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CALL CENTER MOLESTI, FINALMENTE L’ANTITRUST APRE UN’ISTRUTTORIA PER TELEMARKETING SCORRETTO: I CALL CENTER COINVOLTI AVREBBERO CONTATTATO I CONSUMATORI PROPONENDO L’ATTIVAZIONE DI CONTRATTI DI ENERGIA E DI TELEFONIA, SULLA BASE DI INFORMAZIONI INGANNEVOLI

Maggio 23rd, 2025 Riccardo Fucile

TRA TELEFONATE SUL CURRICULUM, DEPURATORI DI ACQUA, ENERGIA E PUBBLICITÀ, È DIVENTATO UNO STALKING CONTINUO E INSOPPORTABILE

L’Antitrust avvia un’istruttoria per telemarketing scorretto: i call center coinvolti avrebbero contattato i consumatori proponendo l’attivazione di contratti di energia e di telefonia, sulla base di informazioni ingannevoli circa l’identità del chiamante, l’oggetto della telefonata, la convenienza economica delle offerte commerciali proposte.
L’autorità, anche grazie all’attività investigativa svolta dalla Gdf, ha avviato sette procedimenti istruttori nei confronti di società di call center: Action S.r.l., Fire S.r.l., J.Wolf Consulting S.r.l. e Noma Trade S.r.l. – e nel settore delle telecomunicazioni – Entiende S.r.l., Nova Group S.r.l e My Phone S.r.l.
L’intervento ha l’obiettivo di contrastare il fenomeno del telemarketing scorretto, ben noto all’Autorità alla quale ogni giorno arrivano numerose segnalazioni che lamentano la ricezione di telefonate per concludere contratti sulla base di informazioni ingannevoli.
I call center coinvolti nelle istruttorie avrebbero contattato i consumatori
proponendo l’attivazione di contratti di energia e di telefonia, sulla base di informazioni ingannevoli circa l’identità del chiamante, l’oggetto della telefonata, la convenienza economica delle offerte commerciali proposte.
Peraltro spesso sarebbero state usate numerazioni camuffate con la tecnica del cosiddetto CLI spoofing che consente di manipolare l’identificativo del numero di telefono. Le modalità di telemarketing sarebbero varie, tutte accomunate dalla trasmissione di informazioni non trasparenti e ingannevoli.
In particolare, nel settore dell’energia è emerso che gli operatori telefonici si presenterebbero spesso come dipendenti dell’attuale fornitore o di Autorità di regolazione e controllo e definirebbero poco convenienti le tariffe applicate. In altri casi presenterebbero problematiche tecniche o difficoltà nello switching in atto che renderebbe necessaria la stipula di un nuovo contratto di fornitura. Nel settore delle telecomunicazioni, invece, durante le telefonate – per indurre il consumatore a cambiare operatore – verrebbero prospettati falsi disservizi sulla linea o imminenti rincari di prezzo del servizio da parte dell’operatore dell’utente chiamato.
Altre volte i consumatori sarebbero indotti ad attivare una nuova offerta (con un altro operatore o anche con quello con cui si è già contrattualizzati), dopo che sono prospettate condizioni contrattuali particolarmente favorevoli che poi si rivelano false.
L’Autorità ricorda che, insieme ad Arera, ha promosso la campagna di comunicazione “Difenditi così” per sensibilizzare il consumatore sui propri diritti e sugli strumenti di difesa dai call center insistenti e aggressivi.
Sul sito www.difenditicosi.it è possibile trovare tutte le informazioni a riguardo. Attivo anche il numero verde gratuito dell’AGCM per la tutela del consumatore 800.166.661 (dal lunedì al venerdì, h. 10-14). Ieri sono state svolte ispezioni presso le sedi delle società coinvolte nell’istruttoria, in collaborazione con il Nucleo Speciale della Guardia di Finanza. A tal proposito, il Presidente dell’Autorità, Roberto Rustichelli, ha dichiarato: “Esprimo vivo apprezzamento per il lavoro svolto dalle donne e dagli uomini del Nucleo Speciale Antitrust
dei reparti territoriali della GdF delle province di Napoli e Caserta”.
(da agenzie)

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ILARIA SALIS SFIDA ORBAN A CASA SUA: ANDRA’ A BUDAPEST AL GAY PRIDE CHE E’ STATO VIETATO DAL REGIME

