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NELLA CHIESA ITALIANA SCATTA LA RESA DEI CONTI: L’ELEZIONE DEL QUARTO PAPA STRANIERO CONSECUTIVO FA ESPLODERE RABBIA E VELENI TRA I PORPORATI DEL NOSTRO PAESE

Maggio 10th, 2025 Riccardo Fucile

L’ARCIVESCOVO MICHELE PENNISI: “DIVISI SI FA POCA STRADA” – LE SPACCATURE SONO COSTATE CARE … IL “FAVORITO”, PIETRO PAROLIN, È STATO COSTRETTO A UN PASSO INDIETRO DOPO LA TERZA VOTAZIONE… I PIU’ “BERGOGLIANI” PIZZABALLA E ZUPPI NON SONO STATI MAI DAVVERO IN CORSA – DI FRONTE ALLA DISPERSIONE DEL VOTO ITALIANO, I CARDINALI USA HANNO TROVATO UNA INASPETTATA COMPATTEZZA ATTORNO ALLA “FIGURA PONTE” DI PREVOST CHE, UNA VOLTA IN CONCLAVE, HA INCONTRATO IL GRADIMENTO DEGLI ASIATICI (IN FUNZIONE ANTI-CINA) E DEGLI AFRICANI

Il quarto Papa straniero consecutivo è un’altra delusione per una Chiesa italiana sempre più periferica. Ci sarà tempo per riflettere sul sogno svanito di un Pontefice nazionale dopo 47 anni, intanto è iniziata la resa dei conti. «Divisi si fa poca strada», osserva l’arcivescovo Michele Pennisi, ex rettore del Collegio Capranica.
C’è delusione adesso tra gli italiani, anche rabbia. C’è appunto la speranza svanita di un Papa italiano. «Manca una leadership forte: ce ne sono diverse ma non in grado di esercitare una guida culturale autorevole – analizza il sociologo della religione Franco Garelli -. Sono medie leadership, presuli bravi e con seguito, ma manca una figura che sia punto di riferimento per l’episcopato».
Questo, continua Garelli, «è l’effetto anche delle nomine di Francesco, che non ha voluto nel sacro collegio i titolari di diocesi tradizionalmente importanti come Milano, Venezia, Firenze, Palermo. Nella scelta dei vescovi e dei cardinali sono carenti in Italia figure di livello intellettuale. Sono stati scelti molti preti di strada, ma così il pur importante aspetto sociale e della testimonianza non è bilanciato da quello culturale.
Nel passato c’erano figure come Giacomo Biffi, Salvatore Pappalardo, Camillo Ruini, Carlo Maria Martini, Silvano Piovanelli, Marco Cé: si stimolavano a vicenda».
Lo stesso in Curia, dove l’Italia era rappresentate da figure autorevoli come Agostino Casaroli, Achille Silvestrini, Angelo Sodano, Fiorenzo Angelini e altri. «C’è bisogno di alzare il livello delle gerarchie italiane. C’è un po’ di provincialismo – sottolinea il sociologo -.
Prevost è dentro un meccanismo geopolitico, gli italiani sembrano accartocciati sul loro piccolo mondo. Era stata enfatizzata troppo la possibilità di un Papa italiano. Parolin è un ottimo numero due».
Le divisioni sono costate care all’interno di un fronte che potenzialmente poteva contare su più voti di qualunque altra nazione, ma che li ha subito dispersi tra rivalità e vecchie e nuove ruggini come il caso Becciu.
Spiega un porporato: «Se Parolin non avesse fatto un passo indietro dopo la terza votazione la fumata bianca non sarebbe arrivata così rapidamente, ma quando ha visto che gli mancavano i voti anche di chi glieli aveva garantiti ha preferito unire invece che dividere».
Evidenzia sul quotidiano dei vescovi italiani Avvenire padre Albanese: «In una stagione come la nostra segnata spesso da divisioni anche nel tessuto ecclesiale, il ruolo di papa Prevost è un segno di speranza. Il fatto stesso che sia un papa dalle due nazionalità – statunitense di nascita e peruviana di missione – dice che la missione stessa disegna per lui l’identità della Chiesa e della sua Storia.
In una battuta dallo “ius soli” allo “ius missionis”. Tutto questo nella cristiana certezza, come si legge nella sua prima omelia tenuta nella Cappella Sistina: urge la missione».
Se qualche moderato italiano si era convinto a votare il segretario di Stato di Francesco, Pietro Parolin, scommettendo sul fatto che avrebbe sì rappresentato una continuità con il Papa argentino ma che avrebbe anche messo il freno a una serie di riforme per le quali la Chiesa italiana non era così pronta – come, ad esempio, quella tedesca -, altri si erano concentrati su nomi più “bergogliani”.
Tra questi l’arcivescovo di Bologna e presidente Cei, Matteo Zuppi, forte pure di un gradimento trasversale per la sua attività internazionale al fianco della Comunità di Sant’Egidio, o Pier Battista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, francescano, ma gradito anche all’universo di Cl con la sua provenienza lombarda.
Di fronte alla dispersione del voto italiano, i cardinali Usa hanno trovato una inaspettata compattezza attorno alla figura ponte di Prevost, che poi, una volta entrata in conclave ha incontrato il gradimento degli asiatici (in funzione anti-Cina) e degli africani, in funzione di argine alle aperture sui temi Lgbtq+ e allo sfaldamento della famiglia tradizionale uomo-donna.
Le prime votazioni hanno subito bruciato Parolin. Un presule della sua esperienza ha immediatamente compreso la situazione, scegliendo il gesto nobile del passo indietro.
Dopo i due scrutini della mattinata, al momento del pranzo c’è stato il confronto decisivo. E anche drammatico. Da lì tutto si è consumato in fretta. Nel quarto scrutinio si è affermato lo statunitense missionario in Perù, il quorum raggiunto in modo schiacciante.
Proprio a Parolin, il primo dei cardinali per ordine, a nome di tutto il collegio, era toccato il compito di pronunciare la formula latina. «Accetti la tua elezione, canonicamente avvenuta, a Sommo Pontefice?» . E appena ricevuto il consenso, l’altra domanda: «Con quale nome vuoi essere chiamato?» .
«Leone XIV». Pochi secondi per guardarsi negli occhi tra vincitore e sconfitto. A sera il sipario del Conclave cala e se ne apre un altro, quello della Loggia delle benedizioni.

