LA TRIBU’ SACRIFICA IN PIAZZA DI MAIO, DI BATTISTA SI PRENDE LA SCENA
E SI SENTE IL VUOTO LASCIATO DA CASALEGGIO: IDEE PIGRE E SCHEMI CONSUNTI
Lo amano. Lo adorano. Lo vogliono. E’ del tutto ovvio che da oggi il Sovrano è lui. C’è l’intera piazza di Nettuno che si schiera ai piedi di Alessandro Di Battista, giunto all’ultima tappa del suo tour di cinquemila chilometri per dire No ai quesiti del referendum costituzionale, a chiarirlo senza ombra di dubbio.
Il passaggio di consegne con Luigi Di Maio forse non è nella forma, di certo lo è nella sostanza. «Dibba, Dibba, Dibba, Dibbaaaaaa».
E’ il boato scaricato in cielo con un fanatismo da concerto vascorossiano al termine di questo curioso processo cinese organizzato da Beppe Mao nel Lazio, in cui il colpevole – Di Maio Luigi, vicepresidente della Camera – ben accolto e tiepidamente applaudito, viene condannato prima del dibattimento ed è costretto a cospargersi il capo di cenere di fronte alla platea, per consentire al Movimento di proseguire purificato il proprio processo rivoluzionario. «Ho sbagliato, scusate».
C’era Di Maio. Oggi c’è Di Battista.
E’ questo il primo risultato del dilettantesco pasticcio di Roma, che finisce per penalizzare Di Maio più della confusa e incomprensibile sindaca Virginia Raggi, due delibere in ottanta giorni.
E anche Beppe Grillo, l’antico Capo Tribù piombato nei dintorni della Capitale per rimediare al disastro, finisce per sparire davanti al sorprendente potere ipnotico del nuovo Capobranco, che attacca la Rai, le banche, Renzi, la Merkel, la Boschi, invocando più Italia, più sovranità , una moneta propria e soprattutto ribadendo l’ennesimo definitivo No alle Olimpiadi.
«E’ questa la vera battaglia che si sta combattendo a Roma. Ma noi non molliamo. Mentre loro, le lobby, i palazzinari, la politica, sentono le sirene della Polizia e cercano di scappare con il malloppo».
Piove e Nettuno è sua. E’ lui il primo a salire sul palco per introdurre i compagni della serata, è lui l’ultimo ad andarsene dopo più di un’ora.
In mezzo il comizio-processo, organizzato per dare l’immagine di un universo ancora unito, solido e solidale, pensato apposta per nascondere sotto il tappeto la polvere soffocante delle risse interne, delle gelosie, dei piccoli tradimenti, e soprattutto delle scelte discutibili di assessori piombati nella giunta capitolina da galassie da sempre ritenute mefitiche dai Cinque Stelle: il previtismo, l’alemannismo o la palude dei dirigenti buoni per tutte le stagioni.
Ci sono i cinque del direttorio sul palco con Grillo e sparso tra la folla anche qualche parlamentare tendenza Di Maio, ma il buco, enorme, non è tanto quello dei senatori – che non hanno mai digerito il piccolo gruppo dirigente incardinato alla Camera – o della Raggi, quanto quello lasciato da Gianroberto Casaleggio.
Senza di lui il tavolo è zoppo. Le idee più pigre. Gli schemi più prevedibili.
Eppure proprio Di Maio e Di Battista sembravano destinati a clonare lo schema dei Fondatori nella staffetta generazionale.
Non è ancora così. Forse non sarà mai così.
Andrea Malaguti
(da “La Stampa”)
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