Dicembre 24th, 2023 Riccardo Fucile
L’ASSOCIAZIONE “PROTETTO” CHE SI OCCUPA DI SENZA FISSA DIMORA HA ORGANIZZATO IL PRANZO PER RICORDARE CHE ANCHE A NATALE C’E’ CHI HA BISOGNO… NELL’ITALIA DELLE OCCUPAZIONI ABUSIVE DI ORGANIZZAZIONI POLITICHE CHE FANNO IL CAZZO CHE VOGLIONO, SONO ANDATI A MULTARE CON 231 EURO CHI FA VOLONTARIATO
Un pranzo di Natale in Galleria Vittorio Emanuele a Milano, il salotto buono della città. Ospiti, alcuni senzatetto e i volontari che si occupano di loro. Niente di autorizzato, ma un modo per non far dimenticare a chi passa per comprare gli ultimi regali che anche a Natale c’è chi non ha nulla. E’ finita con una multa, ma anche con un caffè offerto agli ospiti della tavolata dal ristorante Cracco, visto che il pranzo si svolgeva davanti alle loro vetrine.
L’iniziativa è della pagina social Milanobelladadio in collaborazione con la onlus ProTetto. “La strada è dei senzatetto e per questo motivo abbiamo organizzato un pranzo in strada con loro e con chi li aiuta. Oggi ci troviamo nelle vie dello shopping ma la verità è che non servono oggetti costosi per essere felici. Basta poco: un tavolo, un bicchiere di vino e qualche amico… c’è anche l’albero (un po’ particolare). Questa è la nostra idea di felicità. A pochi metri dai negozi di lusso ci sono tante persone che dormono per strada e che non hanno nulla: chiunque li può aiutare. ProTetto come tante altre associazioni lo fa tutti i giorni dell’anno”, spiega il fondatore della pagina Milanobelladadio Giovanni Santarelli.
Il pranzo si è svolto anche grazie al ristorante Schiscetta di Cucchiari 1 in Zona Cenisio, al ristorante Montesoprano di Zona Navigli e Porta Romana e al Chiosco Squadre Calcio, che hanno fornito bevande un pasto caldo.
I vigili sono arrivati quasi a fine pranzo, chiedendo i documenti: alla fine è stata multata una persona, il responsabile dell’associazione ProTetto, per occupazione abusiva: 231 euro e l’invito ai partecipanti ad alzarsi e a portare via tavolo da picnic, sedie e panchina pieghevoli, borse frigo e bottiglie.
(da La Repubblica)
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Dicembre 24th, 2023 Riccardo Fucile
VIAGGIO NELL’ODISSEA DEI TRASPORTI IN SICILIA… I TRENI VIAGGIANO A 26 KM ORARI, MOLTI NON SONO ANCORA ELETTRIFICATI E VANNO A GASOLIO… QUATTRO ORE (MA CAPITA ANCHE SEI) DA PALERMO A CATANIA CHE DISTANO 200 KM
Manca sempre meno all’inizio dei lavori per la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina e il ministro Matteo Salvini ha designato più volte come data per la partenza dei cantieri il giugno del 2024. Mentre la Sicilia si prepara ad accogliere la più grande opera infrastrutturale degli ultimi decenni, però, i treni nell’isola viaggiano a ventisei chilometri orari, molti non sono elettrificati e vanno ancora con il gasolio.
Noi di MOW abbiamo attraversato più di tre quarti della regione partendo da Palermo in direzione Catania per raccontarvi cosa provano ogni giorno i pendolari siciliani…
Palermo, ore 8.39 del mattino, stazione Centrale. Manca sempre meno alla partenza del nostro treno in direzione Catania. La città ai piedi del monte Etna dista solamente duecento chilometri dal capoluogo dell’isola ma per raggiungerla con il treno bisogna affrontare una vera e propria Odissea. Tre ore e quaranta minuti. È questo il tempo che i treni siciliani impiegano – nel migliore dei casi – per attraversare due quarti dell’isola, un’intera mattinata sprecata per un percorso che – di norma – in macchina o con un treno veloce del nord si percorrerebbe in poco più di un’ora e mezza. All’interno della Centrale di Palermo ci sono dieci binari sporchi e malcurati, con accanto delle panchine vecchie dove ci si possono sedere tre persone, rimanendo comunque molto strette fra di loro. Il nostro treno in partenza dal binario tre alle nove e trentasei del mattino è arrivato dieci minuti prima della partenza, nonostante un impiegato di Trenitalia ci avesse rassicurato che sarebbe giunto in stazione quaranta minuti prima della partenza, per poter salire e prendere posto comodamente, senza fare le cose in fretta e furia. Nonostante questa grossolana inesattezza, il treno è arrivato, stranamente non in ritardo. Nel tabellone che segnava tutti gli altri treni in arrivo è spuntata – come per magia – la frase “In ritardo”. Siamo stati fortunati, ma non tutti hanno avuto la nostra stessa sorte. Vicino a noi prende la parola un anziano – di media statura, i pochi capelli che ha sul capo, brizzolati, sono tirati indietro da quello che sembra essere un gel, o forse una lacca fissante. Si regge in piedi con un bastone in legno e sul mignolo destro ha un anello enorme con Medusa, la stessa inserita nello stemma della Sicilia, a coprire gli occhi un paio di occhiali da sole, i Clubmaster della Rayban – che inizia a lamentarsi con noi dei continui ritardi dei treni siciliani. “È la terza volta in quattro giorni che il treno per Siracusa ritarda – dice sconsolato l’uomo – vengo qui per badare al mio nipotino e poi faccio ritorno a casa, ogni volta in questa maledetta stazione si registrano ritardi davvero senza alcuna logica o senso. Purtroppo anche tanti amici di Trapani, Ragusa, Enna e Mazara del Vallo devono continuamente combattere con questi ritardi”. Nonostante l’alta qualità della conversazione, ci tocca salutarlo velocemente e salire sul nostro treno in direzione Catania.
