Maggio 31st, 2025 Riccardo Fucile
ALLE SUPERIORI PIÙ DEL 60% DEGLI STUDENTI DI CAMPANIA, CALABRIA E SICILIA NON HA COMPETENZE ADEGUATE IN ITALIANO
Uno studente nel Sud Italia ha un divario di apprendimento in matematica rispetto a uno del Nord che corrisponde a due anni di scuola in meno. Alle superiori più del 60 per cento degli studenti di Campania, Calabria e Sicilia non ha competenze adeguate in Italiano. Confermati da più di vent’anni di dati Invalsi, ma anche dall’indagine internazionale Ocse-Pisa, i gap educativi sono una criticità grave della scuola italiana, con pochi eguali in Europa.
Un fenomeno di disuguaglianza che nasce sui banchi di scuola e che è presente, ma ancora contenuto, nella scuola primaria, crescendo nella scuola media fino ad amplificarsi nella secondaria di secondo grado. Ma a incidere non è solo la dimensione territoriale. A dirlo è l’indagine sulle differenze di apprendimento nei territori e tra le scuole, promossa da Fondazione Agnelli e Fondazione Rocca, presentata ieri alla Camera dei Deputati davanti alle istituzioni e a rappresentanti del mondo della scuola.
Secondo il report significativo è, per esempio, l’impatto dell’indirizzo di studio scelto: frequentare il liceo classico o linguistico, può portare a uno svantaggio misurabile in 14 punti Invalsi in matematica rispetto al liceo scientifico.
Mentre un alunno di un istituto professionale a quindici anni è indietro addirittura di più di tre anni rispetto alla media dei risultati dei suoi coetanei.
Per questo a incidere possono essere i singoli istituti, con una nuova organizzazione tarata sui bisogni dei ragazzi e un approccio volto ad aiutare una scelta più consapevole per il futuro professionale.
Stando ai risultati, infatti, insieme ai fattori socioeconomici e culturali del contesto territoriale di appartenenza, i gap nell’apprendimento sono dovuti in misura importante anche a differenze fra le scuole e dentro le scuole.
(da agenzie)
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Maggio 31st, 2025 Riccardo Fucile
IL MINISTRO FITTO, ALLORA PULCINO DI FORZA ITALIA, NOTÒ CHE DOVUNQUE ARRIVASSE BERLUSCONI PORTAVA IL BEL TEMPO.., MAI COME EMILIO FEDE, CHE CONFESSÒ DI PROVARE MOLTA “INVIDIA PER L’INTIMITÀ” CHE IL MAGGIORDOMO DI PALAZZO GRAZIOLI, ALFREDO PARODI, AVEVA CON IL CAVALIERE AIUTANDOLO A VESTIRSI
Era il 2011, nel far gli auguri di compleanno a nome del governo, il ministro La Russa
recò a Palazzo Grazioli una targa che faceva riferimento ai 150 anni dell’Unità d’Italia: “75 dei quali”, era scritto in lettere d’oro, “dominati dal premier”.
Gli adulatori, d’altra parte, erano sempre stati di casa e numerosi; ma nel corso del tempo si erano fatti così sfacciati e insistenti che un vecchio sacerdote salesiano affezionato a Berlusconi fin dai tempi della scuola, don Antonio Zuliani, presentato come confessore e padre spirituale del presidente, aveva sentito il bisogno di intervenire pubblicamente: “Quando una persona viene circondata solo da salamelecchi e consensi adoranti non è più un soggetto, ma diventa un oggetto, viene mercificato”. Invano risuonò quel monito.
E infatti c’era chi parlava del Cavaliere come del sole e chi come di “un vulcano in attività”. Il ministro Fitto, allora pulcino di Forza Italia, notò che dovunque arrivasse Berlusconi portava il bel tempo.
Sgarbi l’avvicinò al genio rinascimentale di Michelangelo, ed Ennio Doris, banchiere e amico di vecchia data, a quello di Leonardo da Vinci. Il ministro Lunardi evocò Schumacher con la sua Ferrari e il sottosegretario portavoce Bonaiuti si richiamò a Fausto Coppi “che scappa e non lo raggiungi più”.
