa occorrere per vivere.
L’Italia sta vivendo situazioni complesse. Il carovita, l’aumento dei prezzi delle bollette e degli alimenti, l’inflazione, le tasse sempre più alte, la difficoltà ad accedere alle cure sanitarie, i temi legati all’immigrazione, il cambiamento climatico e la mancata prevenzione del territorio sono le principali emergenze su cui l’opinione pubblica spinge per avere delle risposte.
Leggendo i risultati emerge chiara la propensione degli elettori dei partiti di governo ad essere più fiduciosi nel futuro rispetto ai sostenitori delle formazioni delle opposizioni.
Tuttavia si legge una certa diffidenza per chi dichiara il voto per la Lega di Salvini (48,2% ottimisti contro il 45% di pessimisti) e per gli elettori di Azione (41,3% ottimisti e 39, 2% pessimisti). Nel complesso è come se, rispetto ad un anno fa, non si avvertisse un vero cambiamento, ma più che altro un grande rimescolamento delle carte.
Si avverte l’assenza di una chiara e netta direzione politica. Questa percezione è comune sia nell’alleanza di governo, dove tra Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia si sono annacquati gli obiettivi della campagna elettorale; sia tra le file del Partito Democratico, dove la nuova direzione sotto la guida di Elly Schlein non sembra aver trovato ancora la sua quadra. Anche per i 5 Stelle di Giuseppe Conte si profila la necessità di presentare una linea più chiara prendendo una decisione definitiva tra i diversi ruoli di Di Battista e Beppe Grillo, che a tempi alterni minano la stabilità del movimento.
Alessandra Ghisleri
(da “La Stampa”)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 11th, 2023 Riccardo Fucile
MA I RINCARI PER LA FINE DELL’ANNO RIGUARDANO ANCHE I GENERI ALIMENTARI (DAL COTECHINO AL PANETTONE), GLI ADDOBBI NATALIZI E I GIOCATTOLI: IN MEDIA IL 10% IN PIÙ RISPETTO AL 2022 – OGNI ITALIANO SPENDERÀ PER I REGALI 223 EURO
Caro, carissimo Natale. E carissimi (ancora una volta) soprattutto i prezzi dei biglietti aerei, e poi molto cari anche i biglietti di treni e bus e più cari pure tutti i regali ed i generi alimentari che vanno per la maggiore sotto le feste.
La storia si ripete: si avvicina la fine dell’anno e innanzitutto il costo dei voli (come ad agosto, peraltro) letteralmente decolla. Le associazioni dei consumatori, dal Codacons a Federconsumatori all’Unc, settimana dopo settimana denunciano aumenti progressivamente sempre maggiori e tornano a mettere sotto accusa gli algoritmi utilizzati dalle compagnie per fissare i prezzi e a pressare l’Antitrust la cui indagine conoscitiva avviata dopo le polemiche della scorsa estate terminerà però solamente il 31 dicembre… del 2024. Troppo tardi per arginare oggi il fenomeno.
Il caso limite è stato segnalato la settimana scorsa da «Altroconsumo», secondo cui un biglietto aereo per andare da Milano a Catania quest’anno può arrivare a costare anche 12 volte di più rispetto ai prezzi della bassa stagione, ovvero 408 euro andata e ritorno contro i 33 euro del gennaio 2024. Ma anche volare verso Palermo, Lamezia Terme e Cagliari è molto più caro, da 2 a 8 volte in più. In media un viaggio aereo andata e ritorno per le vacanze costa 288 euro contro i 72 euro del prossimo gennaio (+301%).
L’Onf, l’Osservatorio Nazionale Federconsumatori, a sua volta ha messo a confronto i costi applicati a fine novembre e quelli applicati nelle settimane tra Natale e Capodanno su una serie di tratte coperte tra aerei, treni e pullman. Anche in questo caso le differenze di costo sono notevoli con aumenti che in media vanno dal +20% dei treno ed il +33% di bus e aereo.