Il viaggio della speranza
Purtroppo per noi il treno non ci porterà direttamente a Catania. All’altezza di Dittaino, a pochi chilometri da Enna, ci toccherà scendere dai comodi sedili del treno per continuare il nostro viaggio sopra uno scomodo autobus. “Ci sono dei lavori lungo il tragitto che avrebbe dovuto portarci a Catania – sussurra all’interno del vagone una dipendente di Trenitalia – purtroppo questa cosa va avanti da parecchi anni”. Il treno su cui noi di MOW siamo saliti – formato da tre vagoni – è semi-deserto, potrebbe ospitare oltre duecento persone, ma ne riusciamo a contare solo venti. Nella prima mezz’ora di viaggio, nessuno ha controllato i biglietti. Una leggerezza che ha fatto molto comodo a due ragazzi seduti davanti a noi, giovanissimi studenti di massimo sedici anni. Uno, il più “grande”, alto, con un accenno di peluria sul mento e una sigaretta elettronica poggiata sulle labbra, anche se nei treni non si potrebbe fumare. L’altro, più giovane, basso con dei capelli a caschetto e uno zaino del noto videogioco Fortnite appoggiato sull’addome. I due, fra un tiro di sigaretta e una partita a Clash Royale sul telefonino si vantavano con noi di essere riusciti ad entrare nel treno senza pagare i biglietti. “Lo facciamo sempre – racconta senza vergogna Giuseppe, il più grande dei due – siamo cugini e andiamo prendiamo sempre il treno da Palermo per tornare a casa nostra, a Termini Imerese. In quasi tre anni di superiori nessuno ci ha mai scoperto e come noi ce ne sono altri cento”. Giunti alla stazione di Termini i due si alzano e vanno via, anche oggi hanno fregato il sistema. Arrivati a Caltanissetta, dopo quasi un’ora e mezza di viaggio in cui abbiamo percorso 133 chilometri, notiamo fuori dai finestrini apribili del treno molti binari incompiuti con veri e propri cantieri abbandonati tutti intorno. Quei cantieri sarebbero dovuti essere completati diversi anni fa, ma la burocrazia e le infiltrazioni criminali nelle gare d’appalto hanno fatto sì che i lavori venissero bloccati, immobilizzando e danneggiando significativamente le infrastrutture siciliane.
Un’Odissea tutta siciliana
Dopo quasi tre ore di viaggio in treno, arriviamo finalmente a Dittaino. Nemmeno il tempo di poggiare i piedi per terra e sgranchire un po’ le gambe mentre facciamo quattro chiacchiere con gli altri compagni di viaggio che ci viene urlato di entrare nel pullman che poco dopo sarebbe partito alla volta di Catania. Una scorettezza nei confronti dei passeggeri, nei biglietti acquistati su internet era infatti chiaramente indicato che fra una coincidenza e l’altra ci sarebbe stata una pausa di circa venti minuti, il tempo di prendere qualcosa da bere nel modesto bar della stazione. Nonostante queste premesse, siamo stati fatti accomodare nel mezzo di trasporto dall’autista con una certa premura. Ma comunque il pullman non è partito prima delle 11:55 – guarda caso, l’orario scritto sul biglietto -. Siamo rimasti per dieci interminabili minuti chiusi dentro il pullman, a mezzogiorno, con il sole cocente, amplificato dai vetri dell’autobus. Una vera e propria serra con venti persone dentro, di ogni età: bambini, ragazzi, adulti ed anziani. Dopo i primi minuti di agonia, qualcuno ha iniziato a lamentarsi con l’autista, una donna è stata costretta a togliersi la felpa lasciandosi addosso soltanto una maglietta. Un bambino, esasperato dal caldo è sceso accompagnato dalla mamma verso una zona coperta dall’ombra, forse colpito da una insolazione. Anche noi di MOW abbiamo accusato il colpo e quando stavamo per cedere e scendere in cerca della tanto agognata ombra l’autista ha chiuso le porte dell’autobus ed è partito.
L’agonia del pullman
Dopo quasi quattro ore di viaggio l’Odissea è quasi conclusa e come Ulisse ci apprestiamo ad arrivare nella nostra personalissima Itaca. L’arrivo a Catania è previsto per le 13:55. A un certo punto davanti a noi, imponente come un gigante, si presenta il monte Etna, spaventoso – con il suo distruttivo vulcano – ma allo stesso tempo affascinante. L’ultima ora di viaggio scivola via come una goccia d’acqua e in poco più di un’ora arriviamo alla stazione Centrale di Catania, ancor più misera e vuota di quella palermitana. A
l nostro arrivo però ci viene fatta un’inquietante rivelazione dall’autista di un altro autobus, con il quale avevamo preso confidenza. “Vi sarebbe potuta finire molto peggio. Certe volte il viaggio per Catania da Palermo può dilungarsi e durare oltre sei ore, con quattro coincidenze, una dopo l’altra. È un vero inferno. Il ministro Matteo Salvini si fa bello davanti alle telecamere con il ponte sullo Stretto di Messina, ma dovrebbe pensare prima alle nostre infrastrutture. Far arrivare i treni veloci in Sicilia il prima possibile è diventato ormai un imperativo”.