(da La Stampa)

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LA GRANDE FUGA DA VIA ARENULA: TRA DIMISSIONI A RAFFICA E NOMINE BLOCCATE, AL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA SONO SENZA GUIDA TRE DIPARTIMENTI SU CINQUE

Maggio 10th, 2025 Riccardo Fucile

MENTRE PROSEGUE LO STALLO SUL CAPO DEL DAP, DOVUTO ALLO SCONTRO DEL SOTTOSEGRETARIO DELMASTRO CON IL COLLE, IL CSM HA UFFICIALIZZATO GLI ADDII DI ALTRI DUE DIRIGENTI, LUIGI BIRRITTERI E GAETANO CAMPO. E I LORO SOSTITUTI NON ARRIVERANNO A BREVE

Sei alti dirigenti dimissionari in poco più di un anno, tre dipartimenti su cinque rimasti ufficialmente senza un capo. Sono i numeri record (in negativo) della grande fuga dal ministero della Giustizia di Carlo Nordio
Un’emorragia senza precedenti che ha avuto il culmine mercoledì scorso, quando il Consiglio superiore della magistratura ha dato l’ok al ritorno in toga di Luigi Birritteri e Gaetano Campo, i due magistrati scelti dal ministro per guidare rispettivamente i dipartimenti degli Affari di giustizia (Dag) e dell’Organizzazione giudiziaria (Dog).
Birritteri, com’era noto, ha chiesto di rientrare in ruolo il 10 aprile scorso; Campo l’ha imitato sei giorni dopo, il 16. Prima di loro, nell’arco di pochi mesi, avevano lasciato altre quattro figure centrali: il capo di gabinetto Alberto Rizzo la direttrice dell’Ispettorato Maria Rosaria Covelli, il capo della digitalizzazione Vincenzo De Lisi e il numero uno del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Giovanni Russo.
Carlo Nordio e Luigi Birritteri
Se i primi tre sono stati sostituiti, la nomina del nuovo capo del Dap manca ormai da quasi sei mesi: la Presidenza della Repubblica infatti ha bloccato la promozione della vice Lina Di Domenico, decisa in quattro e quattr’otto da Andrea Delmastro, sottosegretario di FdI con delega alle carceri, senza consultare il Colle.
E ora che il Csm ha ufficializzato gli addii di Campo e Birritteri, restano senza guida anche altre due strutture fondamentali come il Dag, competente tra l’altro sulla cooperazione internazionale, e il Dog riferimento organizzativo di tutti gli uffici giudiziari italiani.
I nuovi capi in realtà sono già stati scelti: agli Affari di Giustizia andrà Antonia Giammaria, già pm a Roma e direttrice generale degli Affari giuridici e legali, all’Organizzazione Stefano De Michele, già presidente del Tribunale di Tivoli e attuale dg delle Risorse. Ma i tempi dell’avvicendamento non saranno brevi: Nordio vuole evitare a tutti i costi un nuovo incidente col Quirinale e quindi saranno compiuti tutti i necessari passaggi – formali e informali – prima di procedere alle nomine.
Per quanto riguarda il caso Dap, invece, la soluzione non è ancora in vista: rispondendo a un’interrogazione parlamentare, il Guardasigilli ha fatto capire di voler insistere sul nome di Di Domenico, che nel frattempo governa di fatto il dipartimento come reggente.
Giovanni Russo Carlo Nordio
Secondo innumerevoli retroscena (mai smentiti), la ragione dietro la maggior parte degli addii è lo strapotere della capa di gabinetto Giusi Bartolozzi, magistrata fuori ruolo e già deputata di Forza Italia. Ascoltatissima da Nordio, è stata la vice di Rizzo per un anno e mezzo, scavalcandolo però in continuazione, tanto da spingerlo alle dimissioni.
Promossa al posto del suo ex superiore, Bartolozzi ha accentrato su di sé il controllo di quasi tutte le articolazioni del dicastero, tanto da guadagnarsi nomignoli di “ministra ombra” o “zarina“.
Andrea Delmastro Lina di Domenico
Nel caso dell’ex capo Dap Russo, invece, a pesare è stato il rapporto teso con Delmastro, definitivamente compromesso dopo che il dirigente ha reso una testimonianza sfavorevole al sottosegretario (poi condannato in primo grado a otto mesi) nel processo a suo carico per rivelazione di segreto per il caso Cospito.
Ancora diversa la vicenda di Birritteri, precipitata a causa dello scandalo Almasri: erano stati i suoi uffici, infatti, a preparare l’atto per chiedere di tenere in carcere il generale libico accusato di torture.
Ma il ministro aveva rifiutato di firmarlo e trasmetterlo alla Corte d’Appello di Roma, permettendo così la liberazione.