Anche questa rilevazione fa emergere picchi allarmanti di prezzi: un bus da Torino a Reggio Calabria, ad esempio, sotto le festività costa il +324% rispetto al prezzo normalmente applicato (139,98 euro anziché 32,99); da Roma a Reggio Calabria il viaggio costa il 108% in più (103,89 invece di 49,98).
Prendendo invece in esame i voli aerei secondo Federconsumatori il record del rincaro applicato durante le festività spetta sempre alla tratta Roma-Reggio Calabria: +129% per l’andata e +272% per il ritorno, rispettivamente 208 e 220 euro contro 90,87/59,15. In controtendenza i voli da e per Bari, che invece segnano prezzi più bassi durante le feste (in calo anche del 50/60%).
Brutte sorprese anche per chi decide di viaggiare in treno: ancora una volta i maggiori rincari si hanno sulla tratta Roma-Reggio Calabria: +84% per l’andata e +191% per il ritorno (151,80 in tutto anziché 69,8). Altra tratta che segna notevoli rincari è la Bari-Bologna, +72% (103 euro invece di 64,90).
Con l’avvicinarsi delle festività natalizie l’Osservatorio e di Federconsumatori ha aggiornato anche il monitoraggio dei costi dei prodotti tipici di queste feste: dai regali agli addobbi, dagli alberi di Natale alle pietanze più tradizionali. Dall’indagine, in questo caso, emerge un aumento medio dei prezzi del 10,2% rispetto al 2022, con picchi del 19% per gli addobbi natalizi (+19%), del 14% per i regali di ultima generazione e del 12% per i prodotti alimentari.
«Nonostante tali rincari e malgrado molte famiglie si trovino ancora in situazioni di difficoltà economica, gli italiani non rinunceranno del tutto ai regali di Natale, specialmente quelli per i più piccoli» rileva lo studio. Però per un monopattino quest’anno bisogna mettere in conto una spesa di circa 76 euro, in aumento del 17% rispetto al 2022, 199 euro (+2%) per una bicicletta, per una bambola servono 45 euro (+9%) e 65 per un bambolotto (+10%). La pista di automobiline costa in media 70 euro (+8%), mentre per le costruzioni ne servono 53 (+6%).
Tra i regali per i più grandi gli aumenti a doppia cifra peri libri (+4% in media, da 20 a 22 euro e 80) e le borse di marca (+15% da 435 a 500 euro). L’ultimo modello di smartwatch costa invece il 52% in più del 2022 (469 euro), il tablet il 24% e gli altoparlanti wireless il 39%. Inutile dire che anche la carta da regali aumenta e non di poco: dai 5 euro e 60 che si pagavano l’anno passato per due rotoli si sale a 7,49 (+44%).
I cesti di Natale in media sono più cari del 13%, come un po’ tutti i generi alimentari che ancora scontano gli aumenti dell’ultimo anno. Se si passano in rassegna i prodotti che sotto le feste vanno per la maggiore i rincari più forti sono quelli delle lenticchie (1 kg costa in media 9,61 euro, +24%), del torrone da 250 grammi (+23% a 12,50 euro) e del mix di frutta secca (9,81 euro per 500 grammi, +23%). Lo zampone quest’anno è rincarato del 17% a 16,80 euro, del 13% il cotechino precotto (a 12,78). Più caro anche lo spumante di qualità (30,51 euro e +13%). Più contenuti, invece, i rincari subiti da pandori (+5%) e panettoni (+9%).
Secondo l’Onf la spesa media a persona per regali quest’anno dovrebbe restare stabile attorno ai 169 euro. L’indagine di Confesercenti-Ipsos fissa invece l’asticella a quota 223 euro con un aumento al netto dell’inflazione pari al 6%. In calo dal 47 al 43% gli italiani che dichiarano di voler contenere la spesa per i regali, mentre secondo Federconsumatori rispetto al 2022 la percentuale di cittadini che non farà alcun regalo cresce al 7,2%. Con buona pace di chi puntava su un rimbalzo vero dei consumi.