Il sondaggista Luigi Crespi, che il giorno della vittoria elettorale del 2001 aveva simulato una specie di gioiosa danza fallica davanti alle telecamere, rassicurò il pubblico sulle fortune elettorali berlusconiane: “La prossima volta per batterlo ci vuole Gesù Cristo, ma la partita se la giocherebbe anche con lui”.
Quando al presidente uscì di bocca “Romolo e Remolo” Tony Renis, futuro organizzatore del Festival di Sanremo, sostenne che si trattava di un “lapsus geniale” dato che anche per gli stranieri “Remolo suonava molto più comprensibile”. In uno slancio adorante, Emilio Fede confessò di provare molta “invidia per l’intimità” che ogni mattina il maggiordomo di Palazzo Grazioli, Alfredo Parodi, aveva
con il Cavaliere aiutandolo a vestirsi.
E tuttavia, pure considerando altre e varie grottesche manifestazioni tipo la salmodia, l’invocatio nominis, la poesia encomiastica, anche estesa ai parenti, il pubblico bacio della mano (da parte del dottor Scapagnini) e una ulteriore quantità di omaggi, alcuni dei quali molto probabilmente pure in natura, ecco, a distanza di anni debbo in qualche misura chiedere venia al professor Quagliariello e serenamente ammettere, perfino nel mio presente interesse, che un’età berlusconiana c’è stata, eccome.
O almeno tale sento di averla vissuta, senza precisi confini e temporizzazioni, ma come un flusso di lampi, simboli e personaggi ricorrenti. Una cascata di segni, gesti, vezzi e vizi, beni di consumo, strumenti, indumenti, accessori, malanni, ambizioni inedite figure professionali, o forse meglio para, pseudo e meta professionali; un caleidoscopio abbagliante di immagini, alcune che sembravano riemergere da un tempo molto precedente.
Tutti opportunamente assimilabili a un tempo – oh, certi aggettivi di Manzoni! – “sudicio e sfarzoso”: segnato com’era e come pure sembrava da un’euforia isterica e pastrocchiona che spintonava la Seconda Repubblica verso il suo disastro buffo.
L’Italia dei beauty center e del Bagaglino: l’intera compagnia teatrale trasportata in aereo e ospitata nella villa in Sardegna del capo del governo a esclusivo beneficio del presidente Putin. L’Italia del Billionaire: “Abbiamo scelto questo nome arrogante, spiegava Flavio Briatore, “perché funziona”.
L’Italia del Bolognese, la vetrina gastronomica del potere, dove anche Gheddafi andò con il cuoco assaggiatore e con i flash dei fotografi più numerosi dei coperti. L’Italia della consegna dei Tapiri, liturgia di allegra e contundente degradazione. Il cinepanettone a Natale, il cinecocomero a Ferragosto e in tanto il telecolossal sulle
vite di santi e addirittura due distinte serie Quasi in contemporanea su Padre Pio.
E le mignotte che da allora presero il nome di “escort” e ciò nondimeno, con raro senso dell’opportunità, il governo Berlusconi dedicò notevoli sforzi legislativi per toglierle dalle strade, perseguitarle, arrestarle, loro e i clienti, figurarsi. I politici cocainomani che con le telecamere al seguito si sottoponevano a compiacenti test del capello. Le festone di compleanno con orride torte di tutte le fogge che nessuno avrebbe voluto mai nemmeno assaggiare.
E i gioielli, i tatuaggi, la rivendicazione del tacco 12, l’ostensione del perizoma, l’esposizione della prostata, il dito medio, il casting, il training, l’enforcing, le tinture per capelli, le spiate, le paparazzate, il privé, i gorilla pelati con gli auricolari. Un’epoca buffa e al tempo stesso desolante, che forse è un’ingiustizia addebitare sul conto di un’unica persona, Berlusconi.