Maggio 23rd, 2025 Riccardo Fucile

L’EURODEPUTATA GUIDERA’ LA PROTESTA DEI PARLAMENTARI EUROPEI

Ci sarà anche Ilaria Salis alla Budapest Pride March, la marcia organizzata dalla comunità Lgbtq ungherese nonostante il divieto imposto dalla maggioranza di Viktor Orban.
L’eurodeputata di Verdi e Sinistra ha lanciato una vera e propria sfida al presidente ungherese Viktor Orban, con l’annuncio di voler partecipare alla marcia del 28 giugno proprio a Budapest, dove è stata in carcere oltre un anno e mezzo. E dove Salis non torna da quando è stata eletta e scarcerata.
Nonostante la legge ungherese che vieta manifestazioni pubbliche proprio come il Pride, gli organizzatori di Budapest hanno deciso di mantenere l’evento, scegliendo di svolgere comunque una marcia, seguita da una festa che aiuterà anche a raccogliere fondi, anche per le multe che fioccheranno quel giorno.
La detenzione di Salis in Ungheri
Con Salis ci saranno anche altri eurodeputati di vari gruppi, da sinistra fino al Partito popolare europeo. Ma inevitabilmente la presenza dell’eurodeputata italiana la pone in testa alla protesta europea a Budapest. Salis è stata rinchiusa nel carcere di massima sicurezza di Gyorskocsi utca di Budapest per oltre 15 mesi, per poi passare ai domiciliari.
L’attivista era stata arrestata a febbraio 2023 accusata di aver partecipato ad almeno due aggressioni contro tre militanti di estrema destra. Ed era anche accusata di far parte di un’associazione criminale. L’insegnante monzese si è poi candidata alle Europee per Avs ed è stata eletta. Dopo una settimana circa, ha potuto lasciare Budapest. Da allora non ha più messo piede nella capitale ungherese.
Che cosa rischia di partecipa al Budapest Pride
Ilaria Salis e gli altri colleghi del Parlamento europeo marceranno a Budapest godendo dell’immunità parlamentare, che proprio il governo ungherese ha chiesto a Strasburgo di revocarle. Per cui la polizia ungherese, in teoria, non potrebbe arrestarli o la giustizia ungherese non potrebbe perseguirli. E ci pensano comunque anche gli organizzatori del Budapest Pride a mettere in chiaro che cosa rischiano i partecipanti alla marcia di giugno: «Sebbene la marcia sia ufficialmente vietata dalla nuova legge – scrivono gli organizzatori del Pride ungherese – partecipare a una protesta vietata è solo un reato minore».
La multa e la «protezione internazionale»
Insomma la polizia al massimo dovrebbe comunicare delle multe da 16 a 500 euro, che «difficilmente vengono applicate a livello internazionale». E lanciano un appello perché dall’estero partecipino in tanti: «Se la polizia multa un partecipante sul posto, chiederà di accettare la multa con la firma. La multa può essere contestata legalmente solo in seguito, se non viene accettata (firmata) sul posto. È prevista la presenza della polizia, ma la detenzione non è legalmente consentita e il controllo internazionale rende meno probabile un’azione illegale. Insieme, in numeri schiaccianti, possiamo resistere alla paura, eludere la sorveglianza e mettere in ombra l’odio. Facciamo in modo che questo sia il
corteo del Pride più grande e visibile nella storia dell’Ungheria. La solidarietà è la nostra forza. La visibilità è la nostra resistenza».
(da agenzie)

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IL DILEMMA DEL SOLDATO NEL MASSACRO DI GAZA

Maggio 23rd, 2025 Riccardo Fucile

YAIR GOLAN, L’ALTO UFFICIALE ISRAELIANO CHE ACCUSA NETANYAHHU DI CRIMINI DI GUERRA

In questi giorni terribili, in cui le bombe israeliane continuano a cadere su una Gaza ormai quasi totalmente distrutta e sui suoi abitanti indifesi e in cui Israele appare sempre più isolata di fronte al crescere della reazione dell’Europa e del mondo, un nuovo dilemma si propone all’opinione pubblica israeliana dando vita a un dibattito finora assente, quello sull’obbedienza. Cosa significa obbedire agli ordini ricevuti quando questi ordini ci appaiono come ingiusti e immorali? Si può, anzi si deve, rifiutare di obbedire? E soprattutto, come valutare l’ingiustizia di un ordine ricevuto?
La questione nasce dalle affermazioni di Yair Golan, già alto ufficiale dell’esercito e ora leader del Partito dei Democratici, che accusa il governo di crimini di guerra e contro l’umanità e sostiene che «non è normale uccidere i bambini per passatempo». Mentre Netanyahu lo accusa apertamente di antisemitismo, con velate minacce alla sua vita stessa, una parte importante dello stesso centro lo attacca per aver accusato non soltanto il premier ma lo
stesso esercito, tanto che Golan torna parzialmente indietro sulle sue affermazioni e precisa di aver voluto accusare solo il governo, non l’esercito. È a questo punto che interviene su HaAretz Gideon Levi, il giornalista più noto e il più impegnato da anni nella difesa dei diritti dei palestinesi. Ci si può rifiutare di obbedire ad ordini di questo genere, scrive. Se i soldati non avessero obbedito a questi ordini, la situazione a Gaza non sarebbe arrivata a questo punto.
Questa finora la questione e non è escluso che si allarghi e diventi centrale nel dibattito interno su Gaza. Ma vorrei ricordare che, anche se il problema dell’obbedienza si è posto oggi solo a proposito dei cosiddetti “refusnik”, i richiamati alle armi che rifiutano di prestare servizio a Gaza e sono per questo incarcerati, questo non è un problema inedito nella storia di Israele. Era intanto, quello della necessità di obbedire, la difesa avanzata da tutti i nazisti, a cominciare da quelli processati a Norimberga per finire con Eichmann. La questione si pose molto drammaticamente in Israele quando, il giorno in cui iniziarono le ostilità della guerra del 1956, un gruppo di palestinesi che tornavano dal lavoro nei campi a Kefar Kassem, ignari che il coprifuoco fosse stato anticipato, furono massacrati dall’esercito, donne e bambini compresi, in tutto 49. L’episodio suscitò una forte reazione nel Paese, molti parlarono di comportamento “nazista”, il premier Ben Gurion si scusò in Parlamento, dove fu anche fatto un minuto di silenzio. I responsabili della strage furono processarti e condannati, anche se uscirono dopo non molto di prigione. Ma l’importante è quanto sentenziò il giudice, Benyamin Halevy, richiamando proprio l’obbligo di non obbedire ad ordini ingiusti: «Si capisce che ci si trova di fronte ad una manifesta illegalità quando una sorta di segnale sventola come un vessillo nero sull’ordine in questione e avverte: “Proibito”».
Questo vessillo nero, che segnala i crimini di guerra e quelli contro l’umanità, oggi sventola sopra Gaza. Non la vediamo, eppure è lì. Ma troppi hanno dimenticato il suo significato. Eppure, passare anche solo per un breve momento dalla sacrosanta accusa ai membri di questo governo alla riflessioni
sulla questione se sia proprio necessario obbedire agli ordini ingiusti, e su quali siano i confini tra giusto ed ingiusto, potrebbe essere un modo per estendere e approfondire la protesta, per dare sempre maggior voce a quanti già si battono, e per riportare il discorso morale al centro del dibattito. E, forse, per fermare questo inutile e indegno massacro. Che, contrariamente a quanto ha detto cinicamente Bibi parlando dei mancati rifornimenti a Gaza, deve essere fermato perché uccidere i civili è un crimine, non per impedire che Israele venga annoverato fra gli Stati canaglia.
(da agenzie)