(da La Stampa)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 11th, 2023 Riccardo Fucile
E’ ACCADUTO AL COMUNE DI MARSALA IN SICILIA
“Mi hanno detto che ho messo in difficoltà la Commissione pari opportunità perché applaudendo ho delegittimato le istituzioni. E così l’amministrazione di centrodestra mi ha sollevata dall’incarico”.
Chi parla è Giuliana Zerilli, l’ormai ex presidente alle Pari opportunità del Comune di Marsala in Sicilia. Zerilli però, è stata destituita per un motivo singolare: ossia l’aver applaudito a quella che sarebbe dovuta essere la presentazione di ‘X’, libro della scrittrice e giornalista Valentina Mira, invitata a parlare al teatro
E. Sollima in un evento organizzato per la giornata internazionale contro l’eliminazione della violenza sulle donne. Ma facciamo un passo indietro.
Nel 2021 è uscito ‘X’, libro di Valentina Mira in cui l’autrice, in una serie di lettere al fratello, racconta una violenza sessuale subita dieci anni prima. Si tratta di un testo importante non solo per la portata della storia raccontata, ma anche per aver ribaltato una narrazione stereotipata che vuole le donne solo vittime. Tante le presentazioni, tutte molto partecipate, di cui avrebbe dovuto far parte anche la città di Marsala. Mira viene infatti invitata a parlare davanti agli studenti di diverse scuole proprio due giorni prima del 25 novembre: l’incontro, proposto dal “Patto per la lettura”, avrebbe dovuto avere come focus il libro, e dare l’opportunità agli studenti di interagire con l’autrice. Le cose però non sono andate in questo modo.
“Non è stata una presentazione, ma un corto circuito – ci racconta l’ex presidente della Commissione pari opportunità Zerilli – Alle scuole l’iniziativa è stata presentata come la presentazione di un libro, che i ragazzi hanno letto e comprato. Io stessa ero lì come docente con i miei alunni, non come presidente della commissione. Ma qualche giorno prima dell’evento l’amministrazione comunale ha deciso di cambiare le carte in tavola e istituire una tavola rotonda con il sindaco, la presidente del Tribunale di Marsala, il procuratore della Repubblica, un’avvocata, un’assessora. Insomma, rappresentanti delle istituzioni che avrebbero parlato di tutt’altro e non dei temi sollevati dal libro di Mira, che parla di stupro e dei suoi risvolti psicologici e umani. Ho spiegato all’amministrazione che non era opportuno fare una cosa del genere, mi hanno risposto che gli interventi sarebbero durati massimo tre minuti per poi lasciare spazio ai ragazzi e a Valentina Mira. Così non è stato”.
Il 23 novembre, giorno della presentazione, il teatro era pieno di studenti. “Quando sono arrivata ero molto contenta, vedere tanti giovani mi ha dato la carica – ci spiega Mira – Poi ho alzato lo sguardo e ho visto sul palco diverse figure istituzionali e sono rimasta di sasso, ero stata invitata a presentare il libro e nessuno mi aveva detto che ci sarebbe stato questo format. Non faccio mai presentazioni in occasione del 25 novembre con le istituzioni perché si svegliano solo in quella data per fare le passerelle, ma questo incontro lo avevo accettato perché mi avevano riferito fosse con le scuole. Inoltre vedo che la prima fila era occupata da forze dell’ordine, cosa che rispetto al libro che ho scritto è decisamente poco accogliente. Tra l’altro le stesse forze dell’ordine che pochi giorni dopo hanno sgomberato il consultorio gratuito e autogestito “Mi cuerpo es mio”. La Sicilia che resiste c’è, ma è evidente che le forze dell’ordine hanno un altro ruolo”.
