OBAMA INCASSA LA SCONFITTA: “E’ STATA TUTTA COLPA MIA”
E HYLARY PARTE PER LA CORSA DEL 2016
«Quando le cose non vanno bene, quando la politica non produce risultati, gli americani se la prendono naturalmente col presidente e col suo partito. Ho sentito la frustrazione degli elettori. Nel biennio che mi resta ho un solo obiettivo, rendervi la vita migliore ».
Barack Obama incassa così una sconfitta di proporzioni storiche. Con la sua avanzata trionfale la destra ha raggiunto un’ampia maggioranza al Senato, ha rafforzato quella che aveva alla Camera, ha conquistato nuovi governatori.
Obama scopre le carte, annuncia la strategia che userà da qui al 2016. «Sono pronto a lavorare con questo Congresso a maggioranza repubblicana. Ma userò il mio potere di veto se mi presentano proposte inaccettabili»
Elenca i possibili compromessi bipartisan: «Nuovi investimenti pubblici nelle infrastrutture; riforma fiscale per ridurre l’elusione e abbassare le tasse sulle imprese; trattati di libero scambio con Europa e Asia».
Lancia una sfida sull’immigrazione: se la destra continua a bloccare una riforma che regolarizzi i giovani senza permesso di soggiorno, «agirò in tempi rapidi con atti dell’esecutivo».
Obama non vuole apparire come un “lame duck” (anatra zoppa) ridotto all’impotenza. Ma i rapporti di forze sono cambiati in modo brutale, un aneddoto li esprime chiaramente: martedì sera quando Obama ha chiamato il nuovo leader della destra vincitrice al Senato, Mitch McConnell, questi non gli ha neppure risposto e il presidente ha dovuto lasciare un messaggio sulla segreteria telefonica. Umiliante. L’euforia dei repubblicani è comprensibile, la loro vittoria è andata oltre le previsioni.
I seggi in più conquistati al Senato potrebbero salire fino a nove se vincono il ballottaggio in Louisiana.
Molti Stati dove gli elettori avevano votato per Obama nel 2012, nel Nordest progressista dal Maine al Massachusetts, hanno eletto governatori di destra.
I commenti sono crudeli, per l’avanzata dei repubblicani si usano termini come tornado e tsunami, Obama viene descritto come un presidente “che lotta per rimanere rilevante” ( New York Times ).
Un sondaggio della Cnn compiuto ai seggi martedì, dà la chiave decisiva: 70% degli americani è convinto che l’economia va male e che l’America è in declino. Può sembrare sconcertante.
L’America è tornata a essere la locomotiva della crescita mondiale, la sua ripresa dura da cinque anni, il tasso di disoccupazione si è dimezzato (sotto il 6%), anche il deficit pubblico è la metà .
Altri dati contribuiscono alla confusione. I repubblicani non sono più popolari del presidente, vengono coinvolti nell’insoddisfazione verso la classe politica, ma il partito del presidente è quello che viene castigato.
Poi c’è il risultato dei referendum sull’aumento del salario minimo: hanno vinto in tutti i cinque Stati dove si votava per questa misura. Cinque Stati repubblicani.
Eppure la destra è contraria ad alzare il salario minimo per legge.
I due terzi degli elettori (repubblicani inclusi) sono convinti che questa crescita economica stia andando a beneficio dei più ricchi. E tuttavia hanno dato la maggioranza a un partito che ha ricevuto colossali finanziamenti da parte dei grandi poteri capitalistici, a cominciare dai fratelli Koch che controllano un conglomerato petrolchimico.
I messaggi contraddittori dell’elettorato suggeriscono di non dare a questo voto un’interpretazione “epocale”.
Troppe volte si è parlato di svolte storiche: da ultimo nel 2012 di fronte alla netta vittoria di Obama. Alla sua rielezione contribuì una coalizione di donne, giovani, minoranze etniche, che sembrava invincibile.
Autorevoli esperti profetizzarono il declino “demografico” dei repubblicani. Le legislative di midterm hanno un’affluenza più bassa, elettori più bianchi e più anziani. Ma di certo l’Amministrazione Obama si è macchiata di errori a ripetizione: la sua riforma sanitaria è stata “sabotata dall’interno” con un disastroso avvio del sistema informatico; l’esecutivo ha trasmesso un’impressione di impreparazione di fronte a molte crisi interne (Ebola, ondate di immigrati- bambini in arrivo) o internazionali (Ucraina, Siria-Iraq, Datagate).
Per quanto possa fare Obama, da adesso al 2016 molto dipende dai repubblicani. Loro hanno già un’agenda. Massima libertà all’industria petrolifera, cominciando con il via libera al maxioleodotto inviso agli ambientalisti: il Keystone XL dal Canada al Golfo del Messico.
Molte regole introdotte da Obama per ridurre le emissioni carboniche rischiano di essere cancellate dal nuovo Congresso.
Ci sta anche un aumento dell’export di greggio e gas verso l’Europa.
Sulle tasse la priorità è ridurre l’imposta sui profitti delle imprese dal 35% al 25% e su questo Obama potrebbe concordare se al contempo si chiudono gli spazi legali per l’elusione delle multinazionali che spostano profitti offshore.
Su altri punti la destra è divisa. I rigoristi legati al Tea Party vogliono un bilancio in pareggio, ma i neocon preferiscono prima aumentare il budget del Pentagono.
La liberalizzazione dei permessi di soggiorno piace al mondo del business ma non al Tea Party. Se prevale la fazione ultrà ci saranno anche diversi attacchi alla riforma sanitaria di Obama (anche parziali come l’abrogazione di una tassa sull’industria delle apparecchiature mediche).
L’America ha già conosciuto situazioni come queste: Ronald Reagan nel 1987-88, Bill Clinton nel 1999-2000, George W. Bush nel 2007-2008, finirono il secondo mandato con un Congresso in mano all’opposizione.
Il precedente più inquietante per Obama è quello di Clinton: nell’ultimo biennio subì il processo per impeachment; e firmò una disastrosa deregulation finanziaria seminando i germi della crisi del 2008.
Ora tutti gli occhi sono puntati sulle grandi manovre per il 2016: la prossima elezione presidenziale. Se vogliono piazzare uno dei loro, i repubblicani non possono passare il biennio a sabotare Obama: gli elettori li punirebbero.
Perciò tra i papabili per la nomination hanno buone chance i moderati come Chris Christie (governatore del New Jersey) e Jeb Bush.
Ma il movimento radicale del Tea Party farà di tutto per imporre dei pasdaran come Ted Cruz.
In quanto a Hillary Clinton, il Washington Post teorizza il paradosso: la disfatta l’aiuta. Spostando la responsabilità di governo su un Congresso tutto repubblicano, le consente di impostare la sua prossima campagna come una battaglia di opposizione, anzichè dover difendere punto per punto il bilancio di Obama.
Federico Rampini
(da “La Repubblica“)
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