NON SONO GLI IMMIGRATI A UCCIDERE LA CULTURA: SONO GLI SMARTPHONE
L’IMPOVERIMENTO DELLA LINGUA NAZIONALE E LA MANCATA CONOSCENZA DEI CLASSICI E CAUSATA DAI TABLET, NON DALLA SOSTITUZIONE DEI NATIVI
Quali sono i maggiori pericoli per il mondo? Certamente quello legato al cambio climatico. Fra gli ultimi 17 anni stanno i 16 più caldi da quando si misurano le temperature, che continuano a crescere: il 2014 è stato il più caldo della storia, superato dal 2015, poi dal 2016.
Crescono anche i pericoli dell’inquinamento. La cattiva qualità dell’aria – a sua volta legata al riscaldamento globale – uccide ormai 6,5 milioni di persone all’anno: 430.000 nella sola Europa (dati Oms e Aea). A simili pericoli ci abituiamo. Paiono lontani e accettabili: responsabile sembra la modernità nel suo insieme.
A controbilanciare questa rassegnazione, nell’immaginario collettivo si risvegliano paure più immediate e animali: si temono soprattutto pericoli più chiassosi e visibili, ma imprevisti, come l’invasione di immigranti e il terrorismo (orrendo, ma che finora ha provocato in Europa “solo” 200 morti l’anno)
Altro immenso problema è la disuguaglianza economica. Data la globalizzazione, è sempre più importante studiarla con un modello che includa tutto il mondo.
Il grafico dell’economista Milanovic mette in evidenza chi ha guadagnato e chi no nell’ultima generazione. Sulla verticale sta la percentuale di arricchimento, sull’orizzontale i redditi del mondo, divisi in percentili.
Per la sua forma, il diagramma è stato chiamato Elefante.
A sinistra la coda, che parte da zero: i poverissimi sono rimasti tali. Poi si sale verso un’ampia e lunga schiena: i due terzi dell’umanità guadagnano ora 70 – 80% più di venti anni fa.
La poderosa schiena elefantina è infatti costituita dalle masse che in Cina, in India, in America Latina, continuano a lasciare la povertà e a formare un nuovo ceto medio.
Poi la linea ridiscende improvvisamente, formando una proboscide immaginaria che tocca terra: quasi un quinto della popolazione mondiale guadagna quanto 20 anni fa. Rispetto al mondo si tratta del quinto più ricco.
Ma all’interno dell’Occidente questa categoria corrisponde al ceto medio-inferiore: che, a causa di questo ristagno, odia la globalizzazione e negli ultimi anni ha votato massicciamente per partiti populisti. Solo l’ultimo pezzo di proboscide si rialza, addirittura in verticale: l’èlite cosmopolita, i cui guadagni sono favolosamente cresciuti.
Anche un secolo fa si poteva rappresentare la distribuzione della ricchezza in diagrammi. Ma questi erano sostanzialmente nazionali, la loro curva era unica, non un ottovolante: quando i guadagni del capitale parevano sproporzionati, lo Stato provava a trasferirne una parte ai bisognosi.
Oggi, con “l’elefante di Milanovic” le cose sono ben più complicate. La linea tormentata delle disuguaglianze si spezza e ricompone di continuo in ogni anfratto del mondo, ma manca un governo mondiale che possa correggerla, anche solo in parte.
La globalizzazione è difficilmente reversibile, come irreversibile fu l’epoca delle scoperte. Se non può essere cancellata, andrebbe però corretta. Con graduali ma continui aggiustamenti, nel secolo scorso il Nord Europa aveva raggiunto il miglior livello di giustizia sociale nella storia dell’uomo. Oggi mancano non solo gli strumenti, ma anche le informazioni basilari sul problema.
Negli Stati Uniti hanno eletto Donald Trump. Ma i suoi muri potranno fermare le persone, non le merci.
Le multinazionali potrebbero riportare le fabbriche in Occidente, ma sostituendo i dipendenti con robot e tecnologia. Un politico inglese ha detto: «Non ci siamo sparati sui piedi, ci siamo sparati alla testa».
Anche i paesi che, nel secolo scorso, commisero suicidà® della intera nazione che a parole difendevano; in particolare la Germania. Non accontentiamoci dicendo che i tempi sono cambiati: anche molti fascismi erano iniziati come populismi soft, ma liberare l’isteria di massa li ha trasformati in hard. Sotto stress, il singolo uomo può diventare a volte irrazionale: la massa lo diventa sempre.
Veniamo alle migrazioni.
Dopo aver già sparso anti-islamismo con il suo Lo scontro delle civiltà (1996), Samuel Huntington in La nuova America (2004) ha preparato la strada a Trump, indicando nel Messico un pericolo mortale.
L’America, avvertiva, era in via di snazionalizzazione. Accantonando la purezza della lingua e la prevalenza del protestantesimo puritano, perdeva anche il suo credo civile (gli Stati Uniti dichiarano di professare anche una civil religion laica).
Pur compiendo una complessa analisi, il filo conduttore di Huntington ha uno sbocco paranoico. Vede l’origine dei mali nei diritti civili degli anni ’60 e ’70, che avrebbero cancellato l’identità americana dall’interno mettendo sullo stesso piano dei coloni originari le minoranze e gli immigrati: soprattutto dove questi si concentrano localmente, come i messicani in California.
Oggi, solo 13 anni dopo, La nuova America è contraddetta dai fatti: la California ha l’identità più forte fra i 50 Stati: è in testa per i diritti, per reddito, assistenza, integrazione, protezione dell’ambiente, livello culturale e tecnologico (Università e Silicon Valley).
Stimolante ma contraddittoria è anche la polemica identitaria del francese Renaud Camus. Le grand remplacement (La grande sostituzione, 2011) profetizza la sostituzione dei francesi da parte degli immigrati e dei loro discendenti: non verrà rimpiazzata solo la popolazione, ma l’intera cultura del paese.
Camus vede l’impoverimento della lingua nazionale e la mancata conoscenza dei classici come corrosione nella integrità di un popolo infiltrato dagli stranieri.
Tuttavia, ancor più tragico che in Occidente, questo smottamento delle basi linguistiche e umanistiche si sta manifestando in Cina, Giappone e Corea, dove la immigrazione dei nordafricani corrisponde a zero e la massa della popolazione resta rigorosamente autoctona.
Oggi, infatti, il maggior pericolo per la lingua e la cultura non viene dalla sostituzione dei nativi con gli immigrati, ma da quella dei libri con lo smartphone e il computer, che in Estremo Oriente procede a una velocità ancora più allarmante che in Europa o Stati Uniti.
Torniamo all’istinto animale che in noi cerca un nemico, un capro espiatorio.
È vero, come dice Camus, che dobbiamo affrontare il pericolo di una Grande Sostituzione. Non si tratta, però, di una popolazione che ne rimpiazza un’altra.
È la componente delirante – ma presente in ognuno – della mente umana che sostituisce i pericoli veri con altri in buona parte immaginari: per giunta, con la sgradevole tendenza a scegliere i capri espiatori fra i gruppi economicamente ed etnicamente più fragili.
In questo modo favorisce la diffusione di paranoie collettive, simili e simmetriche a quella del fondamentalismo islamico.
Un contagio psichico di cui l’Occidente dovrà a lungo pagare il conto.
(da “L’Espresso”)
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