(da Il fatto Quotidiano)

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“LEONE XIV SARÀ UN MIX TRA BENEDETTO E FRANCESCO” : IL CARDINALE AMERICANO TIMOTHY DOLAN, LEADER INDISCUSSO DELLA GALASSIA CONSERVATRICE CATTOLICA E AMICO DI TRUMP, SI DICE SODDISFATTO PER L’ELEZIONE DI ROBERT FRANCIS PREVOST

Maggio 10th, 2025 Riccardo Fucile

“NON CERCA IL POTERE, MA IL SERVIZIO. NON UN PROGRAMMA POLITICO O UNA STRATEGIA COMUNICATIVA, MA LA TESTIMONIANZA DEL VANGELO. IL RAPPORTO CON TRUMP? COSTRUIRÀ UN PONTE ANCHE CON LUI”… MA LA BASE MAGA È INFURIATA: PER STEVE BANNON È “LA SCELTA PEGGIORE”

Il cardinale Timothy Dolan è un leader indiscusso della galassia conservatrice cattolica, non solo degli Stati Uniti, amico di Donald Trump, è stato protagonista assoluto sui social nelle intense giornate pre-Conclave. Su X ha scritto: «La preghiera viene prima di tutto. Se non basiamo il nostro lavoro sulla preghiera, siamo nei guai».
Si mostra soddisfatto per l’elezione di Robert Francis Prevost, Leone XIV.
Come vede il futuro della Chiesa con Leone XIV?
«Pieno di speranza. Leone XIV è un uomo di profonda fede, radicato nella preghiera e capace di ascoltare. Non cerca il potere, ma il servizio. Questo è ciò che ci fa ben sperare: non un programma politico o una strategia comunicativa, ma la testimonianza concreta del Vangelo
Lei come ha vissuto il Conclave?
«Le racconto questo. Ho ricevuto un messaggio dal mio pronipote Charlie, che è nato il giorno dell’elezione di papa Francesco: “Zio Tim, abbiamo tutti guardato il fumo bianco, stiamo esultando per Papa Leone. E stiamo piangendo. E siamo felici che tu non sia papa, così torni a casa” (sorride, ndr). Ho vissuto lo stesso entusiasmo che viene dalla bocca di un ragazzino di 12 anni: puro e contagioso. Sono onorato, come discepolo di Gesù Cristo, come prete, vescovo e cardinale, di avere vissuto il Conclave. E adesso questo grande momento di euforia».
Leone XIV è il primo Papa nato negli Stati Uniti. Che effetto fa
«È motivo di orgoglio e gratitudine per noi. Ma va detto che Leone XIV è anche cittadino peruviano. Ha vissuto in missione in Perù per decenni, si è legato moltissimo alla gente del posto, e ha preso la cittadinanza. È davvero un cittadino del mondo. E ci ricorda che, come insegna San Paolo, la nostra vera cittadinanza è in cielo».
Che ruolo gioca, secondo lei, la nazionalità del Papa nell’elezione?
«Da dove viene non è irrilevante, ma non è centrale. Robert Francis Prevost non c’è più: ora c’è Papa Leone. Gesù ha cambiato il nome del primo Papa – da Simone a Pietro – perché inizia una nuova missione. Così anche oggi. È il Santo Padre, il successore di Pietro. Il padre della Chiesa universale».
La sua nomina è stata anche geopolitica?
«No, non c’è stata questa finalità. Forse nel 1978, con Giovanni Paolo II e l’egemonia comunista, il contesto delle relazioni internazionali può avere
influito sulla scelta. Ma oggi non vedo nulla di simile. Il nuovo Papa è stato eletto perché è un uomo di Dio, un costruttore di ponti».
A proposito di ponti, come saranno secondo lei i rapporti tra Leone XIV e Donald Trump?
«Il Papa costruirà ponti con i leader di ogni nazione. Anche con il presidente Trump.
È proprio questo che significa la parola latina “pontefice”: colui che costruisce ponti. Non ci sarà un leader che Papa Leone considererà più o meno importante di un altro. Nei prossimi giorni comincerà a incontrare quotidianamente capi di Stato e rappresentanti di tutto il mondo, con la stessa volontà di dialogo».
Intravede un legame diretto di Leone XIV con i predecessori?
«Potrebbe essere una combinazione di Benedetto XVI e Francesco. Come sant’Agostino, papa Prevost ha un’intelligenza profonda, e sa anche che la fede deve toccare il cuore, deve potersi esprimere in modo credibile, coinvolgente e concreto. Ha un fervore missionario, e una mente teologica solida. Una bellissima combinazione».
Che Papa cercavate?
«Un pastore. È ciò che è Gesù. Questa sarà la domenica del Buon Pastore. Il Papa deve essere un buon pastore. E Papa Leone ha una vasta esperienza pastorale. È nel suo curriculum. Papa Francesco ce l’aveva. E il Signore sa che anche Papa Leone ce l’ha».
Com’era il cibo durante il Conclave?
«È stato un ottimo incentivo per concludere tutto più in fretta possibile (ride, ndr)».
Meno di ventiquattr’ore dopo la fumata bianca, negli Stati Uniti sono tutti d’accordo: il primo Pontefice americano della storia non sarà un amico del presidente Donald Trump.
Giornali e tv concordano sul peso della nomina di Robert Francis Prevost: vi
da Chicago, parlerà la stessa lingua della Casa Bianca, ma solo a livello semantico.
Sui contenuti sarà tutto diverso. É costruttore di ponti, non di muri, è contro la proliferazione delle armi, la pena di morte e le deportazioni. La base trumpiana del movimento Maga — in un Paese con 60 milioni di cattolici, di cui il 59 per cento ha votato a destra — è sempre più delusa e infuriata.
L’ex capo stratega della Casa Bianca, Steve Bannon, ha parlato di «peggiore scelta per i cattolici Maga». «È un voto anti-Trump — ha aggiunto — da parte dei globalisti della curia ». Una settimana fa Bannon aveva previsto l’elezione di Prevost, indicandolo come espressione del “Deep Church”, l’equivalente in Vaticano del “Deep State”, lo Stato oscuro che, secondo i cospirazionisti di destra, complotta contro il presidente. L’influencer molto ascoltata da Trump, Laura Loomer, ha definito Leone XIV una «marionetta marxista».
Il tabloid conservatore New York Post ha sottolineato, con preoccupazione, come «questo Papa porti avanti la visione progressista di Francesco».
Il Daily Beast si è soffermato sulle critiche dei commentatori di estrema destra e ricordato come il discorso inaugurale Prevost sia stato di critica alle politiche anti- immigrazione di Trump. La rete trumpiana Fox News ha espresso forti dubbi: «Cosa accadrebbe — ha chiesto in un editoriale — se il Papa fosse convinto che la Chiesa non debba più opporsi al modernismo, ma accettarlo e addirittura diventarne parte, per apparire rilevante? ».
Poche ore dopo l’elezione di Leone XIV, i commentatori di Fox hanno ammesso di temere che il Vaticano possa allontanarsi ancora di più, dopo Francesco, dalle dottrine tradizionali della Chiesa. Dal fronte liberal reazioni opposte. «Il nuovo Papa potrebbe avere qualcosa del vecchio Papa», è stato il titolo dell’intervento di David Gibson sul New York Times .
«Ma — aggiunge il direttore del Center on Religion and Culture di Fordham University — nonostante la reputazione di Leone come personalità pou’ disciplinata, la rabbia dei conservatori che ha agitato il cattolicesimo durante il precedente pontificato, è destinata a continuare con questo primo Papa americano». L’apertura verso gli immigrati è considerato il nodo delle future relazioni tra Casa Bianca e Vaticano.
(da agenzie)