Come Valentina Mira non è stata informata che l’iniziativa era diventata una tavola rotonda di tutt’altro tenore, le figure istituzionali non sapevano che quella fosse la presentazione del suo libro. “Oltre al fatto che nessuno lo aveva letto, cominciano tutta una serie di interventi retorici sull’invito alla denuncia – racconta Mira – dicono agli studenti che le forze dell’ordine andranno nelle scuole per parlare, si dicono disponibili. Discorsi pieni di stereotipi, e gli studenti hanno cominciato ad andarsene. A un certo punto hanno persino dipinto Giulia Cecchettin come una ragazza ingenua che avrebbe dovuto accorgersi del pericolo che aveva di fronte, mi sono sentita di intervenire e dire che invece bisognerebbe insegnare agli uomini a non ammazzare”.
Intanto la platea ha cominciato a fare rumore. Una ragazza ha protestato chiedendo di fare la presentazione, Mira ha chiesto di dare la parola agli studenti facendo notare la paradossalità della situazione, ma nessuno le ha dato retta. Molti gli applausi alla scrittrice, tra questi anche quelli di Zerilli, seduta in platea. I pochi studenti rimasti potranno però prendere parola solo alle 19.45, due ore dopo l’inizio dell’evento. Che alle 20 è stato dichiarato concluso.
Quanto avvenuto poteva rimanere ‘solo’ un evento organizzato male, ma è diventato invece un caso politico. “Due giorni dopo l’amministrazione comunale ha convocato un consiglio urgente, revocandomi l’incarico da presidente della Commissione pari opportunità – aggiunge Zerilli – Non sono dispiaciuta di aver applaudito Mira, ma quanto successo non è un bel segnale. È l’indice di un clima per cui tutto ciò che è potere costituito non va messo in discussione. Non ci si può permettere di applaudire né di gridare ‘viva l’Italia antifascista’. L’espressione del libero pensiero è diventato un fatto da condannare. Ho voluto sostenere i ragazzi che hanno letto il libro ed erano desiderosi di partecipare, protestavano perché volevano parlasse Mira. E l’ho applaudita quando ha solidarizzato con loro esprimendo fastidio e stupore per come stavano strumentalizzando libro e studenti. Per l’amministrazione la mia è stata una lesa maestà”.
“Sapere che una persona ha perso il posto per avere applaudito mi dispiace molto – conclude Mira, che ha espresso la sua piena solidarietà a Zerilli – Ora c’è questa vulgata del ‘non si può più dire nulla‘ accollata alla cultura woke, ma alla fine chi non può parlare sono sempre le stesse persone. Chi denuncia uno stupro, il patriarcato, donne resistenti che si sfilano dagli stereotipi vittimistici, come Elena Cecchettin, per la cui fierezza dovremmo solo ringraziare. Le stesse che non parlavano prima non possono parlare adesso, e le misure repressive sono sempre più rafforzate”.
(da Fanpage)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 11th, 2023 Riccardo Fucile
I 10 ANNI DI SALVINI LEADER
Il sovranismo, il tradimento padano, i rapporti con Mosca e le conseguenze delle inchieste sulla truffa dei 49 milioni. Ora gli attacchi dei pro vita del partito a Valditara, il sogno del Ponte, l’isolamento con l’estrema destra in Europa. Il Capitano ha portato a termine la trasformazione della Lega, iniziata a dicembre 2013.
Tesorieri
I due scelti da Salvini hanno subito processi e condanne in primo grado
Non può certo dirsi un leader noioso. Ma per il suo decimo compleanno da segretario della Lega, Matteo Salvini ha riservato i colpi migliori, il meglio di due lustri di propaganda. L’ultimo è il suo silenzio tradotto in attacco dai pasdaran del partito addirittura contro il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, uomo loro peraltro, perché ha osato nominare tra due super cattoliche, Paola Concia, di sinistra e attivista per i diritti Lgbt+, per fare da garanti sul programma per le scuole “Educare alle relazioni”.
Qualche leghista ha persino chiesto le dimissioni del ministro voluto da Salvini nel governo. Altri hanno chiesto di evitare nomine divisive. Di certo ha vinto la lobby del movimento Pro Vita, legatissima alla Lega da quando Salvini dieci anni fa è diventato segretario.