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INDOVINA CHI MALTRATTO A CENA

Maggio 23rd, 2025 Riccardo Fucile

UN BULLO RIDICOLO CHE RACCONTA BALLE AI FESSI CHE ANCORA GLI CREDONO

Ormai è un format. Trump invita alla Casa Bianca un leader straniero che gli sta sulle scatole e lo bullizza davanti a tutti. Dopo Zelensky e il canadese Carney, è toccato a Ramaphosa, il presidente sudafricano, che nella speranza di ammansirlo si era fatto accompagnare da due golfisti bianchi, conoscendo la passione di Trump per il golf e per i bianchi. Tutto inutile.
A un cenno del padrone di casa, le luci della Sala Ovale si sono abbassate ed è partito un video di immagini taroccate che accusava il governo sudafricano di aver ammazzato decine di afrikaner. Come Zelensky, anche Ramaphosa ha replicato con un certo aplomb, persino con ironia, quasi se lo aspettasse. Forse esiste una sala-prove, alla Casa Bianca, dove i leader da bullizzare vengono preparati all’incontro da qualche invasato sparring partner che li travolge di improperi.
L’ospitalità spinosa di Trump fa a pugni con le teorie degli psicologi, i quali vedono nella comunicazione «in presenza» l’antidoto a quella «social», che irrigidisce le posizioni e riduce l’empatia. Lui è riuscito a trasportare gli umorRI delle chat nelle visite di Stato. Il suo schema è questo: «Con i forti faccio affari e dai deboli mi faccio baciare il cu… Tutti gli altri li maltratto».
Il mondo scorre col fiato sospeso la lista dei prossimi leader che oseranno andarlo a trovare. La più a rischio è la premier danese, con cui finora ha solo litigato al telefono. Farebbe meglio a farsi venire un raffreddore diplomatico prima che Trump la degradi in diretta a vicegovernatrice della Groenlandia.
(da corriere.it)

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“CON IL LIMITE DEI 45 GIORNI ADDIO ALLA CACCIA AI LATITANTI”: L’ALLARME DI TRE MAGISTRATI ROMANI

Maggio 23rd, 2025 Riccardo Fucile

“LA LEGGE E’ SCRITTA MALE, COSI’ NON AVREMMO MAI PRESO MESSINA DENARO”

“Anche nel caso di Matteo Messina Denaro, dopo 45 giorni, le intercettazioni avrebbero dovuto essere interrotte”. Incredibile, ma vero. E a dirlo, con la legge Zanettin sottomano, sono tre big degli uffici giudiziari romani. Nell’ordine, il vicecapo dei giudici per le indagini preliminari Valerio Savio che lancia l’allarme, il procuratore aggiunto Giuseppe Cascini che lo sottoscrive, il pm Mario Palazzi che organizza a Piazzale Clodio un incontro per la formazione dei giovani magistrati. Con loro c’è il giurista dell’Università Statale di Milano Gian Luigi Gatta che aggiunge il timbro della dottrina all’incredibile effetto della legge meloniana sullo stop forzato agli ascolti anche se di mezzo c’è la caccia al più pericoloso dei latitanti.
Dopo lo smacco sui reati contro la Pubblica amministrazione, intercettabili lo stesso pur se la maggioranza era convinto di no, come ha scritto il Fatto il 4 maggio svelando la circolare del procuratore di Messina Antonio D’Amato, eccoci a uno svarione giuridico dagli effetti davvero incredibili e ovviamente assai gravi. Che Savio, codici alla mano, racconta così: “Per come è scritta, la norma lascia intatto l’articolo 295 del codice di procedura penale sulla caccia ai latitanti che dev’essere fatta nei limiti e nei tempi stabiliti dall’articolo 267 che disciplina il via libera del gip all’ascolto. Proprio lì ecco la nuova norma dei 45
giorni. Ma il legislatore non s’è accorto che con quel rimando di fatto ha scritto che le intercettazioni per cercare Messina Denaro dopo 45 dobbiamo chiuderle”. E Savio conclude: “Io e Cascini siamo d’accordo, la norma scritta così è impugnabile davanti alla Consulta per irragionevolezza, ma la si può anche interpretare in modo costituzionalmente orientato dicendo che quel rinvio previsto dall’articolo 295 al 267 si rifaceva al vecchio testo. Altrimenti io gip, giunto al 45° giorno, o nego la proroga, o mi rivolgo alla Consulta per manifesta violazioni delle norme internazionali sulla cattura dei latitanti”.
Cascini la pensa come Savio. Elenca puntigliosamente le norme: “Il 295 del codice di procedura penale prevede la possibilità di fare intercettazioni per cercare i latitanti, nei limiti e con le modalità dagli articoli 266 e 267. Solo ascolti telefonici, perché quelli ambientali sono possibili solo per i latitanti per reati di mafia. Quindi le nuove disposizioni sono applicabili, sempre e senza deroghe, a tutte le attività di ricerca dei latitanti”. E qui Cascini porta l’esempio dell’ultimo grande latitante di mafia. “Anche nel caso di Messina Denaro dopo 45 giorni le intercettazioni avrebbero dovuto essere interrotte”. E Mario Palazzi invita “a riflettere sul grande disordine normativo provocato da modifiche non sistematiche che creano, come in questo caso, effetti paradossali. Nessun limite per le molestie col telefono, ma limiti più stringenti per lo stalking e la violenza sessuale e addirittura per un omicidio al di fuori di un contesto mafioso. Fino all’effetto assurdo di limitare a soli 45 giorni la ricerca di un latitante se non emergono elementi nuovi per andare avanti”.
Inevitabile fare la parte dell’avvocato del diavolo, visto che tutti gli esponenti della maggioranza, a partire dall’avvocato e senatore forzista Pierantonio Zanettin, hanno sempre detto che “la regola dei 45 giorni non vale per la mafia”. Chiediamo a Gatta se la faccenda dei latitanti è messa proprio così. E lui non ha dubbi e spiega la ragione del manifesto errore: “Partiamo da qui: un conto sono le intercettazioni per accertare un reato. Se si tratta di mafie non opera il limite dei 45 giorni. Cosa diversa sono gli ascolti per cercare un latitante, cioè una persona condannata oppure oggetto di una misura cautelare,
disposta sulla base di precedenti intercettazioni. Che, pur potendo a certe condizioni essere poi usate anche a fini probatori, sono disposte non come mezzo di ricerca della prova, che magari c’è già e ha consentito la condanna definitiva o la custodia cautelare, ma come mezzo per trovare il fuggitivo”. Una cosa è certa, la legge è sbagliata. O i magistrati la portano alla Consulta o la interpretano sanando l’errore, ma di certo non possono interrompere la caccia a un latitante perché il governo, con una legge fake, lo impone.

