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I SETTE ERRORI DEL DECRETO DIGNITA’: ECCO COSA NON FUNZIONA

DALLE CAUSALI AL “CANNONE” SUL TEMPO DETERMINATO

Per il vicepremier Di Maio è un decreto che consente di evitare che i “giovani vengano abusati” da quelli che chiama “prenditori”, per un fronte vastissimo invece è semplicemente un modo sbagliato per far fronte ad un problema che esiste.
Il lungo dibattito parlamentare che si è svolto sul cosiddetto decreto Dignità  ha messo in luce molteplici crepe e falle, da Pd a Forza Italia a LeU si sono trovati a concordare su errori marchiani e scritture maldestre.
L’ex ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha parlato di “decreto punitivo”; il responsabile del Pd per l’economia Marco Leonardi ha messo in luce “l’eterogenesi dei fini, dove ci sono obiettivi condivisibili affrontati con strumenti sbagliati”.
In inedita sintonia il forzista Brunetta e l’esponente di Liberi e Uguali Epifani si sono accoratamente appellati al governo perchè vengano cambiati alcuni commi dagli effetti devastanti.
Perchè è sbagliato il decreto dignità ? E quali danni potrà  provocare?
Ecco i sette errori messi in luce dal dibattito.

Primo errore: i precari non stanno solo nei contratti a tempo determinato. Con l’intento di combattere l’odiosa condizione del precariato si è sparato con il cannone contro i contratti a tempo determinato. E’ vero che possono andare da pochi giorni fino a 36 mesi e che possono essere rinnovati eludendo la legge cambiando mansioni o inquadramento, ma è anche vero che i contratti a termine non sono il Far West: esistono da sempre, non sono una invenzione della deregulation globalista, rappresentano il 15 per cento del mercato (circa 3 milioni di unità ) e sono dotati di tutte le garanzie (Inps, Inail e indennità  di disoccupazione). Il precariato selvaggio sta più nei voucher (il cui uso è esteso dal decreto), nelle finte partite Iva e nei cococo che non hanno previdenze. Su questi problemi non si è agito, anzi si rischia che i contratti a termine tornino ad essere cococo.
Secondo errore: il problema non è bloccare i contratti a termine ma favorire la transizione al tempo indeterminato. In realta la cifra rilevante ai fini di un sano mercato del lavoro è il coefficiente di trasformazione di contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. Il buon lavoro che si ottiene.
Oggi in Italia il 20 per cento dei contratti determinati transita virtuosamente nel tempo indeterminato: è poco perchè la media europea è del 30 per cento.
Quindi se si vuole prosciugare il bacino del “precariato” bisogna incentivare la trasformazione e non bloccare una delle porte di ingresso nel mondo del lavoro che è costituita dal tempo determinato. Invece il decreto “spara con il cannone”, come dice Marco Leonardi, sul tempo determinato e disincentiva il tempo indeterminato, aumentando i costi per il licenziamento innalzando il numero delle mesilità  per le indennità .
Terzo errore: ci voleva più prudenza e gradualità . Anche ammesso che si volesse scoraggiare il ricorso da parte delle aziende ai contratti a tempo determinato, non era questo il momento giusto. L’economia internazionale ed italiana sta ripiegando (dai dazi alla fine del denaro facile della Bce) dunque le aziende sono più prudenti, si muovono in un orizzonte previsivo più ridotto, e assumere a tempo determinato può essere una alternativa a non assumere per niente.
Quarto errore: cancella posti di lavoro.
Secondo l’Inps di Tito Boeri, sul quale sono caduti gli strali del governo gialloverde, ogni anno saranno distrutti 8.000 posti di lavoro a tempo determinato. Il calcolo è prudenziale perchè concede che sugli 80 mila contratti che superano i 24 mesi (la nuova soglia massima che oggi è di 36 mesi) solo il 10 per cento rimanga disoccupato e il restante 90 per cento o venga confermato oppure trovi un altro lavoro. Non viene calcolato il numero dei contratti sopra i 12 mesi che, con l’introduzione delle causali legate al rinnovo, non avranno una conferma. Secondo alcuni calcoli si arriverebbe almeno al doppio: una perdita di circa 20 mila posti di lavoro.
Quinto errore: i dubbi sul periodo transitorio. Dal 14 luglio, giorno in cui il decreto Di Maio è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, sono cominciati a decorrere gli effetti. Cosa significa? Significa che i contratti che man mano vengono a scedenza se hanno raggiunto i 24 mesi non possono più essere rinnovati (il tetto dei 36 mesi è stato modificato), mentre quelli che hanno superato i 12 mesi possono essere rinnovati solo a condizione che siano indicate le cosiddette causali.
Nell’incertezza molte imprese, soprattutto nell’alimentare, stanno procedendo a non rinnovare i contratti. Si parla di alcune migliaia di contratti sopra i 12 mesi che in questi giorni non vengono rinnovati. Il decreto, spostando al 31 ottobre gli effetti del provvedimento, ha solo congelato molti mancati rinnovi: il problema, sebbene ridotto, si ripresenterà  a novembre.
Sesto errore: la confusione delle clausole. Le clasusole sono delle condizioni che vengono introdotte per rinnovare il contratto dopo i dodici mesi.
Nel decreto ce ne sono tre: l’azienda deve dimostrare di avere esigenze non programmate, temporanee e significative. Secondo quanto si è detto in Parlamento, da più parti politiche, la vaghezza di questi requisiti aprirà  la strada ad un enorme contenzioso tanto più che sono stati elevati i tempi per ricorrere. Soprattutto, come ha sottolineato l’ex segretario della Cgil Guglielmo Epifani, la “significatività  non è misurabile”.
Inoltre, come ha detto Debora Seracchiani del Pd, in un puntuale intervento, la vicenda delle causali è già  regolata dall’80 per cento dalle parti, liberamente, nei contratti di lavoro. Perchè intervenire? Ha ben osservato il Pd Stefano Lepri: “Decreto dirigista e rigidista”. Persino Brunetta ammette. “Faccio il professore di materie lavoristiche da anni e oggi in Parlamento ho imparato cose che non sapevo, spero che il ministro abbia la stessa umiltà , almeno per il bene del paese”.
Settimo errore: un favore alle agenzie che “affittano lavoro”. Sono le grandi multinazionali che Di Maio spesso pretende di combattere, ma scoraggiando il tempo determinato e allargando dal 20 al 30 per cento la possibilità  per le aziende di ricorrere al lavoro in affitto, di fatto ci guadagneranno Manpower e le altre. Così come aumenterà  il ricorso ai voucher o al nero.

(da “La Repubblica”)

This entry was posted on mercoledì, Agosto 1st, 2018 at 20:47 and is filed under Lavoro. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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