Emanuele Fragasso
(da mowmag.com)
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Dicembre 24th, 2023 Riccardo Fucile
CIRCA 1.000 I TIFOSI CHE ANNO INTONATO CORI RAZZISTI, DENUNCIATI ZERO: LA POLIZIA A COSA SERVE?
La Curva Sud Inferiore dello stadio Bentegodi di Verona dovrà rimanere chiusa per le prossime due partite che la squadra gialloblù giocherà in casa. Lo ha stabilito il giudice sportivo della Serie A, Gerardo Mastrandrea dopo che ieri, nel corso della partita l’Hellas e il Cagliari “al 7′ del secondo tempo, sono stati intonati cori di discriminazione razziale nei confronti di un calciatore del Cagliari”.
Si tratta degli ululati e dei cori per Makoumbou, fatto che nel dopopartita era stato stigmatizzato, fra gli altri, dall’allenatore dei sardi Claudio Ranieri. “Bisogna che chi comanda faccia qualcosa – aveva detto Ranieri -, ancora a prendersela con il colore della pelle…E’ stato un peccato sentire i cori contro Makoumbou, ma ormai è diventato un costume italico”.
Nel comunicato della Lega di A viene anche precisato che “i collaboratori della Procura federale, posizionati in varie parti dell’impianto, riportavano, nella loro relazione, che tali cori venivano intonati da circa 1.000 dei 1.900 sostenitori della Soc. Hellas Verona occupanti il settore denominato ‘Curva Sud Inferiore'”.
Viene poi precisato che il provvedimento della chiusura del settore sarà scontato dal club perché il Verona era già stato sanzionato per il fatti del genere il 13 giugno scorso, con sospensione della pena. Essendo quindi recidivo dopo i fatti di ieri, la pena verrà applicata “come previsto dall’art. 28 comma 7 CGS”.
(da agenzie)
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Dicembre 24th, 2023 Riccardo Fucile
FEDELI INDIGNATI… CI MANCAVA SOTTO NATALE LA LOTTA “AGLI ACCATTONI”, FULGIDO ESEMPIO DI INTERPRETAZIONE DELLO SPIRITO DEL VANGELO
“I fedeli sono pregati di non dare l’elemosina ai mendicanti in chiesa e nemmeno nei dintorni”, parole dure soprattutto se scritte in un cartello affisso in una chiesa. E sotto Natale. La chiesa in questione è quella dell’Adorazione eucaristica perpetua di via Santa Lucia, in centro a Padova.
“Sono scandalizzato, e mi dispiace che sotto Natale non ci sia posto per i poveri in chiesa”, ha commentato al Mattino di Padova don Albino Bizzotto, presidente dell’associazione Beati costruttori di pace. La richiesta va contro i principi cristiani della solidarietà e dell’aiuto ai poveri. Ed è saltato all’occhio dei fedeli, provocandone l’indignazione. Ma l’Opera dell’Adorazione eucaristica perpetua sostiene con forza l’iniziativa: bandita non è l’elemosina, ha precisato, quanto la pratica dell’accattonaggio molesto.
“La chiesa resta sempre aperta, 24 ore su 24. È per questo che noi abbiamo anche il compito di garantire il rispetto e il silenzio in tutti quei momenti di intimo raccoglimento dei fedeli», spiega una referente dell’opera religiosa al Mattino.
“Essendo una chiesa sempre aperta e non una parrocchia, gli accattoni gravitano intorno al luogo di culto a tutte le ore e non solo durante le occasionali funzioni religiose, anche di notte. Questo ha portato problemi anche ai commercianti della zona che si sono lamentati per la presenza costante di gente che chiede l’elemosina”, ha concluso la referente. “Alcuni fedeli sono stati avvicinati in orari notturni da alcuni mendicanti molesti che in modo insistente hanno chiesto denaro, non solo disturbando i momenti di culto, ma diffondendo anche un certo senso di insicurezza”.
Ma per don Albino Bizzotto non ci sono scuse. “I poveri meritano attenzione soprattutto in questi giorni. Certo, va individuato l’opportunismo, ma non agire in modo generalizzato precludendo ai bisognosi la carità”
(da agenzie)
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Dicembre 24th, 2023 Riccardo Fucile
“IO SO’ GIORGIA” NON SI PUÒ PERMETTERE CHE IL PARTITO CHE FU DI BERLUSCONI SPROFONDI ALLE ELEZIONI EUROPEE: CROLLEREBBERO I GIÀ FRAGILI EQUILIBRI NELLA MAGGIORANZA
Meglio spaccare la maggioranza che perdere un alleato. La sopravvivenza di Forza Italia è una delle priorità di Giorgia Meloni. Non è solo cortesia tra soci di governo e nemmeno un debito di riconoscenza verso il fondatore del centrodestra, Silvio Berlusconi, ma anche e soprattutto un calcolo politico.
Fratelli d’Italia, quindi, è pronta a delle concessioni, per far argine al ritrovato dinamismo di Matteo Salvini e per evitare di far saltare gli equilibri dopo le Europee.