(da Il Fatto Quotidiano)

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PUR DI COSTRUIRE IL PONTE SULLO STRETTO DI MESSINA, SALVINI DIROTTA 1,7 MILIARDI DESTINATI ALLA MESSA IN SICUREZZA DELLE STRADE VERSO LA COSTRUZIONE DELL’INFRASTRUTTURA CHE UNIRÀ LA SICILIA ALLA CALABRIA

Maggio 23rd, 2025 Riccardo Fucile

120 MILA CHILOMETRI DI ASFALTO NON VERRANNO AGGIUSTATI E PONTI E VIADOTTI NON VERRANNO REVISIONATI, CON IL RISCHIO CHE AVVENGANO PIÙ INCIDENTI, VISTO CHE LA RETE STRADALE ITALIANA VERSA IN CONDIZIONI PENOSE

Addio manutenzione delle strade. I soldi già stanziati vengono trasferiti al Ponte sullo Stretto di Messina. I tagli del ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini si applicano da quest’anno fino al 2036 e ammontano complessivamente a 1,7 miliardi di euro.
Si tratta di fondi già assegnati e poi tolti con la manovra e il Milleproroghe, risorse dirette alla messa in sicurezza e manutenzione straordinaria delle strade e riguardano asfaltatura, barriere paramassi, segnaletica, opere su ponti, viadotti e gallerie. Una tagliola che colpisce 120 mila chilometri di vie che collegano il Paese, bisognose di assistenza e riparazione.
Solo per il biennio 2025-2026 il taglio è del 70%: su 500 milioni di euro ne sono stati sforbiciati 385, così che alle Province e alle Città metropolitane rimangono solo 165 milioni per gestire tutte le opere preventivate. Pochi giorni fa il Mit ha inviato una lettera all’Upi e all’Anci per intimare il blocco immediato dei cantieri: «Si rappresenta l’esigenza di escludere l’assunzione di impegni che non trovano copertura nelle risorse attualmente disponibili»
L’intervento di Salvini ha un impatto devastante per la messa in sicurezza della rete italiana: secondo la commissione che ha definito i fabbisogni standard delle Province, le risorse necessarie per la manutenzione straordinaria delle strade sono pari a 6.642 euro al chilometro. Se per il 2025 e 2026 dopo i tagli restano 165 milioni, si riesce a malapena a coprire la manutenzione di 25 mila chilometri, ovvero il 21% del totale. Questo significa che per 100 mila chilometri di strade, compresi ponti, viadotti e gallerie, non ci sono risorse sufficienti.
Sebbene il taglio nel prossimo biennio sia orizzontale e appunto pari al 70%, in valori assoluti il Nord Italia ovviamente è il più colpito dal trasferimento dei fondi al Ponte sullo Stretto. La Lombardia su 63 milioni di risorse assegnate perde 44 milioni. Milano che avrebbe avuto a disposizione 11,5 milioni ne avrà solo 3,4. Il Piemonte da 45,5 milioni scende a 13,6 milioni e la sforbiciata costringerà Torino a far di necessità virtù con i 4,5 milioni rimanenti sugli oltre 15 che erano stati stanziati.
La scure si abbatte anche su Roma che di 18,5 milioni di euro ne perde 13, così come la Toscana che passa da 48 milioni assegnati a 14,5. In crisi pure le Province del Sud. Sicilia e Campania che avevano ricevuto rispettivamente 48 e 44 milioni dovranno accontentarsi di poco più di 14 e 13 milioni di euro.
Un grido d’allarme si leva dai territori. «Il governo sta svuotando le casse degli enti locali per finanziare la propaganda di Salvini e il progetto del Ponte sullo Stretto», commentano le deputate lombarde del Partito democratico, Silvia Roggiani, segretaria regionale Pd Lombardia, e Antonella Forattini. «Per la Lombardia – aggiungono – questo taglio si tradurrà in strade più insicure e collegamenti più difficili».
Il deputato sardo del Pd Silvio Lai sostiene che a rimetterci siano «le Province italiane e i territori più fragili, in particolare tutto il Mezzogiorno e anche la Sardegna». Lai prosegue: «Lo avevamo detto già dopo la legge di bilancio che il taglio agli enti locali sarebbe stato insopportabile e adesso con la ripartizione si vede ciò che succede nella carne viva delle persone».
Dei 13,5 miliardi di euro che servono per finanziare il Ponte sullo Stretto, quasi la metà dei soldi arrivano dai Fondi per lo sviluppo e la Coesione, risorse destinate al riequilibrio economico dei territori. Intanto, ieri è giunto il via libera del dicastero dell’Ambiente al progetto del Ponte, ora il ministro Pichetto Fratin potrà firmare il decreto che dà luce verde all’opera dal punto di vista ambientale.
(da La Stampa)