Ma che lui ha in qualche modo portato a compimento liberando “demoni”, nell’accezione originaria di forze, spiriti e passioni che una volta fuori non ne hanno voluto più sapere di ritornarsene nei vecchi tubetti del dentifricio del bel tempo che fu. Non che quei recipienti fossero poi così sicuri. Ma certo, e non solo in politica, l’impressione è che l’età berlusconiana, con il suo pacchianesimo pseudoaristocratico e neoplebeo, abbia definitivamente cancellato le virtù borghesi della discrezione, della cautela, della moderazione, della cortesia e, se è per questo, an- che dell’ipocrisia.
Tutto venne apparecchiato e messo in mostra per fare più scena possibile, per essere visto da quanta più gente possibile, per soddisfare i desideri vitali dei protagonisti, ma anche quelli sempre più passivi e narcotizzati degli spettatori. Con il risultato che sono saltati i codici, i confini, le priorità e oggi prova tu, caro lettore,
distinguere fra eventi maggiori e minori eventi reali e fantasie.
(da “B., una vita troppo”, di Filippo Ceccarelli (ed. Feltrinelli)
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Maggio 31st, 2025 Riccardo Fucile
L’ACRONIMO HA TOCCATO UN NERVO SCOPERTO PER IL CALIGOLA DI MAR-A-LAGO, DA SEMPRE POCO ABITUATO AD ACCETTARE CRITICHE
Gli americani adorano gli acronimi. Lo sa bene Donald Trump, che ha fatto la sua fortuna comunicativa anche grazie a Maga e tutti gli altri acronimi che girano in quel mondo. […] L’ultimo che lo riguarda lo ha però infastidito parecchio. Si chiama Taco e sta per “Trump Always Chickens Out” che tradotto in modo politicamente corretto significa «Trump si tira sempre indietro» ma tradotto come lo intendono gli americani e in modo non politicamente corretto per il pollo significa «Trump se la fa sempre sotto».
A coniarlo è stato l’editorialista del Financial Times Robert Armstrong che l’ha usato per la prima volta nella sua newsletter a inizio maggio per descrivere la strategia del Presidente: annunciare importanti misure politiche dirompenti come l’imposizione di tariffe spropositate a praticamente tutti i paesi del mondo, per poi cambiare rotta dopo aver visto la reazione di panico da parte dei mercati finanziari.
Secondo un’analisi del Washington Post, dall’insediamento del 20 gennaio l’amministrazione Trump ha annunciato nuove o riviste politiche tariffarie più di 50 volte. […] «Avevo bisogno di un modo abbreviato per descrivere questo andamento nella mia newsletter, perché è un andamento importante per i mercati», ha raccontato Armstrong a Axios. Aggiungendo: «Forse in quel momento ero affamato, quindi mi sono inventato Taco». All’inizio non ha avuto molto successo, ma a forza di usarlo il termine ha iniziato a comparire nelle note dei broker di Wall Street fino ad arrivare in un
titolo del New York Times e da lì alle orecchie di Trump stesso.
Mercoledì, a un incontro con la stampa nello Studio Ovale durante la cerimonia di giuramento di Jeannine Pirro, conduttrice di Fox News, come procuratore degli Stati Uniti ad interim a Washington, la giornalista Megan Casella della Cnbc gli ha chiesto: «Signor Presidente, gli analisti di Wall Street hanno coniato un nuovo termine chiamato “Taco trade”. Dicono che lei si tira sempre indietro dopo aver minacciato le tariffe ed è per questo che i mercati sono in rialzo questa settimana. Qual è la sua risposta?». La risposta di Trump è stata di stizza, fastidio, scocciatura.
Prima ha detto di non conoscere il termine, poi si è lanciato in una tirata sulla cronologia dei dazi imposti alla Cina al 145 per cento e o ridotti e poi di quelli all’Europa, poi ha concluso dicendo che questa cosa qui che fa lui non si chiama farsela sotto ma si chiama negoziare e che è tutta una tattica: spara «numeri assurdi» per le tariffe e poi li riduce quando convince le altre nazioni ad arrendersi alle sue richieste.
«Non ripetere mai più quello che hai detto», ha detto alla fine alla giornalista dopo aver aggiunto che la sua era una «domanda davvero sgradevole, la più sgradevole». Che tradotto significa: niente è più irritante per Trump che ricevere domande che lo mettono in cattiva luce, soprattutto se a farle sono donne.