Un risultato molto negativo del partito più moderato della coalizione, comporterebbe degli scossoni che Fratelli d’Italia vuole evitare a tutti i costi. I sondaggi per il momento indicano una certa tenuta di Forza Italia, ma le Europee storicamente premiano i primi e tutti si aspettano il boom di FdI.
La premier, quindi, ha mandato segnali agli azzurri: il primo è stato tollerare un voto in dissenso sul Mes (che in fondo ha fatto comodo a tutti), il secondo è rappresentato da qualche concessione sul Superbonus.
Per Forza Italia questa è la grande battaglia, sui territori le pressioni sono fortissime, per non parlare delle associazioni di categoria, che storicamente hanno stretti rapporti con il centrodestra.
«Siamo il partito dei condomini», si scherza, ma non molto tra i berlusconiani. La proroga chiesta a gran voce da Antonio Tajani e i suoi in questi mesi non è stata concessa nella legge di Bilancio, ma qualcosa forse arriverà nel Milleproroghe o in un decreto che il Consiglio dei ministri potrebbe approvare il 28 dicembre.
L’ipotesi di una sorta di sanatoria sulle sanzioni del Fisco per chi ha usufruito del bonus senza terminare i lavori, di cui si è discusso nelle ultime ore, potrebbe essere una soluzione, anche se il ministero delle Finanze non sembra ancora ben disposto. In ogni caso, da un punto di vista politico quello che conta è l’obiettivo finale: concedere qualcosa.
Il segretario Tajani, pur con una serie di cautele, aveva ribadito spesso di essere favorevole a un votare la ratifica del Meccanismo salva Stati, «sarei ipocrita se dicessi che mi sono astenuto volentieri», aggiunge Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera.
L’accelerazione che ha portato alla bocciatura della ratifica è stato oltre che un colpo «alla reputazione dell’Italia», come ripete privatamente il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, anche una mossa che ha spiazzato il partito più europeista della coalizione,
Tajani ha provato a evitare questa deriva, ma poi davanti alla ricorsa sovranista tra Meloni e Salvini, ha ripiegato sull’astensione, giustificata con i dubbi, espressi da anni, sullo strumento finanziario europeo e la sua mancanza di controllo parlamentare.
Vista da un’altra prospettiva, però, tra gli azzurri viene sottolineato che la scelta di distinguersi sia stata avallata da Meloni, che ha preferito rinunciare alla compattezza della maggioranza, per consentire al partito del vicepremier un’uscita dignitosa (sebbene molto criticata all’esterno).
Detto in altro modo: il fatto di distinguersi su un voto così importante può marcare in senso europeista l’identità del partito, alla sua prima vera prova elettorale dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi. La convinzione del vicepremier e che in fondo la votazione sul Mes apra, oltre a una serie di problemi, anche elemento di chiarezza in vista della campagna elettorale.
La bocciatura del Salva Stati e soprattutto il dibattito che ne è seguito hanno, infatti, delineato in maniera chiara quello che sarà lo schema in vista della campagna elettorale delle europee. Matteo Salvini all’attacco con toni fortemente euro scettici, Giorgia Meloni costretta a un equilibrismo complicato tra sovranismo e profilo istituzionale, e Forza Italia unica con un profilo realmente europeista.
(da La Stampa)
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Dicembre 24th, 2023 Riccardo Fucile
DON ABBONDIO E’ IL PARAVENTO DEL SOVRANISMO, L’UOMO CHE ILLUDE (E DELUDE) CHI PENSA CHE DEI NULLAFACENTI POSSANO DIVENTARE UOMINI CHE FANNO L’INTERESSE DELL’ITALIA E NON DEL PARTITO
Giancarlo Giorgetti sulla carta è il più potente dei ministri, quello che gestisce i conti dello Stato, crocevia di ogni nomina che conta e di ogni minuta spesa, dagli investimenti più enormi agli spicci destinati alle bande di paese.
Sulla carta, perché – come scopriamo oggi – non è stato in grado di vincere e nemmeno di combattere la partita del Mes, sulla quale aveva idee diverse e aveva lavorato a differenti intese. Le sue dichiarazioni nel day after della bocciatura sbalordiscono.
La mia intenzione, dice, era approvare il nuovo trattato, non solo per l’impegno preso con i colleghi europei ma anche «per motivazioni economiche e finanziarie»: insomma, perché conveniva al Paese.
E tuttavia, spiega, da qualche giorno aveva capito che «non era aria di approvazione» e dunque gli è toccato adeguarsi e pagare un’altra volta lo scotto personale e politico di una plateale sconfessione. Non farebbe neanche conto parlarne – è già capitato in passato, capiterà in futuro – se la solitudine assoluta di Giorgetti non riassumesse lo stato di assoluta irrilevanza delle aree più ragionanti e meno politiciste della maggioranza, comprese quelle che in teoria avrebbero i numeri, il ruolo e la forza per farsi sentire.
Forza Italia, che con i suoi parlamentari sostiene in modo determinante il governo, si è acconciata a una triste astensione.
I mondi pragmatici della Lega veneta e lombarda, referenti delle imprese che fanno affari con l’Europa e temono ripercussioni, hanno chinato la testa alle decisioni arrivate dall’alto.