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ITALIA VILLA ARZILLA: PER LA PRIMA VOLTA NEL NOSTRO PAESE, IL NUMERO DEGLI ULTRAOTTANTENNI HA SUPERATO QUELLO DEI BIMBI SOTTO I DIECI ANNI

Maggio 23rd, 2025 Riccardo Fucile

NON SOLO, CIRCA UN QUARTO DEGLI ITALIANI HA ALMENO 65 ANNI … SAREMMO 5,4 MILIONI DI MENO SE NON CI FOSSERO GLI STRANIERI

Per trovare informazioni positive nel rapporto Istat di quest’anno bisogna andarsele a cercare, con impegno. Il Pil? In frenata. Il potere d’acquisto dei salari reali? Dal 2019 al 2024 è calato del 10,5%. Un italiano su quattro è a rischio povertà o esclusione. La produzione industriale è calata del 4% rispetto al 2023, quando era già calata di due punti.
Una cosa positiva da sottolineare c’è «il netto miglioramento» dei conti pubblici con la discesa dell’indebitamento netto dal 7,2% al 3,4% del Pil. C’è anche l’occupazione che cresce, +1,5% in un anno, ma cala la produttività visto
che sono posti di lavoro a basso contenuto tecnologico e alta intensità di lavoro. Otto nuovi occupati su dieci hanno più di cinquant’anni.
Anche quest’anno il bollettino demografico dell’Istat fotografa un inverno con un freddo da record. Come quella cifra emblematica: per la prima volta nel nostro Paese il numero degli ultraottantenni ha superato quello dei bimbi sotto i dieci anni. Di poco (4,6 milioni contro 4,3), ma è un dato che si somma al record negativo delle nascite (nel 2024 solo 370 mila a fronte di 651 mila decessi) e anche quello dell’indice di natalità, 1,18 figli per donna.
Altri record: non ci sono mai state in Italia tante persone con più di cento anni (23.400), un cittadino su quattro ha almeno 65 anni. La popolazione residente è scesa sotto i 59 milioni (58 milioni 943 mila, per la precisione) e saremmo 5,4 milioni di meno se non ci fossero gli stranieri, gli unici nel nostro Paese che hanno un saldo positivo delle nascite.
Il confine istituzionale dell’età anziana è rimasto a 65 anni. Ma i ricercatori dell’Istat hanno voluto fare dei calcoli, scegliendo come parametri le aspettative di vita nel 1952 e quelle di oggi. La vita si è allungata, di molto, e oggi ci si dovrebbe dichiarare anziani a cominciare dai 74 anni per gli uomini e dai 75 per le donne.
C’è poi un dato che salta subito agli occhi, come fosse scritto al neon: oltre un terzo degli italiani ha un titolo di studio non superiore alla terza media. Ce ne sarebbe anche un altro, ma a questo un po’ ci siamo abituati: i due terzi dei giovani tra i 18 e i 34anni (oltre il 63%) vivono in casa con mamma e papà. La media europea è di 49,6%.
(da agenzie)

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IL DIVORZIO TRA SALVINI E MELONI È SOLO QUESTIONE DI TEMPO: DOPO LE REGIONALI IN AUTUNNO, UNA VOLTA VARATA LA NUOVA LEGGE ELETTORALE, LA ZELIG DELLA GARBATELLA POTREBBE SFANCULARE LA LEGA DAL GOVERNO E COALIZZARSI SOLO CON FORZA ITALIA AL VOTO ANTICIPATO NELLA PRIMAVERA DEL 2026

Maggio 23rd, 2025 Riccardo Fucile

LIBERA DALLA ZAVORRA DEL CARROCCIO, MELONI SAREBBE FINALMENTE LIBERA DI AVVICINARSI AL PARTITO POPOLARE EUROPEO: DOPO TIRANA, RIDOTTA ALL’IRRILEVANZA CON I VOLENTEROSI AL TELEFONO CON TRUMP, LA DUCETTA HA CAPITO DI AVER SBAGLIATO E HA CAMBIATO COPIONE… IL SUO EGO ESPANSO NON HA PERSO PERO’ IL VIZIO, PER RITORNARE SULLA RIBALTA INTERNAZIONALE, DI ”STRUMENTALIZZARE” PERFINO PAPA LEONE XIV