Stephanie Ruhle, volto di Msnbc, ha scritto che secondo le sue fonti, a Trump Taco piace eccome, nel senso che godrebbe nel vedere il potere che le sue parole esercitano sui mercati. «Chi è vicino al team di Trump mi ha detto che al presidente non importa affatto la reazione del mercato, anzi a quanto pare, gode dell’influenza che ha sui mercati globali. Una singola frase o un post sui social media cancella o crea miliardi, ed è per questo che molti si chiedono se e chi venga avvisato in anticipo di questi eventi. La risposta, per ora, è
che non lo sappiamo».
Armstrong, che ha iniziato il tutto, intanto si gode la fama, seppur con riserve: «Bene essere diventato famoso per la mia battuta stupida, ma preferirei che il presidente non rovinasse l’economia statunitense».
(da La Stampa)
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Maggio 31st, 2025 Riccardo Fucile
PER LA PRIMA VOLTA I COMPRATORI ESTERI SUPERANO QUELLI ITALIANI: “NEGLI ULTIMI MESI ABBIAMO CHIUSO TRATTATIVE PER PROPRIETÀ INVENDUTE DA ANNI, A CIFRE SUPERIORI AL MILIONE”
Dal suo punto d’osservazione – sei agenzie nello spazio di pochi chilometri – Matteo
Scandolera, esperienza trentennale nel mercato immobiliare, la racconta così: «Fino a dieci anni fa il 70% degli immobili che vendevamo erano destinati a italiani. Ora non dico che il rapporto si sia invertito ma quasi».
Se non è la fine di un’epoca poco ci manca. La Riviera ligure di Ponente, la Florida dei piemontesi, dove almeno tre generazioni hanno radicato il sogno figlio del boom economico – la seconda casa al mare – sta cambiando pelle. Ora è un buen retiro per nordamericani, tedeschi, francesi, britannici, danesi, norvegesi, svedesi che fino a qualche decennio fa facevano rotta sulla Costa Azzurra e adesso guardano al di qua del confine attratti da prezzi più abbordabili e un ambiente più amichevole.
Ma anche – storia degli ultimi mesi – di polacchi e cittadini delle repubbliche baltiche in cerca di un rifugio dall’eventuale minaccia russa. Per la prima volta, in molti casi, i compratori esteri superanoo gli italiani. Non investitori; famiglie che vengono a viverci. «Negli ultimi mesi abbiamo chiuso trattative per proprietà invendute da anni, a cifre superiori al milione», racconta Fabio Maiani, da oltre trent’anni a capo di un’agenzia immobiliare a Sanremo. «Gli stranieri hanno elevata capacità di spesa, cercano soluzioni di alto livello». Lo scorso anno il prezzo medio pagato da un acquirente dall’estero ha superato i 500 mila euro contro i 370 mila degli italiani.
C’è dell’altro, come spiega Claudio Scajola, sindaco di Imperia, presidente della Provincia, l’uomo che da diversi decenni governa direttamente o di fatto questa terra: «Il grande artista tedesco Georg Baselitz mi ha raccontato che quando doveva cercare casa sulla costa in un primo momento andò a Montecarlo e rabbrividì. Alla fine ha scelto le nostre zone perché non sono state snaturate. Sono ancora autentiche, e molti in questa fase storica cercano questo».
La Costa Azzurra non è più il vicino da invidiare, ma può essere un alleato. Barbara Amerio, imprenditrice del settore nautico, dal 2019 è presidente degli industriali di Imperia e Sanremo. «Ci siamo dati un obiettivo: aprirci alla dimensione internazionale». Per lei significa guardare a Ovest innanzitutto: «Fino a Saint-Tropez questa può essere una costa unica, che vive di progetti comuni. Possiamo diventare una macroregione europea. È un’idea che i francesi condividono, ne abbiamo parlato anche con Alberto di Monaco».