Persino Fratelli d’Italia, dove la parola della premier è legge, sembra scombussolata e ha evitato la consueta batteria di dichiarazioni che accompagna le scelte trend-topic del governo: segno che anche lì l’entusiasmo non è alle stelle.
La bandiera bianca di Giorgetti, insomma, marca la resa di chi confidava in una progressiva normalizzazione del sovranismo italiano e ci aveva lavorato.
Sono stati sconfitti, e non si sa bene da cosa. «Un’aria» dice il ministro. Cioè una categoria impalpabile, che non è un ragionamento né una linea politica ma un vento, quindi una specie di fenomeno naturale su cui nessuno può incidere. E dunque è inutile che gli avversari si scaldino, enfatizzino la figuraccia, chiedano al ministro con che faccia si ripresenterà a Bruxelles, chi si fiderà mai più delle sue assicurazioni. È stato lo scirocco a girare le vele, amen.
Scopriremo presto le conseguenze del giro di brezza sul Paese, sia sotto il profilo della credibilità (mai nella nostra storia era successo che un trattato già approvato dal governo non fosse ratificato) sia nelle contrattazioni di ogni natura in corso con l’Unione. È invece già evidente l’aspettativa dei leader che hanno determinato la strambata e dei molti che si sono sottomessi alle loro improvvise decisioni: un due o tre per cento in più di voti alle prossime europee, tre o quattro euro-deputati strappati agli altri in nome dell’estremismo e dei pugni sul tavolo, una sorridente comparsata nei tg la notte degli exit poll. È questa la possibilità che ha isolato Giorgetti, zittito i potenti governatori leghisti del Nord, mortificato le sparse truppe di Forza Italia e tutti coloro che non hanno neanche provato a battersi contro una decisione priva di ogni convenienza e logica.
Ma siamo sicuri che il vento soffi in quella direzione? Al momento il revanchismo euroscettico delle destre non solo non ha portato risultati positivi per l’Italia (la riforma del patto di stabilità insegna) ma neanche sommovimenti nei sondaggi. I numeri restano fermi, anzi segnalano qualche ribasso. Forse non è scirocco ma maestrale, vai a vedere…
(da La Stampa)
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Dicembre 24th, 2023 Riccardo Fucile
NON DISTURBARE IL MANOVRATORE: ALLERGIA AI CONTROLLI, I SOVRANISTI VOGLIONO ANNULLARE OGNI VINCOLO
E pure la Corte dei Conti è sistemata dopo aver messo a cuccia l’Anac e tutti gli altri – dal Consiglio di Stato a Bankitalia passando per il Servizio Bilancio del Senato – che si sono permessi di alzare il ditino, contestando questa o quella misura al governo. Morale: zitti e mosca.
E questo è solo l’antipasto toccato in sorte agli organismi di controllo e mica solo a loro: il diktat “zero emendamenti” alla Manovra partito a ottobre da Palazzo Chigi ha dato plastica conferma del ruolo ancillare, per non dire decorativo, che sivuole riservare al Parlamento con la “riforma delle riforme” targata Casellati. Che formalizzerà il nuovo assetto: addio alla centralità riservata dalla Costituzione a Camera e Senato per far posto a un Parlamento alle dipendenze dell’esecutivo.
Un disegno in ossequio alla governabilità che trasuda di particolari intenzioni ideologiche, per non dire vendicative.
Un esempio? La costituzionalizzazione del Porcellum che la Consulta aveva bocciato nel 2013 ritenendo “una oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica” il premio di maggioranza che adesso è blindato direttamente in Costituzione.
Per tacere dell’altro trauma subìto dal centrodestra: la decadenza, sempre nel 2013, di Berlusconi da Palazzo Madama anche per mano dei senatori a vita. Contro cui all’epoca Maria Elisabetta Alberti Casellati, ministra delle Riforme entrata nell’orbita di Giorgia Meloni, aveva usato l’arma della ritorsione: aveva sostenuto che Rubbia, Abbado, Piano e soprattutto Cattaneo non avevano sufficientemente illustrato la Patria per meritare il laticlavio donato loro dal Quirinale: oggi eccola servita la vendetta della loro estinzione.
Ma torniamo ai lavoretti di fino e cioè a Calderoli all’opera sull’autonomia differenziata già ribattezzata la secessione dei ricchi: l’ha appaltata alle cure della commissione dei suoi saggi con il risultato che il Parlamento pende dalle labbra di Cassese&Co per sapere quali siano mai i diritti fondamentali minimi che lo Stato deve continuare a garantire ai cittadini da Trieste in giù e quali altri dipenderanno dalla fortuna di essere nati nella regione giusta. Chi vivrà vedrà. Intanto il governo di Giorgia Meloni si è già sbizzarrito sul resto facendo ballare i disfattisti, insomma quanti sono più o meno apertamente accusati di remare contro il nuovo corso. Ecco allora materializzarsi la cura del sale che assomiglia molto da vicino alla mordacchia, specie nei confronti degli organismi di controllo democratico: il ceffone rifilato alla stampa con l’approvazione di un emendamento che impone il divieto della pubblicazione delle misure cautelari in ossequio al diritto alla privacy degli indagati è solo l’ultimo esempio.
Al Consiglio di Stato che ha osato bocciare la riorganizzazione dei ministeri, Palazzo Chigi ha risposto tra l’altro con un’infornata di “giudici” di nomina governativa che a Palazzo Spada ora saranno chiamati a giudicare gli atti delle amministrazioni di cui facevano parte fino al giorno prima.