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LA VARIABILE MARINA MANDA IN FRANTUMI GLI EQUILIBRI PRECARI DEL CENTRODESTRA: L’AFFONDO DELLA PRIMOGENITA DI SILVIO BERLUSCONI CONTRO TRUMP ERA UN MESSAGGIO A GIORGIA MELONI, CHEERLEADER DEL TYCOON. E FA SALTARE I NERVI IN FDI

Maggio 10th, 2025 Riccardo Fucile

PALAZZO CHIGI TACE MA CI PENSA DANIELA SANTANCHÈ AD ALZARE IL POLVERONE: “NON MI SEMBRA GIUSTO INTERVENIRE A GAMBA TESA”… TRA I LEGHISTI SERPEGGIA IL MALUMORE PER L’ATTACCO ALL’“IDOLO” TRUMP… FORZA ITALIA UFFICIALMENTE SI SCHIERA IN DIFESA DI MARINA, MA IN REALTÀ LE CONTINUE INVASIONI DI CAMPO DELLA CAV IN GONNELLA SONO VISSUTE COME CALCI SUGLI STINCHI DA QUEL MERLUZZONE DI TAJANI

Chi frequenta le segrete stanze di via Paleocapa, quartiere generale di Fininvest a pochi passi dal Castello Sforzesco di Milano, è pronto a giurare che Marina Berlusconi tutto ha in mente tranne che scendere in campo e seguire le orme del padre Silvio.
I motivi sono tanti ma uno vince su tutti: il ricordo di quanta sofferenza la politica ha inferto al Cavaliere, e di riflesso al resto della famiglia. Al di là di un coinvolgimento diretto, però, è evidente che la primogenita del fondatore di Forza Italia una sua strategia di presenza, nella politica, ce l’abbia.
Perché se è vero che giovedì sera il suo durissimo intervento contro Donald Trump è avvenuto durante l’inaugurazione di una libreria del gruppo Mondadori, di cui è presidente, e dunque ha parlato da imprenditrice, è altrettanto vero che dopo l’intervista con Il Foglio del febbraio scorso il suo profilo sia sempre più anche quello dell’opinion maker.
Le reazioni di ieri alle sue parole ne sono la perfetta cartina di tornasole. Ci sono i risvolti sul governo e sulle relazioni euroatlantiche, tema che riguarda in prima persona la premier Giorgia Meloni e il ministro degli Esteri Antonio Tajani, ci sono quelli sulla linea politica di Forza Italia e anche quelli che riguardano più in generale il centro del quadro politico italiano. Per quanto riguarda i primi colpisce soprattutto l’uscita molto netta del ministro del Turismo Daniela Santanchè.
«Non mi sembra giusto intervenire a gamba tesa con giudizi sul presidente degli Stati Uniti che sono un nostro alleato con il quale, a prescindere dal presidente, dovremo avere rapporti assolutamente buoni» dice l’esponente di primo piano di Fratelli d’Italia da Milano
Una posizione concordata con il resto del partito? Non proprio. O meglio, se è vero che tra i meloniani a prevalere è la linea «è un’imprenditrice che si occupa dei suoi affari», c’è da scommetterci che a Palazzo Chigi e a via della Scrofa si sia levato qualche sopracciglio nel leggere le parole che Berlusconi destina al tycoon.
Per ora, però, resta intatta la trincea del «sono in ottimi rapporti con la premier», puntellata dai diversi apprezzamenti a Giorgia Meloni disseminati qua e là da Marina. L’affondo di Santanchè – seguito da un silenzio dunque non casuale da parte del resto del partito – è insomma derubricato ai vecchi livori che separano la ministra e la primogenita di Silvio, ascrivibili in certe dinamiche milanesi della fiamma che a Roma, giurano, «non tiene più in conto nessuno».
Se tra i leghisti serpeggia un po’ di malumore per l’attacco all’idolo Trump («Come Marina la pensi non è una novità» dice un colonnello salviniano) in casa Forza Italia, invece, dove pure il tema di una leadership capace di far crescere i consensi e di un posizionamento più ambizioso è più che mai attuale, l’apprezzamento per Marina è trasversale.
Antonio Tajani, ad esempio, di buon mattino leva uno scudo a difesa di chi garantisce il partito con una fideiussione da circa 100 milioni di euro. Nel gioco di equilibri di cui il ministro degli Esteri, vicepremier e leader azzurro è protagonista, Tajani si convince che le uscite su Trump necessitano di essere ammorbidite.
Il fiume azzurro, comunque, cerca di non mostrarsi troppo frammentato. Dalla corrente dettata da Tajani si distanziano solo i rivoli degli esponenti che fanno della vicinanza alla famiglia del Cavaliere la propria cifra politica. I “fasciniani” e Licia Ronzulli, per intendersi, che battono le mani a Marina.
«È sempre stimolo di grande riflessione e va ascoltata, perché è un’imprenditrice che ha il polso economico del paese, che conosce bene i numeri, che ha visione» spiega la vicepresidente del Senato Licia Ronzulli. Idem Letizia Moratti e Alessandro Sorte, segretario in Lombardia e molto vicino all’ex fidanzata di Berlusconi Marta Fascina, che parlano di «visione lucida» e «senso responsabilità».
Non stupiscono, infine, i tentativi centristi di tirare Marina Berlusconi per la giacchetta e di allontanare Forza Italia dall’orbita del centrodestra. «Spero che le parole di Marina siano un messaggio per il governo», chiarisce il leader di Azione Carlo Calenda
Ad applaudire, infine, è anche Italia Viva. Matteo Renzi dichiara di essere «grato» alla manager «che parla da imprenditrice e non da politica» per aver detto che il «sovranismo economico di Trump distrugge il made in Italy».
(da agenzie)

