LE GRANDI IMPRESE RUSSE AL COLLASSO, SANZIONI E GUERRA AFFOSSANO L’ECONOMIA
GAZPROM PERDE IL 36%, CROLLANO ANCHE I RICAVI DELLE ESPORTAZIONI
Vladimir Putin ha appena annunciato la vittoria della economia russa sull’«attacco di sanzioni lanciato dall’Occidente», e ha espresso la speranza che la crescita reale supererà quel 3,2% annuo che promette il Comitato statale per la statistica. L’annuncio della ricandidatura del leader russo per un quinto mandato di sei anni al Cremlino, la settimana scorsa, ha dato il via a una serie di iniziative dai toni trionfalistici. L’esercito di Mosca sta lanciando un contrattacco nel Donbass, con l’evidente obiettivo di annunciare la “conquista” di qualche città Ucraina ormai rasa al suolo in tempo per il 14 dicembre, quanto il presidente tornerà a rispondere alle domande dei russi in diretta televisiva, dopo due anni di silenzio.
Il leader del Cremlino appare alla mostra “Russia” per vantare successi e mostrare le prospettive del futuro, e il suo ministro degli Esteri Sergey Lavrov ieri ha annunciato niente meno che «la fine di 500 anni di dominio del mondo da parte dell’Occidente», mentre la Russia grazie alla guerra in Ucraina è diventata «più forte, proprio come aveva fatto sconfiggendo Hitler e Napoleone». Una retorica che sposta la Russia dai colonizzatori alle vittime della colonizzazione occidentale, secondo la nuova linea del Cremlino che punta a guidare una nuova coalizione del “Sud globale”.
In questo sfoggio di sicurezza neoimperiale, con il quale la propaganda putiniana si sta avviando alla campagna elettorale di primavera, tra la miriade di dati statistici di fine anno, si nascondono però alcune notizie come quelle riportare dal giornale russo Izvestia, che si basa su un rapporto della agenzia delle entrate russa: i ricavi delle grandi società russe nei primi sei mesi del 2023 si sono ridotti quasi della metà, da 694 a 342 trilioni di rubli. La Banca centrale russa contestualmente nota la riduzione dei ricavi dei maggiori esportatori russi del 41%.
Izvestia ha approfondito la situazione con i dati società per società nei primi nove mesi dell’anno: il gigante del metano Gazprom è collassato del 36%, la major petrolifera statale Rosneft si è accontentata del meno 8%, Lukoil del 12%, la società elettrica Inter RAO del 43%, il gigante dei fertilizzanti Akron è a meno 34%. Izvestia è un quotidiano allineato al regime, e gli esperti che sono stati interrogati sul fenomeno usano spiegazioni arrotondate come «congiuntura internazionale», «riduzione dei prezzi sull’energia», «interruzione delle catene logistiche», «ristrutturazione dei processi produttivi» e «riduzione del potere d’acquisto».
Tutte queste spiegazioni si possono riassumere con una sola parola, guerra, e l’unico ad ammetterlo è il consorzio dell’alluminio RusAl, che giustifica il suo meno 16,9 % con le sanzioni internazionali, e i nuovi dazi introdotti dal Cremlino, per definire la situazione del settore come «grave». Una ammissione che passa quasi inosservata in mezzo agli strombazzanti titoli su Putin, che rivendica un’emancipazione dalla dipendenza dagli idrocarburi: «Abbiamo smesso di essere un Paese-pompa di benzina», ha esclamato, annunciando tassi di crescita vertiginosi nell’industria e una riduzione della disoccupazione al minimo storico, 2,9%.
In realtà, sostiene l’economista d’opposizione Sergey Aleksashenko, le entrate russe continuano a venire finanziate per un terzo dalle esportazioni di petrolio e gas, e se la loro quota nella formazione della ricchezza si è ridotta è il risultato delle sanzioni, più che dello sviluppo industriale. La flotta di petroliere fantasma che ha venduto quantità record di greggio soprattutto a Cina e India (da cui il crollo delle entrate di Gazprom, legata molto di più ai gasdotti dei consumatori europei) ha riempito i forzieri di Putin, aggirando le sanzioni. E questi soldi sono stati investiti nella guerra.
Secondo le stime degli analisti raccolte dalla testata indipendente Meduza, le spese militari russe hanno raggiunto il numero record del 4% del Pil, e nel 2024 saliranno al 6%. Sommando le spese per la sicurezza, e quelle legate alla guerra in maniera meno diretta – dagli investimenti nell’edilizia dei territori ucraini occupati al pagamento dei risarcimenti alle famiglie dei militari uccisi – si arriva quasi al 40% della spesa pubblica. E stata l’invasione dell’Ucraina a risollevare le sorti di industrie pesanti obsolete, rinvigorite da commesse statali, ed è la guerra a spingere in basso la disoccupazione e in alto i salari: l’85% delle aziende russe soffre di forte carenza di personale.
Almeno un milione e mezzo di russi sono spariti dal mercato del lavoro – chi è stato chiamato al fronte, chi è fuggito all’estero – e un altro dato record è negativo: il -4,1% di produttività, dovuto all’emigrazione dei quadri più qualificati. Chi resta si vede aumentare i salari, ma crescono anche i prezzi: l’inflazione è al 7,5, quasi il doppio dell’obiettivo del 4% posto dalla Banca centrale, che per contrastarla ha aumentato di nuovo i tassi.
Il dollaro torna a sfiorare quota 100 rubli, e un altro dato mostra quanto i russi si fidino poco dell’ottimismo del governo: a novembre, la popolazione ha speso 160 miliardi rubli per acquistare dollari ed euro in contanti, una somma record pari soltanto a quella del febbraio 2022. Secondo la Banca centrale, i russi possiedono attualmente quasi 100 miliardi di dollari in contanti: nonostante la guerra contro l’Occidente, preferiscono tenere i loro risparmi in moneta europea e americana.
(da La Stampa)
Leave a Reply