E ancora. In attesa della riforma Nordio che, per come s’annuncia farebbe la gioia di Silvio Berlusconi, al Consiglio superiore della Magistratura in più di un’occasione si è materializzato l’orrido sospetto della vendetta politica contro i magistrati ritenuti ostili. Come nella pantomima sulla richiesta di distacco per un incarico in Europa di Lorenzo Jannelli che aveva al tempo disposto il rinvio a giudizio per Matteo Salvini per la vicenda Open Arms.
Eppoi le dita negli occhi all’Anac, rea di aver criticato la riesumazione della vecchia gara per il Ponte sullo Stretto di Messina, il nuovo codice degli appalti e i rischi legati all’abolizione dell’abuso d’ufficio: dentro la maggioranza c’è chi, come Salvini, ha chiesto le dimissioni del presidente Busìa mentre il ministro Nordio ha ben pensato di escluderlo dalla delegazione governativa alla Conferenza Onu sulla corruzione.
Le misure anticipate dal Fatto Quotidiano che riguardano la Corte dei Conti vanno nella stessa direzione: la sterilizzazione nei fatti dei controlli per consegnare ai dirigenti pubblici lo scudo contro il danno erariale da accompagnare a quello penale che è solo questione di tempo.
(da il fattoquotidiano.it)
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Dicembre 24th, 2023 Riccardo Fucile
IL GOVERNO MELONI STA BATTENDO I RECORD DI QUESTIONI DI FIDUCIA, SVILENDO SEMPRE PIU’ IL PARLAMENTO
Un parlamento usato come paravento sul Mes. Il governo ha scaricato su Montecitorio la responsabilità della bocciatura sul fondo salva Stati. «Lasciamo decidere il parlamento sovrano», è stata la linea dettata da Palazzo Chigi e seguita a ruota da tutti i ministri. Compreso il Mef di Giancarlo Giorgetti. Un impeto di sovranità parlamentare, il primo della legislatura peraltro, funzionale per la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: ha potuto assumere una linea pilatesca su un tema scottante.
A conti fatti, il no al Mes rappresenta un’ulteriore umiliazione delle prerogative dei deputati. Prima con la pantomima del parere in commissione Bilancio e poi con la votazione in aula. Il governo ha ordinato l’operazione, la Camera ha eseguito invertendo l’ordine lavori dopo aver sempre usato il calendario come strumento per rinviare la scelta.
Del resto Montecitorio e Palazzo Madama sono rimasti due edifici da visitare, da aprire agli studenti e alle visite guidate, che ogni volta restano sorpresi di fronte a tanta bellezza. La funzione istituzionale è stata depotenziata, quasi cancellata. Con un danno collaterale, tutt’altro che secondario: deputati e senatori sono il riempitivo degli stucchi e degli affreschi di Camera e Senato. L’appeal per il ruolo di “rappresentante del popolo” è calato. Non attira affatto l’idea di trasformarsi in esecutori di scelte assunte altrove, a Palazzo Chigi. O, come nel caso del Mes, di fare il lavoro sporco per conto del governo.
MELONI A TUTTA FIDUCIA
Le classi dirigenti non si formano più nelle istituzioni. I professionisti, gli imprenditori, gli artisti si tengono ben lontani dall’ipotesi di una candidatura, preferiscono continuare la loro vita lavorativa. Più soddisfacente. Insomma, il mito della buvette, dove prendere un caffè attorniati da giornalisti, e il fascino del corridoio dei passi perduti, il Transatlantico, sono sbiaditi. La responsabilità è della riduzione del numero di parlamentari. Ma anche del fatto che non ne vale la pena. Lo svilimento delle funzioni è sotto agli occhi di tutti, gli “onorevoli” sono appena percettori di stipendi, ridotti al ruolo di schiaccia-bottoni.
La tendenza non è attribuibile esclusivamente a questa legislatura. Lo svuotamento del parlamento è iniziato da anni, da qualche decennio, e prosegue con un’erosione inarrestabile. Il governo Meloni ha assestato il colpo di grazia. La galleria di questioni di fiducia posta sui provvedimenti è lunga. Dall’insediamento a Palazzo Chigi, è stata posta 45 volte, con la media di 3,2 al mese, in poco più di un anno, uguale a un esecutivo tecnico, quello di Mario Draghi, che per la disomogeneità della maggioranza era costretto a blindare i provvedimenti. Per rendere l’idea delle proporzioni, il governo Renzi ha chiesto la fiducia 66 volte, ma in tre anni, non in 14 mesi. Con questo ritmo Meloni schianterà tutti i record.
La blindatura dei testi è connessa all’abuso di decretazione d’urgenza, che ha relegato ai margini lo strumento dei disegni di legge ordinari. L’esito finale è che deputati e senatori non possono incidere sui testi. L’esempio più rumoroso è la manovra, che attende l’ultimo passaggio a Montecitorio il 29 dicembre. Il diktat sugli «emendamenti zero» ai parlamentari di maggioranza è precedente pesante. Mai si era vista una tale evanescenza del dibattito sulla legge di Bilancio. Decidono i leader.
Un cortocircuito istituzionale che vede i presidenti di Camera e Senato, Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa, spettatori quasi impotenti. Solo dal Quirinale arrivano le reprimende, seppur con il tono garbato tipiche del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Nello scambio di auguri natalizi ha fatto appello al «ruolo fondamentale del parlamento». Palazzo Chigi è un muro di gomma.