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REFERENDUM 8 E 9 GIUGNO, LA RUSSA: “FARO’ PROPAGANDA PERCHE’ LA GENTE RESTI A CASA”

Maggio 10th, 2025 Riccardo Fucile

UN GRAN SENSO DELLE ISTITUZIONI

«Io continuo a dire che ci penso, però di una cosa sono sicuro: farò propaganda affinché la gente se ne stia a casa». Lo ha detto il presidente del Senato, Ignazio La Russa, a proposito dei cinque referendum dell’8 e 9 giugno su lavoro e cittadinanza. Anche il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e più in generale tutti i partiti di maggioranza, avevano invitato i cittadini a non recarsi alle urne. Una sorta di appello all’astensione arrivato da diversi esponenti del governo Meloni, e che è stato criticato dalle opposizioni e dai promotori dei referendum. Durante l’incontro “Spazio Cultura” in corso venerdì 9 e sabato 10 maggio, a Firenze, la seconda carica dello Stato ha, inoltre, toccato diversi temi di attualità: da Donald Trump «che ha svegliato l’Europa» ai Pro-pal che – stando alle parole di La Russa – vorrebbero «la sparizione degli ebrei», fino all’elezione avvenuta ieri di Papa Leone XIV.
Cosa si vota ai referendum?
Tra circa un mese si voteranno cinque referendum. Quattro riguardano il lavoro, e sono stati proposti dalla Cgil. Nel primo si chiede l’abrogazione della disciplina sui licenziamenti del contratto a tutele crescenti noto come Jobs act. In particolare, si vogliono cancellare le norme sui licenziamenti che consentono alle imprese di non reintegrare una lavoratrice o un lavoratore licenziata/o in modo illegittimo nel caso in cui sia stato assunto dopo il 2015. Il secondo quesito riguarda la cancellazione del tetto all’indennità nei licenziamenti nelle
piccole imprese. Mentre il terzo punta all’eliminazione di alcune norme sull’utilizzo dei contratti a termine. Infine, l’ultimo quesito riguarda l’esclusione della responsabilità solidale di committente, appaltante e subappaltante negli infortuni sul lavoro, con cui si intendono tagliare le norme che impediscono, in caso di infortunio sul lavoro negli appalti, di estendere la responsabilità all’impresa appaltante. Poi, il referendum sulla cittadinanza, promosso da diverse realtà tra cui +Europa. Il quesito referendario punta a dimezzare da 10 a 5 anni gli anni di residenza regolare necessari alle persone straniere per poter chiedere la cittadinanza e trasmetterla ai figli minorenni.
(da agenzie)

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AL SUD SI LAVORA 27 GIORNI IN MENO ALL’ANNO, L’IMPATTO SUGLI STIPENDI E SULLA PRODUTTIVITA’

Maggio 10th, 2025 Riccardo Fucile

DOVE SI GUADAGNA DI PIU’ IN ITALIA

Secondo uno studio della Cgia di Mestre, il lavoro nero e la precarietà diffusa pesano in negativo sul mercato nelle Regioni meridionali. Milano e Monza-Brianza le province dove gli stipendi sono più elevati
Al Sud si lavora meno che al Nord, per la precisione 27 giorni in meno ogni anno. È la stima calcolata dall’Ufficio studi della Cgia di Mestre. Non è solo una questione di ore e giorni lavorati, ma soprattutto di salute del mercato del lavoro. E che si ripercuote inevitabilmente su, o è frutto di, una produttività maggiore, che a sua volta genera salari di molto maggiori. Non è un caso, infatti, che nel 2023 i lavoratori al Nord siano pagati il 35% in più rispetto a quelli del Sud.
Perché al Sud si lavora di meno
Sono 255 i giorni lavorativi annui per chi sta al Nord, 228 per chi è al Sud. Le principali ragioni sono due: la maggiore economia sommersa nel Mezzogiorno
e la precarietà. Secondo la Cgia, infatti, nelle Regioni meridionali la proporzione di lavoro in nero o irregolare è molto superiore rispetto alle regioni settentrionali. Non essendo ore registrate ufficialmente, è quindi impossibile tenerne conto nell’elaborazione di statistiche. In secondo luogo, hi è al Nord timbra più volte il cartellino perché il lavoro è più sicuro. Al Sud, infatti, sono più diffuse la precarietà e il part time involontario. Basti pensare ai settori del turismo e dell’agricoltura, che tendono ad affidarsi più che altro a lavoratori stagionali.
Chi lavora di più, chi di meno in Italia
Gli operai e gli impiegati con il maggior numero medio di giornate lavorate durante il 2023 sono quelli della provincia di Lecco: 264,9 giorni. A seguire i dipendenti di Biella (264,3), Vicenza (263,5), Lodi, (263,3), Padova (263,1) e Monza-Brianza (263). In fondo alla classifica, invece, le province di Foggia (213,5 giorni), Trapani (213,3), Rimini (212,5), Nuoro (205,2) e Vibo Valentia (193,3). In generale, la media italiana è stata pari a 246,1 giorni.
Dove si guadagna di più in Italia
Le ore lavorate sono legate a doppio nodo con la produttività e con i salari. Al Nord la retribuzione giornaliera nel 2023 era superiore del 35% rispetto al Sud (104 euro contro 77) e la produttività era maggiore del 34%. Milano è stata di gran lunga la provincia con gli stipendi medi più elevati: 34.343 euro. Subito dietro al capoluogo lombardo, Monza-Brianza con 28.833 euro e una sfilza di città dell’Emilia-Romagna: Parma con 27.869 euro, Modena con 27.671 euro, Bologna con 27.603 euro e Reggio Emilia con 26.937 euro. Si tratta di zonein cui si concentrano settori ad alta produttività come la produzione di auto, la meccanica, la meccatronica, il biomedicale e l’agroalimentare. I dipendenti «più poveri», invece, si trovano a Trapani con 14.854 euro, a Cosenza con 14.817 euro e a Nuoro con 14.676 euro, Chiude la classifica, ancora una volta, Vibo Valentia con 13.388 euro.
(da agenzie)