Da allora è cambiato molto, Salvini. Per dire: un tempo era contrario al Ponte sullo Stretto di Messina, oggi è il ministro delle Infrastrutture che vuole passare alla storia per averlo realizzato. Un’opera che al centro produttivo del nord interessa zero. Ma del resto Salvini le istanze loro le ha abbandonate da tempo, accusano i detrattori del segretario. Di certo oggi ascolta più Denis Verdini, padre della fidanzata Francesca, che Umberto Bossi, il fondatore della fu Lega nord, un tempo maestro del Salvini militante.
In queste ore i salviniani più fedeli al capo hanno ripreso la guerra al Mes (il meccanismo europeo di stabilità). Una battaglia identitaria per i sovranisti. Ma nella Lega ogni cosa ha il suo contrario: al ministero dell’Economia c’è Giancarlo Giorgetti, nostalgico della Lega nord, che contrario non è. Giorgetti, così come Luca Zaia e Massimiliano Fedriga, non vivono sempre a proprio agio il nuovo corso imposto dal Capitano sovranista. Eppure nonostante le condizioni favorevoli non hanno mai tentato il putsch per strappargli la segreteria e riportare la Lega al nord. «Non hanno carisma né coraggio», è ormai la tesi di molti ex leghisti fuoriusciti.
Giorgetti aveva uno sguardo a tratti imbarazzato due settimane fa seduto in prima fila a Firenze, dove Salvini ha riunito i suoi alleati di estrema destra provenienti da varie parti d’Europa. Il leader polacco che aspira a entrare all’europarlamento, salito sul palco ha esordito con alcune frasi latine e con un amen finale. I tedeschi hanno difeso le loro posizioni filorusse. Con Bossi tutto questo sarebbe stato impossibile.
IL NUOVO CORSO
La famiglia tradizionale, le crociate contro l’aborto, i diritti alle coppie omossessuali, le giravolte sulle grandi opere, la Russia. Non frasi buttate nella mischia a caso, non sono boutade estemporanee. Sono piuttosto figlie di un processo politico. Una lunga marcia iniziata il 15 dicembre 2013 a Lingotto di Torino. Lì Matteo Salvini mai avrebbe immaginato che il suo progetto potesse diventare realtà: trasformare la Lega nord in qualcosa di diverso e portarla a percentuali di consenso oltre il 20 per cento.
Sono trascorsi, dunque, dieci anni dal giorno in cui al congresso federale della Lega nord è stato proclamato segretario. Aveva vinto le primarie una settimana prima con l’82 per cento. Sconfitto Umberto Bossi, il Senatur. Il padre fondatore e maestro di tutti i giovani padani come Salvini è stato anno dopo anno messo ai margini, santificato in pubblico allontanato dal centro decisionale. Ucciso politicamente, da Salvini nelle vesti di un moderno Edipo.
Il Capitano all’epoca non era ancora il Capitano del sovranismo italiano.
Era un uomo di 40 anni, che però ha colto l’occasione giusta per prendersi il partito dopo gli scandali finanziari della gestione Bossi che hanno affossato il Carroccio. Fa la gavetta in consiglio comunale a Milano, poi europarlamentare e deputato. In un momento in cui la dirigenza leghista aveva abbandonato i toni della lotta preferendo quelli da governo, Salvini, al contrario, alzava i toni e l’asticella del conflitto con gli avversari, trattati sempre da nemici del nord, che poi diventeranno nemici della nazione, della patria e così via.
In molti si chiedono, dieci anni dopo, se la sua leadership sia stata un fallimento o no. La risposta è nella storia di questi anni fatta di tappe gloriose, di trionfi, di governo, di contraddizioni. Il partito anti establishment si è dimostrato uno slogan vuoto. Salvini si è legato al potere romano, è stato finanziato tramite associazioni leghiste da costruttori, signori della grande distribuzione e multinazionali.
Ha puntato tutto sul personalismo, che mischiato all’ossessione dei «pieni poteri» lo ha portato dalle stelle del 34 per cento delle europee del 2019 al modesto 8-9 per cento delle ultimi politiche, fagocitato dall’alleata Giorgia Meloni. A questo vanno aggiunti nel periodo di massimo splendore i nuovi scandali, le indagini sui fedelissimi, le condanne di chi amministra la cassa sovranista, i suoi legami pericolosi con la Russia di Putin e con i neofascisti di ogni parte d’Europa.
