FINI NEL FORTINO: “VEDRETE, ORA CI DIVERTIREMO”
GLI GRIDANO DI TUTTO, CHIEDONO LE SUE DIMISSIONI, MA GIANFRANCO PROMETTE UN VIETNAM PARLAMENTARE PER IL PDL
Sorride a chi lo irride.
Sarà la forza dei nervi, sarà l’orgoglio del duro che non vuol mostrarsi sconfitto, sta di fatto che mentre lascia l’aula di Montecitorio, Gianfranco Fini istintivamente rivolge un sorriso e un «ciao, ciao» con la mano ai deputati del Pdl che dai loro scranni gli urlano di tutto.
E qualcuno va decisamente oltre: «Pezzo di m…».
Fini non si sofferma, esce dalla porta, entra nel Transatlantico e anche qui è bersagliato da altre volgarità : «Dimettiti coglionazzo!».
E mentre Fini si avvia verso il suo studio, in aula va in scena uno spettacolo inedito: un centinaio di deputati del Pdl, della Lega e qualche ministro (Ignazio La Russa), urlano a squarciagola l’Inno di Mameli, sventolano decine di vessilli tricolori che si erano portati dietro, mentre i più risoluti, una cinquantina, intonano un coro indirizzato a Fini, oramai lontano: «Di-mis-sio-ni, di-mis-sio-ni!».
Sentimenti e risentimenti che da sei mesi dividevano fino all’odio reciproco i due sfidanti.
Sentimenti che alfine hanno tracimato come lava bollente dentro Montecitorio, trasformandosi in insulti grevi che hanno colpito lo sconfitto.
Oramai da mesi, inferocito per la campagna del «Giornale» contro di lui e contro i suoi cari, Fini si era votato ad una missione: «Uccidere» politicamente Berlusconi.
Tanto è vero che nelle ultime settimane, da presidente della Camera, non aveva esitato a prodursi in una escalation di esternazioni poco istituzionali e molto esplicite. E ora che l’assalto è fallito?
Risalito nel suo studio al primo piano di Montecitorio, Fini fa capire ai fedelissimi che il programma non cambia e a caldo scolpisce una frase che potrebbe diventare proverbiale: «Ora? Ora ci divertiremo…».
Certo, è un modo per esorcizzare la batosta, ma anche un messaggio ai suoi: d’ora in poi a Berlusconi non gliene passeremo una.
Italo Bocchino, il delfino del capo: «Nel 1948, dopo l’attentato a Togliatti, a Pajetta che aveva occupato la prefettura di Milano, il segretario del Pci disse: e ora che hai occupato che ci fai? Lo stesso diciamo noi: Berlusconi, con tre voti di maggioranza che ci fai».
Loro, i finiani hanno deciso subito che d’ora in poi passeranno a setaccio ogni singolo voto.
A cominciare dalla mozione di sfiducia nei confronti di Sandro Bondi.
Il Fli la appoggerà .
Ma per continuare a pesare, la scialuppa del Fli non dovrà perdere altro equipaggio.
E si dovrà presto chiarire cosa farà Fini: resterà presidente della Camera?
Lui, a domanda diretta, risponde senza esitazioni: «Dimettermi? Non ci penso proprio».
Certo, ora che il Pdl ha ripreso ad attaccarlo, per Fini è più difficile assecondare una tentazione che, pure, a settembre aveva preso seriamente in considerazione.
Ma è molto significativo quel che dice Bruno Tabacci, uno dei capofila del (per ora teorico) Terzo Polo: «Personalmente non avrei mai avviato un’operazione politica occupando quel ruolo».
Altrettanto serio il problema della tenuta dei parlamentari.
La dissociazione di Silvano Moffa, uno dei fondatori del Fli, ha fatto affiorare livore nei confronti del protagonismo di Italo Bocchino.
Erano in tanti, a sconfitta consumata, a prendersela con gli «eccessi di Italo». Come se Bocchino avesse interpretato una sua linea, diversa da quella di Fini. Ma un avversario frontale, un uomo sincero come Giorgio Stracquadanio, rimuove l’equivoco: «Lo sappiamo tutti, il mandante della linea dura è sempre stato Fini».
E d’altra parte, quando Moffa, per poter votare la sfiducia, ha chiesto la testa di Bocchino, Fini ha tagliato corto. Ma i futuristi lo sanno.
Berlusconi ricomincerà a lavorarli ai fianchi per garantire più lunga vita al suo governo.
Tra i moderati restati con Fini, non mancano quelli che potrebbero rimanere sensibili alla sirena berlusconiana.
Ma non certo un personaggio, ieri protagonista di una sequenza a suo modo toccante.
A Montecitorio Fini aveva appena letto l’esito del voto di sfiducia e sugli scranni della maggioranza si cantava l’Inno di Mameli in uno sventolio di tricolori.
Seduto al suo posto, Mirko Tremaglia, il legalitarissimo ragazzo di Salò che non ha mai amato Berlusconi e che, pur vacillando sul suo bastone e con la moglie ricoverata in clinica, è venuto a votare.
Il vecchio Mirko, patriottico come nessun altro, con lo sguardo vitreo guardava quegli onorevoli che festeggiavano.
Come ultras della curva.
Fabio Martini
(da “la Stampa“)
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