Si può governare, e bene, senza Salvini? Dentro Fratelli d’Italia se lo chiedono da tempo, e si inizia a immaginare un futuro in cui l’alleanza di centrodestra sia ridotta al minimo, con un patto tra meloniani e Forza Italia.
Le ostilità (eufemismo) tra l’ex Truce del Papeete e la Ducetta, d’altronde, sono numerose e quotidiane: dalla guerriglia in Rai al risiko bancario (il no della Lega alla fusione del “suo” Banco BPM con Monte dei Paschi di Siena caro ai
meloniani), fino al terzo mandato dei presidenti delle Regioni.
Sulla questione elettorale per le prossime regionali, si è consumato persino un ruvido botta e risposta tra Mantovano e Salvini, con il sottosegretario che, davanti alle perplessità di Calderoli di fronte al ricorso del Governo contro la legge sul terzo mandato per le regioni autonome, rivolgendosi a Salvini, ha “certificato” la rottura in Consiglio dei ministri tra Fdi e Carroccio: “Ma sta parlando per lei?”. E il leader del Carroccio ha replicato, secco: “Il voto è contrario per tutta la delegazione leghista”. Amen.
Nel partito di Giorgia Meloni ci sono posizioni contrastanti, non tutti la pensano allo stesso modo, in particolare sul dossier Regioni a statuto speciale, Trentino e Friuli Venezia Giulia, che vedono un presidente leghista che vorrebbe correre per la terza volta, come Fugatti e Fedriga.
Quando il Consiglio dei ministri ha impugnato la legge trentina sul terzo mandato, è arrivato lo strappo di Salvini e Meloni ha risposto dando forfait al Festival delle Regioni: una forte influenza la “costringe al riposo”. Cancellati tutti gli impegni. Dunque, una “malattia diplomatica” per evitare il confronto col governatore del Friuli Venezia Giulia, Fedriga.
Se il ministro FdI per i Rapporti col Parlamento Luca Ciriani, friulano d’origine e fratello dell’ex sindaco di Pordenone, Alessandro, spinge per accompagnare alla porta i due Governatori uscenti, l’ex cognato d’Italia, Francesco Lollobrigida, invece, vorrebbe mediare e cercare una soluzione condivisa con gli alleati leghisti.
In generale, la questione sul terzo mandato, oltre alle questioni tecniche, tira in ballo un più ampio disegno politico di Giorgia Meloni, che da tempo punta a togliere spazi di potere alla Lega. E con qualche ragione.
La Lega di Salvini, infatti, governa, attraverso i suoi colonnelli, regioni apicali come il Veneto, il Friuli Venezia-Giulia e la Lombardia, pur disponendo di un consenso elettorale (8,5%) molto ridotto rispetto a Fratelli d’Italia (praticamente ha meno di un terzo dei voti del partito della premier).
A spingere per un ridimensionamento del Carroccio, ovviamente, non ci sono
solo le dinamiche di potere, ma ben più profonde dissonanze politiche tra i due leader: Salvini si sta dimostrando l’unico grande oppositore di Giorgia Meloni, nonché il solo a “disturbarla” sulla politica internazionale.
L’affiliazione al mondo “Maga” di Trump e il mai rinsecchito putinismo e anti-europeismo del ministro dei Trasporti sono la spina più velenosa nel fianco per la Statista from Garbatella.
Il graduale spostamento a destra della Lega, che ha anche inglobato la X Mas di Vannacci, ha creato non poche difficoltà alla premier, obbligandola a virate controproducenti per i suoi piani di navigazione.
Ad esempio, il trumpismo smaccato di Salvini l’ha indotta a tendere una mano all’inaffidabile affarista della Casa Bianca per non essere scavalcata nel rapporto con gli Stati Uniti.
Ma questa mossa l’ha pagata in Europa, dove ormai è considerata alla stregua di una cheerleader del Caligola di Mar-a-Lago, dunque inaffidabile.
Il famigerato sogno di essere il “ponte” tra Washington e Bruxelles è la diretta conseguenza di una partita su più tavoli, indotta dalla sopravalutazione di Salvini.
Forse, se non ci fosse stato lui tra i piedi, Giorgia Meloni non sarebbe finita in un cul-de-sac con il quartetto Macron-Starmer-Merz-Tusk che guida le mosse di Ursula von der Leyen.
Magari avrebbe trovato il coraggio di ricollocarsi in Europa spostandosi verso il centro, con un avvicinamento al Partito Popolare Europeo (Ppe), sfanculando i fascio-conservatori del suo gruppo a Bruxelles, Ecr.
Probabilmente, avrebbe offerto in cambio ai popolari, come segno di buon volontà, l’approvazione del nuovo Mes, che Salvini non vuole neanche sentir nominare, e a cui si oppone strenuamente da sempre (“Mai!”).
Il camaleontismo obbligato della Zelig Giorgia ha prodotto finora soltanto buchi nell’acqua: la special relationship con Trump è solo nella sua testolina bionda, e in Europa l’Italia non conta nulla
Dalla foto di Draghi con Macron e Scholz, sul treno per Kiev, siamo passati al
fronte dei Volenterosi da cui l’Italia dei due Meloni si è chiamata sdegnosamente fuori.
Con conseguenze politiche evidenti: prima la foto dei leader europei a Kiev con Zelensky (Meloni assente, ovviamente), poi il vertice “gemello”, tenutosi qualche giorno dopo a Tirana, in cui Macron, Merz, Starmer e Tusk, insieme al presidente ucraino, (con Meloni spettatrice non pagante) hanno telefonato direttamente a Trump.
Da questo pastrocchio, la “Thatcher cacio e pepe” ha capito di aver sbagliato, che così non si può andare avanti, doveva trovare una via per uscire dall’irrilevanza politica internazionale in cui era finita.
Ma per riconquistare il suo status e governare con autorevolezza agli occhi di Bruxelles, bisogna disfarsi del sempre più ingombrante fardello leghista.
Come? Intanto, ridisegnando la legge elettorale.
Se andasse in porto la riforma che assegna il 55% dei seggi alla coalizione che ottiene almeno il 40% dei voti, Fratelli d’Italia potrebbe sganciarsi definitivamente dalla Lega e siglare un patto d’acciaio con Forza Italia. Al momento, se stiamo ai sondaggi, non basta: il 28-29% di Fdi, insieme all’8-9% di Forza Italia non sarebbe sufficiente a far scattare il premio.