Eppure ciò che tutti ricordano è il Papeete, la terza Camera estiva di Salvini a petto nudo e costume, con mojito in mano. Il primo e unico leader nel mondo a provocare un crisi di governo dalla spiaggia. Era agosto 2019, tra un rosario mostrato in tv, la fede esibita nei comizi, è l’anno clou per il destino politico del Capitano per via della fine del governo gialloverde, delle elezioni europee e del Russia gate.
PUTIN IL GRANDE
Torniamo, così, al 15 dicembre 2013. Lì nella sala congressi del Lingotto, seduti nelle prime file, sono visibili i primi geni del sovranismo che muteranno radicalmente la genetica della Lega, da partito del nord a forza nazionalista, di estrema destra, con lo sguardo rivolto al despota Vladimir Putin. Tra gli ospiti d’onore, infatti, c’è un cittadino russo, sconosciuto dai vecchi padani presenti. Si chiama Andrey Komov, è il rappresentante del World congress of families, organizzazione cristiana e ultra tradizionalista che si batte per la tutela della famiglia tradizionale: è contro l’aborto, contro le coppie arcobaleno, è un contenitore di associazioni pro vita tra le più oscurantiste. Komov è il collaboratore più fidato dell’oligarca Konstantin Malofeev, altro uomo legatissimo al Cremlino. Malofeev sarà una pedina centrale nel futuro della Lega e dei sovranisti europei.
Komov è stato presidente onorario dell’associazione Lombardia-Russia, fondata da Gianluca Savoini, già portavoce di Salvini, ideologo della nuova politica estera della nuova Lega. Savoini è il protagonisti di molte vicende che mineranno la credibilità del partito agli occhi degli governi occidentali. I suoi continui viaggi a Mosca, le amicizie nell’entourage di Putin fino alla trattativa del Metropol per finanziare la Lega con soldi russi, è stato il consigliere ombra del Capitano per gli affari geopolitici. Si è mosso sempre nelle retrovie, senza ruoli ufficiali nella Lega, Salvini lo ha portato con sé nelle sue gite moscovite. Fino a quando non è diventato troppo ingombrante, cioè all’indomani della scoperta che all’hotel Metropol nel 2018 si era messo a negoziare, con uomini del giro putiniano, un finanziamento milionario per la campagna elettorale delle europee dell’anno dopo.
Il caso Metropol è il macigno che pesa ancora oggi sulla storia di Salvini, soprattutto nei rapporti internazionali con gli Stati Uniti e ora con i tentativi di alleanze europee. Troppo filorusso, per i Popolari europei e per i Conservatori di cui fa parte Fratelli d’Italia.
La Russia ritorna spesso in questi dieci anni. Nel 2022 è di nuovo finito al centro di sospetti e polemiche per i rapporti con l’ambasciata russa in Italia. Ad accompagnare Salvini a questi incontri riservati c’era Antonio Capuano, un misterioso consulente, avvocato d’ambasciate, ex politico. L’essere filorussi è un tratto caratteristico anche dei suoi compagni di gruppo in Europa. I tedeschi dell’Afd, per esempio, lo hanno ribadito il 3 dicembre scorso alla convention dei sovranisti europei organizzata dalla Lega a Firenze. «Lo dico gratis che Putin è il miglior leader del momento», no, il copyright non è degli estremisti dell’Afd, ma di Salvini alcuni anni fa. Un foto poi di questi dieci anni da segretario resterà negli annali della spregiudicatezza politica: Salvini in maglietta bianca con il volto di Putin, il leader della Lega sorridente sulla piazza rossa, alle spalle il Cremlino. Immagini che dopo l’occupazione russa dell’Ucraina sono tornate di attualità.