PEONES SPARITI
Così sono ancora più diradate le leggendarie figure della cronaca politica: i peones. Sono stati il salvavita di molte legislature, finendo per essere mescolarsi con l’immagine del voltagabbana. Quando si annusava l’aria di una possibile crisi di governo, e un eventuale ritorno anticipato alle urne, il peone di turno era capace di votare tutto l’invotabile per allontanare la prospettiva elettorale. E tenersi stretto il seggio. Gli archetipi più recenti sono Domenico Scilipoti e Antonio Razzi, i salva-Berlusconi nel 2010, che per quello sono usciti dal cono d’ombra dei peones tradizionali. Che per definizione si aggirano come anime in pena. Preoccupati solo dalla rielezione.
Certo, di tanto in tanto, qualche peones si è tolto lo sfizio di lasciare il segno su qualche provvedimento con un emendamento o una legge. Entrando nella storia politica. Basti pensare al Lodo Cirielli, firmato appunto da Edmondo Cirielli. Una delle leggi ad personam di Silvio Berlusconi, portava la firma di un allora misconosciuto parlamentare del centrodestra. Poi diventato più noto nel tempo grazie alla militanza in Fratelli d’Italia.
Più indietro negli anni c’è stata la “rivolta dei peones”, capeggiata dal democristiano Gerardo Bianco nel 1979, che ottenne l’elezione a capogruppo alla Camera, grazie ai parlamentari invisibili, i peones, in grado di capovolgere l’accordo tra le correnti della Dc. Oggi sarebbe impensabile. Perché i peones non sono nemmeno peones. Sono innocui e basta. L’ultimo voto sul Mes è il sigillo.
PROFESSIONISTI LONTANI
Ecco che quindi imprenditori di spicco, avvocati di grido, giornalisti di primo piano si tengono lontani dalla candidatura. In molti casi, l’indennità da parlamentare è una diminutio rispetto ai loro redditi. Non c’è nemmeno una ragione economica per diventare “onorevoli”. Dal punto di vista numerico, anche nell’attuale parlamento, la parte del leone è ricoperta dagli avvocati, con l’ex ministra Giulia Bongiorno della Lega e il leader dei 5 stelle, Giuseppe Conte come alfieri.
Sono i profili di maggior peso, per la gran parte si tratta di legali con un onorato curriculum, ma meno noti. Così come il gotha dell’imprenditoria si tiene ben lontana dai corridoi istituzionali. Non si vede un Umberto Agnelli eletto dei tempi che furono nella Prima Repubblica. Uno degli ultimi a provarci è stato Alberto Bombassei, fondatore della Brembo, eletto deputato di Scelta civica nel 2013, il partito di Mario Monti. Del resto, pure gli eredi di Silvio Berlusconi, prototipo dell’imprenditore prestato alla politica (come amava essere descritto), si guardano bene dalla “discesa in campo”.
Quella di Michele Cimmino, imprenditore della moda proprietario di marchi come Carpisa e Yamamay, è una storia paradigmatica. Nel 2015 rassegnò le dimissioni da parlamentare: era entrato in Transatlantico con Scelta civica. Vedendo da vicino le istituzioni, e dopo lo sfaldamento del progetto politico di Monti, chiese ai colleghi di accettare le sue dimissioni da deputato. Si sentiva più utile fuori. E dire che, rispetto a oggi, quel parlamento aveva un grado di incidenza maggiore. Insomma, la classe dirigente sta lontana dalle aule, che di contro non formano classi dirigenti ma abbondano schiere di fedelissimi premi-bottoni.
CAMERA SENZA ARTE
Pure gli artisti hanno smarrito la pulsione verso il palazzo. Negli ultimi giorni si sta molto celebrando la carriera di Gino Paoli, all’alba dei 90 anni, che ha scritto la storia della musica italiana. E che vanta un’esperienza in parlamento. Nel mondo della cultura ci sono tanti altri nomi che sono stati affascinati dall’elezione in parlamento: dal regista Giorgio Strehler allo scrittore Leonardo Sciascia. Fino a Renato Guttuso. Chissà cosa avrebbero pensato di una finanziaria ammutolita per volere del governo.
In questo clima di yes-men non vengono più valorizzati i conoscitori delle regole parlamentari, capaci di muoversi tra le pieghe di articoli e commi, che sovrintendono il funzionamento dei palazzi istituzionali.
Uno di questi è Simone Baldelli, ex deputato di Forza Italia. A Montecitorio conosceva tutti i cavilli possibili. Si era guadagnato un posto da vicepresidente. Ma addirittura non è stato candidato alle ultime elezioni. Profili del genere erano indispensabili nelle aule. Ora non più. La rassegnazione regna sovrana in Transatlantico. I tempi cambiano. Il parlamento è svilito. E si sente addirittura la nostalgia dei peones.
(da editorialedomani.it)
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Dicembre 24th, 2023 Riccardo Fucile
CADUTA NEL TRANELLO DI SALVINI, MELONI ORA TEME IL VOTO AL SUD, DOVE PESERA’ IL TAGLIO AL REDDITO DI CITTADINANZA… MENTRE IN EUROPA GLIELA FARANNO PAGARE
Dopo il salto nel buio del no alla ratifica del Mes, a palazzo Chigi è arrivato il momento della paura. La scelta è stata decisa in un blitz dell’ultimo minuto dalla premier Giorgia Meloni in persona – e non avrebbe potuto essere diversamente vista la portata della decisione – la quale si è mossa in preda a quella che spesso i suoi definiscono «trance agonistica».
