COVID, IL MEDICO IN PRIMA LINEA: “QUANDO GUARDO LE MIE MANI VEDO QUELLE DI MIO PADRE”
“LA TERZA ONDATA SI POTEVA EVITARE”
Qualche giorno fa è arrivata in redazione una foto di una mano, non una mano qualsiasi, ma la mano di un medico in prima linea nella lotta al Covid. Una mano segnata da 12 ore di turno in un reparto Covid, rugosa e secca, come quella di un ottantenne. Eppure era la mano di un uomo di 48 anni, anestesista rianimatore del policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena.
“Lavoro in area Covid con pause di un mese, due dall’inizio della pandemia”, scrive Salvatore Quarta nella lettera che accompagna la foto, che in verità non avrebbe bisogno di parole. “Oggi dopo l’ennesimo turno estenuante nel togliermi i guanti, tre strati di guanti uno sopra l’altro, con percezione di bruciore intenso durante il turno (sudore, gel sanificante, talco), questa è stata la desolante visione delle mani improvvisamente invecchiate di 30-40 anni, con annessa perdita di sensibilità legata probabilmente ad una sorta di lessatura dello strato superficiale della cute. Una foto che ancora una volta vuole richiamare la sensibilità del lettore e del cittadino su quelle che sono le ferite dell’animo e fisiche di tutti coloro che quotidianamente stanno combattendo in trincea questa pandemia. Quello che chiediamo quindi è: dateci una mano”.
Dottore, perchè ha sentito di doverci inviare questa foto?
“Credo che dia ancora di più il senso di chi lavora in prima linea. Ci siamo abituati a vedere i volti degli operatori, o meglio i loro occhi stanchi, la postura affaticata di persone bardate dalle protezioni sanitarie, piegate da ore di lavoro. Le mani non si vedono, eppure sono questi i nostri strumenti primari di lavoro. E’ un modo per far cadere anche il luogo comune che i medici sono distanti dal lavoro manuale, la nostra professione è manuale prima di tutto. Questa foto lo dimostra”.
Quante ore durano i turni?
“Le ore sono quelle previste dal contratto: ora vengo da un turno di 12 ore, tutto nell’area Covid. Si lavora 2-3 mesi in area Covid e un mese in sala operatoria (nel mio caso), per ‘riposarsi’. Sembra un paradosso ma è così perchè non è la quantità di ore in sè che ti massacra, ma la qualità : ore trascorse negli scafandri, con la mascherina e lo schermo protettivo, a curare persone sempre più giovani, con storie sempre laceranti, umanamente difficili da digerire”.
Per esempio?
“Tutte le volte che dobbiamo accettare un paziente in rianimazione Covid ci immedesimiamo nelle sue angosce. Vede, questa è un malattia subdola, ‘infame’, in cui l’organismo cerca con tutte le sue riserve di combattere fino alla fine: pensi che praticamente tutti coloro che siamo costretti ad intubare fino all’ultimo riferiscono di stare bene. Purtroppo il riscontro dei parametri respiratori dice tutt’altro. È a quel punto che il paziente deve per forza di cosa affidarsi a te e in quel momento senti addosso tutto il peso della responsabilità di chi sta rimettendo nelle tue mani la sua vita e quella dei suoi cari. E quando dopo settimane di cure intensive sei costretto ad alzare bandiera bianca perchè il virus ha vinto, ti senti cadere il mondo addosso perchè non hai onorato il ‘patto’ con il tuo paziente. Quando mi è successo la prima volta è stato tremendo”.
Invece il momento più bello?
Marito e moglie, insieme da un vita, separati dal Covid: lei intubata, lui un decorso meno drammatico. Li separava un piano. Ogni giorno lui chiedeva della moglie. Poi in prossimità di Pasqua abbiamo estubato la paziente ed è stato questo il nostro regalo. Abbiamo fatto scendere il marito nel reparto della moglie: è stato un momento di intimità di cui abbiamo avuto il privilegio di essere testimoni. Non le nego che qualche lacrima l’abbiamo versata. Ovviamente erano lacrime di gioia.
Ha mai pensato di mollare?
“Io ho scelto di dare il mio contributo in area Covid e ci lavoro da un anno, dall’8 marzo dello scorso anno. Mi sono prestato sempre con molto entusiasmo perchè amo il mio lavoro ma non riesco a nascondere la mia delusione quando esco dall’ospedale e vedo la leggerezza con cui le persone si comportano. Credo che con qualche attenzione in più da parte di tutti almeno la terza ondata si sarebbe potuta evitare”.
La sua famiglia l’ha appoggiata nelle sue scelte coraggiose?
“Mia moglie Elena mi ha accompagnato quotidianamente con la sua presenza forte e discreta. Lei è insegnante e ha sempre compreso e accettato, qualora ce ne fosse stato il bisogno, di doverci separare per la nostra salute e quella dei nostri cari. Il suo incoraggiamento non è mai venuto meno, soprattutto inizialmente quando c’erano molti interrogativi sull’andamento dell’epidemia e il bollettino parlava di molti miei colleghi rimasti vittime del Covid”.
E sua figlia?
“Per mia figlia sono un eroe”.
Qual è un aspetto ‘nascosto’ che vorrebbe portare alla luce del suo lavoro in trincea, oltre le mani?
“In questi dodici mesi abbiamo lavorato a stretto contatto tra medici e infermieri e posso dirle che sono rimasto colpito dalla figura delle ‘infermiere’, quasi tutte ragazze molto giovani, per lo più appena laureate in scienze infermieristiche e letteralmente catapultate in trincea per combattere una guerra che ancora oggi le vede in prima linea. Per molte di loro non è stato ancora previsto un turnover. Va a loro tutta la mia solidarietà e la mia ammirazione”.
(da “La Repubblica”)
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