BYE BYE AUTONOMIA
Il sentimento filorusso e i personaggi improbabili che hanno mediato, trafficato e condotto Salvini all’ombra del Cremlino non è l’unica rivoluzione che può intestarsi il Capitano. Dopo dieci anni l’altra certezza è che ha distrutto il partito del nord. Non modificato, semplicemente non esiste più in termini formali e sostanziali. Sulla carta c’è stato uno sdoppiamento: Lega nord lasciata al proprio destino per via del debito mostruoso da 49 milioni di euro con lo stato provocato dagli scandali del 2012 dei tempi di Bossi; Lega Salvini premier, fondata dal notaio nel 2018, è l’involucro di una struttura nazionale, patriottica, spostata all’estrema destra, che ha voluto espandersi fino alla Sicilia.
Il vero cambio però è nel nome: il partito è Salvini premier, Lega è un di più, rimasto lì appeso più per rispetto di una storia che per altro. Lega Salvini premier è il partito personale, nero su bianco nello statuto. Non esisterà altro leader all’infuori del Capitano, che per questo ha resistito alle ultime debacle elettorali. «Chi diventerebbe il capo di un partito con Salvini nel nome?», ripetono i vecchi leghisti, ormai fuoriusciti e fondatori di associazioni federaliste, partitini. Frammenti di una vecchia Lega che non esiste più se non sulla carta.
Perché, appunto, la Lega nord esiste ma è inattiva, e zeppa di debiti. Il federalismo? Per Salvini non è una priorità, lascia fare a Roberto Calderoli, che pensava di ricompattare la base con la sua proposta di legge sull’autonomia differenziata, in realtà molto contestata alla base. Per Salvini la priorità è la propaganda sovranista: l’invasione degli immigrati, fomentare la guerra tra poveri, raccogliere rabbia e quindi consenso. Ha funzionato per un paio di anni, grazie alla sua squadra della comunicazione strapagata, anche con soldi pubblici.
Ma qualcosa si è inceppato tra il 2020 e oggi. La Lega dal 34 per cento è crollata al 9. I militanti sono in fuga. Le sezioni si svuotano. Il nord produttivo ha scelto Meloni, stufo di inseguire slogan anti immigrati.
Infine ci sono le «vecchie storie», come il Capitano ha sempre bollato la faccenda dei 49 milioni della truffa sui rimborso elettorali. Ma questa è un’altra storia, con molti scandali e altri denari, che merita un capitolo a parte.
SOLDI E SCANDALI
Salvini, infine, aveva la missione di far dimenticare la truffa dei 49 milioni sui rimborsi elettorali usati dalla Lega nord per esigenze personali di Bossi. «Vecchie storie», le ha sempre bollate il Capitano. Non è andata così, ma questa è un’altra storia che merita un capitolo a parte.
Ma il fantasma dei 49 milioni ha seguito Salvini lungo la strada in questi dieci anni. Anche perché quei soldi, hanno stabilito i giudici, andavano restituiti allo stato. E a ridarli doveva essere la Lega guidata da Salvini. Ma il malloppo che fine aveva fatto? Da questa semplice domanda sono scaturiti una serie di filoni di indagine che porteranno ad altri scandali.
Il primo ha riguardato i commercialisti incaricati di amministrare i conti di società del partito e dei gruppi parlamentari. La beffa più grande è che i due contabili bergamaschi scelti dal tesoriere Giulio Centemero e da Salvini avrebbero dovuto sistemare i conti.
Invece sono stati condannati in primo grado per aver distratto 1 milione di euro pubblici da regione Lombardia. E anche a Centemero non è andata meglio: sotto processo per finanziamento illecito a Roma, per lo stesso reato ha collezionato una condanna a Milano. Ma gli amici non si lasciano per strada. Così uno dei due commercialisti, Alberto Di Rubba, nonostante le indagini e il processo (ha ricorso in appello) è stato promosso, pochi mesi fa, a tesoriere della Lega. Un regalo al fedelissimo. La sintesi di dieci anni di Salvini segretario.
(da editorialedomani.it)
argomento: Politica | Commenta »