IL GIORNO IN CUI BERSANI NON RINUNCIO’ AL PRE-INCARICO
DAL COLLE NESSUN PASSAGGIO FORMALE PER REVOCARLO. LO STRANO BUIO IN CUI FINàŒ TUTTO
“Ho riferito a Napolitano il lavoro di questi giorni, che non ha portato a un esito risolutivo”. Era il 28 marzo, giovedì santo, quando Pier Luigi Bersani, nella Sala alla Vetrata del Quirinale, informava i giornalisti di non essere riuscito a trovare le condizioni per formare un governo.
Poche parole, la postura curva, un’espressione scurissima. Raggelata.
Nessuna domanda consentita. Un minuto dopo usciva il segretario generale della Presidenza della Repubblica, Donato Marra: Napolitano si è riservato di “prendere senza indugio iniziative che gli consentano di accertare personalmente gli sviluppi possibili”. Un’altra comunicazione secca. Nessuna apparizione di Napolitano.
Subito dopo una nota dell’ufficio stampa del Pd: “Bersani non ha rinunciato”.
Mai uscita di scena fu più confusa, più sfumata, più sfilacciata.
Bersani resta lì, con il suo pre — incarico ad aspettare.
Il giorno dopo Napolitano fa le sue consultazioni lampo. In serata vede la delegazione del Pd: Enrico Letta, nella veste di vice — segretario, e i capigruppo, Zanda e Speranza.
Chi c’era racconta che in quel colloquio del segretario congelato nessuno fece cenno. Nessuno chiese e nessuno chiarì quali dovevano essere le sorti di Bersani.
Alla fine della giornata, Napolitano non esce. Deve riflettere, fa sapere l’ufficio stampa. Comincia così una delle lunghe notti che hanno portato alla sua rielezione.
In tarda serata dal Quirinale vengono fatte trapelare voci sulle sue dimissioni.
La drammatizzazione della crisi è ai livelli massimi.
Si diffonde anche la notizia di una telefonata di Draghi.
Poi, nella tarda mattinata del sabato santo esce nella Sala alla Vetrata, più vispo di prima: “Posso fino all’ultimo giorno concorrere almeno a creare condizioni più favorevoli allo scopo di sbloccare una situazione politica irrigidita” . Non se ne va.
E dunque, nel frattempo va bene il governo Monti.
Poi, via con la nomina dei saggi. Quelli che di fatto scrivono il programma del governo oggi presieduto da Letta.
Su Bersani, ancora una volta, neanche una parola. Nè tanto meno un passaggio formale.
L’ex segretario del Pd ieri smentisce la notizia riportata dal Fatto del colloquio in cui D’Alema gli suggerì di farsi indietro a favore di Rodotà premier.
Notizia ripresa dall’Unità .
Dice Bersani: “Non si capisce come possa circolare la notizia a proposito di un mio rifiuto dell’ipotesi di Rodotà premier che mi sarebbe stata proposta. È un passaggio che non è mai esistito. Ho sempre detto che non avrei mai impedito la nascita di un governo di cambiamento se l’ostacolo fosse stato il mio nome ”.
Affermazioni generiche: del colloquio con D’Alema non fa cenno.
Piuttosto che smentire, Bersani potrebbe spiegare che cosa successe davvero in quei giorni.
Perchè non gli venne mai revocato il preincarico? Quali erano davvero gli accordi presi con Napolitano? Un mistero, uno dei tanti.
Commenta Arturo Parisi: “Non ci fu nulla di normale in quei giorni”.
Neanche il 22 marzo, in occasione del pre-incarico, i passaggi erano stati rituali. Era uscito prima Marra con il comunicato, poi lo stesso Napolitano, a specificare i confini entro cui il governo si poteva o non si poteva fare.
Con specifico riferimento alle “larghe intese” troppo difficili: un ammissione con rimpianto.
E dopo? Nulla di tutto questo.
Commentò Stefano Ceccanti, costituzionalista vicino al Presidente in un tweet: “Il bilancio delle consultazioni porta con sè in modo chiaro il dichiarare esaurito il pre-incarico di Bersani, sia pure implicitamente”.
Spiega adesso: “La nomina dei saggi di fatto fu il superamento di Bersani”. Di fatto.
Ma possibile che in passaggi istituzionali così delicati ci possano essere situazioni “di fatto”?
Racconta chi ha vissuto da protagonista quella fase che tutto rimase nel non detto e nell’ambiguità .
Una sorta di via d’uscita che voleva essere “onorevole” per Bersani. I fedelissimi dell’ex segretario oggi dicono che “forse” Napolitano telefonò all’altro.
“Forse”. Ma forse non ci furono neanche comunicazioni confidenziali chiare tra i due. Fatto sta che sia l’ex leader democratico che i suoi fedelissimi si mossero nella convinzione che un governo con Bersani premier fosse ancora possibile.
E con questo obiettivo cercarono di eleggere un Presidente che potesse conferirgli un altro incarico. O confermargli quello mai ritirato .
Nella storia della Repubblica italiana c’è un unico precedente: il pre-incarico dato da Scalfaro a Romano Prodi, dopo che il suo governo era caduto per mano di Bertinotti.
Fu lo stesso Prodi a rinunciare: “Non ci sono le condizioni”.
E toccò a D’Alema.
Affermazioni chiare, passaggi definiti. Nel non detto del Presidente e dell’ex segretario si consumò la rottura del Pd durante l’elezione del Colle.
Il finale è noto. Bersani in ginocchio da Napolitano per pregarlo di accettare la rielezione e la condizione posta dall’altro: il governo di larghe intese.
Quello che il Colle voleva dall’inizio.
Wanda Marra
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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