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RETROSCENA CONCLAVE: PREVOST IN TESTA FIN DALL’INIZIO, FRANCHI TIRATORI CONTRO PAROLIN

Maggio 10th, 2025 Riccardo Fucile

NON C’E’ STATO ALCUN PASSO INDIETRO DELL’ITALIANO, SUBITO SOTTO, SUPERATO PURE DA ERDO

In Conclave il cardinale Robert Francis Prevost, divenuto Leone XIV, non ha avuto rivali. È quello che emerge ventiquattrore dopo l’Habemus Papam dalle indiscrezioni che i porporati elettori si sono lasciati sfuggire. Al Fatto raccontano che il 267esimo papa è stato in testa fin dalla prima votazione, la sera del 7 maggio. Un numero di voti che è cresciuto rapidamente nelle due votazioni della mattina dell’8 maggio e che, nel quarto e ultimo scrutinio del Conclave ha superato il quorum di 89 voti, il più alto della storia, consegnando a Prevost il trono di Pietro. Quello che alla vigilia era dato come l’unico vero contendente del porporato statunitense, ovvero il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato e decano del conclave, alla prova dei voti, fin dal primo scrutinio, non ha ottenuto tutti i suffragi che gli erano stati attribuiti prima dell’Extra omnes. I franchi tiratori sono stati tantissimi e, nella Cappella Sistina, hanno fatto franare immediatamente la candidatura del porporato veneto. Non c’è stata, infatti, una ritirata di Parolin in favore di Prevost, ma soltanto una presa d’atto che il suo profilo non era gradito alla maggioranza dei 133 elettori. A sorprendere, invece, sotto le volte michelangiolesche, è stato il cardinale Péter Erdo, arcivescovo di Esztergom-Budapest e primate d’Ungheria, che ha ottenuto molti voti, intercettando, nelle prime votazioni, tutti i consensi dei porporati conservatori, ma riscuotendo suffragi anche da candidati moderati critici della gestione del Sinodo dei vescovi da parte del segretario generale di questo organismo, il cardinale maltese Mario Grech, e dal suo principale sponsor, il cardinale gesuita Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo e vicepresidente del Consiglio delle conferenze dei vescovi d’Europa.
I porporati conservatori hanno subito negato ogni appoggio a Parolin, forti anche del durissimo attacco che il cardinale statunitense Raymond Leo Burke, patrono emerito del Sovrano Militare Ordine di Malta, aveva sferrato nei confronti del Segretario di Stato durante le congregazioni generali dei cardinali che si sono svolte prima del Conclave. Ma c’è di più. I porporati bergogliani, soprattutto quelli più moderati, hanno subito veicolato che il candidato di Francesco per la sua successione era Prevost e non Parolin. Una continuità, però, che non è stata presentata come una banale fotocopia di Bergoglio, avversato duramente nelle prime cinque congregazioni generali con recriminazioni pesanti anche da parte di cardinali nominati da lui. Ma è stato accuratamente spiegato agli elettori indecisi che Prevost avrebbe rappresentato una continuità pastorale con un governo decisamente più mite e meno irruento del suo immediato predecessore.
“Una soluzione Ratzinger” è stata definita la scelta di Leone XIV, ovvero un curiale con una grande esperienza pastorale e un curriculum accademico altissimo. Un cardinale conosciuto molto bene dai 133 elettori a motivo dell’ufficio a cui lo aveva chiamato Francesco, il 30 gennaio 2023, quello di prefetto del Dicastero per i vescovi e presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina. Impossibile andare in cerca di un vero e proprio outsider: i tempi si sarebbero allungati notevolmente e il rischio di non riuscire a trovare 89 voti sarebbe stato altissimo. Già prima dell’Extra omnes, dunque, le soluzioni erano soltanto due: Prevost o Parolin. “Un papa che piaccia a Dio e non al mondo”, questo è il commento di un cardinale.
Puntuale è arrivata ieri la prima importante decisione di governo: “Leone XIV ha espresso la volontà che i capi e i membri delle istituzioni della Curia romana, come pure i segretari, nonché il presidente della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano, proseguano, provvisoriamente, nei rispettivi incarichi donec aliter provideatur. Il Santo Padre desidera, infatti, riservarsi un certo tempo per la riflessione, la preghiera e il dialogo, prima di qualunque nomina o conferma definitiva”.
(da Il Fatto Quotidiano)

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SALVINI SMARRITO, SILENZIOSO E ANGOSCIATO DAI SEGGI E DAL VOTO VENETO

Maggio 10th, 2025 Riccardo Fucile

GIORGETTI: “E’ FINITO TUTTO, LA MIA GENERAZIONE HA FALLITO”

