IL NODO DEGLI IMMIGRATI A ROSARNO: “CON IL SALARIO MINIMO, IL 90% DELLE IMPRESE DA NOI FALLIREBBE”
NELLE CAMPAGNE OGNI ANNO SI RADUNANO 5.000 IMMIGRATI
«Io potrei accettare un salario minimo legale, ma qui il 90 per cento delle imprese agricole fallirebbe».
Mimmo Cannatà è un imprenditore nella campagne di Rosarno, dove ogni anno si radunano 5 mila immigrati.
Nei 35 ettari dei suoi agrumeti lavorano otto dipendenti fissi più gli stagionali, 40 nei picchi.
Metà stranieri (in maggioranza africani) «senza i quali dovremmo chiudere», soprattutto per la raccolta «perchè i giovani italiani disponibili sono pochi, preferiscono essere laureati disoccupati».
Perchè dice che il 90 per cento delle aziende fallirebbe?
«Un salario minimo esiste già nei contratti. Un operaio costa all’azienda, contributi compresi, 49 euro al giorno. Incide su ogni kg di arance per 6 centesimi, a cui bisogna aggiungerne 1,5 per potatura, irrigazione, concimi… Le industrie ce le pagano 7 centesimi al chilo. Dove vado a prendere i soldi per pagare il salario minimo?».
E quindi che cosa accade?
«Semplice: non raccolgo nemmeno. Basta girare nella piana per trovare arance sugli alberi. Abbandono totale».
C’è un’alternativa: il lavoro nero. Girando nella piana si vede anche quello, no?
«Quest’anno la polvere dell’Etna ci ha fatto perdere l’80 per cento del raccolto. Ho dovuto licenziare tutti. Dopo qualche giorno si presentavano in azienda chiedendo di lavorare anche per 10 euro al giorno in nero. Nessuno li prendeva».
Nega il lavoro nero?
«Non nego. L’80 per cento dei produttori qui non supera i 2 ettari. Non si tratta nemmeno di aziende. C’è un rapporto con gli immigrati che prescinde dalle regole: per lo più gli immigrati raccolgono e poi dividono l’incasso con i proprietari, oppure si paga in nero. Non c’è speculazione o arricchimento, è l’unico modo per farli lavorare. D’altronde se pensassero di avere a che fare con razzisti 8 africani su 10 non tornerebbero tutti gli anni»
Che effetti avrebbero salario minimo e minacce di arresto su questi produttori?
«Rinuncerebbero a raccogliere. Racconto la mia esperienza. Fino a un paio di anni fa avevo un aranceto e non stavo dentro con i costi. A me non interessava più raccogliere, ma vedendo questi ragazzi alla fame dicevo: raccogliete, vendete, guadagnate qualcosa. Da quando sono aumentati i controlli evito: se arrivano gli ispettori del lavoro non mi credono e finisco nei guai».
Quindi o nero o niente?
«No. Per questo dico che la mia azienda è in grado di sostenere un salario legale. Negli ultimi anni con i soldi della politica agricola europea anzichè comprare il suv ho girato il mondo: Spagna, Australia, California. Ho capito che il mercato richiede nuove varietà e le ho impiantate. Ora posso vendere le mie arance a 50 centesimi. I nostri agrumeti sono fermi a mezzo secolo fa, fuori mercato: questo è il problema, il lavoro nero è la conseguenza».
Si può fare qualcosa?
«Il piano di sviluppo rurale finanziato dall’Ue prevede il 40 per cento a fondo perduto per le riconversioni. Non le fa nessuno perchè il tecnico prende l’8 per cento solo per fare la domanda e la Regione impiega tre anni a valutarla. Io non voglio soldi a fondo perduto, ma prestiti a tasso agevolato: dal terzo anno vado in produzione e ripago anche il capitale».
Ne ha parlato alle istituzioni?
«Certo che ne ho parlato. Ma qui è come parlare a vuoto».
Giuseppe Salvaggiulo
(da “La Stampa“)
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