Incalzata dal nemico-alleato Matteo Salvini, Meloni ha scelto di seguire l’unico faro che la guida quando viene messa alle strette: la ricerca del consenso, fondamentale soprattutto ora che la competizione per le elezioni europee della primavera 2024 è di fatto cominciata anche dentro il centrodestra.
Accettare la sfida di Salvini e dire no al Mes, però, ha un prezzo e solo ora la premier si sta rendendo conto di quanto sarà salato. Tanto da insinuarle il dubbio, sufficiente a guastare il cenone della vigilia di Natale, di aver commesso un errore imperdonabile.
IL FRONTE INTERNO
La Lega, infatti, ha pienamente rivendicato la vittoria del no al Mes, trionfo del duo euroscettico Borghi-Bagnai e sconfitta cocente del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che nei giorni scorsi ha detto chiaramente che lui al Mes avrebbe «detto sì, ma non era aria» e su questo dovrà intervenire in audizione urgente in commissione Bilancio chiesta dalle opposizioni.
Proprio la posizione così esplicita del Mef – che spesso aveva avvertito sui rischi europei di uno strappo del genere – ha fatto capire a Meloni di aver sottovalutato Salvini e il tranello in cui l’ha fatta cadere.
Il ministro dei Trasporti l’ha stuzzicata e sfidata fino a costringerla all’estremo gesto di coerenza rispetto agli annunci elettorali. La premier lo ha seguito a testa bassa, senza considerare di avere – rispetto all’alleato – una responsabilità in più rispetto ai suoi interlocutori europei, presso i quali ora la sua credibilità è minata.
Non solo. Elettoralmente parlando, la sensazione nella maggioranza è che il Mes sia un tema poco capito e ancor meno considerato: utile alla Lega che su questo ha marciato, ma molto meno per Fratelli d’Italia che ha sempre puntato su altri argomenti.
Finita appunto la trance agonistica, ora a palazzo Chigi si sta guardando con più lucidità alla prossima sfida elettorale europea a cui Meloni dovrebbe partecipare in prima persona. E inizia a serpeggiare un sospetto: che la vera emorragia di voti rischi di essere al sud, in favore dell’odiato Giuseppe Conte e del Movimento 5 stelle.
Molto più del Mes, infatti, al meridione è arrivato forte e chiaro il taglio netto e traumatico del reddito di cittadinanza, con le nuove e ridotte misure sostitutive introdotte dal ministero del Lavoro ancora poco chiare e di difficile accesso. È quello che si ricorderanno gli elettori vecchi e potenziali della premier, al momento di entrare nelle urne.
IL FRONTE EUROPEO
L’altro errore di calcolo di Meloni ha riguardato le cancellerie europee. Secondo fonti del governo, la premier non si sarebbe aspettata una reazione così dura da parte dei partner europei nel bollarla come inaffidabile.
Dopo tutti gli sforzi di costruirsi una credibilità in Europa, «parlando con tutti e 26 gli stati e non solo con Francia e Germania», il castello di carte sembra crollato in un soffio.
Giorgetti l’aveva messa in guardia, avvertendola del suo crescente disagio ad ogni riunione con gli altri ministri dell’Economia e anche delle fortissime pressioni arrivate anche attraverso comunicazioni scritte, l’ultima quella del presidente dell’Eurogruppo Paschal Donohoe. Ora gli effetti rischiano di farsi sentire, se non in modo diretto quantomeno a livello di trattative già in corso.
Uno è quello che riguarda il Pnrr: nessun legame con il Mes né rischi che salti qualcosa visto che i prossimi mesi saranno per tutti di campagna elettorale. Tuttavia da Bruxelles dovrà arrivare il via libera alle ultime rate con la valutazione del corretto raggiungimento di tutti i traguardi. Una valutazione che può essere lenta o veloce, anche a seconda dell’affidamento delle burocrazie unionali rispetto alle informazioni fornite dall’Italia.
LE BANCHE
Un ultimo livello di errore, che però rischia di essere concretamente anche quello più impattante, riguarda la sottovalutazione di Meloni rispetto ai desiderata del sistema bancario italiano.
È vero ciò che tutto il governo ha sempre ripetuto: le banche italiane sono piuttosto forti in questa fase, ma i pericoli non sono solo quelli interni. Il mondo bancario, infatti, teme soprattutto la speculazione straniera a cui l’Italia è fortemente esposta anche a causa del debito pubblico.
Questo viene considerato una sorta di pericolo latente e sempre in agguato, che ogni scossone – come appunto la mancata ratifica del paracadute europeo del Mes – potrebbe risvegliare. Questa scelta così repentina è stata poco apprezzata dalla galassia del risparmio italiano, che lo considera l’ennesimo sgarbo dopo quello sulla tassa sugli extraprofitti, di cui il sistema rischia di risentire.
Tutti questi elementi messi insieme sono diventati fonte di pressione e di preoccupazione a palazzo Chigi, che anche di questo dovrà rispondere nella conferenza stampa di fine anno slittata al 28 dicembre, dove ogni parola della premier verrà soppesata, non solo dalla stampa.
(da editorialedomani.it)
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