Costa Azzurra e Ponente ligure hanno lo stesso aeroporto di riferimento – Nizza, il secondo scalo internazionale di Francia – e un’infinità di scambi, dalle merci alla logistica. Senza contare i 5 mila “frontalieri” che quotidianamente fanno la spola con il Principato, la manodopera del settore turistico e ancor di più l’edilizia, quasi interamente in mano a ditte italiane anche dall’altra parte del confine. E poi c’è la terra, strettissima: «Montecarlo è satura, più di tanto non può più crescere», ragiona Giorgio Casareto,
amministratore delegato di Portosole, uno dei più grandi porti turistici del Mediterraneo, a Sanremo, base di megayacht e charter di lusso. Non c’è più spazio per le case ma nemmeno per le barche. Ecco spiegato lo scivolamento verso il Ponente.
Il turismo segue traiettorie analoghe. Rispetto al 2019 le presenze in provincia di Imperia sono cresciute del 10% sfiorando i 3,5 milioni nel 2024. Anche qui con una quota massiccia di stranieri.
«Possiamo fare concorrenza alla Costa Azzurra non solo sulle case, ma sugli hotel, grazie ad alcune strutture di lusso aperte di recente», spiega Maiani. Il resto lo fa un territorio in parte preservato dallo sfruttamento massiccio e spesso incontrollato che altrove ha stravolto la costa. «Siamo da sempre una terra amata dagli stranieri», racconta Fabia Devia, titolare di un’agenzia a Bordighera con quasi sessant’anni di vita alle spalle. «Fino a non molto tempo fa privilegiavano l’entroterra: negli anni Ottanta eravamo invasi dagli olandesi. Di recente hanno scoperto la costa».
Vanno alla ricerca dei paesaggi dipinti da Monet tra Bordighera e Dolceacqua, delle tracce del passaggio di Charles Garnier, il grande architetto progettista de l’Opéra di Parigi, o della biblioteca fondata nel 1880 da residenti inglesi che conserva 20 mila volumi in inglese, 6 mila in francese e 3 mila in tedesco.
Tasselli di un mosaico che coinvolge inevitabilmente il mare. La Riviera conta undici tra porti turistici, marine e darsene in 90 chilometri, quasi tutti in espansione proprio per accogliere il travaso in corso dalla Costa Azzurra. Gli attuali 3.700 posti barca sono destinati a diventare 5 mila, con un occhio di riguardo ai megayacht. Il solo porto di Imperia arriverà oltre i mille posti diventando uno dei più grandi del Mediterraneo. «Le barche portano equipaggi, personale. Creano un indotto: rifornimenti, manutenzioni. Non è un’economia mordi e fuggi, tutt’altro», spiega Giorgio Casareto
Portosole è tra i protagonisti di questa fase di sviluppo grazie ai capitali investiti dai proprietari, i fratelli anglo-indiani David e Simon Reuben. «Chi ha visione si è reso conto del fatto che Monaco non può crescere di più e che il rilancio di questa costa passa anche dalla sua posizione strategica. Il nostro sforzo è tutelare un’economia decisiva come la nautica da diporto. Il 50% dei grandi yacht al mondo viene realizzato in Italia. Ci sono competenze, un indotto. Un patrimonio da proteggere. Possiamo farlo anche – ma non solo – intercettando i flussi turistici».
I numeri sembrano dare ragione alla direzione imboccata: «Il Pil della provincia negli ultimi cinque anni è cresciuto del 10,1%, più della media ligure (8,2%). Nei primi quattro mesi dell’anno abbiamo registrato un più 4,5% di turisti rispetto al 2024», rivela Scajola. «Possiamo diventare la naturale prosecuzione della Costa Azzurra», traccia la rotta Barbara Amerio.
«Per questo stiamo discutendo con loro di infrastrutture, il reciproco punto debole: abbiamo avviato un tavolo con Nizza e il Principato per ragionare su un’autostrada del mare che possa garantire collegamenti senza passare dalle strade ormai sature». «Del resto – riflette Fabia Devia – eravamo una terra sola, si parla ancora lo stesso dialetto. Riannodare i fili di questa storia è del tutto naturale».
(da La Stampa)
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