I francesi, si sa, lo chiamano spleen. Matteo Salvini si è immalinconito. Un salviniano: “Andate a guardarlo al Senato, per il Question Time. Ha lo sguardo ferito, gli occhi allagati. Mercoledì ha dichiarato: ‘Voglio dare tempi assolutamente precisi. Tempi precisi? Non è lui”. Al Senato, lo incontriamo, “segretario, come sta?” e Salvini: “Buon lavoro”. A Varese, ci segnalano: “Il caso più difficile, lo gestiamo da anni, è quello di Giancarlo Giorgetti”. Cosa dice? “Che la sua generazione ha fallito, che è finito tutto, che non può esserci la Lega di una volta, che si sente fuori posto. Solo che Giorgetti di posto ne trova sempre uno nuovo e noi qui a leggere i romanzi di Piero Chiara”. Il piatto piange.
Dicono che accade così all’improvviso, che succede dopo un grande spavento, dopo aver tanto lottato. E’ successo dopo il Congresso della Lega di Firenze, la rielezione di Salvini segretario, dopo aver consegnato la tessera al generale
Vannacci. Racconta il salviniano: “Non abbiamo più ricevuto ordini. Fate un giro sui social. Adesso il nostro riferimento è Massimo Cacciari. Ripostiamo le sue interviste, il che non è poi male. E’ vero che abbiamo contestato la messa al bando dei fratelli tedeschi di AFd, ma senza enfasi, senza esagerare. In altri tempi avremmo fatto i gazebo con la sinfonia di Wagner, ma oggi nulla. Dai punkofasci siamo passati alla metafisica”.
Scriveva Baudelaire che “in una grande pianura polverosa, senza strade, senza erba, senza un cardo e un’ortica, incontrai degli uomini che camminavano curvi”. Incontriamo il leghista Stefano Candiani alla Camera e ci dice che ha il cuore ancora commosso: “Venite qua”. Chiama Enzo Amendola e Piero De Luca del Pd e inizia: “Sono andato a Napoli e un tassista mi fa pagare la corsa aeroporto-centro 50 euro. Facciamo conversazione, e mi lascia il numero: ‘Dotto’, dotto’, al ritorno la riporto io’. Lo richiamo, pago la corsa 50 euro, e gli regalo pure una bottiglia di vino. Ma lui, con i morsi della coscienza, mi manda un vocale: “Dottò, al ritorno, la corsa in realtà veniva meno, non c’era traffico. La prossima volta che viene a Napoli ha una corsa gratis. Sapete che c’è? Mi ha commosso”. E pensare che una volta cantavano, sì, cantavano, “scappano anche i cani, arrivano i napoletani…” ma adesso c’è bisogno di piccole carezze. In medicina si chiama angoscia.
Il salviniano che sembra l’uomo del quadro di Degas, al bar, L’absinthe, lo spiega: “Se Meloni dovesse davvero chiedere una modifica della legge elettorale e i collegi uninominali non si dovessero più spartire tra le forze di maggioranza, anche Giorgetti rischierebbe di non essere rieletto, lui che, non è un caso, era stato candidato a Sondrio per cercare di salvare più leghisti possibili in Lombardia”.
Da Varese, direttamente dal Sacro Monte, ci confermano che ogni fine settimana, il Giorgetti, nei momenti di abbandono, dice che questo “è il tempo dei Vannacci” e che ormai lui si è rassegnato, che “la sua generazione leghista
ha perso”, come cantava Gaber, e che ormai passa le sue giornate a tenere i conti in ordine, a rispondere all’Europa, l’Europa che lunedì tornerà a chiedergli di Mes e della mancata ratifica italiana.
Gira sui social un video di una straziante malinconia ed è quello di Max Romeo, alla festa di Zanica, in provincia di Bergamo, dove si sente Romeo dire: “Abbiamo vissuto una fase incredibile, passava Salvini e ci pensava solo lui, pensavamo bastasse solo la figura del leader, certo che è importante, ma tutti i leader hanno momenti di flessione, momenti dove ritornano”.
Scriveva Kant che il nostalgico desidera sempre ritornare ai luoghi del passato solo che il passato della Lega non può tornare e bisogna guardare avanti. E’ arrivato ieri il parere del Consiglio di Stato, su richiesta di Luca Zaia, e ha stabilito che le elezioni regionali si devono tenere in autunno, solo che il tavolo dei leader (Meloni-Salvini-Tajani-Lupi) non è stato convocato. Il vicesegretario della Lega, Alberto Stefani, che dovrebbe essere il candidato dopo Zaia, dice che al momento è “tutto fermo”, ma a Venezia avvertono che “tra gli assessori di Zaia è cominciata una specie di analisi di questi anni. Zaia è stato grandissimo, ma noi dobbiamo superare il complesso di Zaia, che è come quello di Edipo”. Ogni battaglia sembra persa.
Il deputato Domenico Furgiuele, il Salvatore Ferragamo della Lega, dice che a Cosenza cerca di spiegare al suo barista che bisogna andare a votare: “Ogni fine settimana ci provo”. Ma le vostre battaglie? “Siamo tornati a chiedere la rottamazione delle cartelle”. Si dice che il malinconico vede tutto nero e quello di Vannacci sembra l’unico orizzonte. Resta la generazione dei quarantenni leghisti, Rixi, Molinari, Romeo, Guidesi, visi affaticati e seri, come quelli di Baudelaire di “A ciascuno la sua chimera”. A uno di loro il poeta chiese dove andavano e l’ altro rispose “che non ne sapeva niente, né lui, né gli altri, ma che evidentemente andavano da qualche parte, perché spinti da un invincibile bisogno di camminare”.
(da ilfoglio.it)

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L’UCRAINA ACCUSA L’UNGHERIA: “ORBAN ASSOLDA SPIE”. E’ GUERRA DIPLOMATICA

