LA COSCIENZA DELL’IGNORANZA, NON STUPIAMOCI SE L’ITALIA E’ RIDOTTA COSI’
I DATI DELL’OCSE SULLE NOSTRE COMPETENZE COGNITIVE NON DEVONO STUPIRE
Stupefacente lo stupore. Il nostro è un Paese fermo dagli anni Settanta dello scorso millennio (e chi sta fermo arretra) e la sua “intelligenza sociale” avrebbe dovuto invece miracolosamente crescere?
La classe politica non è riuscita a condurre in porto nessuna delle riforme amministrative e istituzionali che tutti ritenevano necessarie dopo la catastrofe Tangentopoli. Il capitalismo italiano, quel capitalismo che, piaccia o no, è intrinsecamente connesso a innovazione, ricerca, sviluppo, si è volatilizzato e ciò che residua abita altrove (si “allena” a Montecarlo, come tutti i nostri campioni sportivi). E malgrado una tale débâcle di classe dirigente qualcuno si augurava di vederci migliorare nella conoscenza della nostra stessa lingua (condizione indispensabile per farne un buon uso) e nella capacità di affrontare se non risolvere i problemi che ci si presentano. Ahimè, quale cieca speranza!
L’importanza della scuola
La prima risorsa da impiegare per risalire le classifiche Ocse (sulla cui natura torneremo) non potrebbe che essere una scuola, un processo formativo capace di produrre una “intelligenza sociale” protagonista delle trasformazioni tecnologiche, economiche, politiche che viviamo nelle forme più accelerate. Soltanto su questa base l’Italia, ma in fondo tutta Europa, potrebbero sperare almeno di non veder crescere il gap che le separa da Stati Uniti come ormai anche da Cina e da altre potenze dell’Est.
Scuola e investimenti pubblici in ricerca e sviluppo hanno rappresentato invece per decenni il fanalino di coda dei nostri bilanci. Non si tratta di un problema finanziario. Soltanto scelte culturali, indirizzi strategici producono assetti formativi che siano a fondamento dello sviluppo complessivo di un Paese. La scuola è l’immagine più veritiera della sua classe dirigente. Da noi dell’assoluta precarietà e confusione in cui versa da decenni. Vecchi modelli gentiliani mescolati a caso con rigurgiti produttivistici, nostalgie reazionarie con pulsioni per una scuola “al servizio” della produzione, ideologismi scuola-lavoro o teoria-prassi con il permanere di pregiudizi nei confronti di seri indirizzi professionalizzanti. Non c’è strategia di classe dirigente, non c’è scuola.
Il calvario degli aspiranti insegnanti
Qualsiasi regime politico che voglia avere una qualche autorità e non solo un provvisorio potere punta sulla propria classe insegnante. Ciò significa riconoscerne economicamente il ruolo e, ancor più, sottolinearne e promuoverne lo status sociale. Proprio ciò che è avvenuto! Insegnanti sottopagati e quotidianamente impegnati non a leggere, studiare, aggiornarsi, ma a espletare impegni amministrativi e burocratici, riempire registri e moduli, produrre riunioni a mezzo di riunioni. Smanie procedurali, sorveglianza e controlli nemici naturali di ogni indirizzo “problem solving” dominano nella vita delle nostre scuole.
In perfetto accordo sulle modalità di assunzione della classe insegnante: un calvario di frustranti passaggi, segnato da esami-test in grado al più di sondare le “informazioni” di cui un soggetto dispone, e improntato al primato del più astratto pedagogismo, del “saper insegnare” piuttosto che alla conoscenza di ciò che si insegna. Stessa centralità ministerial-burocratica vale per l’università. Un’effettiva autonomia didattica è compromessa nelle fondamenta dalla uniformità delle modalità di assunzione e dei programmi da seguire. La riforma delle riforme, l’abolizione del valore legale del titolo di studio, non si farà mai.
L’università che non funziona
All’assenza di un modello di formazione non si rimedia ingessando ciò che resta del malato, ma mostrando fiducia nelle sue risorse, alimentandone l’autonomia. Chi gira per il Paese sa quante energie esistano nella miriade delle sue associazioni e delle sue fondazioni, che danno vita a miriadi di festival, incontri, convegni culturali. Sono i luoghi di quello scambio di esperienze e conoscenze, di quelle interconnessioni e sinergie tra saperi che nella scuola e soprattutto nell’università dovrebbero approfondirsi, trovare basi solide, arricchire lo specialismo stesso. L’università, come dice il suo stesso nome, non è un armadio pieno di cassettini ognuno dei quali fa per sé, in beata autosufficienza: essa dovrebbe rappresentare l’insieme di discipline che, a partire e sulla base delle proprie specifiche competenze, riconoscono reciprocamente il proprio valore, si interrogano, interagiscono. Tutti i più grandi scienziati hanno sempre affermato come sia anche da un tale humus che nascono le più grandi scoperte. L’assetto delle nostre università funziona all’opposto. Non solo tra disciplina e disciplina, ma all’interno delle stesse, e addirittura all’interno di quelle cosiddette umanistiche, dove da anni assistiamo al più ridicolo “spacchettamento” delle competenze, con la complicità piena, in questo caso, di professori e accademici.
La “dotta ignoranza”
Così cresce l’ignoranza. La peggiore. Quella che l’Ocse ignora per forza, poiché il suo modello di ignoranza nasce da algoritmi dell’Intelligenza Artificiale, ovvero qui è l’I.A, brava, come noto, soprattutto (non esclusivamente) a calcolare, che giudica il livello di quella umana. La peggiore ignoranza – e averne coscienza è stato forse il fattore determinante dello sviluppo della scienza occidentale e della filosofia da cui è nata e con cui si accompagna – è ignorare di ignorare, chiudersi nel proprio specialismo, astrarlo dall’insieme anche contraddittorio dei saperi. Tanto più forte sarà lo specialismo, tanto più efficace, quanto più cosciente dei propri limiti, quanto più “curioso”, cioè attento alle sue relazioni con gli altri.
Questa sapienza di ignorare, questa “dotta ignoranza”, che l’Ocse non può misurare, potrebbe costituire l’idea regolativo di un nuovo modello di formazione, in cui scientifico e umanistico ritrovino, nella distinzione, l’unità originaria. E questa è altresì la sola prospettiva su cui potrebbe fondarsi una futura élite politica europea.
Massimo Cacciari
(da lastampa.it)
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