Ma ai piani alti di via della Scrofa sono convinti che, togliendo potere a Salvini e allontanando il Carroccio, i consensi siano destinati ad aumentare.
Le ragioni sono tre:
1. Senza la Lega tra i cojoni, altri elettori moderati potrebbero salire sul Carro del vincitore (cioè il suo) e scegliere nell’urna Fratelli d’Italia
2. Un pezzo della Lega difficilmente accetterà di votare un partito vannaccizzato e spostato a destra, e potrebbe preferire le braccione da boscaiolo di Giorgia Meloni.
3. Inglobando nell’alleanza anche Noi Moderati di Maurizio Lupi, la coalizione de-leghizzata potrebbe raggiungere agilmente alla soglia del 40%.
Il piano di decoupling tra Fratelli d’Italia e Lega non è destinato a concretizzarsi prima delle elezioni regionali dell’autunno 2025: l’idea è chiudere senza troppe
figuracce la partita in Toscana, Campania, Puglia, Veneto e Marche e solo successivamente rompere l’alleanza.
Una volta approvata la nuova legge elettorale, magari con i voti dell’opposizione (il progetto è stato già portato all’attenzione di Elly Schlein), si potrebbe andare al voto anticipato nella primavera nel 2026, Mattarella permettendo.
A proposito di Pd e legge elettorale: qualcuno, dentro Fratelli d’Italia, dove si confida molto nelle divisioni a sinistra, ha fatto però notare che, nel caso in cui i dem, il M5s e Avs riuscissero a creare una coalizione unita, la soglia del 40% non sarebbe così lontana nemmeno per il centrosinistra.
Che Giorgia Meloni si stia preparando a cambiare pelle è dimostrato innanzitutto dal dialogo con il Ppe.
Come scriveva ieri Simone Canettieri sul “Foglio”: “Non è un mistero che la premier abbia imbastito un ottimo rapporto umano e politico con tre personalità tedesche come il cancelliere tedesco Friedrich Merz, la presidente della commissione Ursula von der Leyen e il presidente del Ppe Manfred Weber
Di sicuro, i segnali di un avvicinamento al Ppe superano quelli della rincorsa ai Patrioti orbaniani-salviani-lepenisti”.
In secondo luogo, la Ducetta ha ben interiorizzato la lezione X del trumpismo: tuitto una cosa oggi, ne posto un’altra domani e le smentisco entrambe il giorno dopo.
Che è, in buona sostanza, ciò che sta già facendo nei confronti dell’odiato Macron.
La premier, durante il viaggio a Roma di JD Vance in occasione della messa di intronizzazione di Papa Leone XIV, ha (dopo la sua telefonata a Trump) ribadito al vicepresidente la volontà di partecipare al vertice telefonico.
Una volta in call, la Zelig di Colle Oppio, non solo si è posta in maniera mansueta e disponibile, ma ha anche dato manforte a Macron agli occhi di Trump sostenendo la linea francese secondo la quale, senza una tregua, non può esserci alcun negoziato tra Russia e Ucraina. Una giravolta che ha fatto
ovviemente felici gli altri partecipanti,
Sulla fine della guerra, Giorgia Meloni ha provato a sfruttare l’elezione di Papa Leone a suo vantaggio. La Ducetta, abilissima con la propaganda, ha sbandierato ai quattro venti la sua telefonata a Prevost, provando a coinvolgere il Pontefice e utilizzarlo per rientrare in gioco sullo scacchiere internazionale.
Il solito bluff: fin dal suo primo giorno di pontificato, era stato lo stesso Papa a proporre il Vaticano come possibile sede dei negoziati e la premier si è solo rivenduta una carta già vista.
Prima di farlo, ha chiamato di nuovo Trump, chiedendogli “il permesso” di inserire la Santa Sede nel negoziato, e quello ha risposto: “Mi piace il Papa ma soprattutto suo fratello che ha votato per me”. Come a dire: fate voi.
Del resto, Trump non ha più in mano grandi carte sul tema Ucraina. circondato solo da yes man inadeguati e affaristi inesperti, non ha nella sua squadra diplomatici o sherpa capaci di portare avanti una soluzione.
L’inviato speciale Steve Witkoff è un immobiliarista spaccone, Rubio e Vance sono totalmente inetti a gestire un dossier così complesso e pieno di trappole come quello ucraino.
L’atteggiamento da poker di Trump certo non aiuta: con le sue minacce, giravolte, dietrofront, il tycoon non può proporsi come mediatore stabile o credibile: nelle cancellerie internazionali è considerato un mattoide volubile, molto sensibile al fascino di Putin.
Tolto di mezzo Papa Leone, che si è detto disponibile a ospitare i colloqui, ma non a essere il mediatore, e quell’instabile mentale di Trump, chi può porsi come mediatore tra Mosca e Kiev?
Certo non la Cina, che a parole si dichiara equidistante, ma da 3 anni e mezzo fornisce armi e sostegno economico, e logistico, all’esercito russo.
Ci sarebbe l’Unione europea, che però ormai Putin vede come il vero unico nemico: il Cremlino non riconosce all’Ue lo status di neutralità segando così Bruxelles da un ruolo attivo nella trattativa di pace
Che lo spazio per la pace sia ristretto è comunque evidente a tutti: lo zar del
Cremlino, come ha rivelato lo stesso Trump durante la telefonata ai volenterosi, è ormai convinto di vincere, e non ha alcun interesse a trattare, men che meno con il Vaticano (si alienerebbe il mondo ortodosso: il Patriarca Kirill è in rotta da anni con la Santa Sede).
Del resto, come può Putin cedere, dopo 3 anni passati a vendere ai russi la “denazificazione” e la vittoria totale sugli usurpatori ucraini, in nome della ricostituzione del Russkij Mir (il mondo russo)?
Non può, perderebbe la faccia e potrebbe significare la sua fine. E finché non porterà a casa la sua “vittoria”, non può fare altro che sabotare ogni tentativo di negoziato.
(da Dagoreport)