Maggio 10th, 2025 Riccardo Fucile

ACCIUFFATI MILITARI AL SOLDO DEGLI UNGHERESI

Sembra una storia di spionaggio ma è molto di più: quella in corso tra Ucraina e Ungheria è una guerra diplomatica, che sfiora i contorni della guerra vera e propria.
L’accusa di Kiev
Il caso deflagra nella mattina di venerdì, quando lo Služba bezpeky Ukraïny (Sbu) – l’agenzia dei servizi segreti ucraina – porta allo scoperto «le attività di spionaggio condotte dalla rete di intelligence militare ungherese a detrimento dello stato ucraino». Kiev dice di aver individuato alcuni componenti di questa rete: un ex ufficiale ucraino 40enne assoldato già nel 2021 e attivato a settembre scorso, così come una ex componente delle forze di sicurezza di Kiev, che avrebbero avuto come supervisore un funzionario dell’intelligence militare ungherese e che sono ora accusati di alto tradimento secondo la legge marziale ucraina. Ma quel che è ancor più interessante, sul piano geopolitico, è che sempre secondo il servizio di sicurezza dell’Ucraina le spie avrebbero preso di mira in particolare la regione occidentale ucraina della Transcarpazia, in cui è presente la minoranza ungherese.
Ciò fa sùbito venire alla memoria la retorica della «Grande Ungheria» alimentata da Viktor Orbán sin dalla sua ascesa al potere nel 1998 e mai del tutto abbandonata: basti ricordare le perturbazioni diplomatiche provocate alla fine del 2022 (quando Orbán si era già assicurato l’ennesima rielezione) per la scelta del premier ungherese di esibire una sciarpa raffigurante proprio la mappa della «Grande Ungheria». Qui rientra anche la Transcarpazia, e più in
generale i territori che risultavano parte dell’Ungheria prima del trattato del Trianon (firmato nel 1920 per definire i confini ungheresi successivi alla dissoluzione dell’impero austroungarico), tuttora presente nella memoria collettiva ungherese come uno strappo. Dunque Orbán strattona da tempo i vicini, ad esempio rimpiangendo «il nostro affaccio sul mare» che in realtà sarebbe la Croazia.
Ma quel che i servizi segreti ucraini denunciano è che il piano sia ben più che aleatoria propaganda. Secondo l’Sbu, la cellula di spioni avrebbe avuto tra i compiti quello di sondare in che modo in Transcarpazia la popolazione locale e l’esercito avrebbero reagito se un contingente di peacekeeping – l’esercito ungherese in particolare – fosse entrato nella regione; si sarebbe trattato inoltre di verificare che tipo di equipaggiamento militare e armi possono essere acquistati sul mercato nero della regione, di monitorare l’andamento migratorio degli ungheresi in Transcarpazia e la situazione militare – compresi aerei, sistema difensivo e coordinate del sistema antimissilistico – nell’area.
La reazione in Ungheria
A distanza di poche ore, nel primo pomeriggio di venerdì, è arrivata la reazione del ministro degli Esteri del governo Orbán, Péter Szijjártó, che a dicembre 2021 ha ricevuto dal suo omologo russo Sergej Lavrov una medaglia onorifica e che anche a guerra in corso e in tempi recentissimi è rimasto un assiduo frequentatore del Cremlino. «Abbiamo espulso due spie ucraine che lavoravano sotto copertura diplomatica all’ambasciata ucraina di Budapest», ha annunciato Szijjártó, comunicando di fatto l’espulsione di due diplomatici ucraini accusati dal governo Orbán di spionaggio. «Da quando la guerra in Ucraina è iniziata, la propaganda anti-ungherese si è intensificata; l’ultima campagna di diffamazione non fa eccezione. Non mandiamo armi a Kiev né ci facciamo trascinare in questa guerra: perciò ci bersagliano».
Nel giro di poco, è arrivata la controreazione del suo omologo ucraino: «Due
diplomatici ungheresi devono lasciare il nostro paese entro 48 ore», ha comunicato il ministro Andriy Sibiha.
Oltre ad attribuire tutta la vicenda a «una guerra tra servizi segreti ucraini e ungheresi in corso da tempo», la testata Telex aggiunge: «Le nostre fonti attribuiscono allo scontro pure l’incidente della settimana scorsa, ma non reso pubblico: il radar delle forze di difesa a Tokaj ha individuato droni che volavano verso l’Ungheria, abbattendone uno. Gli ungheresi sospettano provenissero dall’Ucraina».
Scontro Magyar-Orbán
Alle tensioni geopolitiche si intrecciano quelle tutte interne tra il governo e Péter Magyar, che è uscito dal sistema orbaniano diventandone il principale oppositore: ha superato Fidesz nei sondaggi, portando anche il resto dell’opposizione ad arrendersi alla sua egemonia. Anche Romulusz Ruszin-Szendi, che è stato a capo delle forze armate ungheresi, fa ora parte di Tisza, il partito di Magyar.
Alla vigilia dell’annuncio dei servizi ucraini, Magyar ha pubblicato un audio che risale all’aprile 2023, nel quale il ministro della Difesa orbaniano Kristóf Szalay-Bobrovniczky (il cui nome avrete letto nello scoop di Domani sulla villa di Varese) dice: «Interrompiano i nostri sforzi precedenti per la pace, entriamo nella fase zero della via verso la guerra». Orbán – che ha accolto con favore ReArm Europe come occasione di riarmo nazionale e che in realtà spedisce contingenti persino in Ciad – ha sempre giustificato con la propria opinione pubblica la distanza da Kiev con l’argomento della pace. Dunque Magyar accompagnava il leak con una serie di interrogativi: «In che tipo di guerra vuol portarci Orbán e in che fase siamo ora? Ruszin-Szendi ha dovuto lasciare l’incarico per questa rottura con la mentalità di pace?».
Questo venerdì pomeriggio, dopo che lo scontro tra Kiev e Budapest è deflagrato, la reazione del sistema orbaniano è stata quella di accusare Magyar
di collusione coi servizi ucraini. Máté Kocsis, capogruppo di Fidesz in Parlamento, ha dichiarato che «ora è diventato evidente che i servizi segreti ucraini sono collusi con Tisza». Ha proseguito il lavoro Zoltan Kovacs, regista delle comunicazioni orbaniane: «Proteggeremo il paese dagli attacchi coordinati di Tisza e dei servizi segreti di Kiev». Siamo solo agli inizi: da qui alle elezioni del 2026 ne vedremo delle belle.
(da agenzie)

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