FIN TROPPA LA PAZIENZA DI MATTARELLA CON I DUE CIALTRONI
INCONTRI UFFICIALI IN CUI I DI MAIO E SALVINI SI PRESENTANO A MANI VUOTE, LA SCELTA DI UN TERZO PRIVO DI ESPERIENZA, IL PROGRAMMA STILATO CON UN CONTRATTO PRIVATO
Per sei volte Di Maio e Salvini si sono presentati davanti al presidente della Repubblica, da quando il 9 maggio scorso avevano stretto l’intesa.
In incontri ufficiali, senza considerare nemmeno i tanti contatti informali con il Colle. Quasi sempre a mani vuote, sempre chiedendo tempi supplementari per risolvere i litigi sulla premiership, sul programma, sulla lista dei ministri.
Più tempo che sempre Sergio Mattarella ha concesso.
Perfino quando, clamorosamente, il 14 maggio dopo aver annunciato di aver chiuso su tutto, i due arrivarono dal capo dello Stato senza aver trovato l’accordo sul presidente del Consiglio da incaricare.
Di Maio ci prova ancora a sedersi sulla poltrona di Palazzo Chigi, Salvini continua a sbarrare la strada all’alleato-nemico.
Il capo dello Stato, che come ieri ha spiegato pubblicamente ha sempre agito “per agevolare in ogni modo il tentativo di dar vita ad un governo”, accoglie anche in questo caso la richiesta di un rinvio.
Ma grillini e leghisti ne tirano fuori un’altra, fuori da ogni prassi costituzionale: il programma del loro futuro governo, prima, deve passare al vaglio dei rispettivi militanti. Il 21 maggio così rispuntano i gazebo verdi, sul web il consenso grillino viaggia attraverso la piattaforma Rousseau di Casaleggio.
Il programma sarebbe di competenze esclusiva del premier, e in ogni caso pare quasi una provocazione presentarlo al capo dello Stato e poi rischiare che venga bocciato e far saltare tutto.
Di Maio e Salvini seguono regole proprie. Mattarella, ancora, decide di lasciar fare. Sapendo bene di camminare sul filo della prassi.
“Ho atteso i tempi da loro richiesti per giungere a un accordo di programma – ha ricostruito ieri nel suo intervento – approvato dalle rispettive basi di militanti, pur consapevole che questo mi avrebbe attirato osservazioni critiche”.
Così, il 22 maggio, i due mettono finalmente in campo il nome di Giuseppe Conte. Ma è un’indicazione che traballa. Tanto che Mattarella, prima di convocarlo, è costretto a chiamare ancora al telefono Di Maio e Salvini per averne conferma. Il 23 maggio il semisconosciuto professore di diritto sale al Quirinale, riceve l’incarico di formare il governo.
Un signor nessuno. Non ha alcuna esperienza amministrativa, ma soprattutto è con tutta evidenza un esecutore delle volontà dei due azionisti della maggioranza. Mattarella ha tanti dubbi, ha chiesto un nome politico visto che la maggioranza è politica.
E poi, secondo la Costituzione tocca al premier il ruolo vero di comando del governo, non può essere una mediazione al ribasso. Ma decide di correre il rischio.
“Ho accolto la proposta per l’incarico superando ogni perplessità – ricorda – sulla circostanza che un governo politico fosse guidato da un presidente non eletto in Parlamento. E ne ho accompagnato con piena attenzione il lavoro per formare il governo”.
L’operazione parte subito in salita. Tre giorni fa, Conte torna al Quirinale ma non per sciogliere la riserva. Con uno strappo nelle procedure, che anche qui il capo dello Stato tollera, si presenta senza la lista dei ministri ma solo per un colloquio informale. Oggetto: il nome di Paolo Savona all’Economia.
Tutte le altre indicazioni che l’incaricato mette sul tavolo ricevono il benestare di Mattarella, c’è la sua benedizione. Le caselle della squadra sono praticamente a posto, compresa quella degli Interni per Salvini, il superministero del Lavoro per Di Maio, ok anche sui nomi per la Difesa e gli Esteri.
Ma Savona è un no euro, non può andar bene, spiega Mattarella. “La designazione del ministro dell’Economia – rammenda – costituisce sempre un messaggio immediato, di fiducia o di allarme, per gli operatori economici e finanziari”.
Non c’è un veto sul nome, ma l’esercizio delle prerogative costituzionali del presidente della Repubblica dettate dal quadro economico e internazionale.
Tanto che Mattarella propone una collocazione alternativa per Savona dentro il governo, per esempio alle Finanze, spacchettando il maxiministero dell’Economia, o anche in un altro dicastero.
Al professor Conte dunque il compito di sistemare questo ultimo nodo per far nascere il suo esecutivo. Il mandato di Mattarella per il ruolo di ministro dell’Economia è il seguente: un autorevole esponente politico della maggioranza, coerente con il programma, un esponente che non sia visto come sostenitore di un’uscita dell’Italia dall’euro. Un identikit che porta a Giancarlo Giorgetti.
E infatti, il capo dello Stato fa quel nome, che è del resto il numero due della Lega. La risposta è un secco no. O Savona o morte, sbatte la porta Salvini, seguito alla fine anche da Di Maio, che per tutta la trattativa aveva invece rappresentato l’ala morbida, viste anche le aperture di credito di cui aveva beneficiato dal Quirinale.
Fin da quando, prima delle elezioni, era stato ricevuto dal segretario Zampetti, al quale dopo un’ insolita richiesta aveva consegnato la lista dei futuri ministri del M5s.
Al premier-messaggero professor Conte non resta, ieri, che tornare al Colle e rassegnare il mandato.
La pazienza di Mattarella non è stata ripagata. “Ho condiviso e accettato tutte le proposte – rivela l’inquilino del Colle – tranne quella del ministero dell’Economia”. Di Maio, ora , vorrebbe nientemeno l’impeachment. Resta uno scenario istituzionale ferito, da ricostruire, e l’amarezza personale.
“Nessuno può sostenere che io abbia ostacolato la formazione del governo che veniva definito del cambiamento”, sono le parole conclusive di Mattarella mentre cala il sipario sulla spericolata sfida giallo-verde.
(da “La Repubblica”)
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