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“STASI AVEVA UN ALIBI LA MATTINA DELL’OMICIDIO DI CHIARA POGGI: STAVA LAVORANDO AL COMPUTER ALLA SUA TESI” : STEFANO VITELLI, IL GIUDICE CHE ASSOLSE IL RAGAZZO NEL PRIMO GRADO DEL PROCESSO SULL’OMICIDIO DI CHIARA POGGI, NON HA CAMBIATO IDEA

Maggio 23rd, 2025 Riccardo Fucile

“C’ERA UN SECONDO FATTO RILEVANTISSIMO, UNA SIGNORA ANZIANA RACCONTÒ CHE QUELLA MATTINA AVEVA VISTO UNA BICI APPOGGIATA AL MURO DI CASA POGGI. LA DESCRISSE COME UN MODELLO DA DONNA E NON CORRISPONDEVA QUINDI ALLA BICI DI STASI

Che cos’è il ragionevole dubbio di giudice?
«Non è una sconfitta perché se una volta approfondito tutto il materiale che abbiamo si arriva a una conclusione di concreta incertezza allora è giusto assolvere. Che non è una sconfitta dello Stato ma una vittoria».
Stefano Vitelli è il giudice che ha scagionato Alberto Stasi nel primo grado del processo sull’omicidio di Chiara Poggi. Gli dissero che era “un ipergarantista”. Quindici anni dopo non ha cambiato idea: «Meglio un colpevole fuori che un
innocente dentro».
Dottor Vitelli lei sostenne: “È stato un processo molto strano”. Perché?
«Perché più approfondivo la cosa più qualcosa sfuggiva, aleggiava – e ha aleggiato fino alla fine – un’ombra di mistero, di incompiutezza».
Qual è il momento in cui ha pensato: Stasi è innocente
«Un fatto sorprese tutti e riguardava l’alibi informatico di Stasi. Disse che aveva lavorato tutta la mattina alla tesi sul suo computer, ma che, non riusciva a provare che aveva interagito col suo portatile a causa di procedure scorrette utilizzate dai carabinieri che avrebbero “sporcato” i dati informatici».
Ebbene?
«Disposi una perizia, contattati degli ingegneri, chiesi loro di fare un miracolo»
Che avvenne o no?
«Mi chiama una sera il perito e mi dice: “Dottore è seduto? Perché devo sorprenderla: Stasi lavorava al computer quella mattina”».
Non aveva mentito.
«Aveva detto la verità. E cioè che lui quella mattina e in orari chiave aveva lavorato alla tesi con sostanziale continuità e impegno intellettuale».
Questo cosa ci racconta?
«Che se si immagina che l’omicidio è avvenuto nella prima parte della mattina dobbiamo inevitabilmente pensare che Stasi stesse lavorando alla tesi dopo aver ucciso la fidanzata e che sia riuscito a tornare in fretta e furia a casa per mettersi a lavorare con impegno intellettuale».
Impossibile?
«Ragionevolmente impossibile e c’è un secondo fatto rilevantissimo».
Se lo ritiene lo dica.
«Decisi personalmente di sentire una signora anziana. Raccontò che quella mattina aveva visto una bici appoggiata al muro di casa Poggi. La descrisse come un modello da donna e non corrispondeva quindi alla bici di Stasi».
Cosa la colpì di questa testimonianza?
«Che si respirava una certa diffidenza nei suoi confronti. Le chiesero: “Signora, aveva il sole davanti agli occhi?”».
Domanda dell’accusa?
«Domanda provocatoria».
Come se la spiegò?
«Dico solo che calò il silenzio in aula, invitai le parti, tutte, a fare domande. Nessuno chiese nulla. Lì ho percepito questo senso di incompiutezza, come se questa donna ci stesse restituendo il frammento di un’altra realtà, di una verità diversa».
Andrea Sempio se lo ritrovò tra gli atti già allora?
«C’era una strana paginetta di cinque righe. Si parlava di uno scontrino».
Non lo trovò curioso?
«Molto curioso».
Ma nessuno accese un faro…
«Il mio compito era rispondere a un quesito: Alberto Stasi è innocente o colpevole? Cercare una terza via per il giudice è compito abnorme e improprio: deve essere terzo».
Non fu aiutato nemmeno dal fatto che le indagini furono lacunose. O sbaglio?
«Quello era un dato pacifico, ma all’inizio l’approccio degli investigatori fu quello di un incidente domestico».
(da La Stampa)

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