LA TAVOLA ALLUNGA LA CARRIERA: IL MAGNA MAGNA AL POTERE
DAI CRAXIANI A DE LORENZO, DA FIORITO A CARBONE: LA RICEVUTA DEL RISTORANTE SI SALDA CON IL BENE PUBBLICO… E SENZA REMORE
Nella fenomenologia del magna magna, che qui è da intendersi nel senso proprio del termine (mazzancolle con cipolle, sautè di vongole veraci, moscardini fritti, polpettine di tonno, eccetera eccetera), la figura di Ernesto Carbone si proietta al centro della scena.
Ernesto è un giovanotto sui quarant’anni della leva Renzi, è deputato e vuole far cambiare passo all’Italia.
Intanto che lo fa — anche ieri ha inchiodato un suo compagno di partito al solito bla bla politicista — mangia. Quando ha dovuto decidere, prima di essere eletto a Montecitorio, dove andare con la sua carta di credito aziendale ha scelto di provare ad accomodarsi al tavolo dei “Due ladroni”, nel centro di Roma.
Siamo sicuri che lo ha fatto per una questione tecnica, di pura connessione ambientale.
Era bambino ma ricordava che il ristorante, dentro il quadrilatero dei Palazzi romani, sfornava cibi caldi per parlamentari affamati e piuttosto affannati, senza obbligo di contanti.
Pagava il partito, il ministero, l’azienda, il capo, l’amico, il cliente. Insomma, pagava sempre qualcun altro. “Due ladroni”, appunto.
Un po’ sintesi un po’ metafora. Più di vent’anni fa sull’uscio, sazio nell’umore e rotondetto di pancia, fu scorto Francesco De Lorenzo, immortale ministro della Sanità arrestato per tangenti (c’era Mani Pulite), rinchiuso in carcere e lì lasciato per un po’ di tempo.
De Lorenzo, notevole professore napoletano, esperto di sanità e altro, ebbe un collasso emotivo, entrò in un circuito depressorio che lo prosciugò.
Quindici chili perduti, anoressia galoppante, barba lunga. Lo vedemmo in tv e rimanemmo travolti dall’angoscia. I giudici, compassionevoli, decisero il rilascio.
Ma qualche settimana dopo, ecco il flash: l’anoressico, ormai ex, aveva appena tribolato, vincendo la mortale sfida, con l’amatriciana nel rifugio storico dei “Due ladroni”.
Da allora il locale è divenuto il punto geografico del magna magna, il deposito delle pance, il tovagliolo sopra il quale pulire la coscienza e dare ristoro alle amarezze. L’onorevole Carbone, accomodandosi, ha forse voluto riannodare i fili della memoria convinto — lui e anche noi — che mondo è stato e mondo sarà .
Non c’è da scomodare “ajo, ojo e Campidojo”, la politica ha sempre avuto buon gusto nello scegliersi i luoghi nei quali ritrovare l’intimità quotidiana, un momento di relax e anche di introspezione psicologica.
Capire quel tonno da dove viene e dove va, com’è grande la mia bocca e la tua, com’è vicina la mia forchetta alla tua.
I socialisti, per dire, avevano la loro mensa all’“Augustea”, un salone di bellezze craxiane e di cravatte attempate, crocevia di risotti e champagne e carne alla brace, verdure grigliate, focacce, spaghetti, tonnarelli, soufflè, misticanza e finocchietti.
Finì in manette quel tempo e l’“Augustea” s’afflosciò per l’improvviso restringimento del mercato, dei forchettoni ministeriali.
Però era evidente che la politica non poteva permettersi una dieta permanente e quindi, ritrovato coraggio e spirito di corpo, ha ripreso a conquistare il posto a capotavola.
Fior di scrittori (per tutti ricordiamo Filippo Ceccarelli con il suo immortale Lo stomaco della Repubblica) hanno rovistato negli scontrini e tra le posate per offrire un ritratto fedele della politica affluente e digerente e quell’eterna sfida tra il bene (risotto all’astice) e il male (filetto di baccalà ).
Questione di destra e di sinistra e anche di colesterolo, di tasso glicemico, di trigliceridi erranti. Perciò il valore dell’atto di Ernesto Carbone, renziano di ferro, è indubitabile.
Riconduce tutti alla nuda verità dell’esistenza e alla domanda centrale: bisogna sempre fare i conti con la pancia.
Con quella che si ritrovava il suo collega Fiorito dove immaginate che potesse andare? Perchè Carbone , atletico e snello, si è fermato spesso a un conto di 180 miserelli euro, invece il consigliere laziale ha dovuto toccare traguardi ben più impegnativi.
Solo da “Pasqualino al Colosseo” la sua pancia ha fatturato (presumiamo in una coalizione da larga intesa) la meraviglia di 19.500 euro tra fettuccine, tartufati di vario indirizzo e compressione, e pesci di taglia mutevole ma comunque prelibata.
C’è stata, è vero, anche una scelta autoimmune (in Ciociaria, la sua terra d’elezione, proiettava il suo corpo nella “Tana dei briganti”).
Nella Capitale al bar “Martini” ha lasciato altri 15.800 euro, da Celestino molti di meno. E Lusi, l’indimenticato tesoriere della Margherita, con gusti più selezionati (spaghetti al caviale) e conti notevolmente ridimensionati avendo ridotto il numero dei commensali per tenere comunque alta la location (“La Rosetta”, alle spalle del Pantheon).
Questo è quanto.
E la verità è una sola: lo scontrino allunga la carriera.
Antonello Caporale
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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